Codice di Procedura Civile art. 91 - Condanna alle spese.

Mauro Di Marzio

Condanna alle spese.

[I]. Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui [277, 279 2 n. 1,2,3,5], condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte [385, 75 att.] e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92  1.

[II]. Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine alla stessa; quelle della notificazione della sentenza [326 1], del titolo esecutivo [474] e del precetto [480] sono liquidate dall'ufficiale giudiziario con nota in margine all'originale e alla copia notificata.

[III]. I reclami contro le liquidazioni di cui al comma precedente sono decisi con le forme previste negli articoli 287 e 288 dal capo dell'ufficio a cui appartiene il cancelliere o l'ufficiale giudiziario.

[IV]. Nelle cause previste dall'articolo 82, primo comma, le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda 2.

[1]  Comma così modificato dall'art. 45, comma 10, della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Il testo precedente recitava: «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Eguale provvedimento emette nella sua sentenza il giudice che regola la competenza». In tema di equa riparazione, v. art. 2, comma 2-quinquies lett. b), l. 24 marzo 2001, n. 89, ai sensi del quale, nel caso di cui al presente periodo, non è riconosciuto alcun indennizzo.

[2] Comma inserito dall'art. 13 del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, conv., con modif., in l. 17 febbraio 2012, n. 10.

Inquadramento

Si tratta della norma fondamentale in tema di disciplina delle spese di lite, con la quale il legislatore completa il disegno altresì delineato nel precedente art. 90 e nel successivo art. 92: la parte è tenuta ad anticipare le spese di lite, ma il vincitore, in linea di principio, ripete quanto anticipato dal soccombente, salvo la ripetizione non sia esclusa per particolari ragioni.

La norma pone così, secondo un'opinione ampiamente diffusa, ma non esclusiva ed anzi discussa, il principio della soccombenza, il quale risponderebbe alla regola tradizionale victus victori  (il vitto al vincitore, ossia il vincitore si soddisfa a spese del perdente: il richiamo al principio, ad esempio, può rinvenirsi in Cass. n. 26364/2017; Cass. n. 24984/2017; Cass. n. 22983/2017). Il principio così stabilito, tuttavia, ha subito una significativa limitazione, con l'introduzione del congegno previsto dalla seconda parte del comma 1 per il caso di ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa.

Dibattuto è il rapporto intercorrente tra l'art. 91 ed il principio di lealtà e probità di cui all'art. 88, rapporto che chiama in questione la giustificazione della disciplina delle spese, che, secondo una parte della dottrina, risponde non già al principio di soccombenza, oggettivamente considerato, ma ad un giudizio correlato alla connotazione soggettiva della condotta del soccombente.

La disciplina delle spese tra principio della soccombenza e principio di causalità

Il comma 1 dell'art. 91, nello stabilire che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a sé, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa, pone, secondo un'opinione ampiamente accolta, il principio della soccombenza. Attraverso quest'ultimo il codice di rito avrebbe recepito l'idea, radicata nella tradizione ed espressa nel citato brocardo victus victori, compiutamente enunciata presso di noi dal Chiovenda, secondo cui il costo del ricorso alla giustizia civile non deve ripercuotersi in pregiudizio della parte che ha ragione, giacché, se così fosse, la parte vincitrice subirebbe una decurtazione patrimoniale non altrimenti giustificabile (Chiovenda, 1934, 495).

Sicché — non potendo ragionevolmente immaginarsi che le spese di lite possano essere rimborsate al vincitore dall'erario, se non altro per gli intollerabili effetti di incremento della litigiosità che una simile soluzione comporterebbe — nessun'altra strada è percorribile se non quella di porre le spese a carico di chi perde.

Della soccombenza la norma non dà una espressa definizione, ma essa si trae, indirettamente, dall'indicazione del provvedimento — la sentenza conclusiva del processo — contenente il provvedimento sulle spese: la soccombenza, cioè, discende dall'esito finale del processo, valutato globalmente e nella sua oggettività. Né rileva che la decisione sia di rito o di merito. La soccombenza non è correlata con il diniego, singolarmente considerato, di una o più istanze avanzate dalle parti nel corso del giudizio, bensì con il risultato finale della lite, valutato nella sua oggettività (Cass. n. 12082/1995; Cass. n. 3497/1996; Cass. n. 84/1997; Cass. n. 15787/2000; Cass. n. 11543/2001; Cass. n. 4201/2002; Cass. n. 9060/2003; Cass. n. 4778/2004; Cass. n. 406/2008). Il criterio della soccombenza, in particolare, deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con riferimento all'esito finale della lite, sicché è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano state disattese eccezioni di carattere processuale (Cass. n. 5373/2003).

La soccombenza, seguendo questa impostazione, consiste in definitiva nell'obiettiva difformità fra la pretesa della parte e la statuizione del giudice, al di fuori di ogni prospettiva sanzionatoria, la quale richiederebbe d'altronde una complessa analisi della connotazione soggettiva del comportamento delle parti la quale mal si concilierebbe con le esigenze di speditezza del giudizio civile (Cass. n. 4485/2001).

Nel discernere la nozione di soccombenza è poi non meno significativo il riferimento alla condanna del soccombente «al rimborso delle spese»: da ciò si desume parimenti che l'onere di sopportare le spese di lite possiede in generale, un carattere non già sanzionatorio, bensì indennitario-compensativo, ossia rivolto a tenere indenne la parte che, avendo sostenuto i costi del processo, sia infine risultata vincitrice. Tale la ragione per la quale in nessun caso la condanna può essere disposta a favore della parte, pur vincitrice, che sia però rimasta contumace. In questa prospettiva la soccombenza, atteso il suo connotato di oggettività, non è esclusa dalla dichiarazione di inammissibilità della domanda (Cass. n. 4442/2001), dal pagamento effettuato in corso di lite (Cass. n. 704/1983), dal riconoscimento, eventualmente parziale, dell'altrui diritto (Cass. n. 2742/1970; Cass. n. 2127/1972), dall'essersi il convenuto rimesso alla giustizia (Cass. n. 736/1973; Cass. n. 2512/1980), dall'essere stata rigettata la domanda a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della norma posta a fondamento di essa (Cass. n. 948/1990), dall'avere il debitore subito l'applicazione dello ius superveniens (Cass. n. 3001/1969; Cass. n. 1379/1971), e così via. In quest'ottica può leggersi anche l'affermazione del giudice delle leggi, che ha disatteso l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 91 laddove importa che le spese debbano gravare sulla parte e non sull'avvocato anche se la soccombenza è stata determinata elusivamente da sua negligenza (Corte cost. n. 405/2007).

Dal carattere oggettivo del principio di soccombenza e dalla natura poc'anzi indicata come indennitaria-compensativa della pronuncia sulle spese discende altresì l'obbligo del giudice di pronunciare d'ufficio indipendentemente dalla formulazione, al riguardo, di un'apposita domanda: ciò salvo che la parte vittoriosa non vi abbia espressamente rinunciato, come è senz'altro in suo potere. Ma, appunto, la mancata formulazione della domanda sulle spese (così come il mancato deposito della nota spese) non implica in alcun modo una volontà di rinunciare al rimborso previsto dall'art. 91. La pronuncia sulle spese, in altri termini, si pone come conseguenza automatica della pronuncia conclusiva del giudizio alla quale essa è accessoria.

Accanto a detta impostazione, che individua nella soccombenza, intesa nella sua oggettività ed al di fuori di ogni prospettiva sanzionatoria, la chiave di volta della disciplina delle spese di lite, ve n'è tuttavia un'altra che pone in discussione il connotato oggettivo, riassunto nel principio della soccombenza, della condanna alle spese.

Secondo parte della dottrina, dunque, alla base della disciplina delle spese è il principio di causalità, il quale si identifica con il medesimo principio di causalità che, nel diritto positivo, disciplina il risarcimento del danno a qualsiasi titolo esso sia disposto (Gualandi, 254). Ad un non dissimile risultato interpretativo perviene anche un'altra dottrina la quale attribuisce a tale disciplina, all'esito di una dettagliata ricostruzione storica, una connotazione penalistico-risarcitoria: in breve la disciplina delle spese discenderebbe non già dall'esito del giudizio in sé considerato, bensì dalla condotta processuale della parte, avuto riguardo alla previsione di cui all'art. 88 (Cordopatri, 331).

La giurisprudenza si sia mossa nel corso del tempo tra l'una e l'altra impostazione con una certa disinvoltura. Così, accanto all'indirizzo prevalente poc'anzi riassunto, il quale si riassume in ciò, che il giudizio sulla soccombenza è estraneo a considerazioni non attinente all'esito oggettivo del processo, prescindendo da ogni elemento di colpevolezza e da considerazioni relative al comportamento processuale ed extraprocessuale delle parti (Cass. n. 1538/1963; Cass. n. 2280/1963; Cass. n. 2074/1964; Cass. n. 2460/1964; Cass. n. 1246/1965; Cass. n. 325/1966; Cass. n. 553/1967; Cass. n. 592/1967; Cass. n. 1154/1967; Cass. n. 3234/1968; Cass. n. 58/1969; Cass. n. 1865/1974; Cass. n. 3287/1980), v'è, in giurisprudenza, un diverso indirizzo — la cui distanza concettuale dal primo non sembra sempre esattamente percepita — secondo cui il rilievo della colpa processuale quale elemento giustificativo dell'attribuzione del carico delle spese di lite trova riscontro nell'elaborazione del principio di causalità, alla luce del quale il fondamento della condanna alle spese risiede nella antigiuridicità della condotta posta in essere da colui il quale, per l'appunto, lasciando insoddisfatta una pretesa riconosciuta fondata, o azionando una pretesa accertata come infondata, ha dato causa al processo (Cass. n. 5914/1981; Cass. n. 5539/1986; Cass. n. 7182/2000; Cass. n. 20335/2004; Cass. n. 25141/2006; Cass. n. 7307/2011). In tale ottica si trova sovente affermato che la soccombenza altro non è, in definitiva, che un indice rivelatore della causalità, ossia della condotta tale da costringere la vittima di essa a rivolgersi alla giustizia (Cass. n. 3030/1973; Cass. n. 1507/1975; Cass. n. 1808/1979; Cass. n. 697/1972).

Il principio di causalità opera, sul piano pratico, soprattutto nel caso che la causa non sia pervenuta alla decisione definitiva. Difatti, poiché l'obbligo del rimborso delle spese processuali, che si fonda sul principio di causalità, di cui la soccombenza costituisce solo un elemento rivelatore, risponde all'esigenza di ristorare la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio di attività processuale cui è stata costretta dall'iniziativa dell'avversario, ovvero del soggetto che abbia causato la lite, la parte evocata in giudizio, che abbia svolto attività processuale, ha in ogni caso diritto al rimborso delle spese per l'attività svolta nei confronti della parte che le ha causate, anche quando il procedimento non sia giunto a conclusione con sentenza, non potendosi perciò aver riguardo alla soccombenza (Cass. n. 13430/2007).

Principio della soccombenza e limiti alla distribuzione del carico delle spese

È ricorrente, in giurisprudenza, l'affermazione secondo cui il principio della soccombenza è violato solo se il giudice pone le spese a carico della parte interamente vittoriosa, potendo ogni altra statuizione trovare sostegno, a seconda dei casi, nel combinato disposto degli artt. 91 e 92 (Cass. n. 4201/2002; Cass. n. 12963/2007). Ciò vuol dire che la soccombenza parziale giustifica la condanna integrale. Rientra cioè nelle facoltà del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione la condanna alla totalità delle spese della parte parzialmente soccombente (Cass. n. 1731/1968; Cass. n. 4019/1979; Cass. n. 12295/2001).

Se è vero che l'accoglimento parziale della domanda giustifica la condanna della controparte all'integrale rimborso delle spese di lite, è a maggior ragione da ritenere che l'accoglimento della domanda, anche in misura minima, escluda la condanna del vincitore alle spese (Cass. n. 3388/1962; Cass. n. 46/1968; Cass. n. 2513/1979; Cass. n. 4012/1987; Cass. n. 2124/1994).

Il principio della soccombenza cede tuttavia dinanzi alla violazione del dovere di lealtà: soffre cioè deroga soltanto con riferimento alle spese che la stessa parte abbia causato all'altra per trasgressione del dovere di lealtà di cui all'art. 88 (Cass. n. 1743/1996). Ma tale deroga rileva unicamente nel contesto processuale, restando indifferenti quelle circostanze che, pur riconducibili ad un comportamento non commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in un contesto extraprocessuale, le quali circostanze possono, al più, giustificare una compensazione delle spese (Cass. n. 15353/2000).

