Per la Cassazione l'intercettazione autorizzata per l'associazione mafiosa (archiviata) è utilizzabile per l'associazione a delinquere (iscritta due anni dopo).
La vicenda
Stravagante sentenza della Corte di cassazione, secondo la quale il reato di associazione per delinquere finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti, in particolare relativi all'esercizio abusivo di giochi e scommesse, ascritto al ricorrente nella qualità di capo e promotore, ha ad oggetto un fatto storico il cui “nucleo centrale” è incluso in quello descritto a fondamento della contestazione di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., per la quale sono state autorizzate le intercettazioni.
Alcuni imputati dei reati di partecipazione ad associazione finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti (art. 416 c.p.), di esercizio abusivo di giochi e scommesse (art. 4, commi 1 e 4-bis, l. n. 401/1989), e di trasferimento fraudolento di valori (art. 512-bis c.p.) ricorrono in cassazione contestando la ritenuta utilizzabilità delle comunicazioni intercettate, deducendo che le stesse sono state effettuate in altro procedimento, per un diverso reato, quello di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., nemmeno connesso ex art. 12 c.p.p. con quelli per cui si procede in questa sede, e che non sussistono inoltre i presupposti richiesti dall'art. 270 c.p.p. per consentirne il valido impiego processuale ai fini dell'accertamento dei reati oggetto del presente processo.
La Corte afferma che, ai fini della utilizzabilità dei risultati di intercettazioni telefoniche o tra presenti ex art. 270 c.p.p., nella nozione di “medesimo procedimento” sono da ricomprendere tutte le fattispecie di reato contestate sulla base dei fatti storici indicati a fondamento del provvedimento autorizzativo del giudice, pur se ulteriormente definiti solo all'esito del fisiologico sviluppo delle indagini, sempre che dette fattispecie rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p.
La sentenza esclude la connessione tra i procedimenti
Com'è noto, ai sensi dell'art. 270 c.p.p., i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzate ai fini dell'accertamento dei reati per cui si procede solo se le stesse sono state disposte nel “medesimo procedimento”.
La sentenza osserva che, secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite, e precisamente da Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2019, n. 51, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395 – 01, «il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge». La Corte di cassazione esclude, anzitutto, la configurabilità di una ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p. tra i reati per cui si procede in questa sede e quello di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., indicato a base dei provvedimenti di autorizzazione delle intercettazioni.
Infatti, nella specie, per il delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., richiamato a fondamento delle attività di captazione è stata disposta l'archiviazione per infondatezza della notizia di reato. Pertanto, l'avvenuta archiviazione delle indagini per il delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., preclude in radice la configurabilità di un rapporto di connessione tra di esso e qualunque altra fattispecie di reato.
Il rapporto di connessione tra reati, infatti, consiste in un legame tra i medesimi e, quindi, per la sua natura “relazionale”, presuppone indefettibilmente la sussistenza di ciascuno di essi. Di conseguenza, non può ipotizzarsi, nemmeno in astratto, un rapporto di connessione con un reato la cui sussistenza è stata esclusa e in relazione al quale non è pendente alcun procedimento penale.
La sentenza riconosce che per il “diverso reato” non è obbligatorio l'arresto in flagranza
La Corte di cassazione esclude, inoltre, che, nella specie, sussistano i presupposti per l'operatività della disciplina di cui all'art. 270 c.p.p., la quale prevede le condizioni che rendono ammissibile l'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in un procedimento diverso da quello nel quale sono state effettuate. Invero, per l'applicazione della disciplina di cui all'art. 270 c.p.p., è condizione indispensabile che i reati oggetto del diverso procedimento siano delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza.
Ma, i reati per cui si procede – precisamente quelli di partecipazione ad associazione finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti (art. 416 c.p.), di esercizio abusivo di giochi e scommesse (art. 4, commi 1 e 4-bis, l. n. 401 del 1989), e di trasferimento fraudolento di valori (art. 512-bis c.p.) – sono tutti delitti per i quali non è obbligatorio l'arresto in flagranza.
La sentenza distingue tra “diverso procedimento” e “diverso reato”
La sentenza sembrerebbe orientata a riconoscere l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, stante l'assenza di alcuna connessione tra i procedimenti.
