Impresa familiare: piena equiparazione dei diritti del coniuge e del convivente more uxorio

09 Luglio 2025

La Suprema Corte con la sentenza n. 11661/2025, sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2 luglio 2024 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 230-bis, comma 3, e 230-ter c.c., si pronuncia favorevolmente sul diritto del convivente di fatto a partecipare alla liquidazione di un’impresa familiare. 

Massima

L'art. 230-bis, terzo comma, c.c., così come reinterpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 148/2024, include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto. Di conseguenza, la disciplina dell'impresa familiare si applica anche alle attività economiche cui collabora stabilmente il convivente di fatto.

Il caso

La presente vicenda trae origine dal ricorso proposto da una donna la quale, dopo aver convissuto stabilmente per oltre un decennio con il titolare di un’azienda agricola, presso la quale affermava di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo per otto anni, agiva in giudizio nei confronti degli eredi del convivente, nel frattempo deceduto, al fine di accertare l'esistenza di un'impresa familiare, relativa all'azienda agricola, nel periodo dal 2004, anno di iscrizione nel registro delle imprese, fino alla data del decesso del proprio compagno, nonché ad ottenere la condanna dei suddetti eredi di quest'ultimo alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe dell'impresa suddetta, pari quantomeno al 50% del valore dei beni acquistati e degli utili conseguiti, compresi gli incrementi patrimoniali avutisi nel corso del tempo.

La questione

La Suprema Corte, sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2 luglio 2024 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 230-bis, comma 3, e 230-ter c.c., si pronuncia favorevolmente sul diritto del convivente di fatto a partecipare alla liquidazione di un'impresa familiare. 

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale, adito su ricorso della donna che rivendicava il diritto alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe dell'impresa familiare del compagno deceduto, rigettava la domanda, rilevando che, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., il riconoscimento del diritto alla partecipazione all'impresa familiare presuppone l'esistenza di un vincolo giuridico di coniugio o parentela, con conseguente esclusione della mera convivenza quale titolo legittimante.

La decisione del Tribunale veniva confermata dalla Corte d'Appello, la quale escludeva l'applicabilità, nella fattispecie in esame, dell'art. 230-ter c.c., introdotto nel codice civile dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, in quanto norma sopravvenuta rispetto alla cessazione della convivenza determinata dal decesso del compagno, avvenuto nell'anno 2012. La Corte, inoltre, evidenziava ulteriori elementi ostativi al riconoscimento della pretesa partecipazione all'impresa familiare, consistenti, da un lato, nell'intrattenimento da parte della ricorrente di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda agricola del convivente e, dall'altro, nella risultanza documentale della titolarità, in capo alla medesima, di un distinto rapporto di lavoro alle dipendenze della Regione Lombardia.

La decisione veniva quindi impugnata avanti alla sezione lavoro della Corte di cassazione, la quale pronunciava l'ordinanza interlocutoria n. 2121/2023 con cui disponeva la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Con la citata ordinanza la Suprema Corte da un lato rilevava che, secondo l'orientamento di legittimità, la disciplina relativa all'impresa familiare presupponeva l'esistenza di una famiglia fondata sul matrimonio, dall'altro, tuttavia proponeva una revisione dell'orientamento precedentemente consolidato, alla luce dell'evoluzione sociale e giurisprudenziale in materia, nonché dell'introduzione dell'art. 230-ter c.c. ad opera della legge n. 76 del 2016. Tale disposizione normativa, in particolare, riconosce al convivente di fatto che presti in modo stabile la propria attività all'interno dell'impresa dell'altro convivente il diritto a partecipare agli utili dell'impresa medesima, ai beni acquisiti con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, fatta salva l'ipotesi in cui tra i conviventi intercorrano rapporti giuridici di natura subordinata o societaria.

Il Collegio richiamava, a sostegno della propria argomentazione, talune pronunce della Corte Costituzionale che hanno riconosciuto rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, segnatamente nelle ipotesi in cui venga in rilievo una lesione di diritti fondamentali della persona, quali il diritto sociale all'abitazione ovvero il diritto alla salute. Venivano altresì richiamati, in ambito penalistico, l'orientamento giurisprudenziale secondo cui può trovare applicazione, anche in favore del convivente more uxorio, la scriminante prevista dall'art. 384, comma 1, c.p.

