Ma davvero si può impedire il colloquio con il difensore per evitare una comune strategia difensiva?

17 Luglio 2025

 La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile, perché manifestamente infondato, il motivo di ricorso basato sull'illegittimità del provvedimento del P.M. che, in vista dell'interrogatorio di garanzia, aveva differito il colloquio dell'indagato detenuto con il suo difensore.

L'illegittimo divieto di colloquio col difensore è causa di nullità

Riconosce la Corte che l'interdizione dei colloqui della persona sottoposta a custodia cautelare con il difensore, «se illegittimamente disposta dal pubblico ministero, determina una violazione del diritto all'assistenza difensiva e, quindi, una nullità a regime intermedio suscettibile di estendersi agli atti successivi che ne dipendono e, in particolare, all'interrogatorio di garanzia, a norma dell'art. 185, comma 1, c.p.p.».

Per quanto possa discutersi se tra il divieto di colloquio con il difensore e il successivo interrogatorio di garanzia sussista un rapporto di causalità, l'interpretazione proposta sembra comunque privilegiare le ragioni della difesa su quelle investigative.

Il divieto di colloquio basato sul timore di una comune strategia difensiva

La sentenza osserva che il tribunale del riesame, ha puntualmente indicato le ragioni che avevano giustificato il differimento dei colloqui fra l'indagato e il suo difensore, ravvisate nella «ragionevole esigenza di evitare che i diversi indiziati assoggettati alla misura potessero elaborare una comune strategia difensiva, in tal modo ostacolando la prosecuzione delle indagini ancora in corso con riguardo peraltro a un'associazione di stampo mafioso».  

La Corte condivide in pieno tale affermazione, che, peraltro, trova conferma nella costante giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. III, 8 marzo 2018, n. 30196, Guglielmino, Rv. 273756; Cass. pen., sez. II, 30 settembre 2014, n. 44902, Cosentino, Rv. 260875; Cass. pen., sez. VI, 21 ottobre 2009, n. 2941/2010, Siracusa, Rv. 245806). La giurisprudenza, infatti, ha da tempo ritenuto legittimo impedire l'immediato colloquio tra imputato e difensore allo scopo di evitare inquinamenti dovuti all'impostazione di preordinate e comuni tesi difensive di comodo (Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 2003, Vinci, in CED  226223; Cass. pen., sez. I, 25 luglio 1996, Caforio, ivi, 205349; Cass., sez. V, 21 giugno 1993, Zambrotti, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 716).

Il differimento del colloquio è stato ritenuto costituzionalmente legittimo (in rapporto agli artt. 3,24 e 111 Cost.) atteso il limitato sacrificio del diritto dell'imputato rispetto al superiore interesse di giustizia, nonché conforme alla C.E.D.U. (Cass. pen., sez. IV, 1° marzo 2006, n. 15113).

Il decreto del G.i.p. non è autonomamente impugnabile, né può essere oggetto di riesame, non avendo la forma né il contenuto di un provvedimento applicativo di una misura coercitiva, ma può costituire oggetto di sindacato incidentale nell'ulteriore corso del procedimento, qualora abbia determinato una violazione del diritto di difesa, se non eliminata con l'espletamento di un rituale colloquio, comporta la nullità dell'interrogatorio dell'indagato, a norma dell'art. 178 lett. c) c.p.p. (Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2009, Motta, in Giust. pen., 2009, III, c, 706). Si è pure affermato in giurisprudenza che il G.i.p. non può differire il colloquio del difensore con il suo assistito senza previa richiesta del pubblico ministero (Cass., sez. VI, 17 settembre 2009, p.m. in proc. Di Nardo).

