Nessuna responsabilità per l’Ente se il reato presupposto è commesso da un soggetto legato solo da un rapporto di consulenza
24 Luglio 2025
Massima Affinché si configuri la responsabilità amministrativa dell'ente, è necessario che il reato presupposto sia stato commesso, nell'interesse o a vantaggio dell'ente, da soggetti che rivestano una posizione apicale all'interno della società oppure da persone sottoposte alla direzione o vigilanza dei vertici aziendali. Ne consegue che un mero rapporto di consulenza tra l'autore del reato e la società non è di per sé sufficiente a fondare la responsabilità della persona giuridica: occorre accertare la specifica relazione intercorrente tra il reo e l'ente, e, in particolare, la qualifica ricoperta all'interno della struttura societaria (ossia se si tratti di soggetto apicale o sottoposto). Il caso La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un ricorso presentato da una società sanzionata a norma del d.lgs. n. 231/2001 per furto di carburante presso altra società e sottrazione dello stesso al pagamento delle accise, commessi da una persona “intranea” all'ente. La società ha articolato quattro motivi di impugnazione, tre dei quali sono stati giudicati inammissibili o infondati. La Cassazione ha, invece, accolto il secondo motivo relativo alla qualifica soggettiva dell'imputato all'interno dell'ente: è emerso, infatti, che egli non risultava inserito nell'organigramma societario e non esercitava, neppure di fatto, poteri gestionali sull'Ente. In particolare, la Corte territoriale avrebbe desunto la specifica qualifica soggettiva dell'imputato all'interno della società dalla presenza di una procura speciale, di cui, peraltro, non è stato specificato il contenuto. Inoltre, la Società ha contestato la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici di merito avrebbero attribuito il reato all'ente, fondando il proprio «convincimento sul concetto di colpa della persona fisica» e su quello di «omissione del modello d'organizzazione e gestione», in tal modo «confondendo il quoziente soggettivo della persona fisica con la colpevolezza di organizzazione dell'ente». La questione Per quale motivo è necessario qualificare la figura del consulente come soggetto apicale o sottoposto ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, ai fini dell'imputazione della responsabilità all'ente? Le soluzioni giuridiche Per ricostruire l'iter logico seguito nella presente pronuncia, la Quinta Sezione ha richiamato alcune disposizioni normative in materia di responsabilità amministrativa degli enti, nonché diversi precedenti giurisprudenziali rilevanti. Nel delineare i criteri di attribuzione della responsabilità amministrativa da reato degli enti, l'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 prevede che l'ente è responsabile per i reati presupposto commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da due categorie di soggetti: gli “apicali” (persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale) e i soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno degli apicali. L'ente può essere ritenuto responsabile per reati commessi non solo dagli apicali c.d. “di diritto”, ma anche dai c.d. apicali “di fatto” ovvero dalle «persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell'ente». L'art. 5 d.lgs. richiede, dunque, la presenza di un rapporto qualificato tra l'autore del reato presupposto e l'ente. Come ribadito in più occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità, «la struttura dell'illecito addebitato all'ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell'organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo» (Cass. pen., sez. IV, 10 maggio 2022 n. 18413 del 15/02/2022; Cass. pen., 8 gennaio 2021, n. 32899). Tuttavia, l'accertamento dei criteri oggettivi di imputazione della responsabilità non è di per sé sufficiente per fondare un rimprovero nei confronti dell'ente: è necessario, infatti, verificare anche, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza della cosiddetta “colpa di organizzazione”. Tale deficit organizzativo consiste sostanzialmente nella mancata adozione, da parte dell'ente, di un insieme di misure preventive idonee ad evitare la commissione di reati. Dunque, la condotta dell'agente deve derivare non tanto da un atteggiamento soggettivo della persona fisica, quanto piuttosto da un assetto organizzativo carente o “negligente” dell'impresa, la quale ha omesso di predisporre le misure organizzative e gestionali necessarie a prevenire la commissione di uno dei reati contemplati nel catalogo del d.lgs. 231/2001. La Cassazione, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, ha poi