Il principio della soccombenza si applica anche alle spese determinate da errores in procedendo o in iudicando commessi dal giudice. Colui che attivamente o passivamente si espone all'esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve infatti anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza: e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dall'attività della parte rimasta soccombente, ma derivanti dagli errori in iudicando o in procedendo in cui può incorrere il giudice nei vari gradi e fasi del processo, come, ad esempio, quelle che vengono sopportate da coloro che sono chiamati a partecipare al processo per ordine del giudice nel presupposto — poi rivelatosi erroneo — che la emananda sentenza possa o debba incidere sulla loro sfera giuridica: solo in tal modo, infatti, può essere efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa delle parti che vengono ingiustamente chiamate in giudizio (Cass. n. 1733/1977; Cass. n. 1550/1979; Cass. n. 9049/2006).

Il rifiuto della proposta conciliativa

La riforma del codice di rito, introdotta con la l. n. 69/2009, ha immesso nell'art. 91 una significativa innovazione con cui è stabilito che il giudice, se accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturata dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal comma 2 dell'art. 92.

La disposizione consente dunque la condanna, ipoteticamente anche integrale, quando la proposta conciliativa sia intervenuta in limine, della parte vittoriosa: in ciò la previsione si differenzia da quella del comma 1 dell'art. 92, riferita alla condanna alle spese per singoli atti. Il precetto così posto, quindi, costituisce radicale deviazione dal principio della soccombenza nei termini in precedenza riassunti ed istituisce una vera e propria sanzione processuale a carico dell'attore che, ingiustificatamente, abbia rifiutato la proposta transattiva formulata dalla controparte (Trib. Modena 19 maggio 2011).

Il rinvio dell'art. 91 all'art. 92 consentirebbe al giudice, secondo alcuni, di valutare quale motivo di compensazione la condotta della parte vincitrice la quale abbia rifiutato la proposta conciliativa di controparte, qualora il rifiuto non giustifichi però la condanna del vincitore nelle spese: si immagini il caso della sentenza che accolga la domanda in misura solo lievemente superiore alla proposta conciliativa, ovvero al rifiuto sorretto da giustificato motivo, ovvero al rifiuto di una proposta conciliativa irrituale (Balena, 749). Intesa in tal senso la nuova norma sarebbe tuttavia superflua, giacché non farebbe altro che ammettere una statuizione di compensazione delle spese cui già potrebbe pervenirsi sulla base dell'art. 92, comma 2, anche in mancanza del menzionato rinvio. È da credere, allora, che il legislatore, nel richiamare l'art. 92, abbia inteso riferirsi anche al rifiuto ingiustificato di una rituale proposta conciliativa: e cioè che, anche in presenza delle condizioni per l'applicazione dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, il giudice possa compensare le spese e non, invece, condannare il vincitore, secondo quanto la norma in esame oggi prescrive.

Quando il giudice pronuncia sulle spese

L'art. 91 stabilisce, in generale, che il giudice debba pronunciare sulle spese «con la sentenza che chiude il processo davanti a lui». E la norma, fino alla l. n. 69/2009, chiariva altresì che il provvedimento sulle spese doveva essere contenuto anche nella sentenza «che regola la competenza». A fronte del dato letterale, tuttavia, non v'è dubbio che la pronuncia concernente le spese debba essere assunta non soltanto nel caso che il processo dinanzi al giudice adito si chiuda con sentenza, ma anche quando il provvedimento conclusivo del giudizio abbia natura di ordinanza ovvero di decreto, mediante i quali il giudice ponga fine ad un processo contenzioso dinanzi a sé.

Vale in proposito anzitutto rammentare che anche la sentenza dichiarativa d'incompetenza, essendo definitiva, deve, a norma dell'art. 91, contenere la pronuncia sulle spese, che non può essere rimessa al giudice dichiarato competente (Cass. n. 10911/2001; Cass. n. 833/2003; Cass. n. 22541/2006). In tal caso vanno come di regola liquidate tutte le spese sostenute per lo svolgimento della causa, escluse quelle eccessive o superflue di cui al primo comma dell'art. 92: di guisa che, se vi è stata attività istruttoria finalizzata alla decisione del merito, le spese affrontate a tal fine vanno rimborsate (Cass. n. 6564/1997).

La sentenza dichiarativa dell'incompetenza mancante della pronuncia sulle spese è impugnabile, per tale capo, con l'appello (Cass. n. 852/1985; Cass. n. 11845/1993). La pronuncia sulle spese non trova però applicazione nel caso di dichiarazione di incompetenza con ordinanza sull'accordo delle parti, dovendo riguardo ad esse provvedere il giudice cui è rimessa la causa (Cass. n. 3415/1985). Anche in caso di sentenza declinatoria della giurisdizione il contendente vittorioso ha diritto in tutto o in parte al rimborso delle spese sostenute (Cass. n. 469/1999).

Non contiene la condanna alle spese, invece, la sentenza non definitiva di condanna generica, atteso che con tale sentenza il giudice non definisce la causa e non chiude il processo, provvedendo con l'emissione di contestuale ordinanza per la sua prosecuzione (Cass. n. 740/1985; Cass. n. 6884/2003).

Neppure vi è condanna alle spese in caso di cancellazione della causa dal ruolo ex art. 181, comma 2. Qualora l'attore si sia costituito in giudizio ma non sia comparso né alla prima udienza né a quella di rinvio, tale disposizione attribuisce infatti al convenuto di chiedere o meno che si proceda in assenza di lui. In quest'ultimo caso il giudice è tenuto ad ordinare la cancellazione della causa dal ruolo e dichiarare estinto il processo; ma non, nel silenzio della norma, a pronunziare sulle spese di lite, potendo il giudice al riguardo provvedere, in base al principio della soccombenza virtuale, solamente qualora il convenuto viceversa chieda che si proceda in assenza dell'attore (Cass. n. 740/2005).

Ed ancora, nell'ordinanza di correzione di errore materiale non è ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali (Cass. n. 591/1983; Cass. S.U., n. 9438/2002; Cass. n. 8103/2008; Cass. n. 10203/2009).

Situazioni particolari

Quanto al procedimento cautelare, prassi diffusa dei tribunali è quella di liquidare le spese di lite soltanto in caso di provvedimento cautelare pronunciato ante causam e non, invece, di cautelare in corso di causa. A monte di questa soluzione sta la regola generalissima stabilita dall'art. 91 secondo cui la pronuncia sulle spese va assunta «con la sentenza che chiude il processo».

Tuttavia, è stata sostenuta anche l'opposta soluzione, muovendo dalla previsione dell'art. 23 d.lgs. n. 5/2003, in tema cautelare nel rito societario. Si è cioè affermato che la lacuna nella disciplina del provvedimento cautelare uniforme, la quale nulla dispone in ordine alle spese di lite nel cautelare in corso di causa, debba essere colmata applicando la medesima regola e, cioè, ritenendo che il provvedimento cautelare debba essere sempre accompagnato dalla decisione sulle spese, anche in caso che esso sia reso in corso di causa. Ciò con il vantaggio, sul piano applicativo, di agevolare, almeno nel caso di rilascio di un provvedimento cautelare anticipatorio, l'abbandono del giudizio e la stabilizzazione della pronuncia cautelare resa (Trib. Belluno 13 dicembre 2010, Giur. mer., 2011, 1013).

Secondo la S.C. nel regime successivo alla novella introdotta con la l. n. 80 del 2005, l'ordinanza di rigetto del reclamo cautelare proposto in corso di causa non deve contenere un'autonoma liquidazione delle spese della fase cautelare endoprocessuale, essendo tale liquidazione rimessa al giudice di merito contestualmente alla valutazione dell'esito complessivo della lite; qualora tale liquidazione sia comunque stata effettuata, deve essere riconsiderata insieme la decisione del merito della causa e, ove non lo sia, e sia dedotto uno specifico motivo di appello sul punto, il giudice di appello è tenuto ad una riconsiderazione complessiva delle spese di lite, comprensive delle spese del procedimento endoprocessuale, sulla base dell'esito del giudizio (Cass. n. 12898/2021).

La disciplina delle spese di lite può presentare aspetti particolari in taluni giudizi nei quali i profili della soccombenza possono assumere connotazioni speciali. Si pensi ai giudizi divisori, nei quali le spese della divisione sono sostenute nell'interesse di tutti i condividenti e, dunque, devono in definitiva gravare sulla massa, esclusa l'applicazione del principio della soccombenza, principio che, tuttavia, torna in auge per tutto quanto non attiene strettamente alla divisione, ma ad ingiustificate pretese ovvero ad infondate resistenze da parte di alcuno dei litiganti.

Le questioni che di volta in volta si presentano vengono risolte, secondo i casi, attraverso uno scrutinio inteso a stabilire se l'applicazione del principio della soccombenza risulti applicabile ed entro quali limiti. Particolare interesse, in questo settore, desta la questione dell'applicabilità della disciplina delle spese nei procedimenti di natura camerale e non contenziosa, nei quali si assiste, almeno in linea di tendenza, ad un progressivo riconoscimento dell'applicabilità delle regole dettate dalla disposizione in commento. Così, ad esempio, in materia di nomina e revoca dell'amministratore di condominio, di procedimento ex art. 2409 c.c., di procedimenti camerali in fase di reclamo ecc.

Dallo scrutinio giurisprudenziale che segue emerge come la giurisprudenza faccia uso talvolta del principio di soccombenza, talaltra di quello di causalità:

i) accertamento dell'obbligo del terzo: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 359/1972);

ii) accessione invertita: colui che, nella costruzione di un edificio, ha occupato in buona fede una porzione del fondo attiguo, se chiede al giudice l'attribuzione della proprietà del suolo occupato (accessione invertita), in caso di accoglimento di tale domanda ottiene una pronuncia costitutiva, perché il suo diritto sorge con la pronuncia del giudice. Egli, poiché trae vantaggio dalla sentenza costitutiva, deve sopportare tutte le spese del giudizio, mentre l'avversario può essere condannato esclusivamente a quella parte di spese che siano determinate dalla sua ingiustificata opposizione (Cass. n. 1327/1966);

iii) affrancazione: la disposizione dell'art. 18 l. n. 998/1925, secondo la quale le spese di affrancazione sono a carico dell'enfiteuta affrancante, si riferisce esclusivamente alle spese propriamente necessarie per attuare l'affrancazione e non alle spese del giudizio che può sorgere a seguito di opposizione all'affrancazione (Cass. n. 1518/1962);

iv) costituzione coattiva della servitù: le spese del giudizio per la determinazione del luogo e delle modalità di esercizio delle servitù coattive, nonché quelle necessarie per la determinazione della relativa indennità, vanno poste a carico di chi pretende la servitù, mentre devono gravare sulla controparte quelle determinate dalla sua ingiustificata opposizione (Cass. n. 557/1963; Cass. n. 1822/1964; Cass. n. 1061/1966; Cass. n. 4361/1995; Cass. n. 11125/1999);

v) dichiarazione giudiziale di paternità: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 7946/1997; Cass. n. 348/2000);

vi) disconoscimento di paternità: non può considerarsi soccombente la madre del minore disconosciuto, in particolare quando non si sia opposta (Cass. n. 325/1966).

vii) divisione: le spese debbono sempre gravare sulla massa. Resta salva l'applicabilità delle regole generali per le spese riferibili ad ingiustificate pretese o ad infondate resistenze di talune delle parti (Cass. n. 12949/1999; Cass. n. 12758/2001; Cass. n. 7059/2002; Cass. n. 3083/2006).

viii) divorzio: il criterio della soccombenza, sul quale si fonda la disciplina delle spese processuali, deve essere sostituito nelle cause di divorzio dal criterio dell'interesse, posto che, anche di fronte all'accordo delle parti, non può farsi a meno della pronuncia giudiziale per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. n. 3826/1977);

ix) equa riparazione per irragionevole durata del processo: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 12021/2004; Cass. n. 1078/2003; Cass. n. 2140/2003);

x) esecuzione e opposizioni esecutive: nel procedimento esecutivo l'onere delle spese non segue il principio della soccombenza, ma quello della soggezione del debitore all'esecuzione; nei procedimenti di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, strutturati come giudizi di cognizione, trova, invece, applicazione l'ordinario principio della soccombenza (Cass. n. 5061/2007).