Nel previgente codice, la Corte costituzionale si spinse ad affermare che l'art. 135 c.p.p. 1930, che subordinava la concessione del colloquio col difensore al previo espletamento dell'interrogatorio, non violava l'art. 24, comma 2, Cost., motivando che «la norma costituzionale garantisce, bensì, la difesa in ogni stato e grado del procedimento, ma non postula la presenza del difensore nella continuità dell'iter processuale (vedi sentenza n. 190 del 1970 di questa Corte). Né può parlarsi di limitazione al diritto di difesa allorquando l'interrogatorio avvenga prima del colloquio col difensore: ché, anzi, la carcerazione preventiva, prevista dalla Costituzione (artt. 13, ultimo comma, e 68, secondo comma), ha, evidentemente, tra le sue finalità, quella di evitare che l'inquisito o l'imputato distorca i fatti o inquini le prove, cioè, in definitiva, cerchi di eludere l'applicazione della proporzionata sanzione punitiva» (C. cost., 17 febbraio 1972, n. 26).  Nel sistema inquisitorio allora vigente era logico che la Consulta ritenesse censurabile che il difensore potesse consigliare al detenuto di rendere una certa versione dei fatti a lui favorevole.

Ma oggi, dopo l'introduzione del giusto processo, né l'art. 24, comma 2, Cost, né l'art. 111 Cost. consentono l'annientamento del diritto di difesa, com'è il divieto di colloquio con il difensore prima dell'interrogatorio di garanzia, per il timore delle dichiarazioni dell'indagato.

Osservazioni critiche

La sentenza ritiene che il divieto di colloquio con il difensore avrebbe un «contenuto ampiamente discrezionale della valutazione richiesta». Di conseguenza se tale valutazione, posta a base del divieto, non sia «manifestamente illogica ovvero in aperto contrasto con la pertinente normativa», non è sindacabile mediante ricorso per cassazione.

In realtà, l'art. 104 c.p.p. stabilisce che l'imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore “fin dall'inizio dell'esecuzione della misura” (comma 1), mentre la persona arrestata in flagranza o fermata a norma dell'art. 384 c.p.p. ha “diritto di conferire con il difensore subito dopo l'arresto o il fermo” (comma 2).

Nel corso delle indagini preliminari per i delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p., «quando sussistono specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», il giudice su richiesta del pubblico ministero può, con decreto motivato, «dilazionare, per un tempo non superiore a cinque giorni, l'esercizio del diritto di conferire con il difensore» (comma 3 c.p.p.).

Nell'ipotesi di arresto o di fermo, il potere previsto dal comma 3 è esercitato dal pubblico ministero fino al momento in cui l'arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice (comma 4).

Nel caso di specie, era stata emessa un'ordinanza cautelare per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., reato che quindi consentiva l'imposizione del divieto di colloquio, ma solo «quando sussistono specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», che non possono essere evidentemente ricollegabili alle dichiarazioni che l'indagato può decidere se rendere, o non rendere o rendere con il contenuto più confacente al diritto di difesa. Soprattutto, tale inibizione non compete al pubblico ministero, ma al giudice per le indagini preliminari, che, «su richiesta del pubblico ministero», può, con decreto motivato, «dilazionare, per un tempo non superiore a cinque giorni, l'esercizio del diritto di conferire con il difensore».

La Corte ha quindi commesso un duplice errore: ha riconosciuto la competenza al differimento del colloquio al pubblico ministero, anziché al giudice per le indagini preliminari, e ha ritenuto che adottare da parte degli indagati una comune strategia difensiva sia una specifica ed eccezionale “ragione di cautela”.

In realtà, le uniche ragioni che consentono la limitazione del diritto di difesa, precludendo il colloquio con il difensore, sono le “specifiche ed eccezionali ragioni di cautela”, che non possono essere che quelle che il legislatore ha posto a base delle, ben più gravi, misure coercitive, e cioè il pericolo di fuga, di inquinamento o di commissione di gravi reati. E il pericolo di inquinamento non può derivare dalle dichiarazioni che l'indagato decide di rendere, a sua difesa, in sede di interrogatorio, tanto meno nell'interrogatorio di garanzia che, a differenza dell'interrogatorio investigativo, è posto a tutela del suo diritto alla libertà personale.

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