La Corte di Cassazione evidenziava altresì che, pur dovendosi escludere l'applicabilità retroattiva della disciplina introdotta con l'art. 230-ter c.c. dalla legge n. 76/2016, una totale preclusione della tutela prevista dall'art. 230-bis c.c. nei confronti del convivente more uxorio che abbia prestato, per un lungo periodo, attività lavorativa all'interno dell'impresa familiare, risulterebbe in contrasto non soltanto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, ma anche – e in misura ancor più significativa – con i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nonché con il diritto dell'Unione europea.

La Corte riteneva pertanto opportuna la necessità di un intervento nomofilattico volto a interpretare l'art. 230-bis, comma 3, c.c. secondo un'ottica evolutiva, che tenga conto dei mutamenti culturali e sociali intervenuti nel tempo. In ragione della rilevanza e della complessità della questione, la questione è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, in via preliminare, hanno rilevato che la Corte d'Appello, muovendo dal presupposto dell'inapplicabilità ratione temporis dell'art. 230-ter c.c., ha omesso qualsivoglia accertamento in concreto in ordine all'effettività e alla continuità dell'apporto lavorativo prestato dalla ricorrente nell'ambito dell'impresa familiare. La Corte di Cassazione ha, in secondo luogo, ritenuto non decisivi, ai fini dell'esclusione della tutela invocata, gli ulteriori elementi valorizzati dalla Corte d'Appello, ossia: l'esistenza di un rapporto di coniugio formale in capo al titolare dell'impresa, la circostanza che la ricorrente avesse intrattenuto un rapporto di lavoro subordinato con l'impresa, ancorché per un periodo temporalmente limitato, nonché il fatto che la medesima risultasse contestualmente titolare di un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia. La Suprema Corte ha evidenziato, in proposito, come l'art. 230-bis, comma 3, c.c., qualifichi l'apporto del familiare, ivi compreso il convivente, in termini di “collaborazione” all'attività economica, a prescindere dalla configurazione formale del rapporto, valorizzandone piuttosto la dimensione sostanziale e continuativa.

La Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria n. 1900 del 2024, ha disposto la sospensione del giudizio e il conseguente rinvio degli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c., nella parte in cui non contempla tra i soggetti legittimati anche il convivente di fatto, rilevante e non manifestamente infondata. In particolare, è stata prospettata la violazione degli artt. 2,3,4,35 e 36 della Costituzione, dell'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché degli artt. 8 e 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 148 del 2 luglio 2024, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, c.c., nella parte in cui non includeva, tra i soggetti qualificabili come “familiari”, anche il convivente di fatto, e non riconosceva come “impresa familiare” quella alla cui attività collabori stabilmente il convivente di fatto. Tale declaratoria è stata fondata sulla violazione degli artt. 4 e 35 Cost., in relazione al diritto fondamentale al lavoro, nonché dell'art. 36, primo comma, Cost., in materia di giusta retribuzione, nell'ambito di una formazione sociale quale è la famiglia di fatto, tutelata ai sensi dell'art. 2 Cost., oltre che per contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. La Corte ha inoltre dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter del codice civile.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, c.c., nonché, in via consequenziale, dell'art. 230-ter c.c.., hanno accolto il ricorso proposto dalla parte ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata affinché i giudici di merito indaghino circa l'effettività e la continuità dell'apporto lavorativo prestato dalla convivente presso l'impresa familiare, in una lettura costituzionalmente orientata dell'articolo 230-bis, c.c.., oltre che dell'articolo 230-ter, c.c., che già espressamente riconosce il diritto del convivente di fatto alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare.

La Corte di Appello di Ancona, in diversa composizione, procederà quindi a un nuovo esame della controversia, facendo applicazione dei principi enunciati dalla Corte costituzionale con la pronuncia avente natura interpretativa additiva dell'art. 230-bis, terzo comma, c.c.., e, in via consequenziale, con effetto demolitorio dell'art. 230-ter c.c.