Ma la motivazione, a questo punto richiama le Sezioni Unite “Cavallo”, che non precludono l'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni per reati diversi da quelli formalmente indicati a base del provvedimento di autorizzazione alle attività di captazione.
Invero, le Sezioni Unite Cavallo, cit., affermano espressamente che, nell'ambito della disciplina delle intercettazioni, la nozione di “altro procedimento”, dalla quale dipende l'operatività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p., non corrisponde a quella di “reato”.
E, a spiegazione di questo assunto, osserva, per un verso, che la nozione di “procedimento” non ha connotati univoci nel lessico generale del codice di procedura penale, e, sotto altro profilo, che il legislatore, anche quando si occupa specificamente della disciplina delle intercettazioni, mostra chiaramente di distingue tra “procedimento” e “reato”, come si desume dalle vicende relative alla disposizione di cui all'art. 270, comma 1-bis, c.p.p., in tema di utilizzabilità delle comunicazioni acquisite mediante captatore informatico.
Le Sezioni Unite Cavallo, anzi, a precisazione di questa premessa, rappresentano pure che la nozione di “procedimento” non può essere correlata all'iscrizione nel registro delle notizie di reato, di cui all'art. 335 c.p.p.
Esse specificano che, a voler ancorare la nozione di “procedimento” all'iscrizione ex art. 335 c.p.p., «dovrebbe essere considerato “diverso procedimento” [anche] quello iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto-reato», per poi concludere che sarebbe un «esito, questo, all'evidenza disallineato rispetto alla disciplina codicistica (che, per le intercettazioni "ordinarie", richiede, ex art. 267, comma 1, c.p.p., solo la sussistenza di “gravi indizi di reato”)», oltre che contrario all'univoco indirizzo ermeneutico in forza del quale «se un'intercettazione telefonica è validamente autorizzata, essa può essere utilizzata nei confronti di qualsiasi persona a carico della quale faccia emergere elementi di responsabilità per quel reato», nonché (esito) «all'evidenza irrazionale». Le Sezioni unite aggiungono che, seguendo questa impostazione legata al dato formale dell'iscrizione, «dovrebbe essere considerato "diverso procedimento" anche quello nuovamente iscritto a seguito di riapertura delle indagini ex art. 414, comma 2, c.p.p., laddove, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, in tale ipotesi non si instaura un procedimento diverso e possono legittimamente essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte, compresi gli esiti delle intercettazioni»; e, a tal proposito, cita espressamente Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1626, dep. 1996, Pulvirenti, Rv. 203741 – 01.
Le Sez. unite Cavallo, inoltre, ritengono utilizzabili i risultati delle intercettazioni anche con riguardo ai reati connessi ex art. 12 c.p.p. proprio perché gli stessi sono da considerare inclusi nel “medesimo procedimento” avente ad oggetto le fattispecie poste a base dei provvedimenti di captazione: precisamente, in queste ipotesi, ricorre un “medesimo procedimento” in ragione del «“legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l'autorizzazione all'intercettazione è stata emessa e il reato emerso grazie ai risultati di tale intercettazione». In particolare, la sentenza Cavallo evidenzia: «La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale - e non meramente processuale - tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai “fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede” (C. cost., n. 366/1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell'intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale tra essi, infatti, esclude che l'autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un'"autorizzazione in bianco"», vietata dall'art. 15 Cost.
La sentenza in commento osserva che le indicazioni offerte dalle Sezioni Cavallo hanno trovato significativa rispondenza e ulteriore svolgimento nella successiva elaborazione giurisprudenziale, la quale ha ribadito da più prospettive come la nozione di “medesimo procedimento” è ancorata specificamente a profili sostanziali e non ad evenienze meramente processuali. In particolare, una pronuncia ha precisato che, sulla base della disciplina applicabile ai procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, antecedente alla riforma introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020 n. 70, i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per gli ulteriori fatti-reato legati al primo dal vincolo della continuazione ex art. 12, lett. b), c.p.p., senza necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i correi (Cass. pen., sez. V, 29 settembre 2021, n. 37697, Papa, Rv. 282027 – 01). Secondo altra decisione, poi, i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente acquisiti nell'ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, riguardanti distinti reati per i quali sussistono le condizioni di ammissibilità previste dall'art. 266 c.p.p., sono utilizzabili anche nel caso in cui il procedimento sia successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, atteso che, in tal caso, non trova applicazione l'art. 270 c.p.p. che postula l'esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti (Cass. pen., sez. II, 15 gennaio 2025, n. 4341, Giglio, Rv. 287542 – 01). Diverse pronunce, ancora, hanno affermato l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni anche in caso di diversa e meno grave qualificazione del reato per il quale le stesse sono state disposte, se questa nuova definizione giuridica del fatto consegua agli esiti delle captazioni o comunque alla fisiologica evoluzione delle investigazioni (cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 aprile 2022, n. 48320, Manna, Rv. 284074 – 01, e Cass. pen., sez. VI, 20 gennaio 2021, n. 23148, Bozzini, Rv. 281501 – 01).
