L’accertamento della preconoscenza va compiuto ex ante, non ex post
03 Luglio 2025
Massima In materia di obblighi informativi dell'assicurato verso l'assicurazione, l'accertamento della consapevolezza circa la possibilità di ricevere una richiesta di risarcimento va effettuato ex ante e non ex post, richiedendo la sussistenza di fatti concreti che giustifichino tale percezione, come rimostranze del paziente o dei familiari. La colpa dell'assicurato nel non aver dato notizia deve essere grave e fondarsi sulla erronea valutazione di elementi dai quali era facile o di comune esperienza dedurre l'esposizione ad un'azione di responsabilità. Non è sufficiente a configurare tale consapevolezza la mera circostanza che il paziente sia uscito dall'intervento in gravi condizioni, non potendosi ricavare da ciò solo che il medico avrebbe dovuto sospettare una futura azione risarcitoria, in quanto l'aggravamento delle condizioni di salute non indica necessariamente una responsabilità del sanitario né implica automaticamente l'instaurazione di un contenzioso. L'appartenenza di due strutture ospedaliere alla medesima ASL costituisce un mero dato organizzativo che non consente di presumere la conoscenza degli eventi verificatisi in una struttura da parte del personale operante nell'altra. Il caso Nel caso di specie, una donna veniva operata presso l'Ospedale di Velletri ad opera di un medico della Struttura, per una resezione intestinale. L'intervento veniva eseguito nel settembre 2008, e la paziente veniva dimessa dopo una ventina di giorni. Circa un mese dopo, tuttavia, la donna veniva nuovamente ricoverata e sottoposta ad un nuovo intervento per diverticolite, a seguito del quale subiva un grave peggioramento delle condizioni di salute, che imponeva un terzo e un quarto intervento, eseguiti in un diverso ospedale (pur appartenete alla medesima Asl), fino al suo decesso nel novembre 2008. Gli eredi della donna citavano in giudizio, avanti il Tribunale di Velletri, il sanitario che aveva eseguito i primi due interventi e la Asl. Entrambi si costituivano in giudizio. Il medico chiedeva ed otteneva la chiamata in giudizio delle sue due Compagnie di assicurazioni, le quali eccepivano a loro volta l'inoperatività della polizza. Il Tribunale di Velletri, sulla base di una consulenza tecnica disposta d'ufficio, accoglieva la domanda degli eredi e condannava il medico al risarcimento dei danni; accoglieva poi la domanda di manleva nei confronti della prima Compagnia di assicurazione, mentre rigettava la domanda di manleva verso la seconda. Contro la sentenza di primo grado proponevano appello principale sia la Compagnia di assicurazione soccombente sia la Asl, nonché il medico in via incidentale. La Corte d'appello di Roma accoglieva l'appello principale, mentre rigettava la domanda di manleva del medico verso la Compagnia di assicurazioni. Avverso tale sentenza, ricorreva in Cassazione il medico, stante il rigetto della richiesta manlveva dell’Assicuratore. La questione La Corte si interroga se sia possibile, da parte dell’Assicuratore, negare al medico la copertura sulla responsabilità professionale sul rilievo che il sanitario non l’avrebbe notiziata della futura possibilità di azione giudiziaria di risarcimento nei suoi confronti. Le soluzioni giuridiche Il principale motivo di ricorso attiene alla domanda di manleva esperita dal medico della Struttura ospedaliera (assicurato) nei confronti della sua Compagnia di assicurazione. Quest'ultima, infatti, sin dal giudizio di primo grado, aveva eccepito l'inoperatività della polizza a causa della “reticenza dell'assicurato”, che non le avrebbe tempestivamente comunicato l'eventualità di un'azione giudiziaria da parte degli eredi della paziente. Ripercorrendo i fatti di causa, il giudice di primo grado aveva affermato che non vi fossero, nel caso di specie, prove sufficienti a dimostrare che, dopo l'intervento, il sanitario potesse rappresentarsi l'eventualità di una causa di risarcimento danni da parte degli eredi della paziente deceduta. Diversa valutazione è stata fatta, invece, dalla Corte d'appello: il medico – ha sostenuto la Corte - doveva sapere, e dunque doveva essere consapevole che, con molta probabilità, a causa del decesso della paziente, avrebbe subito un'azione giudiziaria. Proprio in quanto la donna era uscita dai due interventi in gravi condizioni, il medico operante avrebbe dovuto prevedere delle conseguenze giudiziarie, e, dunque, avrebbe dovuto avvisare tempestivamente il suo assicuratore. Il fatto poi che la paziente fosse deceduta in un diverso ospedale, ad avviso della Corte, non avrebbe