xi) famiglia e stato delle persone: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 1023/1982);

xii) giudizi elettorali: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 18128/2002; Cass. n. 12806/2004);

xiii) interdizione: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 21718/2005);

xiv) istruttoria prefallimentare: si applica il principio della soccombenza (Trib. Roma 2 giugno 1999,Giur. mer., 2001, 679);

xv) licenza per finita locazione, condanna in futuro: anca il requisito della soccombenza per l'applicazione dell'art. 91 (Cass. n. 1239/1974; Cass. n. 1238/1974);

xvi) nomina e revoca dell'amministratore di condominio: l'applicazione del principio della soccombenza è stato talvolta escluso (Cass. n. 4706 2001), altre volte ammesso (Cass. n. 14742/2006);

xvii) opposizione a ordinanza-ingiunzione: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 17708/2005; Cass. n. 15431/2006; Cass. n. 2872/2007; Cass. n. 18066/2007);

xviii) opposizione alla stima: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 3275/1989; Cass. n. 3123/1990; Cass. n. 12993/1991);

xix) opposizioni distributive: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 5850/1979; Cass. n. 588/1998);

xx) procedimenti camerali volontari e contenziosi: non si applica il principio della soccombenza nel procedimento avverso il rifiuto del Conservatore dei registri immobiliari (oggi Agenzia del territorio) di eseguire una trascrizione, previsto dall'art. 745 (Cass. n. 2095/2011). Le disposizioni degli artt. 91 ss. trovano applicazione analogica nei procedimenti camerali, ove il provvedimento che li definisca non si esaurisca in un intervento del giudice di tipo sostanzialmente amministrativo, ma statuisca su posizioni soggettive in contrasto (Cass. n. 1416/1989);

xxi) procedimenti camerali in fase di reclamo: è legittima la condanna alle spese giudiziali nel procedimento promosso in sede di reclamo, ex art. 739, avverso provvedimento reso in camera di consiglio, atteso che ivi si profila comunque un conflitto tra parte impugnante e parte destinataria del reclamo, la cui soluzione implica una soccombenza che resta sottoposta alle regole dettate dagli artt. 91 ss. (Cass. n. 1343/2003; Cass. n. 7644/2005; Cass. n. 1856/2006; Cass. n. 11320/2007; Cass. n. 11503/2010).

xxii) procedimento ex art. 2409 c.c.: la disciplina delle spese non si applica secondo alcune pronunce (Cass. n. 7424/1983; Cass. n. 498/1996; Cass. n. 9636/1997; Cass. n. 3750/2001; Cass. n. 6365/2001). La soluzione opposta è affermata da altre decisioni che paiono ormai indicare un indirizzo stabilizzato (Cass. n. 9828/2002; Cass. n. 293/2005; Cass. n. 1571/2009; Cass. n. 403/2010);

xxiii) regolamento di confini: soccombente, al fine dell'attribuzione dell'onere delle spese, è la parte la cui prospettazione è stata disattesa (Cass. n. 344/1997; Cass. n. 3082/2006);

xxiv) responsabilità civile dei magistrati: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 11961/1992; Cass. n. 9288/2005);

xxv) rettificazione di stato civile: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 4252/1977);

xxvi) riparazione dell'errore giudiziario: si applica il principio della soccombenza (App. Napoli 20 giugno 2000, Giur. mer., 2000, 1248);

xxvii) riscatto delle quote di fondo rustico di spettanza del componente la famiglia coltivatrice: si applica il principio della soccombenza (Cass. n. 14818/2002; Cass. n. 1977/1983).

Il principio della soccombenza e la cessazione della materia del contendere

La cessazione della materia del contendere opera sul diritto sostanziale, eliminando la contestazione, così come precisata in sede giudiziale, e rendendo superflua ogni ulteriore decisione del giudice: ed essa impone a quest'ultimo di darne atto anche d'ufficio tutte le volte che, anche indipendentemente da una formale rinunzia al giudizio o al merito delle pretese dedotte nel giudizio stesso, il fatto dell'avvenuta cessazione della materia del contendere risulti acquisito in causa (Cass. n. 1710/1971; Cass. n. 46/1990).

Nel dare atto d'ufficio della cessazione della materia del contendere intervenuta nel corso del giudizio, ove ne riscontri i presupposti, e cioè se risulti ritualmente acquisita o concordemente ammessa una situazione dalla quale emerga che è venuta meno ogni ragione di contrasto tra le parti, il giudice deve provvedere sulle spese, qualora permanga il contrasto sul punto, secondo il principio della soccombenza virtuale (Cass. n. 14775/2004; Cass. n. 271/2006). A tale scopo, nonostante sia cessata la materia del contendere e debba decidersi soltanto sul carico delle spese giudiziali, il giudice deve pur sempre valutare la questione di merito, che della decisione sulle spese rappresenta il necessario antecedente logico-giuridico (Cass. n. 2454/1962; Cass. n. 1618/1965; Cass. n. 3120/1971; Cass. n. 3426/1971; Cass. n. 1711/1975; Cass. n. 4452/1977; Cass. n. 3165/1979; Cass. n. 1771/1981).

La soccombenza virtuale, la quale può aver luogo anche in appello (Cass. n. 10553/2009), va valutata in astratto, in relazione cioè alla teorica fondatezza della domanda proposta. La relativa pronuncia va cioè fondata sulla valutazione delle probabilità normali di accoglimento della domanda basata su considerazioni di verosimiglianza, ovvero su apposita indagine sommaria, volta alla delibazione del merito (Cass. n. 2937/1999; Cass. n. 4889/1981; Cass. n. 1522/1975).

Qualora una sentenza di primo grado che dichiara cessata la materia del contendente viene impugnata soltanto nel capo relativo al regolamento delle spese processuali, il giudice d'appello ha parimenti l'obbligo di decidere la questione devolutagli, secondo il principio della soccombenza virtuale e previ gli accertamenti necessari in ordine agli estremi della controversia sostanziale originariamente sorta tra le parti (Cass. n. 1213/1973; Cass. n. 3625/1981; Cass. n. 2332/1998). La pronuncia di dichiarazione della cessazione della materia del contendere, con la conseguente decisione sulle spese resa in applicazione del principio della soccombenza virtuale, è sottoposta altresì al controllo di legittimità della Corte di cassazione (Cass. n. 10998/2003; Cass. n. 10994/2003).

Le spese in caso di estinzione del giudizio

In caso di estinzione del giudizio non opera, di regola, il principio della soccombenza, dal momento che il processo non perviene al suo esito fisiologico costituito dalla pronuncia conclusiva cui l'art. 91 si riferisce. Ciò trova riconoscimento nel dettato dell'art. 310, u.c., secondo cui le spese restano a carico di chi le ha anticipate.

Viceversa ricorre la necessità della pronuncia sulle spese nel caso, disciplinato dall'art. 306, di estinzione del processo per rinuncia agli atti. In tal caso, però, il riparto delle spese è effettuato dal giudice sulla base di un criterio già direttamente individuato dalla legge, la quale equipara la posizione del rinunciante a quella del soccombente, senza possibilità di compensazione e fatti salvi gli accordi altrimenti raggiunti dagli interessati.

In proposito la S.C. ha sottolineato la distinzione tra l'ipotesi dell'estinzione del giudizio e quella della cessazione della materia del contendere (Cass. n. 356/1963).

Le spese del processo estinto, in applicazione della norma richiamata, restano a carico della parte che le ha anticipate solo se le parti stesse non si siano opposte alla declaratoria di estinzione del processo. Se invece vengano proposte questioni od eccezioni, da decidersi con sentenza non trova più applicazione il criterio dell'anticipazione ma subentra quello della soccombenza (Cass. n. 798/1965; Cass. n. 1065/1967; Cass. n. 2454/1970; Cass. n. 1718/1975; Cass. n. 2042/1976; Cass. n. 4097/1988; Cass. n. 13736/2005; Cass. n. 1513/2006).

La mancata offerta delle spese di lite da parte del rinunciante agli atti del giudizio non autorizza la controparte ad opporsi all'estinzione (Cass. n. 1581/1984; Cass. n. 2237/1963).

Il contenuto della statuizione sulle spese

Il provvedimento di condanna alle spese del soccombente non richiede apposita motivazione essendo sufficiente che dalla sentenza risulti quale parte sia stata dal giudice ritenuta soccombente (Cass. n. 980/1964).

Il giudice non può liquidare più di quanto chiesto, sicché incorre in extrapetizione la sentenza che per spese processuali liquida una somma maggiore di quella richiesta dalla parte, come risultante dalla nota spese (Cass. n. 2043/1969; Cass. n. 5327/2003; Cass. n. 17057/2019; Cass. n. 14198/2022). Rimangono fuori dallo stretto ambito di applicazione della norma in commento le spese stragiudiziali . E cioè le spese sostenute per l'assistenza stragiudiziale hanno natura di danno emergente, consistente nel costo sostenuto per l'attività svolta da un legale nella fase pre-contenziosa, con la conseguenza che il loro rimborso è soggetto ai normali oneri di domanda, allegazione e prova e che, anche se la liquidazione deve avvenire necessariamente secondo le tariffe forensi, esse hanno natura intrinsecamente differente rispetto alle spese processuali vere e proprie; pertanto, gli importi riconosciuti per il ristoro delle spese stragiudiziali non possono essere compensati con le somme liquidate, a diverso titolo, per le spese giudiziali relative alle successive prestazioni di patrocinio in giudizio ( Cass. n. 24481/2020 ).

Si discute riguardo ai doveri dovere del giudice dell'indicazione del quantum debeatur. Secondo un'opinione ferma il giudice deve distinguere tra le varie componenti delle spese, (per la distinzione tra diritti e onorari, oggi non più attuale, v. Cass. n. 3787/1990; Cass. n. 3989/1993; Cass. n. 12280/1995; Cass. n. 5607/1997; Cass. n. 3676/1999; Cass. n. 17028/2006; Cass. n. 6338/2008 ; Cass. n. 19623/2016). Si è ribadito che in tema di spese processuali, in applicazione dell'art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, i compensi dei professionisti, quando sono riferiti a più fasi del giudizio, devono essere liquidati distinguendo ciascuna fase di esso, in modo da consentire la verifica della correttezza dei parametri utilizzati ed il rispetto delle relative tabelle (Cass. n. 6306/2016).

Qualora, poi, il provvedimento giudiziale rechi la condanna alle spese e, nell'ambito di essa, non contenga alcun riferimento alla somma pagata dalla parte vittoriosa a titolo di contributo unificato, la decisione di condanna deve intendersi estesa implicitamente anche alla restituzione di tale somma, in quanto il contributo unificato, previsto dall'art. 13 d.P.R. n. 115/2002, costituisce un'obbligazione ex lege di importo predeterminato, che grava sulla parte soccombente per effetto della stessa condanna alle spese, la cui statuizione può conseguentemente essere azionata, quale titolo esecutivo, per ottenere la ripetizione di quanto versato in adempimento di quell'obbligazione (Cass. n. 18529/2019).

È da escludere, in ogni caso, che il giudice sia tenuto, in mancanza del deposito della nota delle spese ex art. 75 disp. att., ad indicare specificamente le singole voci (Cass. n. 19269/2005; Cass. n. 4278/2011).

Il giudice, viceversa, qualora si discosti dalla nota spese, ha secondo un indirizzo l'obbligo di motivare (Cass. n. 9947/2001; Cass. n. 11483/2002; Cass. n. 13085/2006; Cass. n. 2748/2007; Cass. n. 17059/2007; Cass. n. 12461/2011Cass. n. 20604/2015).

Tale obbligo secondo altro indirizzo non sussiste, salvo il caso di manifesta sproporzione (Cass. n. 22347/2007Cass. n. 21010/2010).

La liquidazione degli onorari, nei limiti del minimo e massimo tariffario, è opera discrezionale del giudice (Cass. n. 3383/1968; Cass. n. 5537/1979; Cass. n. 3607/1982; Cass. n. 10350/1993; Cass. n. 3982/1998; Cass. n. 20289/2015; Cass. S.U. n. 32906/2022). Non occorre in tal caso esplicita motivazione

Ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nell'atto di impugnazione parziale della sentenza), tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell'impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum, ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa (Cass. S.U., n. 19014/2007; Cass. n. 536/2011).

La parte tenuta al pagamento delle spese e quella titolare del diritto al rimborso

Nel regolare il carico delle spese di lite sulla base del principio della soccombenza il legislatore «ha scelto un criterio di applicazione quasi automatica, che chiede giudizio minimo» (Grasso, 982). Ciò si ripercuote anche sull'individuazione dell'obbligato al rimborso delle spese di lite, che è il soccombente. Le qualità della parte non condizionano di regola l'applicazione del principio della soccombenza: e, tuttavia, talune precisazioni vanno svolte con riguardo a particolari situazioni.