Osservazioni

La Corte Costituzionale prima, e le Sezioni Unite della Corte di cassazione poi, hanno finalmente sdoganato l'annosa questione dell'estensione al convivente di fatto dell'integrale disciplina prevista dall'art. 230-bis c.c. per il coniuge e i familiari del titolare dell'impresa familiare.

Spesso nell'ambito di un rapporto di convivenza i partner condividono un progetto che implica il dispendio di energie lavorative di uno in favore dell'altro. Di frequente l'attività lavorativa trova causa nel vincolo di solidarietà ed affetto reciproco, talora in un rapporto di lavoro subordinato o societario.

Prima dell'introduzione dell'art. 230-ter c.c. ad opera della l. 76/2016, in tema di impresa familiare era unicamente previsto l'art. 230-bis c.c. il quale dettava una disciplina per opinione comune “eccezionale” rispetto alle norme generali, vale a dire applicabile solo in mancanza di un diverso rapporto negoziale, e non estensibile in via analogica alla convivenza di fatto (per tutte, Cass. civ. sez. un. n. 23676/2014, che ribadisce la natura residuale dell'istituto rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale e la incompatibilità con la disciplina delle società di qualunque tipo).

Invero la dottrina aveva prospettato la possibilità di una applicazione estensiva della norma (addirittura, è stato indicato un profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, per violazione dell'art. 3 Cost. sull'assunto che, nel legittimare una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) a fronte di una sostanziale equivalenza nell'attività dell'impresa prestata, si finirebbe per porre un ostacolo di ordine economico all'uguaglianza dei cittadini: Prosperi, Impresa familiare, Milano, 2006), ma la giurisprudenza dominante si era espressa in senso contrario, con la conseguenza che il lavoro eventualmente prestato dal convivente nell'ambito dell'impresa di cui l'altro fosse titolare, era tutelato esclusivamente mediante il rimedio dell'arricchimento senza causa. La ragione posta dalla Suprema Corte per precludere una interpretazione analogica dell'art. 230-bis c.c. e quindi per escludere il convivente more uxorio dalla tutela che la norma garantisce, era rappresentata dalla considerazione che presupposto dell'impresa familiare è la famiglia legittima (Cass. civ. 2 maggio 1994 n. 4204, Trib. Monza, Sez. lavoro, 29 novembre 2008, n. 711), e che l'equiparazione tra coniuge e convivente era in contrasto col fatto che il matrimonio è fondato sulla stabilità del legame, mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum. Altra giurisprudenza, invero minoritaria, all'opposto aveva ritenuto applicabile la disciplina dettata dall'art. 230-bis alla famiglia di fatto, in quanto essa costituisce una formazione sociale costituzionalmente rilevante ex art. 2 Cost. (Cass. civ. sent. 15 marzo 2006, n. 5632, Cass. civ., sez. lavoro, 14/06/1990, n. 5803 che, nell'individuare la ratio legis nella volontà di tutelare il lavoro prestato all'interno di gruppi uniti da legami affettivi "familiari", sostengono l'applicabilità analogica della norma alle cd. coppie di fatto).

L'introduzione dell'art. 230-ter c.c., ad opera della l.76/2016, risolve la questione interpretativa senza tuttavia estendere al convivente tutti i diritti riconosciuti al coniuge ex art. 230-bis c.c.: applicando in senso letterale la norma, è evidente la disparità di trattamento tra il convivente di fatto e gli altri familiari tutelati dall'art.230-bis.

In primo luogo, si osserva che la norma ha anch'essa natura residuale e suppletiva posto che non opera qualora tra conviventi sussista un rapporto di lavoro subordinato o di società, ma si discosta dall'art. 230-bis c.c. che invece si riferisce a qualsiasi “diverso rapporto”. Sotto questo aspetto potrebbe allora dirsi che il convivente è favorito, potendo godere dei diritti che derivano dall'impresa familiare anche se è legato al partner da un rapporto, ad esempio, di lavoro para subordinato o di diversa natura.

In merito ai diritti patrimoniali, viene riconosciuta al convivente che lavori nell'impresa familiare di cui l'altro sia titolare, una partecipazione agli utili (che vien meno ove sussista un rapporto di società o un rapporto di lavoro di qualunque tipo) e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato.

