Reddito di cittadinanza: è rilevante l'attività compiuta dall'ente erogatore ai fini della qualificazione giuridica del reato?
23 Luglio 2025
Massima Integra il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all'art. 640-bis c.p., e non quello di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all'art. 316-ter c.p., l'omessa indicazione di informazioni contenute nell'autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza, incidendo in tal modo fraudolentemente sull'attività valutativa e non meramente ricognitiva dell'ente erogatore. Il caso Con sentenza del 26 settembre 2024 la Corte d'appello di Palermo confermava la decisione del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Palermo, il quale aveva condannato entrambi gli imputati per il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e solo uno di loro anche per il reato di omessa indicazione di informazioni rilevanti nella domanda finalizzata all'ottenimento del reddito di cittadinanza ex art. 7, comma 1, d.l. n. 4/2019. I due reati di truffa rispettivamente ascritti ai ricorrenti erano consistiti nell'avere indebitamente percepito il reddito di cittadinanza senza dichiarare di essere stati condannati per dei reati ostativi. Avverso tale Sentenza entrambi gli imputati proponevano ricorso per cassazione adducendo tre motivi. Esaminando esclusivamente quelli che in questa sede interessano, entrambi i ricorrenti, con il primo motivo deducevano violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità, in quanto la Corte d'appello non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che il ricorrente aveva presentato la domanda per l'ottenimento del reddito di cittadinanza quando ancora la normativa non prevedeva tra le cause ostative l'aver riportato una condanna definitiva nel decennio precedente per taluno dei delitti indicati all'art. 7, comma 3, d.l. n. 4/2019. Solo pochi giorni dopo rispetto alla presentazione della domanda, con la legge n. 26/2019 di conversione del suddetto d.l., era stata introdotta tale condizione. Secondo il ricorrente, poi, la Corte d'appello non aveva considerato che l'ente pubblico era tutelato dalla possibilità di revocare il beneficio concesso, motivo per il quale il ricorrente non avrebbe avuto l'obbligo di comunicare di aver subito una condanna definitiva per uno dei reati previsti dalla normativa. In ogni caso, poiché la condotta omissiva posta in essere dai ricorrenti non costituiva artifizio o raggiro, non poteva integrare il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Con il secondo motivo deducevano entrambi violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'art. 640-bis c.p., anziché quale indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316-ter, comma 2 c.p. in quanto il ricorrente si sarebbe limitato in buona fede a compilare un modulo prestampato non compiendo alcuna condotta volta ad indurre in errore l'INPS. Pertanto, tale condotta, secondo le difese, avrebbe costituito illecito amministrativo poiché i ricorrenti avevano indebitamente percepito una somma inferiore al limite minimo previsto dalla norma ai fini della configurazione dell'ipotesi di reato. Il secondo ricorrente, in aggiunta, deduceva che la domanda da lui presentata era priva di sottoscrizione, e, pertanto, non poteva rilevarsene la falsità. La Suprema Corte con la sentenza di cui si tratta, ha rigettato i ricorsi e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. La questione Le questioni presa in esame è la seguente: per individuare correttamente la fattispecie di reato, ovvero se si configura il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche previsto dall'art. 640-bis o quello di indebita percezione di erogazioni pubbliche previsto dall'art. 316-ter, comma 2 c.p., è rilevante stabilire se l'ente erogatore compie un'attività valutativa o meramente ricognitiva? Nel caso sia rilevante, quale tipo di attività svolge l'ente erogatore del reddito di cittadinanza? Le soluzioni giuridiche La sentenza in commento, nel dichiarare infondati i ricorsi, ha offerto la seguente interpretazione. In merito al primo motivo di ricorso, la Suprema Corte ha primariamente sottolineato che non era in discussione il fatto che i ricorrenti avessero presentato la domanda per ottenere il reddito di cittadinanza in data antecedente rispetto a quella nella quale era stata introdotta la norma che prevedeva quale condizione ostativa, il non aver riportato condanne penali per taluni reati nei dieci anni precedenti, ma tenuto conto dei loro carichi penali definitivi, essi non avrebbero potuto continuare a beneficiarne, poiché il possesso dei requisiti doveva essere mantenuto per tutta la durata del contributo, a pena di revoca; con la conseguenza che i ricorrenti, per poter continuare a beneficiare del reddito di