Un importante questione pratica è quella concernente l'individuazione del soggetto sul quale debbano fare carico le spese del giudizio nell'ipotesi che la procura alle liti risulti essere invalida. L'argomento è stato trattato nel commento all'art. 83, al quale si rinvia.

Una posizione speciale ricopre il P.M., il quale, secondo l'opinione più volte ribadita dalla giurisprudenza, non rimborsa le spese se perde, né ha diritto al rimborso se vince (Cass. S.U., n. 2123/1965; Cass. S.U., n. 5105/2003; Cass. S.U., n. 11191/2003; Cass. S.U., n. 5165/2004; Cass. n. 3824/2010). Ciò perché l'ufficio del pubblico ministero è «organo propulsore dell'attività giurisdizionale, che ha la funzione di garantire la corretta applicazione della legge, con poteri meramente processuali, diversi da quelli svolti dalle parti, esercitati per dovere di ufficio e nell'interesse pubblico» (Cass. n. 8585/1990).

Critico in proposito l'atteggiamento di un autore, secondo cui l'idea che nel processo civile il regime delle spese non può essere esteso al pubblico ministero deriva dalla imprecisa collocazione di questa figura del sistema dei soggetti processuali da parte della dottrina, mentre nessuna ambiguità è imputabile alle leggi. Le quali, tenendo in considerazione interessi generali a norma dell'art. 2907 c.c., possono affidare la tutela alla iniziativa dello stesso giudice. Ma quando ciò non avviene, e l'azione è conferita invece al pubblico ministero, questi non può che identificarsi con la parte a tutti gli effetti; né è possibile concepire una figura intermedia tra la parte e il giudice. Deve quindi negarsi che la natura e la funzione dell'organo impediscano di concepire la sua soccombenza (o la sua vittoria) quanto alla disciplina delle spese; né può obiettarsi che esso non ha una propria dotazione, poiché le spese giudiziali che il pubblico ministero è chiamato a sostenere rientrano in quelle previste per il funzionamento dell'ufficio (Grasso, 983).

Risponde secondo la regola generale del rimborso delle spese di lite l'erede beneficiato, il quale è soggetto a detto rimborso delle spese anche ultra vires, dal momento che il debito per le spese concernenti i giudizi ai quali egli abbia partecipato non rientra fra i debiti dell'eredità (Cass. n. 852/1972). Eguale principio si applica allo Stato quale erede necessario, in relazione alla limitazione di responsabilità di cui al secondo comma dell'art. 586 c.c. (Cass. n. 2873/1989).

In caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso il processo prosegue fra le parti originarie, ma la sentenza ha effetto anche contro il successore a titolo particolare, il quale può intervenire o essere chiamato nel giudizio, divenendone parte a tutti gli effetti. Qualora sia rimasto estraneo al processo, il successore ne subisce gli effetti anche in sede esecutiva, ma è legittimato ad impugnare la sentenza sfavorevole al suo dante causa ovvero ad avvalersene se favorevole. Questa disciplina, che regola gli effetti che incidono sulla situazione sostanziale, non opera con riguardo agli effetti di rito, tra i quali è compresa la condanna alle spese, che riguarda solo le parti processuali. Pertanto detta condanna non spiega effetti nei confronti del successore a titolo particolare nel diritto controverso che sia rimasto estraneo al processo (Cass. n. 21107/2005).

Merita rammentare, infine, che le spese vanno rimborsate all'avvocato costituito in proprio perché difensore di se stesso (Cass. n. 691/1994; Cass. n. 2193/2008; Cass. n. 23847/2008). La difesa personale, difatti, non tocca la natura professionale dell'attività processuale svolta dall'avvocato in proprio favore, né quindi incide sulla qualificabilità come spese del giudizio dei diritti e degli onorari previsti per tale attività (Cass. n. 12542/2003). La difesa personale assume presenta aspetti particolari se esercitata dinanzi al giudice di pace in cause di valore inferiore ad € 516,46, ossia nel caso in cui sia in generale ammessa la difesa personale. In tale ipotesi è onere della parte stessa, che riveste anche la qualità di avvocato, specificare a che titolo intenda partecipare al processo, poiché (a prescindere dal profilo fiscale), mentre la parte che sta in giudizio personalmente non può chiedere che il rimborso delle spese vive sopportate, il legale, ove manifesti, appunto, l'intenzione di operare come difensore di sè medesimo ex art. 86, ha diritto alla liquidazione delle spese secondo la tariffa professionale (Cass. n. 12680/2004).

Le spese in cause con pluralità di parti ed in cause riunite

Ancora in tema di individuazione della parte tenuta al rimborso delle spese di lite occorre soffermarsi nel caso del processo con pluralità di parti, riguardo al quale l'art. 91 nulla espressamente dice. Né sulla materia una disciplina esaustiva è dettata dall'art. 97, il quale si limita a regolare il caso della pluralità di soccombenti secondo che abbiano o meno un interesse comune alla causa. Sorgono pertanto in materia di numerose questioni le quali trovano di volta in volta risposta attraverso l'applicazione del principio della soccombenza e/o di quello di causalità.

In linea generale, possono darsi diverse eventualità secondo che, in presenza di una pluralità di soggetti partecipanti al giudizio, si versi o meno in ipotesi di pluralità di rapporti processuali.

In quest'ultimo caso, qualora si sia cioè in presenza di un unico rapporto processuale, le regole applicabili non divergono da quelle consuete, dall'angolo visuale della parte vincitrice, se non, eventualmente, nell'ipotesi che più vincitori siano rappresentati in giudizio da distinti difensori, mentre, dall'opposto angolo visuale, trovano applicazione le previsioni contenute nel citato art. 97, secondo che più soccombenti siano o meno avvinti da un comune interesse.

Se, viceversa, si è in presenza di una pluralità di rapporti processuali, essi vanno distintamente considerati, almeno in linea di massima, attraverso l'individuazione, di volta in volta, della relazione di soccombenza riscontrabile. In altri termini, nel giudizio con pluralità di parti, quando si tratti di più cause autonome, ancorché connesse ovvero riunite in un solo processo, occorre, ai fini delle spese, considerare distintamente la reciprocità delle singole posizioni processuali e sostanziali con la conseguenza che a carico della parte che è soccombente nei confronti di una sola delle altre, non possono essere poste anche le spese relative alle parti che, ancorché assistite dallo stesso difensore e da questo congiuntamente difese, stiano in giudizio per una distinta ed autonoma causa.

Tale impostazione, che costituisce diretta esplicazione del principio di soccombenza, subisce tuttavia rilevanti deviazioni, le quali trovano invece fondamento nel principio di causalità, qualora l'innesto sul rapporto processuale principale di un rapporto processuale ulteriore sia in definitiva addebitabile all'originario attore che sia risultato soccombente. Così, in caso di domanda principale e successiva chiamata in garanzia da parte del convenuto, è ben possibile che l'attore soccombente subisca condanna al rimborso delle spese di lite non soltanto nei confronti del convenuto che sia risultato vittorioso, ma anche nei confronti del garante — si pensi all'ipotesi ricorrente dell'assicuratore per responsabilità civile — verso il quale l'attore non abbia proposto domanda alcuna e, dunque, non possa a stretto rigore essere considerato soccombente.

In particolare, quanto all'intervento di terzi, l'interveniente volontario che avanza domande ottiene il rimborso delle spese se vince e subisce la condanna alle spese, se perde, nei confronti della parte contro cui la domanda è stata proposta, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultima parte sia eventualmente rimasta soccombente nei confronti di un terzo.

In giurisprudenza, sull'argomento, si trova affermato, in generale, che chiunque partecipi al giudizio facendo propria la causa è soggetto al rimborso delle spese. Qualunque sia il titolo o la ragione per cui taluno è parte in un processo ― sia tale partecipazione necessaria o facoltativa, volontaria o coatta, legittima o arbitraria ― ove nel corso del giudizio anziché chiedere la estromissione o rimettersi ai provvedimenti del giudice, faccia propria la causa di alcuna delle parti ed assuma attiva posizione di contrasto verso altre parti, deve anche nei suoi confronti funzionare il principio della soccombenza ai fini dell'attribuzione delle spese di giudizio (Cass. n. 2105/1965; Cass. n. 3791/1968; Cass. n. 464/1971; Cass. n. 1052/1971; Cass. n. 1318/1972; Cass. n. 1841/1973; Cass. n. 6880/1997).

Poiché le spese del giudizio non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, occorre procedere all'individuazione di quest'ultima. Per il che, nel giudizio con pluralità di parti, occorre tener presente la reciprocità delle posizioni delle parti medesime. Il principio della soccombenza, dunque, cui l'art. 91 collega il rimborso delle spese in favore della controparte (salvo l'esercizio del potere di compensarle, totalmente o parzialmente), trova fondamento nella sopportazione dell'onere relativo da parte del soggetto che, con le proprie domande o attraverso la resistenza a quelle altrui, abbia causato la lite. Nel giudizio con pluralità di parti il giudice di merito deve indagare, a tal fine, sulla posizione assunta da ciascuna di esse, in relazione alla quale non può ritenersi soccombente colui che, fra più convenuti, non abbia formulato alcuna opposizione alla domanda, anche se abbia fatto presente determinate esigenze (Cass. n. 11195/1993). Ad esempio, nel caso di domanda di pagamento contro il condebitore in solido, si trova affermato che, qualora il creditore si rivolga positivamente per l'adempimento totale ad uno dei condebitori solidali, il quale chiami l'altro condebitore in giudizio chiedendo di essere tenuto indenne da tale pretesa — sulla base di accordi tra loro intercorsi — agli effetti del regolamento delle spese del processo occorre distinguere il rapporto tra creditore e condebitori solidali che sono tenuti in solido pure al rimborso delle relative spese e quello esistente tra questi ultimi, per cui le spese vanno imputate in base al principio della relativa soccombenza (Cass. n. 7578/1983).

Carattere particolare assume la liquidazione delle spese di lite in favore di una unica parte vincitrice contrapposta ad una pluralità di parti. Nell'ipotesi in cui il procuratore difenda il cliente contro più parti, come quando la riunione dei processi derivi da litisconsorzio facoltativo, poiché l'attività professionale si estende allo studio delle posizioni e situazioni sostanziali e processuali di ciascuna parte avversa, all'esame degli scritti difensivi relativamente diversificati, alla ricerca di atti e documenti particolari per ciascuna di esse, alla stesura di tante comparse quanti sono gli avversari, è necessario che, ai fini della liquidazione dell'onorario, dei diritti e delle spese, il giudice esamini le posizioni di ciascuna parte e l'attività concreta svolta dal difensore rispetto a ciascuna di esse, frazionando, secondo il suo prudente apprezzamento, le voci degli onorari relative alle prestazioni comuni ai litisconsorti, nonché quelle attinenti alle spese ed ai diritti di procuratori, ed applicando per intero a chi di dovere quelle riguardanti le posizioni peculiari di ciascuno degli avversari (Cass. n. 1968/1994).

Quanto alle spese sostenute dall'intervenuto ovvero dal chiamato in causa, la giurisprudenza inclina a ritenere che esse debbano gravare sul soccombente, quantunque questi non abbia formulato nei confronti del terzo alcuna domanda. In quest'ottica, secondo un'impostazione costantemente ribadita, si trova affermato, con riguardo alla chiamata in causa ad istanza di parte o iussu iudicis, che le spese sostenute dal terzo chiamato in causa su istanza di parte o d'ufficio, quando non ricorrano giusti motivi per la compensazione, sono legittimamente poste a carico dell'attore soccombente (Cass. n. 6144/2024), a nulla rilevando che questi non abbia formulato domanda alcuna nei confronti dello stesso terzo evocato in giudizio (Cass. n. 7674/2008). La parte che determina la chiamata in causa di terzi, sostenendo tesi che poi si rivelino infondate, in altri termini viene legittimamente condannata alle spese, come soccombente, anche nei confronti dei chiamati (Cass. n. 1885/1968; Cass. n. 1081/1971; Cass. n. 1633/1976). 

Sicché anche di recente si è ribadito che, attesa la lata accezione con cui il termine soccombenza è assunto nell'art. 91 c.p.c., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 23948/2019; e inoltre Cass. n. 23123/2019).