Nessun rilievo viene dato al lavoro prestato dal convivente nella famiglia, diversamente da quanto accade per il coniuge o l'unito civilmente (in argomento  E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: osservazioni (solo) a futura memoria? in Giust. civ. Com. – n.1 aprile 2016(2016), pp. 1-13 il quale evidenzia anche l'assenza di ogni riferimento, oltre che al lavoro prestato all'interno dell'impresa del convivente, al lavoro prestato nell'ambito della vita comune della convivenza, quando invece l'art. 230-bis c.c. si riferisce al lavoro prestato nella famiglia o nell'impresa familiare).

Nessun diritto è attribuito al convivente in merito alla partecipazione alle decisioni aziendali, comprese quelle sull'impiego degli utili. Il convivente non ha neppure il diritto di prelazione sull'azienda.

Ma ciò che più colpisce è che nessuna menzione è fatta al diritto al mantenimento, con la conseguenza che, se l'impresa è in assenza di utili o qualora venga assunta la decisione di non distribuirli, il lavoro prestato resta senza remunerazione.

Il diverso trattamento del convivente more uxorio rispetto al coniuge, a fronte di una identica prestazione lavorativa all'interno dell'impresa familiare, non trova alcuna valida giustificazione. Illustre dottrina ha rilevato che l'irragionevolezza del trattamento riservato al convivente di fatto risulta ancor più evidente ove si consideri che la disciplina dell'impresa familiare, di cui all'art. 230-bis cod. civ., è finalizzata ad assicurare tutela alle prestazioni lavorative rese nell'ambito di un'attività imprenditoriale connotata da una rilevante componente affettiva e solidaristica. Tanto è vero che la norma estende tale tutela, in termini pieni, anche ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo. Alla luce di ciò, risulta difficilmente giustificabile – sotto il profilo della coerenza sistematica e del rispetto del principio di eguaglianza – l'attribuzione al convivente di fatto di prerogative sensibilmente differenti e di portata più limitata rispetto a quelle riconosciute a soggetti legati da un mero vincolo di parentela o affinità (così Balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. It. 7/2016, p. 1771).

Risulta quindi difficilmente comprensibile la ratio alla base della scelta legislativa operata nel 2016, tanto più considerato che la famiglia di fatto, ossia quella basata su stabili legami affettivi, è oramai una realtà degna di tutela al pari di quella legittima, trovando fondamento negli articoli 2 e 3 della Costituzione. Neppure potrebbe affermarsi che alla base del diverso trattamento stia la considerazione che chi ha scelto di non vincolarsi con il matrimonio lo ha fatto scegliendo consapevolmente di vivere all'insegna della libertà da qualsivoglia vincolo giuridico, diritto o dovere. Se questa fosse infatti la considerazione posta alla base della scelta normativa, sarebbe allora valso escludere tout court il convivente dal novero dei soggetti cui estendere i diritti connessi all'impresa familiare, piuttosto che riconoscerne solo alcuni.

La Suprema Corte con la sentenza che si annota recepisce i dettami della Consulta (sentenza n. 148 del 2024), che  ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare - oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo - anche il “convivente di fatto” e come impresa familiare quella cui collabora anche il “convivente di fatto”. Inoltre, in via consequenziale, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c. anche in quanto riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta, comportando un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.

Per effetto dell'intervento giurisprudenziale, quindi, viene finalmente riconosciuta l'estensione dell'integrale disciplina prevista per dall'art. 230-bis c.c. per il coniuge e i familiari anche al convivente di fatto, che collabora in modo stabile, di guisa che egli diviene titolare sia dei diritti patrimoniali che di quelli amministrativo-gestori previsti dalla norma.

In entrambi i casi si tratta di aver riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Pur permanendo delle differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, diritti fondamentali, come quello al lavoro e alla giusta retribuzione, devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni.

La giurisprudenza costituzionale e di legittimità, sul solco di una prassi che oramai è sempre più frequente, ancora una volta svolge un ruolo essenziale nel garantire l'applicazione e l'interpretazione del diritto, colmando le lacune legislative e adattando la legge al caso concreto, nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico.

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