precisato che «la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente al d.lgs. n. 231/2001, artt. 6 e 7, e al d.lgs. n. 81/2008, art. 30, non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall'accusa». In altri termini, la semplice mancanza di un modello organizzativo non legittima, da sola, una pronuncia di responsabilità a carico dell'ente. Occorre dimostrare in modo puntuale l'esistenza di un'effettiva carenza organizzativa, che non può essere confusa con la “colpevolezza” della persona fisica a cui è addebitato l'illecito penale. Tuttavia, la colpa di organizzazione si articola in modo differente in base alla categoria soggettiva di appartenenza dell'autore del reato, e cioè in virtù del tipo di legame funzionale con l'ente. In particolare, qualora l'illecito venga commesso da un soggetto in posizione apicale, l'ente è ritenuto responsabile, salvo che non riesca a dimostrare la sussistenza congiunta dei requisiti indicati all'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 231/2001. In tal caso, l'ente deve provare di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, nonché di aver esercitato un'efficace attività di vigilanza sull'attuazione e sull'osservanza dei suddetti modelli. L'art. 6 configura, quindi, una inversione dell'onere della prova, in quanto spetta all'ente dimostrare di aver rispettato tutte le condizioni previste dalla norma per escludere la propria responsabilità. Orbene, la Quinta Sezione, preso atto dell'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato in materia, ha ribadito la rilevanza del rapporto esistente tra l'autore del reato e l'ente, «in mancanza del quale il reato non può essere ricondotto neppure sotto il profilo soggettivo all'ente, e della riconduzione di tale rapporto alle ipotesi previste dalla lettera a) oppure a quelle previste dalla lettera b) dell'art. 5, che assume rilevanza anche al fine della ricostruzione della “colpa di organizzazione». Pertanto, la mancata dimostrazione della posizione di “apicale” o di “sottoposto” eventualmente rivestita dal consulente, e, quindi, dell'esistenza di un rapporto qualificato con la società, solleva non pochi dubbi, in quanto impedisce di individuare con certezza il “regime probatorio” applicabile: se quello previsto dall'art. 6 d.lgs. n. 231/2001 oppure quello indicato all'art. 7 del medesimo decreto. Osservazioni La Corte di cassazione, nella pronuncia in esame, ha rimarcato un aspetto fondamentale in materia di responsabilità amministrativa degli enti ovvero, affinché un reato possa essere imputato a un ente, non è sufficiente che l'autore della condotta illecita intrattenga un generico legame con l'organizzazione. È, invece, necessario che sussista un rapporto funzionale, ossia un collegamento concreto tra l'azione del soggetto e l'attività dell'ente, tale da rendere la condotta espressiva di una disfunzione dell'assetto organizzativo. La riconduzione del soggetto attivo del reato a una delle due categorie individuate dall'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 - soggetti in posizione apicale (lett. a) oppure sottoposti all'altrui direzione o vigilanza (lett. b) - assume un ruolo centrale poiché consente di individuare anche le regole probatorie applicabili al caso concreto (artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001). A tal riguardo si è recentemente espressa Confindustria che, nel nuovo Position Paper, ha predisposto alcuni correttivi sul piano delle tutele processuali, alla luce della natura sostanzialmente penale della responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001. Con specifico riferimento all'onere della prova, la Confederazione ha evidenziato come la posizione processuale dell'ente indagato risulti “eccessivamente gravosa” nei casi in cui l'illecito sia stato commesso da soggetti apicali. In tali circostanze, infatti, si verificherebbe un'inversione dei principi di presunzione di innocenza che costituiscono il fondamento dell'ordinamento penale. Di conseguenza, Confindustria suggerisce di armonizzare tale regime probatorio a quello previsto per i reati commessi da soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, attribuendo all'accusa l'onere di provare la sussistenza dei presupposti della responsabilità dell'ente, in coerenza con l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità. La stessa Corte di cassazione ha in più occasioni chiarito che la colpa di organizzazione rappresenta il fondamento della responsabilità dell'ente. Essa, difatti, costituisce un elemento costitutivo dell'illecito, la cui prova dovrebbe gravare sull'accusa, indipendentemente dalla posizione gerarchica dell'autore del reato presupposto. |