Siffatti principi trovano applicazione non soltanto con riguardo all'attore che abbia indirettamente provocato la chiamata l'intervento del terzo, ma parimenti nell'ipotesi che la chiamata o l'intervento siano stati provocati dal convenuto. Così ad esempio, qualora il convenuto, nel resistere alla domanda attrice, indichi un terzo quale responsabile dei fatti contestati e il giudice, ritenendo la comunione di cause, ordini la chiamata in causa di detto terzo, qualora venga accolta, anche parzialmente, la domanda attrice nei confronti del solo convenuto, escludendo qualsiasi responsabilità del terzo, non possono essere poste le spese di lite sostenute dal terzo a carico della parte attrice, ancorché quest'ultima, quale parte più diligente, abbia provveduto a notificare al terzo l'atto di chiamata (Cass. n. 10023/2004).

Ai fini del riparto delle spese, cioè, occorre guardare non tanto alla parte che abbia effettuato la chiamata, ma a quella che ne abbia provocato l'effettuazione. Perciò, allorché una parte sia stata chiamata in giudizio ad opera del convenuto ma per effetto della tesi sostenuta dall'attore, — qualora questa si riveli infondata ―, legittimamente l'attore soccombente viene condannato alle spese anche nei confronti del chiamato in causa (Cass. n. 558/1965). La regola così riassunta — ribadita tra le tante da Cass. n. 2990/1973; Cass. n. 1220/1977; Cass. n. 3019/1983; Cass. n. 3728/1988 — è stata più volte applicata con riguardo all'ipotesi che la chiamata in garanzia. Perciò, la liquidazione delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, va posta a carico della parte, rimasta soccombente, che abbia dato causa alla chiamata, a nulla rilevando la mancanza di una istanza di condanna in tal senso (Cass. n. 19181/2003).

Il criterio della soccombenza, quando non viene escluso dalla compensazione per giusti motivi, opera cioè anche al fine di individuare chi debba sopportare le spese del chiamato in garanzia, pure quando nei suoi confronti non sia stata proposta alcuna domanda o emessa alcuna pronuncia di merito, con la conseguenza che le spese processuali del chiamato che non sia rimasto soccombente non possono gravare sul chiamante, quando anche quest'ultimo non sia rimasto soccombente né nei confronti del chiamato, né nei confronti della controparte (Cass. n. 3729/1990; Cass. n. 3956/1994; Cass. n. 11743/2003; Cass. n. 12235/2003; Cass. n. 6514/2004; Cass. n. 12301/2005; Cass. n. 4958/2007; Cass. n. 18205/2007; Cass. n. 5027/2008).

La questione in esame si atteggia in modo peculiare nei riguardi del regolamento delle spese nei giudizi in cui è parte un assicuratore. La disciplina del carico delle spese giudiziali tra assicuratore ed assicurato promossa dal combinato disposto degli artt. 1917 c.c. e 91  e va cosi distinta: a) spese del giudizio per il risarcimento dei danni, dovute dall'assicurato soccombente al danneggiato: esse costituiscono accessorio della somma liquidata per danni e vanno comprese nella somma assicurativa (massimale di polizza), quale conseguenza diretta dell'attuazione del diritto che l'assicurato ha, a norma dell'art. 1917, comma 1, c.c., di essere tenuto indenne di quanto, in dipendenza del fatto accaduto durante l'assicurazione, deve pagare al terzo; b) spese sostenute per resistere all'azione del danneggiato contro l'assicurato; sono previste dall'art. 1917, comma 3, c.c., che le pone a carico dell'assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata, o, se la somma dovuta al danneggiato superi la somma assicurata, impone una ripartizione tra assicuratore ed assicurato in proporzione del rispettivo interesse e cioè in proporzione delle somme che, in ordine al risarcimento del terzo, gravano a carico di ciascuno; c) infine, spese giudiziali sostenute dal danneggiato vittorioso contro l'assicuratore: esse non sono disciplinate dall'art. 1917 c.c., perché derivano dal principio della soccombenza processuale di cui all'art. 91  e pertanto non vanno comprese nel massimale dovuto (Cass. n. 3715/1971; Cass. n. 1663/1973; Cass. n. 87/1978).

Quanto ai rapporti tra danneggiato ed assicuratore per responsabilità civile, occorre rammentare che l'assicuratore, chiamato in causa dall'assicurato nel giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato, può essere condannato al rimborso delle spese processuali direttamente in favore del danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 2, c.c., ove l'assicurato ne abbia fatto richiesta (Cass. n. 87/1978). È in questi termini legittima la condanna dell'assicuratore a rimborsare le spese al danneggiato: e cioè, nell'ipotesi in cui il convenuto con azione risarcitoria chiami in garanzia l'assicuratore della responsabilità civile e, ai sensi dell'art. 1917, comma 2, c.c., chieda che paghi al danneggiato l'indennità dovuta, è legittima la condanna dello assicuratore al rimborso delle spese processuali in favore del danneggiato, pur in difetto di un'istanza in tal senso da parte di costui (Cass. n. 3533/1980). L'assicuratore per responsabilità civile risponde d'altronde delle spese che l'assicurato deve rimborsare al danneggiato. Nell'assicurazione per la responsabilità civile, le spese processuali che il responsabile deve rimborsare al terzo danneggiato costituiscono cioè una componente del danno da risarcire e l'assicurato deve esserne tenuto indenne dall'assicuratore nei limiti stabiliti dal contratto (Cass. n. 3802/1975; Cass. n. 5063/1987).

Con riguardo all'interventore ad adiuvandum è stato più volte ribadito che è soccombente rispetto alla parte vincitrice, e può perciò essere condannata al rimborso delle spese del processo, non solo la parte che propone domande, ma anche quella che interviene nel processo per sostenere le ragioni di una parte o che, chiamata nel processo da una delle parti, ne sostiene le ragioni contro l'altra (Cass. n. 4213/2007; Cass. n. 4529/1984). Dunque l'interventore può essere condannato al rimborso delle spese di lite nei confronti del vincitore. Per altro verso, il rimborso delle spese processuali sostenute dall'interveniente ad adiuvandum legittimamente è posto a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l'interesse all'intervento (Cass. n. 5085/1983; Cass. n. 5025/2000; Cass. n. 11202/2003; Cass. n. 20659/2024). 

La statuizione sulle spese di lite, nel processo con pluralità di parti si atteggia altresì diversamente secondo che più vincitori siano o meno difesi da un unico avvocato. In favore del difensore di una pluralità di parti va effettuata di regola una sola liquidazione. Secondo un'impostazione ribadita si trova in proposito affermato che, qualora il difensore abbia assistito in giudizio una pluralità di parti deve procedersi a una sola liquidazione delle spese processuali, a meno che l'opera defensionale, pur se formalmente unica, non abbia comportato la trattazione di differenti questioni in relazione alla tutela di posizioni giuridiche non identiche; in tal caso soltanto è consentita una distinta liquidazione per ciascuna delle parti (Cass. n. 24757/2005; Cass. n. 476/2009)

Costituisce giudizio di fatto stabilire se il difensore di più parti abbia svolto un'attività difensiva unica o plurima (Cass. n. 6607/1981; Cass. n. 5174/1997). Successivamente è stato ribadito che, in tema di determinazione del compenso spettante al difensore che abbia assistito una pluralità di parti, costituisce questione di merito, la cui risoluzione è incensurabile in sede di legittimità, lo stabilire se l'opera defensionale sia stata unica, nel senso di trattazione di identiche questioni in un medesimo disegno defensionale a vantaggio di più parti, o se la stessa abbia, invece, comportato la trattazione di questioni differenti, in relazione alla tutela di non identiche posizioni giuridiche (Cass. n. 17363/2004).

La condanna al rimborso delle spese in favore di ciascuno dei vincitori richiede in altri termini distinte attività difensive (Cass. n. 3065/1963; Cass. n. 2851/1966; Cass. n. 1635/1973; Cass. n. 91/1979; Cass. n. 6491/1980). Siffatta conclusione, beninteso, si giustifica nel caso in cui più parti vincitrici siano difese da un unico avvocato, non già se ciascuna di esse abbia affidato la difesa ad un proprio difensore. In tal caso, anche se le attività difensive sono affini, il rimborso delle spese spetta a ciascuna delle parti difesa da diversi avvocati. Difatti, l'affinità delle difese, svolte da due parti aventi interessi comuni, non esclude che, quando esse siano attribuibili a difensori rispettivamente diversi, ciascuno di questi abbia un autonomo diritto al compenso spettantegli (Cass. n. 2259/1969).

Quanto alle cause riunite, la regola da applicare si riassume in ciò, che, unico essendo divenuto il giudizio, all'esito della riunione, unica deve essere la pronunzia sulle spese (Cass. n. 916/1974; Cass. n. 4638/1997). In tale frangente per un verso è legittima la liquidazione di distinti onorari, e dunque il cumulo di essi, per le prestazioni anteriori alla riunione delle cause (Cass. n. 3794/1979), e, per altro verso, rimanendo le cause distinte nonostante la riunione, la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione ad ogni singolo giudizio, posto che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolte in quest'ultima soggetti che non sono parti in causa (Cass. n. 15954/2006; Cass. n. 7908/2001). Ulteriore conseguenza della riunione è che, ai sensi della tariffa professionale, ciascun avvocato difensore ha diritto a percepire gli onorari per le prestazioni eseguite e, se antistatario, al rimborso delle spese anticipate (Cass. n. 197/2001).

Il regolamento delle spese in generale

La competenza a statuire sulle spese appartiene esclusivamente al giudice della causa. Nel sistema processuale vigente non è ammessa, cioè, la proposizione di una domanda per conseguire il rimborso delle spese processuali che sia formulata autonomamente e fuori della sede nella quale quelle spese furono prodotte (Cass. n. 10450/1993). L'art. 91, in altri termini, esclude ogni possibilità di separazione del giudizio sulla domanda da quello sulle spese di causa provocate dalla domanda medesima, ogni qual volta la prima di tali pronunce sia idonea a definire il processo (Cass. n. 12859/2005).

La statuizione sulle spese presuppone una decisione definitiva del giudizio, non importa se di merito (Cass. n. 2028/1969; Cass. n. 2978/1972), qualunque sia la forma con cui essa è assunta (Cass. S.U., n. 6066/1983;Cass. n. 5832/1984). Agli effetti del regolamento delle spese processuali la soccombenza può dunque essere determinata non soltanto da ragioni di merito, ma anche da ragioni di ordine processuale, non richiedendo l'art. 91, per la statuizione sulle spese, una decisione che attenga al merito, bensì una pronuncia che chiuda il processo davanti al giudice adito (Cass. n. 1802/1981; Cass. n. 7389/1996; Cass. S.U., n. 583/1989; Cass. n. 9512/1999; Cass. n. 10911/2001).

La statuizione sulle spese, come si è accennato, non richiede domanda e va pronunciata d'ufficio, essendo essa conseguenza prevista dalla legge che la parte soccombente è tenuta a sopportare (Cass. n. 5174/1997; Cass. S.U., n. 9859/1997;Cass. n. 1938/2003; Cass. n. 7639/2003; Cass. n. 30729/2022). Poiché la pronuncia sulle spese va presa d'ufficio, la domanda a tal riguardo non inizialmente proposta, ma avanzata in corso di lite contro il contumace, non va notificata secondo quanto prescrive l'art. 292 (Cass. n. 450/1972).

Il vincitore può rinunciare alle spese rientrando pur sempre il relativo diritto nella disponibilità del titolare (Cass. n. 2654/1966; Cass. n. 3252/1969). La rinuncia alle spese non può però provenire dal difensore mancante di un'apposita procura (Cass. n. 4921/1983), salvo non si tratti di procuratore antistatario (Cass. S.U., n. 4489/1984), né può essere desunta dal mancato deposito della nota spese, mancato deposito che non incide in alcun modo sul potere-dovere del giudice di provvedere alla  liquidazione (Cass. n. 1504/1967; Cass. n. 3214/1968; Cass. n. 470/1971; Cass. n. 1902/1973; Cass. n. 4357/1985; Cass. n. 7248/1986; Cass. n. 3149/1988; Cass. n. 1440/2000). È appena il caso di aggiungere che, come è noto, la liquidazione a carico del soccombente non si ripercuote, in linea di principio, sui rapporti tra l'avvocato del vincitore ed il suo cliente. E cioè, la statuizione concernente il regolamento delle spese nell'ambito del giudizio non può in alcun modo vincolare la successiva liquidazione del corrispettivo professionale dovuto dal cliente all'avvocato. La determinazione degli onorari nei confronti del cliente soggiace, infatti, a criteri legali diversi da quelli applicabili nei confronti del soccombente. Quest'ultima, infatti, dipende, innanzitutto, dall'esito vittorioso della lite, ma può essere perfino negata, in tutto o in parte, in forza di compensazione dettata da ragioni affatto estranee alla qualità della prestazione professionale, oggetto di un'obbligazione di mezzi (Cass. n. 9633/2010).

