La delibera in oggetto è di grande interesse in quanto, nel perenne conflitto sulla natura giuridica della società in house, ne predica chiaramente la portata autonoma e la conseguente equiparazione, per quel che concerne la disciplina degli appalti pubblici, ad un operatore economico privato.
La soluzione cui perviene il Collegio sovverte l'orientamento classico costantemente patrocinato dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui la società in house non potrebbe qualificarsi quale entità posta al di fuori dell'Ente pubblico bensì quale articolazione interna dello stesso (Cons. Stato, Ad. Plen. 1/08 e, più di recente: Cons. Stato n. 6062/2021 e n. 5885/2023).
La tesi de qua appare foriera di numerosi riflessi sul piano pratico atteso che non consente di individuare nell'affidamento diretto compiuto dall'Ente in favore della società un rapporto intersoggettivo assoggettato alla disciplina generale dei contratti pubblici.
La Corte dei conti, per contro, obietta ad una tale ricostruzione interpretativa richiamando, per un verso, la recente giurisprudenza di legittimità e, per altro, adducendo argomentazioni del tutto innovative.
In tempi recentissimi, invero, la Corte di cassazione è giunta ad affermare la netta differenza intercorrente tra il controllo assoluto esercitato da un Ente pubblico su una propria articolazione interna ed il controllo c.d. “analogo” che esso può esercitare su una società in house atteso che, per quanto partecipata pubblica, essa resta pur sempre una società di capitali, come tale assoggettata al diritto commerciale, salvo che il legislatore non preveda una disciplina speciale con il d.lgs. n. 175/2016. Tale lettura si basa sulla valorizzazione delle caratteristiche dell'autonomia patrimoniale e della personalità giuridica dell'in house, del tutto incompatibili con una interpretazione di controllo analogo in termini di relazione gerarchica con l'Ente (Cass. civ., Sez. Un., n. 14236/2020; 3869/2023 e 9593/2024).
La Corte dei conti, nella delibera esaminata, tuttavia, va oltre.
In primo luogo, ribadisce l'assoggettamento della società pubblica allo statuto dell'imprenditore – salvo per quanto diversamente stabilito dalla legge – in virtù del principio del legittimo affidamento del privato sulla conformità del regime giuridico al nomen iuris dichiarato e pubblicizzato mediante l'iscrizione nel registro delle imprese.
In secondo luogo, traccia una netta linea di demarcazione tra società in house, società a controllo pubblico e aziende speciali.
Il requisito essenziale del controllo analogo, invero, non deve né tradursi in un mero potere decisionale rimesso alla maggioranza sociale come accade nelle società soggette al meno stringente “controllo pubblico”; né in una soggezione assoluta alla Pubblica Amministrazione, altrimenti svilendosi la scelta di ricorrere ad un modello societario per lo svolgimento di un'attività di rilievo pubblicistico, nonché determinando una indebita sovrapposizione con la nozione di azienda speciale, da considerarsi quale vera e propria articolazione interna dell'Ente pubblico.
Un'evidente conseguenza pratica di tale lettura si rinviene in una precedente delibera del Giudice Contabile (Corte dei conti, Sez. Reg. Contr. per il Lazio, n. 14/2021) che, nel sostenere l'alterità soggettiva tra la P.A. ed un proprio ente in house, escludeva il ricorso all'istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio da parte dell'Ente pubblico costituente, potendo quest'ultimo, al più, procedere ad un accollo civilistico del debito della società.
La pronuncia, dunque, mira a cristallizzare un principio in via di affermazione nel panorama giurisprudenziale, ovverosia quello secondo cui, se è vero che l'in house costituisce un'eccezione alla regola della gara pubblica, è altrettanto vero che essa non può considerarsi quale “spazio franco” rispetto ai principi costituzionali di imparzialità, trasparenza ed economicità.
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