cittadinanza, avrebbero dovuto comunicare la sussistenza di precedenti penali ostativi, e ciò si deduce anche dalla norma transitoria introdotta dalla legge n. 26 del 28 marzo 2019, di conversione del d.l. n. 4/2019, la quale, all'art. 13, comma 1-bis, stabiliva che «sono fatte salve le richieste del Rdc presentate sulla base della disciplina vigente prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. I benefici riconosciuti sulla base delle predette richieste sono erogati per un periodo non superiore a sei mesi pur in assenza dell'eventuale ulteriore certificazione, documentazione o dichiarazione sul possesso dei requisiti, richiesta in forza delle disposizioni introdotte dalla legge di conversione del presente decreto ai fini dell'accesso al beneficio». La Corte osserva che si è trattato, dunque, di un comportamento omissivo inerente ad un dato decisivo per l'ottenimento (rectius, il mantenimento) del contributo, il quale, se rivelato, ne avrebbe comportato la revoca; da ciò, la sua antigiuridicità. Prima di passare ad esaminare la questione del tipo di reato configurabile, la stessa Corte precisa, in merito alla sussistenza del dolo, messo in discussione dai ricorrenti, che la giurisprudenza di legittimità si è già espressa recentemente affermando che «in tema di false dichiarazioni finalizzate all'ottenimento del reddito di cittadinanza, l'ignoranza o l'errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l'erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall'art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 c.p., in quanto l'anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all'art. 7 del citato d.l.» (Cass. pen., sez. II, 7 maggio 2024, n. 23265 - In motivazione, la Corte ha aggiunto che non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell'ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l'oscurità del precetto). La sentenza in commento osserva che tale principio, per identità di ratio, deve essere applicato non solo alla conoscenza (o, di converso, ignoranza), da parte del richiedente il beneficio, dei requisiti per l'accesso ad esso, ma anche per quanto attiene al mantenimento dei requisiti previsti dalla legge durante il periodo di percezione del beneficio. In merito al secondo motivo, che attiene alla qualificazione giuridica del fatto o come reato previsto dall'art. 640-bis c.p. o quale illecito amministrativo previsto dall'art. 316-ter, comma 2 c.p., la Corte ha ribadito preliminarmente un principio ormai pacifico secondo il quale “ il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni si differenzia da quello di truffa aggravata, finalizzata al conseguimento delle stesse, per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, dell'induzione in errore dell'ente erogatore, essendo quest'ultimo chiamato solo a prendere atto dell'esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamento (Cass. pen., sez. F, n. 44878/2019; Cass. pen., sez. VI, n. 51962/2018; Cass. pen., sez. II, n. 23163/2016). Successivamente la Corte è passata ad esaminare alcuni principi cardine espressi, sul punto, dalle Sezioni Unite, tra i quali il fatto che la verifica circa la distinzione tra i due reati debba avvenire caso per caso e che, come previsto anche dalla clausola di riserva contenuta nella norma, l'applicazione della fattispecie prevista dall'art. 316-ter c.p. deve avere carattere residuale rispetto al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p. Inoltre, le stesse Sezioni Unite (Sent. n. 16568/2007) hanno precisato che l'erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale dichiarazione del richiedente e che l'effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell'erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto. Tali principi sono stati ribaditi anche successivamente da SS.UU. n. 7537/2011. Su tali presupposti, la sentenza in commento ha ritenuto che la Corte di Appello avesse correttamente qualificato in truffa aggravata la fattispecie in esame, in quanto, la procedura che viene seguita per l'erogazione del reddito di cittadinanza è sottoposta a controlli preventivi da parte della pubblica amministrazione ai fini dell'erogazione del beneficio. Infatti, la domanda viene comunicata all'INPS entro dieci giorni lavorativi dalla sua presentazione; nei cinque giorni successivi, l'INPS verifica il possesso dei requisiti per l'accesso al beneficio sulla base delle informazioni disponibili nei propri archivi e in quelli delle amministrazioni titolari dei dati e i comuni accertano il possesso dei requisiti di residenza e soggiorno. Sulla base di tali presupposti, quindi, la Corte ha ritenuto che la sussunzione di una condotta omissiva antidoverosa nell'ambito dell'una o dell'altra fattispecie incriminatrice – e, cioè, se tale tipo di condotta abbia