La statuizione sulle spese è provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c. sia che il giudice accolga, sia che rigetti la domanda. In proposito un primo indirizzo riteneva che la pronuncia sulle spese fosse esecutiva solo in quando collegata ad una pronuncia condannatoria (Cass. n. 5837/1993; Cass. n. 9236/2000). Al contrario, secondo l'indirizzo attualmente consolidato, la pronuncia sulle spese è invece sempre esecutiva: ancorché l'art. 282, nella formulazione vigente per effetto della sostituzione operata dall'art. 33  l. n. 353/1990, non consenta di ritenere che l'efficacia delle sentenze di primo grado aventi natura di accertamento e/o costitutiva sia anticipata rispetto alla formazione della cosa giudicata sulla sentenza e debba, dunque, affermarsi che dette sentenze possono vedere anticipata la loro efficacia rispetto a quel momento soltanto in forza di espressa previsione di legge (come accade, ad esempio, nell'art. 421 c.c.), qualora ad esse acceda una statuizione condannatoria (come, ad esempio, quella sulle spese di una sentenza di rigetto di una domanda), tale statuizione, in forza della riferibilità dell'immediata efficacia esecutiva della sentenza di primo grado a tutte le pronunce di condanna, indipendentemente dalla loro accessorietà ad una statuizione principale di accertamento e/o costituiva, deve considerarsi provvisoriamente esecutiva (Cass. n. 21367/2004; Cass. n. 16262/2005; Cass. n. 16263/2005; Cass. n. 4306/2008; Cass. n. 16003/2008; Cass. n. 26415/2008).

Le spese, come si è già avuto modo di accennare, non vanno rimborsate al contumace vittorioso, il quale astenendosi dal partecipare al giudizio non ha sopportato alcun costo (Cass. n. 922/1975; Cass. n. 476/1977; Cass. n. 3729/1977; Cass. n. 4635/1980; Cass. n. 11803/1993; Cass. n. 9419/1997).

La liquidazione va effettuata secondo l'apposita tariffa (Cass. n. 8135/2004), senza che occorra istituire il contraddittorio sul quantum delle spese di cui è chiesta la liquidazione (Corte cost. n. 314/2008). Vale sottolineare che la liquidazione deve tuttora collocarsi entro i minimi e massimi previsti in tariffa, nulla rilevando l'abolizione dei minimi tariffari. A norma dell'art. 2, commi 1 e 20, d.l. n. 223/2006, conv., con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, l'abolizione dei minimi tariffari può operare nei rapporti tra professionista e cliente, ma l'esistenza della tariffa mantiene la propria efficacia quando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese di giudizio in applicazione del criterio della soccombenza (Cass. n. 7293/2011).

In particolare, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale è doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi affinché siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo (Cass. n. 89/2021). 

La condanna alle spese si estende all'IVA (Cass. n. 4563/1979; Cass. n. 439/1980; Cass. n. 6129/1982), per il cui calcolo la base imponibile è costituita non solo dal corrispettivo spettante al professionista, ma anche dalle maggiorazioni percentuali rapportate al corrispettivo e che sono addebitate a titolo di contributo integrativo (Cass. n. 12270/2002). Ed anzi — come hanno avuto modo di ribadire Cass. n. 7002/1982; Cass. n. 3185/1983; Cass. n. 1940/1984; Cass. n. 2382/1987; Cass. n. 1514/1988; Cass. n. 4720/1988; Cass. n. 8686/1991; Cass. n. 3412/1997; Cass. n. 7806/2010; Cass. n. 7551/2011 — la sentenza, la quale condanna la parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa, liquidandone l'ammontare, costituisce titolo esecutivo, pur in difetto di un'espressa domanda e di una specifica pronuncia, anche per conseguire il rimborso dell'IVA, che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore in sede di rivalsa e secondo la previsione dell'art. 18 d.P.R. n. 633/1972, trattandosi di un onere accessorio che in via generale consegue al pagamento degli onorari al difensore, e che come tale, deve ritenersi implicitamente incluso a norma del comma 1 dell'art. 91 in quella pronuncia di condanna, mentre resta salva per la parte soccombente la facoltà di contrastare sul punto il titolo esecutivo, con opposizione al precetto o all'esecuzione, per far valere eventuali circostanze che, nel caso concreto, escludano l'indicata rivalsa o comunque l'esigibilità dell'IVA (Cass. n. 1005/1981).

Né il principio per cui tra le spese processuali che il soccombente deve al vincitore rientra anche la somma dovuta da quest'ultimo al proprio difensore a titolo di IVA subisce deroghe, in sede di provvedimento di condanna alle spese, per la circostanza che la parte vittoriosa, per la propria qualità personale, possa portare in detrazione la somma al detto titolo dovuta al difensore, rilevando per contro tale deducibilità in sede di esecuzione, postoché la condanna al pagamento dell'IVA in aggiunta ad un data somma dovuta dal soccombente per rimborso di diritti e onorari deve intendersi in ogni caso sottoposta alla condizione della effettiva doverosità di tale prestazione aggiuntiva (Cass. n. 2387/1998; Cass. n. 6974/2007; Cass. n. 11877/2007). L'eventualità che la parte vittoriosa, per la propria qualità personale, possa portare in detrazione l'IVA dovuta al proprio difensore, cioè, assume rilievo solo in sede d'esecuzione, poiché la condanna al pagamento dell'IVA in aggiunta ad una data somma dovuta dal soccombente per rimborso di diritti e di onorari deve intendersi in ogni caso sottoposta alla condizione «se dovuta» (Cass. n. 3536/2000).

La condanna alle spese si estende altresì al rimborso forfettario delle spese generali, le quali sono parimenti regolate dal principio della soccombenza (Cass. n. 11125/1994; Cass. n. 803/1995; Cass. n. 1561/1993; Cass. n. 9119/2000). Esse, secondo alcune pronunce, andrebbero rimborsate solo su domanda (Cass. n. 8558/1998; Cass. n. 738/2002; Cass. n. 16065/2004). È preferibile, tuttavia, l'opinione per la quale il rimborso delle spese generali va disposto anche d'ufficio, dovendosi la relativa domanda ritenere implicita in quella di condanna al pagamento degli onorari giudiziali (Cass. n. 6637/2000; Cass. n. 14596/2000; Cass. n. 603/2003; Cass. n. 9700/2003; Cass. n. 17936/2004; Cass. n. 20321/2005; Cass. n. 146/2006; Cass. n. 4209/2010).

Ed anzi, è stato da ultimo affermato che il provvedimento giudiziale di liquidazione delle spese processuali che non contenga la statuizione circa la debenza o anche solo l'esplicita determinazione della percentuale delle spese forfettarie rimborsabili ai sensi dell'art. 13, comma 10, l. n. 247/2012 e dell'art. 2 d.m. n. 55/2014, è titolo per il riconoscimento del rimborso stesso nella misura del quindici per cento del compenso totale, quale massimo di regola spettante, potendo tale misura essere soltanto motivatamente diminuita dal giudice (Cass. n. 9385/2019).

La condanna alle spese si estende poi negli stessi termini al contributo previdenziale (Cass. S.U., n. 3750/1990;Cass. n. 8497/1995; Cass. n. 4023/1996; Cass. n. 1672/2003).

Il calcolo del valore ai fini della liquidazione a carico del soccombente

In generale, il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, deve essere determinato a norma del codice di procedura civile: adottando cioè i medesimi criteri operanti ai fini della determinazione del valore da cui dipende il radicamento della competenza, ex art. 10  (Cass. n. 3605/1969; Cass. n. 6469/1982). Il criterio da applicare, dunque, è in linea di principio quello del disputatum, ossia del quantum richiesto nell'atto introduttivo.

L'applicazione rigorosa del principio, però, condurrebbe a risultati iniqui ogni qual volta l'attore, pur avendo vinto la causa, abbia ottenuto l'accoglimento soltanto parziale (ed ancor più soltanto marginale) della domanda ab origine spiegata. Perciò, la S.C. ha affiancato al criterio del disputatum, quello del decisum, destinato ad operare in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell'impugnazione, salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio. Il criterio del disputatum, inoltre, diviene nuovamente applicabile, oltre che, naturalmente, in caso di pieno accoglimento della domanda (ipotesi in cui disputatum e decisum finiscono per coincidere), in caso di integrale rigetto. I termini della questione sono riassunti nella seguente massima, estratta da un'ampia e approfondita pronuncia (su cui v. Scarselli, 1527) resa in argomento dalle Sezioni Unite, cui la successiva giurisprudenza (es.Cass. n. 536/2011) si è adeguata: ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato, in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale effettivamente prestata ( da ult. Cass. n. 18465/2024), sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nell'atto di impugnazione parziale della sentenza), tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell'impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum, ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa (Cass. S.U., n. 19014/2007).

In caso di cumulo di domande occorre considerare che la previsione dell'art. 10, comma 2, applicabile ai fini della determinazione del valore della causa in vista della liquidazione degli onorari di avvocato e dei diritti di procuratore, concerne solo l'ipotesi di più domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona, e non anche l'ipotesi di domande separatamente proposte (contro un medesimo soggetto e da attori diversi) in processi distinti ed autonomi, ancorché caratterizzati da identità di questioni (Cass. n. 8599/1992). In ipotesi di cumulo oggettivo ex art. 104, che presuppone la proposizione delle domande in un unico processo nei confronti del medesimo convenuto o anche di una pluralità di convenuti unitariamente considerata in quanto titolare, nell'insieme, dello stesso rapporto dedotto in giudizio, la liquidazione degli onorari agli avvocati deve essere effettuata previa somma del valore delle domande proposte, mentre in caso di domande fra loro subordinate o proposte in via alternativa si deve aver riguardo alla domanda di maggior valore (Cass. n. 11150/2003). Nella determinazione del valore occorre tener conto altresì della riconvenzionale (Cass. n. 2238/1969; Cass. n. 1210/1970; Cass. n. 102/1974). Viceversa, sulla determinazione del valore non incide la precisazione della domanda fatta in corso di causa (Cass. n. 4244/1977; Cass. n. 2518/1981). Così, in caso di totale rigetto di una domanda la cui entità sia stata ridotta dalla stessa parte attrice in corso di causa, nella liquidazione delle spese processuali in favore del convenuto, ed in particolare di quelle afferenti ad attività difensive svolte prima della dichiarazione dell'attore di voler ridurre la propria domanda, si deve tenere conto del valore della domanda inizialmente formulata (Cass. n. 16707/2004).  In caso di litisconsorzio facoltativoex art. 103 c.p.c., il valore della causa non si determina sommando il valore delle singole domande proposte da un solo attore contro più convenuti o da più attori contro un solo convenuto, posto che queste, essendo cumulate soltanto dal lato soggettivo, vanno ritenute fra loro distinte ed autonome, e si deve, invece, fare riferimento al criterio della domanda dal valore più elevato, con la conseguenza che, anche ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all'avvocato che ha assistito più parti, la misura del compenso standard (sul quale applicare le variazioni in aumento e in diminuzione previste dall'art. 4, commi 2 e 4, d.m. n. 55 del 2014) va determinata nell'ambito dello scaglione di riferimento in relazione alla domanda (o alla condanna) di importo più elevato (Cass. n. 10367/2024).

Sulla determinazione del valore non incide neppure il parziale pagamento a lite pendente (Cass. n. 160/1976). Perciò, ai fini della liquidazione degli onorari difensivi a carico della parte soccombente, il riferimento contenuto nella Tariffa all'epoca vigente, per la determinazione del valore della causa, alla somma in concreto attribuita alla parte vincitrice, anziché a quella domandata non riguarda le ipotesi in cui l'ammontare dovuto all'avente diritto sia mutato, in corso di causa, per effetto di anticipazioni effettuate dal debitore, le quali trovano comunque titolo nell'attribuzione poi effettuata con la decisione del giudice adito (Cass. n. 5840/2004). Si è però di recente precisato che, quando, nel corso del giudizio, la pretesa attorea venga parzialmente soddisfatta, il valore della causa va determinato sempre in base al decisum, e non al petitum, ma al lordo della somma trattenuta in acconto, per tutti gli atti compiuti anteriormente al relativo pagamento, e al netto della stessa per gli atti compiuti, invece, successivamente al pagamento medesimo (Cass. n. 9237/2022).