Secondo la sentenza, il fatto storico posto a base dell'autorizzazione all'intercettazione (associazione mafiosa) sarebbe lo stesso del “nucleo centrale” del fatto storico enunciato nella nuova imputazione (associazione per delinquere).
Sulla base di queste considerazioni, la Corte ritiene ragionevole concludere che, ai fini della utilizzabilità dei risultati di intercettazioni telefoniche o tra presenti, nella nozione di “medesimo procedimento” sono da ricomprendere tutte le fattispecie di reato contestate sulla base dei fatti storici indicati a fondamento del provvedimento autorizzativo del giudice, pur se ulteriormente definiti solo all'esito del fisiologico sviluppo delle indagini, sempreché dette fattispecie rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p.
Invero, è noto che, in materia di intercettazioni, secondo la giurisprudenza anche delle Sezioni Unite, la nozione di “procedimento” è più ampia di quella di “reato”, e si estende anche a fatti per i quali vi è solo parziale coincidenza, quali i reati connessi.
In considerazione di questo assunto la sentenza in commento esclude, di conseguenza, l'individuazione della nozione di “procedimento” sulla base di quella di identità del fatto evocata nella memoria presentata nell'interesse dei ricorrenti, quale «corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, esso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona»; secondo la sentenza in commento, la nozione appena richiamata è relativa al ben diverso istituto del divieto di bis in idem.
Sulla base di queste osservazioni, la sentenza in esame rileva che la riferibilità del “medesimo procedimento” a tutte le fattispecie contestate sulla base dei fatti storici indicati a fondamento dei provvedimenti legittimanti le intercettazioni, pur se ulteriormente definiti solo all'esito del fisiologico sviluppo delle indagini, non sacrificherebbe l'esigenza garantita dall'art. 15 Cost. di evitare che l'autorizzazione del giudice ad effettuare le captazioni assuma la fisionomia di una “autorizzazione in bianco”.
Secondo la sentenza in commento, la corrispondenza tra il fatto storico posto a base dell'autorizzazione a disporre le intercettazioni, o parte di esso, e il “nucleo centrale” del fatto storico enunciato della nuova imputazione consentirebbe di concludere che pure quest'ultimo rientri tra i «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede», ossia tra i “fatti” che debbono essere necessariamente predeterminati nel provvedimento del giudice (C. cost., n. 366/1991).
La sentenza in esame osserva che è proprio in ragione della medesimezza del fatto storico posto a fondamento delle intercettazioni, o di parte di esso, e del “nucleo centrale” del fatto storico posto a base dell'imputazione non enunciata nel provvedimento autorizzativo, che sarebbe possibile ritenere l'utilizzabilità dei risultati delle attività di captazione anche in caso di diversa e meno grave qualificazione della condotta delittuosa per la quale le stesse sono state disposte.
Secondo la Corte, come già detto, si rientrerebbe nell'ambito del “medesimo procedimento” quando il reato per il quale si procede, sebbene non enunciato nel decreto di autorizzazione delle intercettazioni, si riferisce ad un fatto storico il cui “nucleo centrale” coincide con – o è incluso in – quello posto a fondamento del precisato provvedimento.
La sentenza in commento ritiene che, nella vicenda in esame, il reato di associazione per delinquere finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti, in particolare relativi all'esercizio abusivo di giochi e scommesse, ascritto al ricorrente nella qualità di capo e promotore, avrebbe ad oggetto un fatto storico il cui “nucleo centrale” è incluso in quello descritto a fondamento della contestazione di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., per la quale sono state autorizzate le intercettazioni.