costituito o meno un artificio o raggiro – dipenderà da un accertamento caso per caso in relazione alla struttura del singolo procedimento amministrativo nel quale si inserisce e ha affermato che la condotta omissiva antidoverosa posta in essere dai ricorrenti sia stata correttamente qualificata come truffa aggravata ex art. 640-bis c.p., poiché la pubblica amministrazione opera dei controlli preventivi ai fini della erogazione del beneficio, con la conseguenza che la condotta da loro posta in essere ha integrato il raggiro, elemento costitutivo di questa fattispecie. Osservazioni Con detta sentenza, la Suprema Corte ha preso in esame le diverse pronunce espresse negli anni dalle Sezioni Unite con le quali sono stati indicati i principi che devono essere tenuti in considerazione al fine di individuare quale fattispecie di reato, tra quella di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p. e quella di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316-ter c.p., debba essere contestata alla luce delle condotte poste in essere dal soggetto richiedente erogazioni pubbliche a seguito di rilascio di dichiarazioni mendaci o di omesse dichiarazioni necessarie a tal fine. In un primo momento, con la sentenza n. 16568/2007 le Sezioni Unite hanno risolto un duplice contrasto relativo sia alla riconducibilità o meno delle sovvenzioni pubbliche a carattere assistenziale o previdenziale alle previsioni degli artt. 316-tere 640-bis c.p., sia alle differenze tra gli elementi costitutivi di tali delitti. Secondo una parte della giurisprudenza «non è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p., né quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p., nella condotta dell'agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l'erogazione dell'indennità da "reddito minimo di inserimento", in quanto si tratta di un tipo di contributo che rientra nell'ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, che come tali non sono prese in considerazione dalle norme incriminatrici sopra citate, che si riferiscono esclusivamente ai casi di illecita o fraudolenta percezione di contributi pubblici di carattere economico - finanziario a sostegno dell'economia e delle attività produttive» (Cass. pen., sez. VI, n. 231865/2005, n. 233852/2006 e n. 234587/2006). Per l'opposto orientamento giurisprudenziale, invece, «è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p. nella condotta dell'agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l'erogazione di indennità di natura assistenziale» (Cass., sez. VI, n. 234873/2006 e n. 228191/2003). Quanto ai rapporti tra il reato di truffa aggravata e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, le Sezioni Unite hanno posto anzitutto in rilievo che l'art. 640-bis c.p. prevede una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all'art. 640, comma 2, n. 1 c.p.; tale circostanza si applica a qualsiasi truffa commessa «a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare». La circostanza prevista dall'art. 640-bis c.p. si applica, invece, solo quando la truffa abbia comportato l'indebita erogazione di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno accolto il secondo orientamento, optando per la soluzione di tenere fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa e di ricondurre alla fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p. le condotte alle quali non consegua un'induzione in errore o un danno per l'ente erogatore. In conclusione, le Sezioni Unite enunciavano il seguente principio di diritto: «I delitti di cui agli art. 316-tere 640-bis c.p., configurabili entrambi, diversamente dal delitto previsto dall'art. 316-bis c.p., anche nel caso di indebita erogazione di contributi di natura assistenziale, sono in rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Sicché il residuale e meno grave delitto di cui all'art. 316-ter, che diversamente da quello di cui all'art. 640-bis c.p. assorbe anche i delitti di falso ideologico previsto dall'art. 483 c.p. e di uso di atto falso previsto dall'art. 489 c.p., è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa». Com'è evidente, quindi, con tale Sentenza le Sezioni Unite hanno ricondotto l'ambito di operatività dell'art. 316-ter c.p. a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale. Particolarmente rilevante è il punto della motivazione in cui si osserva che «in molti casi, invero, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l'effettivo accertamento da parte dell'erogatore dei presupposti del singolo contributo. Ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche. Sicché in questi casi, l'erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale dichiarazione del richiedente. D'altro canto, l'effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell'erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto. E quindi l'accertamento dell'esistenza di un'induzione in errore, quale elemento costitutivo del delitto di truffa, ovvero la sua mancanza, con la conseguente configurazione del delitto previsto dall'art. 316-ter c.p., è questione di fatto, che risulta riservata al giudice del merito». Pertanto, si può affermare che il reato di cui all'art. 316-ter c.p. ricorre quando l'erogazione del contributo non presupponga l'effettivo accertamento, da parte dell'erogatore, dei presupposti necessari per la concessione del contributo richiesto. Sulla base di tali presupposti, la Corte ha stabilito che vanno ricondotte alla fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p. e non a quella di truffa aggravata ex art. 640-bis c.p., le condotte alle quali non consegua un'induzione in errore per l'ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto. Sul punto, si rileva che la Corte costituzionale con l'ordinanza n. 95 del 2004 ha affermato che appare inequivoco, anche alla luce della clausola di salvezza contenuta nell'art. 316-ter c.p., il carattere sussidiario e residuale di quest'ultima fattispecie rispetto all'art. 640-bis c.p. a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire unicamente fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda, assicurando una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella offerta agli stessi interessi tutelati dall'altra disposizione, "coprendo" in particolare gli eventuali "margini di scostamento" - per difetto - del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode, spettando poi al compito interpretativo del giudice ordinario l'accertamento, in concreto, se una determinata condotta, sia sussumibile nell'una piuttosto che nell'altra fattispecie, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma impugnata. La successiva Sentenza delle Sezioni Unite n. 7537/2011 ha risposto alla questione di diritto che veniva posta, ovvero: «quale sia la corretta qualificazione giuridica del fatto criminoso consistente nella falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire, a termini di legge, delle prestazioni del servizio sanitario pubblico senza il versamento della quota di partecipazione alla spesa sanitaria», risolvendo il contrasto nel senso che «l'art. 316-ter c.p. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate, oltre che dal silenzio antidoveroso, da false dichiarazioni o dall'uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l'erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale attestazione del richiedente»; ma soprattutto la stessa sentenza ha ribadito quanto argomentato dalle precedenti, cioè che la sussistenza della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall'altro, deve formare oggetto di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto. La Suprema Corte, nella sentenza in commento, per risolvere la questione, ha, infine, citato la ricostruzione offerta dalla Sentenza delle Sezioni Unite n. 49686/2023 della normativa inerente al reddito di cittadinanza, che conclude nel senso che «la domanda di Rdc è sottoposta ad una (sia pur minima) attività istruttoria finalizzata alla verifica del possesso dei requisiti per l'accesso al beneficio. È interessante, da questo punto di vista, notare come il legislatore imponga all'INPS la verifica del “possesso dei requisiti per l'accesso del Rdc” (art. 5, comma 3, dl. n. 4 del 2019) non di quelli dichiarati nella domanda o nella DSU cui la stessa faccia eventualmente riferimento. Pertanto, in questo caso, poiché vi sono controlli preventivi da parte della pubblica amministrazione ai fini dell'erogazione del beneficio, la condotta non conforme alla norma posta in essere dal soggetto, deve senza dubbio qualificarsi come truffa aggravata ex art. 640-bis c.p.». Sulla stessa linea interpretativa si pone anche quella pronuncia della Suprema Corte, la quale ha ritenuto che integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche e non quello di truffa aggravata di cui all'art. 640-bis c.p., il conseguimento del credito di imposta relativo ai c.d. "bonus" edilizi, ottenuto sulla base di un'autodichiarazione mendace sull'esecuzione dei lavori, difettando della truffa sia l'elemento decettivo, atteso che il controllo dell'Agenzia delle Entrate è successivo all'erogazione, sia il danno patrimoniale per lo Stato, che si realizza solo quando i crediti ceduti vengono materialmente riscossi o compensati ed è, dunque, evento successivo ed eventuale rispetto all'indebita acquisizione della agevolazione fiscale (Cass. pen., sez. VI, n. 46354/2024); nella motivazione si precisa che L'Agenzia dell'Entrate si limita a prendere atto della comunicazione del contribuente sulla base delle attestazioni della congruità delle spese sostenute