In appello il valore si riduce nella misura in cui si riduce il tema del contendere: si immagini una sentenza di accoglimento di una domanda di condanna al pagamento di una somma appellata non con riguardo alla sorte, ma solo agli interessi (v. in argomento Cass. S.U., n. 19014/2007; Cass. n. 536/2011). Ove il giudizio prosegua in un grado di impugnazione soltanto per la determinazione del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il differenziale tra la somma attribuita dalla sentenza impugnata e quella ritenuta corretta secondo l'atto di impugnazione costituisce il disputatum della controversia nel grado e sulla base di tale criterio, integrato parimenti dal criterio del decisum (e cioè del contenuto effettivo della decisione assunta dal giudice), vanno determinate le ulteriori spese di lite riferite all'attività difensiva svolta nel grado (Cass. S.U., n. 19014/2007).

Il valore della causa va considerato indeterminabile, ai fini dell'individuazione dello scaglione per la liquidazione delle spese di lite solamente quando non sia rapportabile a parametri economici secondo gli schemi paradigmatici degli artt. da 10 a 15 del codice di rito (Cass. n. 3220/1981; Cass. n. 14586/2005).

Un accenno va fatto poi alle cause di valore eccedente il massimo previsto. L'aumento percentuale degli onorari, previsto per il caso di controversie aventi valore superiore a quello massimo indicato dalla tariffa all'epoca vigente, non consegue automaticamente al verificarsi di tale presupposto, ma può essere concesso o non dal giudice, nello esercizio di un potere discrezionale (Cass. n. 3017/1981).

Guardando a talune fattispecie sottoposta all'esame della giurisprudenza merita rammentare che è indeterminabile il valore dei giudizi divorzili, anch'essi sottoposti alla disciplina della soccombenza (Cass. n. 22251/2007), mentre quello delle cause concernenti la determinazione dell'assegno di divorzio si determina ai sensi dell'art. 13, comma 1, che disciplina il valore delle cause relative ad assegni alimentari (Cass. n. 3826/1977). Nelle azioni reali si ha riguardo, anche in tema di liquidazione delle spese, all'art. 15 (Cass. n. 1928/1964). Per le azioni possessorie il valore deve essere individuato attraverso l'applicazione analogica delle regole dettate per la valutazione delle cause relative al diritto il cui contenuto corrisponde al potere di fatto sulla cosa di cui si controverte (Cass. n. 6759/2003). Nei giudizi divisori il valore della causa, ai fini della liquidazione del compenso ai difensori, si determina in base alla massa da dividere, se la controversia riguarda la sua entità; ed in base alla quota se la contestazione riguardi solo quest'ultima (Cass. n. 11222/1997). In caso di inadempimento di un preliminare di vendita si deve far riferimento, ai fini della determinazione degli onorari di difesa, al valore della cosa che costituisce oggetto del previsto contratto definitivo (Cass. n. 2669/1975). In caso di impugnazione di una vendita ai fini di far rientrare il bene della massa in vista della divisione ereditaria occorre aver riguardo al valore del rapporto (vendita) che ha formato oggetto dell'accertamento giudiziario, a norma dell'art. 12, comma 1 (Cass. n. 1482/1973). Il valore della causa promossa per il conseguimento di pensione d'invalidità, al fine della liquidazione delle spese, va determinato cumulando le annualità domandate fino ad un massimo di dieci, in applicazione della seconda ipotesi comma 2 dell'art. 13, atteso che detta pensione è assimilabile ad una rendita vitalizia (Cass. n. 2573/1978; Cass. n. 157/1985; Cass. n. 2837/1986; Cass. n. 373/1989; Cass. n. 7203/2004; Cass. n. 23274/2004; Cass. n. 2148/2011). Le cause di opposizione agli atti esecutivi devono ritenersi di valore indeterminabile (Cass. n. 2558/1972; Cass. n. 99/1978; Cass. n. 2579/1982). L'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento è riconducibile all'ipotesi dell'art. 17, prima parte, di guisa che il valore della relativa causa si determina in base all'ammontare del passivo (Cass. n. 5701/1981).

Le controversie in materia catastale hanno valore indeterminabile, senza che assuma rilievo l'importo del tributo (Cass. n. 29994/2022).

L’impugnazione della pronuncia sulle spese in generale

Il principio rammentato in apertura secondo cui la valutazione della soccombenza va operata globalmente, in considerazione del complessivo esito del giudizio, dispiega i suoi effetti anche in fase di impugnazione.

Perciò, il giudice d'appello che riforma la sentenza di primo grado è tenuto, anche in assenza di un motivo di impugnazione sul punto, a procedere alla liquidazione non soltanto delle spese del secondo grado, ma anche di quelle del grado precedente, avuto riguardo al principio della soccombenza: e ciò, in buona sostanza, perché la riforma della sentenza impugnata travolge automaticamente la pronuncia sulle spese. Ciò vuol dire che, in caso di riforma, il giudice d'appello — quale che fosse stata la pronuncia assunta in primo grado — può porre le spese del doppio grado del giudizio a carico del soccombente, salvo non ritenga sussistere ragioni per disporre in tutto o in parte la compensazione in relazione a ciascuno dei gradi ovvero ad entrambi. La massima ripetuta, al riguardo, è la seguente: il potere del giudice d'appello di procedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, poiché gli oneri della lite devono essere ripartiti in ragione del suo esito complessivo, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata dal giudice del gravame soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass. n. 16526/2024)

L'opposta regola, cioè, si applica qualora il giudice d'appello confermi la sentenza di primo grado: in questo caso egli può intervenire sulla statuizione concernente le spese del primo grado del giudizio soltanto in presenza di impugnazione sul punto.

Il funzionamento del congegno della soccombenza, quale criterio di valutazione complessivo, emerge con particolare evidenza nel caso di cassazione con rinvio anche per le spese del giudizio di legittimità: in tal caso è ben possibile — ed è anzi la regola — che la parte vincitrice in cassazione sia condannata al pagamento anche delle spese del relativo giudizio ove soccombente, infine, in sede di rinvio.

Osserva in proposito la giurisprudenza che la riforma della sentenza travolge automaticamente la pronuncia sulle spese e fa sorgere l'obbligo del giudice del gravame di pronunciare. La pronuncia sulle spese giudiziali, contenuta in una sentenza, è destinata a cadere automaticamente in caso di accoglimento, sia pure parziale, dell'impugnazione proposta avverso la sentenza stessa (Cass. n. 2365/1970). Il principio è fermo come si vedrà in riferimento alle singole impugnazioni.

Si discute se l'impugnazione incidentale tardiva per le spese sia o no ammissibile. Secondo un primo indirizzo, l'interesse della parte, risultata vittoriosa nel giudizio, ad impugnare il capo della sentenza che abbia disposto la totale compensazione delle spese giudiziali, sorge dalla sentenza medesima e non dall'eventuale impugnazione di essa da parte del soccombente. Con la conseguenza che avverso tale statuizione il gravame deve essere proposto nei termini ordinari, senza che sia ammissibile la impugnazione incidentale tardiva (Cass. n. 4708/1981). Questo principio — ripetuto in termini analoghi, tra le altre, da Cass. n. 2858/1982; Cass. n. 3973/1982; Cass. n. 6464/1985; Cass. n. 5198/1986 — si trova parimenti formulato con riguardo all'impugnazione mediante ricorso per cassazione. E cioè, la pronuncia sulle spese del giudizio costituisce autonomo capo della decisione, rispetto al quale l'interesse ad impugnare sorge in modo immediato e diretto dalla pronuncia stessa, non presentando esso alcun collegamento con gli altri punti della decisione oggetto dell'avversa impugnazione. In conseguenza, la parte che intende dolersi della pronuncia sulle spese, contenuta nella sentenza d'appello notificata, deve proporre ricorso per cassazione nel termine perentorio previsto dal comma 2 dell'art. 325, che decorre dal giorno della notificazione della sentenza, essendo concesso di proporre ricorso incidentale dopo la scadenza del termine predetto, ma in quello di cui al combinato disposto degli artt. 334, 370 e 371, soltanto quando l'impugnazione attenga allo stesso capo o a capi dipendenti o connessi con quello che forma oggetto del ricorso principale (Cass. n. 4829/1982). Anche in questo caso si tratta di indirizzo più volte confermato (Cass. n. 6622/1983; Cass. n. 1602/1984; Cass. n. 1271/1986; Cass. n. 3377/1986; Cass. n. 4915/1986; Cass. n. 6904/1986; Cass. n. 7380/1986; Cass. n. 3463/1987; Cass. n. 3460/1987; Cass. n. 3656/1987; Cass. n. 7304/1987; Cass. n. 20126/2006).

Secondo un'opposta opinione, l'impugnazione incidentale tardiva per le spese è ammissibile. Il capo della decisione di primo grado relativo alla totale compensazione delle spese del giudizio non può essere considerato autonomo o indipendente, tale da poter passare in giudicato, in quanto, a seguito di impugnazione principale della parte soccombente nel merito, è suscettibile sia di conferma, sia di riforma, anche in peius, per l'altra parte, ma costituisce un capo (della decisione) dipendente, avverso il quale è pienamente ammissibile l'impugnazione incidentale tardiva della parte risultata vittoriosa, il cui relativo interesse sorge proprio dall'impugnazione principale, anche per la conseguente possibilità di una riforma in peius di tale capo nei suoi confronti (Cass. n. 2899/1982). Anche tale pronuncia non è rimasta isolata (Cass. n. 2577/1985; Cass. n. 338/1987). Sulla materia hanno avuto modo di pronunciarsi  le Sezioni Unite, secondo le quali l'art. 334, che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione (o chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell'art. 331), di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l'accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l'avversario tenga analogo comportamento, e, pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall'impugnazione principale. Tale principio trova applicazione anche per la pronuncia sulle spese giudiziali, che è conseguenziale ad ogni decisione che definisce il giudizio, quale che sia il capo di tale decisione impugnato in via principale (Cass. S.U. n. 2331/1991). Questa soluzione risulta stabilizzata (Cass. n. 12982/1999; Cass. n. 11042/2003). A fronte dell'impugnazione per le spese, è poi  inammissibile l'impugnazione incidentale tardiva per il merito (Cass. n. 5417/1981; Cass. n. 2160/1983; Cass. n. 3556/1985; Cass. n. 3282/1986).

Sotto il profilo del quantum, si sottolinea costantemente in giurisprudenza come l'impugnazione delle spese liquidate detta essere specifica. La parte che impugna la liquidazione delle spese fatta dal giudice ha cioè l'onere di specificare quali sono le singole partite che intende contestare, perché non dovute o liquidate in eccesso, e ciò per porre il giudice in condizione di accertare se siano state violate le norme della tariffa professionale (Cass. n. 2680/1962). Anche più di recente — e nell'intero arco temporale successivo alla remota pronuncia ora citata — è stato affermato che, in tema di liquidazione delle spese processuali, la parte che censuri la sentenza di primo grado con riguardo alla liquidazione delle spese di giudizio, lamentando la violazione dei minimi previsti dalla tariffa professionale, ha l'onere di fornire al giudice d'appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando, in maniera specifica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado, dovendosi escludere che tali indicazioni possano essere desunte da note o memorie illustrative successive, la cui funzione è solo quella di chiarire le censure tempestivamente formulate (Cass. n. 21012/2010). Tale affermazione — ribadita tra le tante da Cass. n. 2404/1963; Cass. n. 1159/1967; Cass. n. 89/1969; Cass. n. 210/1969; Cass. n. 483/1969; Cass. n. 464/1971; Cass. n. 45/1973; Cass. n. 1538/1973; Cass. n. 3988/1974; Cass. n. 4291/1974; Cass. n. 1740/1975; Cass. n. 708/1978; Cass. n. 4700/1980; Cass. n. 5467/2001 — rimane ferma anche se il giudice ha effettuato una liquidazione onnicomprensiva. Perciò, la liquidazione delle spese processuali non può essere compiuta in modo globale per spese, competenze di procuratore e avvocato, dovendo invece essere eseguita in modo tale da mettere la parte interessata in grado di controllare se il giudice abbia rispettato i limiti delle relative tabelle e così darle la possibilità di denunciare le specifiche violazioni della legge o delle tariffe. Tuttavia non è ammissibile, per carenza di interesse, censurare tale liquidazione ove non sia stato specificamente comprovato che la liquidazione globale arreca un pregiudizio alla parte vittoriosa, in quanto attributiva di una somma inferiore ai minimi inderogabili, essendo quindi irrilevante la mera allegazione della violazione dei criteri per la liquidazione delle spese (Cass. n. 5318/2007). Va da sé che, se l'impugnazione sulle spese è inammissibile, la pronuncia sulle spese è immodificabile.