Le osservazioni che precedono sono risolutive, secondo la Corte di cassazione, al fine di affermare l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nel presente giudizio, atteso che questa conclusione, nella specie, dipende dalla nozione di “medesimo procedimento”, e che tale nozione, in linea con le indicazioni delle Sezioni unite Cavallo, si qualifica per il suo contenuto “sostanziale”, e non per profili formali connessi alle iscrizioni nel registro delle notizie di reato.
Osservazioni critiche
La sentenza è apprezzabile laddove individua il bene tutelato dall'art. 270 c.p.p. nella garanzia che sul “diverso fatto” sia intervenuta la garanzia giurisdizionale posta dall'art. 15 Cost. Infatti, la Consulta, fin dalla sentenza n. 34/1973, aveva precisato che l'intercettazione deve attuarsi “sotto il diretto controllo del giudice” in modo da assicurare che “si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell'autorizzazione (C. cost. n. 34/73). In un'altra occasione, la Consulta precisò poi che la ratio del divieto di utilizzazione trasversale dei risultati dell'intercettazione risiede nella considerazione che sul diverso reato o sul diverso procedimento manca la garanzia del previo intervento del giudice, col rischio che l'autorizzazione diventi una “inammissibile autorizzazione in bianco” ad eseguire intercettazioni, implicitamente chiarendo che il divieto riguarda i “fatti” diversi, e non i “procedimenti” diversi, da quello per il quale l'autorizzazione è intervenuta (C. cost. n. 63/1994 e, già in precedenza, C. cost. 366/1991). In particolare, C. cost. n. 63/1994 chiarì che l'art. 270, comma 1, c.p.p. pone «una norma del tutto eccezionale»: «la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni disposte nell'ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, relativi all'accertamento di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, risponde all'esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, giustificata dall'interesse dell'accertamento dei reati di maggiore gravità»; in altri termini, «la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge, l'utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi, limitatamente all'accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, costituisce indubbiamente un non irragionevole bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e quello rappresentato dall'interesse pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono» (C. cost. n. 63/1994).
Successivamente, la Corte costituzionale, considerando più in generale le garanzie connesse alla "riserva di giurisdizione", estese alla libertà delle comunicazioni i criteri applicati per legittimare le limitazioni della libertà personale: spiegando che «il significato sostanziale, e non puramente formale, dell'intervento dell'autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione», comporta che quel controllo vada inteso come «vaglio dell'autorità giurisdizionale (...) associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa» (C. cost., n. 2/2023).
Alla luce di tali considerazioni, la pronuncia in commento risulta assai poco apprezzabile laddove svuota di contenuto il controllo del giudice, ammettendo che il reato di associazione per delinquere finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti (in particolare relativi all'esercizio abusivo di giochi e scommesse), ascritto al ricorrente nella qualità di capo e promotore, avrebbe ad oggetto un fatto storico il cui “nucleo centrale” è incluso in quello descritto a fondamento della contestazione di associazione di stampo mafioso, per la quale erano state autorizzate le intercettazioni.
In definitiva, la Corte giunge a ravvisare una identità fattuale tra l'associazione a delinquere e l'associazione mafiosa (peraltro archiviata e quindi insussistente), nonostante l'evidente diversità ontologica tra le due forme di delitto associativo.
Ma è evidente che il controllo del giudice per autorizzare o meno l'intercettazione, sotto il profilo della sussistenza dei “gravi indizi di reato”, deve avere ad oggetto un fatto di reato contestato precisamente dal pubblico ministero, con indicazione degli elementi essenziali del delitto, di data e luogo di commissione.
E allora, come si può sostenere che il giudice, autorizzando l'intercettazione per l'associazione mafiosa (poi archiviata e quindi insussistente), avrebbe implicitamente autorizzato anche la assai diversa associazione a delinquere, iscritta nel registro delle notizie di reato due anni dopo?
Oppure siamo di fronte allo stesso fatto, ma diversamente qualificato? Ma in questo caso il pubblico ministero nella richiesta di intercettazione ha “iper-qualificato” una semplice associazione a delinquere in una associazione di stampo mafioso e il G.i.p. non ha effettuato i dovuti controlli.
Non so in quale delle due ipotesi la giustizia ne esca peggio.
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La sentenza riconosce che per il “diverso reato” non è obbligatorio l'arresto in flagranza
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