e della conformità alle tipologie di interventi edilizi agevolati, salvo riservarsi di sospendere la procedura nei casi che presentino un rischio evidente di anomalie; si tratta, però, di una procedura di controllo preventivo di tipo cautelativo, solo eventuale, che non si sostituisce a quella ordinaria di controllo che opera solo in una fase successiva alla cessione e monetizzazione del credito di imposta. La procedura di controllo preventivo di carattere eventuale che caratterizza la disciplina della concessione dell'agevolazione fiscale si distingue da quella attività di verifica preliminare, quale condizione imprescindibile generalizzata per l'erogazione del contributo pubblico, che rappresenta il presupposto della truffa, sotto il profilo dell'elemento dell'induzione in errore. Da ultimo, deve essere tenuta presente anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 11969 del 2025, la quale ritiene che integri il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, previsto dall'art. 316-ter c.p., l'indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità per effetto dell'omessa comunicazione dell'esistenza della condizione ostativa prevista dall'art. 8, comma 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal primo gennaio 2017, dall'art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012, n. 92), senza che assumano rilievo, a tal fine, le modalità di ottenimento del vantaggio economico derivante dall'inadempimento dell'obbligazione contributiva. Dalla motivazione di tale sentenza si evince che vengono confermati tutti i principi di diritti elaborati dalle precedenti pronunce delle stesse Sezioni Unite sopra citate e, con riferimento al caso concreto, si osserva che non sono emerse condotte delittuose connotate da artifici e raggiri, ma è stata accertata la carenza dei requisiti soggettivi previsti dalla legge per l'accesso al beneficio della riduzione dei contributi previdenziali, cui avrebbe dovuto far seguito il diniego delle richieste agevolazioni o l'eventuale revoca di quelle già concesse. Le domande di accesso ai contributi, in particolare, non si presentavano ingannevoli, dal momento che non dichiaravano falsamente l'insussistenza delle condizioni ostative, ma si limitavano a non indicare la circostanza dell'effettivo rispetto dei requisiti previsti dall'art. 8 legge cit.; pertanto, le agevolazioni a vario titolo previste dalla legge n. 223/1991 sono state indebitamente conseguite dai ricorrenti a causa di una iniziale condotta omissiva di silenzio antidoveroso, correttamente ritenuta sussumibile nello schema descrittivo del reato presupposto previsto dall'art. 316-ter c.p. in quanto non accompagnata da un ulteriore comportamento ingannatorio diretto ad indurre in errore il soggetto passivo. Il complesso giurisprudenziale come sopra ricostruito conferma la correttezza dei principi giuridici evocati dalla sentenza in commento, che, però, suscita perplessità per quanto concerne, poi, l'applicazione pratica dei principi stessi. Infatti, tale sentenza correttamente afferma che la procedura per la concessione del reddito di cittadinanza prevede verifiche preventive in ordine alla sussistenza dei requisiti di legge e che, pertanto, la fattispecie astratta, in caso di condotta decettiva del beneficiario, consente la configurabilità del reato di cui all'art. 640-bis c.p., ma la stessa sentenza perde di vista la particolarità del caso concreto, in cui il beneficiario, al momento della concessione del reddito di cittadinanza aveva i requisiti di legge, che, poi, vengono meno per effetto di una modifica legislativa che ha ampliato il catalogo dei reati la cui condanna, nel decennio antecedente, è ostativa alla concessione del beneficio medesimo. Il beneficiario, quindi, ha posto in essere una semplice condotta omissiva di silenzio antidoveroso (v. sentenza S.U. n. 11969 del 2025 sopra citata), rispetto alla quale non è stata prevista alcuna verifica preventiva, anzi l'art. 13, comma 1-bis, d.l. n. 4/2019, così come modificato dalla legge di conversione n. 26 del 28 marzo 2019, il quale stabilisce che «sono fatte salve le richieste del Rdc presentate sulla base della disciplina vigente prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. I benefici riconosciuti sulla base delle predette richieste sono erogati per un periodo non superiore a sei mesi pur in assenza dell'eventuale ulteriore certificazione, documentazione o dichiarazione sul possesso dei requisiti, richiesta in forza delle disposizioni introdotte dalla legge di conversione del presente decreto ai fini dell'accesso al beneficio» sembra proprio prevedere una semplice proroga automatica senza alcuna verifica preventiva che consenta di inquadrare quella condotta antidoverosa nella fattispecie di cui all'art. 640-bis c.p. |