dovuto ritenersi indicativa del contrario, in quanto quella Struttura orbitava nell'ambito della medesima Asl; circostanza, questa, che faceva presumere che la notizia della morte fosse nota anche al medico in questione. Il sanitario, dal canto suo, aveva obiettato nel ricorso per cassazione che la conoscibilità, ossia il fatto che egli avrebbe dovuto sapere di essere esposto ad un'azione per danni, era stata ricavata dalla Corte di secondo grado da presunzioni non gravi: in particolare, la consapevolezza della futura azione giudiziaria non poteva essere ricavata dalla mera gravità delle condizioni di salute della donna; inoltre, l'appartenenza alla medesima Asl dei due ospedali (quello in cui operava il ricorrente, e quello in cui era deceduta la paziente) rappresentava un elemento ben poco indicativo della conoscibilità del fatto. La Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dal medico, sconfessando le motivazioni della sentenza d'appello. In particolare, la Cassazione sostiene che, sebbene sia onere dell'assicurato (in base alle condizioni di polizza) dare avviso del sinistro, tale obbligo informativo non può spingersi sino a comprendere la mera possibilità di subire una richiesta di risarcimento. L'accertamento della consapevolezza dell'assicurato cerca la possibilità che gli prevenga una richiesta di risarcimento, infatti, va fatta ex ante e non ex post (così, anche Cass. 2099/2023). La colpa dell'assicurato (il non avere dato notizia), in tal senso, deve essere grave (Cass. civ., n. 12085/2015), ossia deve fondarsi sulla erronea valutazione di elementi dai quali era facile o di comune esperienza dedurre che lo stesso avrebbe potuto essere esposto ad un'azione di responsabilità. In sostanza, la consapevolezza, o anche la sola percezione di poter essere esposti ad un'azione di risarcimento – spiega la Suprema Corte - presuppongono che si siano verificati fatti che quella percezione giustificano, come ad esempio le rimostranze del paziente e/o dei suoi familiari (Cass. 23961/2022). Il fatto che il medico, dalla circostanza che la paziente era uscita dall'intervento in gravi condizioni, avrebbe dovuto percepire che gli sarebbe stata fatta causa (poi effettivamente iniziata due anni dopo), non è sufficiente per poter soddisfare il requisito della conoscenza o conoscibilità: non può infatti ricavarsi da tale sola circostanza che il medico avrebbe dovuto sospettare una futura azione o richiesta di risarcimento nei suoi confronti; ciò in quanto la gravità delle condizioni di salute di un paziente a seguito dell'intervento non indica necessariamente una responsabilità del medico, nè indica di per sé che il paziente o i suoi eredi intenteranno un giudizio risarcitorio. Pertanto, il fatto noto (ossia le condizioni di salute della paziente) non è grave, ai fini induttivi, in quanto non indica necessariamente il fatto ignoto (ossia se sarà avanzata una richiesta di risarcimento). Non è grave, in quanto nella generalità dei casi, all'aggravamento non segue di regola un'azione giudiziaria a carico del medico: solo dimostrando che, solitamente, quando le condizioni del paziente si aggravano, il medico è poi citato in giudizio, si potrà dire che l'indizio porta al fatto ignoto, ossia si potrà dire che esiste una massima di esperienza o una inferenza statistica che consente di indurre dal fatto noto quello ignoto. Diversamente, ogni volta che le condizioni di un paziente si aggravino a seguito di un intervento chirurgico, non è onere del medico avvisare l'assicurazione di una probabile futura causa di responsabilità. Né ovviamente - conclude la Corte - può dirsi che il medico avrebbe dovuto sapere della morte della paziente avvenuta in altro Ospedale, in quanto entrambi i nosocomi appartengono alla medesima Asl. Anche questa, infatti, è circostanza poco indicativa a fini induttivi, posto che l'appartenenza è un dato giuridico che non risolve la distanza fisica. Non si può dire, infatti, che ciò che accade in uno dei due ospedali, distanti tra loro, si presume che si sappia anche nell'altro, per via di un dato meramente organizzativo qual è l'appartenenza alla medesima Asl. Da una premessa giuridica (i due ospedali appartengono alla medesima struttura) cioè, non si può trarre una conclusione fattuale (ciò che avviene nell'uno è conosciuto da quelli che stanno nell'altro). Osservazioni Nel caso deciso dalla sentenza in commento, la Suprema Corte affronta il tema delle dichiarazioni che l'assicurato deve rendere all'assicuratore al fine di una corretta esecuzione del rapporto assicurativo. Come noto, la legge impone all'assicurato, già al momento della stipula del contratto, l'onere di comunicare all'assicuratore le circostanze che influiscono sul rischio, in misura tale da poter essere determinanti del consenso o da poter giustificare condizioni contrattuali diverse. La violazione di quest'onere con dolo o colpa grave è causa di annullamento del contratto; se non vi è dolo o colpa grave, invece, sarà causa di recesso dell'assicuratore. Ai sensi dell'art. 1913 c.c., inoltre, l'assicurato deve dare avviso del sinistro all'assicuratore o all'agente autorizzato a concludere il contratto entro tre giorni da quello in cui il sinistro si è verificato (o l'assicurato ne ha avuta conoscenza); l'art. 1915 c.c., afferma che l'assicurato perde il diritto all'indennità se, dolosamente, non adempie l'obbligo dell'avviso; in caso di colpa, ne subirà una riduzione. Presupposti per il sorgere dell'onere sono: il verificarsi di un evento che, corrispondendo per natura, oggetto, luogo, tempo, al rischio contemplato in contratto, possa qualificarsi come sinistro; la sua conoscenza da parte di colui sul quale incombe l'onere. Ebbene, con la sentenza in commento la Suprema Corte afferma che l'Assicurazione non può negare al medico la copertura sulla responsabilità professionale sul rilievo che il sanitario le avrebbe taciuto l'eventualità di subire una causa di risarcimento da parte del proprio paziente; e ciò benché, come detto, in base alla polizza, sia onere dell'assicurato dare subito notizia alla Compagnia della possibilità di subire una richiesta di danni. Il fatto che il paziente sia uscito dall'operazione in gravi condizioni non implica di per sé che il chirurgo debba sospettare una futura azione civile nei suoi confronti: l'intervento fallito non indica necessariamente la responsabilità del sanitario, mentre la successiva morte del paziente non può ritenersi nota al professionista solo perché avvenuta in un ospedale che afferisce alla stessa Asl.
La causa, nel caso specifico, inizia due anni dopo l'intervento chirurgico. Il fatto che la paziente sia uscita dalla sala operatoria in gravi condizioni non basta per integrare una reticenza. Sul punto, la Suprema Corte sembra non sconfessare gli orientamenti precedenti. Già in diverse pronunce, la Cassazione (Cass., Sez. III, ordinanza n. 20997 del 18/07/2023) aveva affermato che “in tema di annullamento del contratto di assicurazione in conseguenza delle dichiarazioni reticenti o inesatte dell'assicurato, la pregressa richiesta di risarcimento avanzata dal terzo danneggiato, integrando un fatto potenzialmente idoneo ad incidere sul rischio, rientra nell'onere di comunicazione di cui all'art. 1892 c.c., indipendentemente dal fatto che alla stessa non abbia fatto seguito alcuna azione giudiziaria” (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto irrilevante la reticenza dell'assicurato in ordine ad una richiesta di risarcimento ricevuta dal terzo danneggiato, sul presupposto che, al momento della stipula del contratto - avvenuta sette mesi dopo - non potesse presagirsi con certezza la successiva proposizione dell'azione giudiziaria). E ancora, secondo Cass. civ., ordinanza n. 23961 del 02/08/2022, “l'art. 1892 c.c. onera l'assicurato di comunicare all'assicuratore l'esistenza di fatti anche solo potenzialmente idonei a far sorgere la propria responsabilità, con la conseguenza che deve escludersi la nullità della clausola che riferisca il suddetto onere anche alla "percezione" dei presupposti della responsabilità, evocando pur sempre tale sostantivo il concetto di conoscenza, e non già di mera impressione (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di garanzia proposta da un medico nei confronti del proprio assicuratore della responsabilità civile, per avere il primo formulato, al momento della stipula del contratto, una dichiarazione negativa circa l'esistenza di elementi suscettibili di fondare la propria responsabilità risarcitoria, pur avendo già ricevuto le rimostranze di una paziente per l'esito negativo di un intervento precedentemente effettuato). Come spiega la Corte nella sua motivazione, il fatto noto, cioè le condizioni di salute dell'ammalata, non è grave ai fini induttivi, perché non indica necessariamente quello ignoto, ossia, se sarà avanzata una richiesta di risarcimento. E ciò perché di solito all'aggravamento del paziente non segue un'azione giudiziaria a carico del medico. Né si può ritenere, nella specie, che il chirurgo sappia che la paziente è morta solo perché il decesso risulta avvenuto dopo il ricovero in un altro ospedale che afferisce alla stessa Asl: l'appartenenza è un mero dato organizzativo. |