Una volta che la pronuncia sulle spese sia stata riformata sede di impugnazione, occorre stabilire entro quali termini la parte vincitrice in sede di gravame possa ripetere quanto eventualmente pagato a titolo di spese in esecuzione della pronuncia riformata. Afferma in proposito la S.C., in generale, che, una volta formulata istanza di ripetizione di quanto pagato per spese in esecuzione della sentenza di cui si chiede la riforma, incorre in vizio di omessa pronuncia la sentenza che abbia omesso di statuire sul punto (Cass. n. 12361/1991). Ciò con la precisazione che la domanda di rimborso delle spese processuali liquidate nella sentenza di primo grado può essere proposta in grado di appello, giacché il diritto alla restituzione di quanto è stato pagato in esecuzione della sentenza riformata, sebbene possa essere fatto valere in un giudizio autonomo (come si ricava argomentando dall'art. 389), ha il suo proprio giudice in quello investito dell'impugnazione della sentenza, dalla cui riforma o cassazione il diritto deriva (art. 336), come risulta confermato dalla circostanza che, in caso di cassazione con rinvio, la domanda in questione può essere proposta al giudice di rinvio (Cass. n. 6731/2002).

La ripetizione dell'importo già corrisposto per spese è dovuta, secondo alcune pronunce, a titolo di ripetizione di indebito (p. es. Cass. n. 626/1962Cass. S.U., n. 3071/1983). In seguito si è però stabilizzato l'indirizzo secondo cui la ripetizione dell'importo già corrisposto per spese non è dovuta a titolo di ripetizione di indebito, ma ai fini di restituito in integrum. Così, allorché venga riformata in appello una sentenza già posta in esecuzione forzata, il debitore esecutato ha diritto alla restituzione non solo del capitale pagato sulla base del titolo successivamente riformato, ma anche delle somme corrisposte a titolo di rifusione delle spese del giudizio di esecuzione sostenute dal creditore esecutante, e ciò a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di quest'ultimo (Cass. n. 25143/2008). Nell'illustrare i termini della questione la S.C. (Cass. n. 25143/2008) ha rammentato il proprio pregresso indirizzo con cui essa in diverse ma coerenti pronunce aveva ritenuto che: a) l'esecuzione effettuata sulla base di un titolo solo provvisoriamente esecutivo è fatta dal creditore a proprio rischio, con la conseguenza che, quando il titolo viene a cadere a seguito di impugnazione, tutte le spese di esecuzione ben possono dal giudice essere poste a suo carico (Cass. n. 348/1973); b) l'entità della restituzione deve includere anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di restitutio in integrum e di ripristino della situazione precedente (Cass. n. 11491/2006); c) la revoca, mediante ordinanza fuori udienza, della provvisoria esecuzione di un titolo giudiziale, sottrae a quest'ultimo l'efficacia esecutiva fin dal deposito dell'ordinanza stessa per cui il creditore che ha intimato precetto al debitore per l'adempimento è soccombente, anche ai fini delle spese, nel giudizio di opposizione all'esecuzione dal medesimo debitore instaurato (Cass. n. 2487/1998); d) la riforma, anche parziale, della sentenza di primo grado determina la caducazione ex lege della statuizione sulle spese e il correlativo dovere, per il giudice d'appello, di provvedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle stesse, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata (Cass. n. 11491/2006; Cass. n. 15112/2005); e) la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova talché è ammissibile in appello, anche nel corso del giudizio, quando l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione. Tutte le specifiche regole sin qui esposte sono, secondo la tesi prevalente, riconducibili al principio del c.d. «effetto espansivo interno», secondo il quale la decisione dell'impugnazione sulla questione principale può comportare la modificazione anche della questione dipendente, pur se autonoma e non investita da specifica censura (Cass. n. 11491/2006; Cass. n. 19937/2004; Cass. n. 23985/2019). Per costante orientamento della S.C. non rilevano invece in questa materia valutazioni di buona o mala fede non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti (Cass. n. 21992/2007; Cass. n. 8829/2007; Cass. n. 16559/2005).

Il regolamento delle spese in appello va effettuato, come sempre, in considerazione dell'esito complessivo del giudizio e non già separando l'esito della fase di impugnazione dai risultati complessivi della lite (Cass. n. 7314/1993; Cass. n. 12413/2003). Ciò non significa però che il principio della soccombenza possa essere ignorato. Perciò, è vittoriosa la parte che, dopo essere stata condannata in primo grado al risarcimento integrale del danno da fatto illecito, ottenga in appello il riconoscimento di un concorso di colpa, a carico del danneggiato; ne consegue che, in tal caso, il giudice del gravame non può, neppure in parte, condannare l'appellante a rimborsare le spese del secondo grado all'appellato, il quale ha dato causa al prolungarsi del processo, opponendo all'impugnazione una resistenza rivelatasi ingiustificata, ma può, eventualmente, compensare, in tutto o in parte, tali spese, qualora ne ravvisi i motivi (Cass. n. 25132/2010).

In particolare, in tema dei poteri che spettano al giudice di appello in relazione al regolamento delle spese di lite, si debbono distinguere due ipotesi: quella in cui egli rigetta il gravame, confermando la sentenza impugnata, e quella in cui lo accoglie, anche parzialmente. Nel primo caso, non può, in mancanza di uno specifico motivo di appello da parte del soccombente, modificare la decisione di primo grado sulle spese giudiziali; nel secondo, invece, ha potere di modificare la ripartizione delle spese fatte dal primo giudice, anche in difetto di specifico motivo di gravame (Cass. n. 2192/1975; Cass. n. 3424/1978; Cass. n. 2979/1982; Cass. n. 3189/1982; Cass. n. 2829/1987; Cass. S.U. n. 15559/2003; Cass. n. 15483/2008). Il giudice di appello, dunque, quando accoglie il gravame, ha il potere di modificare la ripartizione delle spese fatta dal giudice di primo grado, anche in mancanza di uno specifico motivo di gravame al riguardo (Cass. n. 2864/1968; Cass. n. 668/1970; Cass. n. 1275/1970; Cass. n. 1953/1971; Cass. n. 3676/1975; Cass. n. 902/1976; Cass. n. 4005/1978; Cass. n. 1515/1980; Cass. n. 1180/1982; Cass. n. 6384/1986; Cass. n. 39/1988; Cass. n. 6155/2000; Cass. n. 7846/2006; Cass. n. 12963/2007).

In tale prospettiva, nel rinnovare totalmente la regolamentazione di tali spese, alla stregua dell'esito finale della lite, il giudice d'appello può in conseguenza di questo apprezzamento unitario anche pervenire ad un provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese dell'intero giudizio (Cass. n. 4937/1991; Cass. n. 12233/1992; Cass. n. 10133/1993; Cass. n. 5601/1994; Cass. n. 5988/2001; Cass. n. 5497/2002; Cass. n. 9783/2003; Cass. n. 10405/2003; Cass. n. 19305/2005; Cass. n. 11491/2006; Cass. n. 13059/2007). Resta fermo, però, che le spese del doppio grado del giudizio non possono essere liquidate cumulativamente dal giudice dell'appello, ma devono essere determinate separatamente ed analiticamente al fine di individuare i criteri di liquidazione in relazione all'attività defensionale svolta (Cass. n. 11411/1993).

In caso di rimessione al primo giudice, il giudice d'appello deve liquidare le spese. L'art. 91  non richiede, per la pronunzia sulle spese, una decisione che attenga al merito ma unicamente una pronunzia che chiuda definitivamente il processo avanti al giudice presso il quale il processo e pendente. Da ciò deriva che anche la sentenza pronunciata in grado di appello, la quale, a norma dell'art. 354 , rimetta la causa davanti al giudice di primo grado, deve ritenersi conclusiva della fase di secondo grado e deve quindi contenere pronunzia in ordine all'onere delle spese processuali a termini del citato art. 91 (Cass. n. 216/1962). Tale principio — che si rinviene tra le tante in Cass. n. 1154/1962; Cass. n. 2882/1966; Cass. n. 2122/1968; Cass. n. 2028/1969; Cass. n. 3427/1972; Cass. n. 1091/1973; Cass. n. 1506/1975; Cass. n. 1711/1980; Cass. S.U., n. 9594/1994; Cass. n. 13550/2006; Cass. n. 16765/2010 — si applica, ovviamente, non solo l'ipotesi prevista dall'art. 354, ma anche a quella disciplinata dall'articolo precedente. La pronuncia sulle spese di lite — come ripetuto da Cass. n. 18651/2003 — è contenuta nella decisione di appello resa contro sentenza non definitiva. In tema di spese processuali, cioè, il giudice di secondo grado che in via definitiva decida sull'appello avverso una sentenza non definitiva esaurisce con la sua pronuncia l'ambito del thema decidendum chiudendo il processo davanti a sé e, pertanto, non può rimettere ad una pronuncia definitiva la liquidazione delle spese, ma deve provvedere sulle sole spese del giudizio di secondo grado, restando quelle di primo grado affidate al giudice di primo grado con la pronuncia della sentenza definitiva (Cass. n. 7662/1987; Cass. n. 21978/2019). Viceversa, com'è ovvio, non contiene la pronuncia sulle spese la sentenza non definitiva resa in appello (Cass. n. 4144/1975).

Quanto al ricorso per cassazione contro la pronuncia sulle spese, si ripete che il regolamento delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, cui è devoluta anche la valutazione della entità della soccombenza in relazione all'esito finale della lite. L'ammissibilità del sindacato della cassazione resta circoscritta, in relazione all'art. 91, sotto il profilo dell'an debeatur, alla violazione del principio secondo cui non può mai essere condannata alle spese la parte totalmente vittoriosa (tra le moltissime, Cass. n. 14023/2002; Cass. n. 10009/2003; Cass. n. 12413/2003; Cass. n. 17692/2003; Cass. n. 17953/2005; Cass. n. 5828/2006).

E cioè, il sindacato di legittimità sulle pronunzie dei giudici del merito è diretto solamente ad evitare che possa risultare violato il principio secondo cui esse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, essendo del tutto discrezionale la valutazione di totale o parziale compensazione per giusti motivi, la cui insussistenza il giudice del merito non è tenuto a motivare (Cass. n. 26912/2020).

Sotto il profilo del quantum debeatur, è parimenti fermo il principio — ribadito da Cass. n. 6864/2000; Cass. n. 13417/2001; Cass. n. 7527/2002; Cass. n. 1382/2003; Cass. n. 5386/2003; Cass. n. 5581/2003; Cass. n. 9700/2003; Cass. n. 2626/2004; Cass. n. 20904/2005; Cass. n. 146/2006; Cass. n. 270/2006; Cass. n. 14744/2007 — secondo cui il ricorso in cassazione per asserita violazione delle tariffe è inammissibile, ai sensi dell'art. 366, n. 4, ove non siano state specificate le singole partite contestate e non siano state indicate le singole voci violate della tariffa professionale (Cass. n. 441/1966). Regola, quella che precede, talora ancorata anche al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass. n. 13098/2003; Cass. n. 3651/2007).

Quanto al giudizio di rinvio, la cassazione con rinvio di una sentenza resa in grado di appello travolge la pronunzia sulle spese dei precorsi gradi di giudizio. Pertanto, il giudice di rinvio non soltanto deve provvedere ex novo sulle spese stesse, come su quelle del giudizio di cassazione o di rinvio, ma ha il potere di attribuire le spese secondo l'esito definitivo della lite e con considerazione globale di questa, secondo il criterio della soccombenza finale, anche nel caso in cui la causa abbia avute, nelle varie fasi di giudizio, alterne vicende per le parti (Cass. n. 15005/2000; Cass. n. 4909/2004; Cass. n. 7243/2006; Cass. n. 2634/2007). Così — secondo un'ottica osservata da Cass. n. 1112/1964; Cass. n. 2024/1965; Cass. n. 483/1966 — quando la Corte di cassazione, annullando la sentenza denunciata, rimette al giudice di rinvio il compito di provvedere in ordine alle spese per quanto riguarda il giudizio di cassazione, tale rinvio non concerne solo la liquidazione di tutte le spese per le varie fasi del processo, ma implica altresì il potere di attribuire secondo l'esito definitivo della lite e con considerazione globale di essa, secondo il criterio della soccombenza finale, anche nel caso in cui la lite abbia percorso più fasi con alterne vicende per le parti. Non viola, pertanto, il criterio della soccombenza il giudice di rinvio che condanni alle spese del giudizio di cassazione il ricorrente vittorioso in considerazione della definitiva soccombenza del medesimo (Cass. n. 2764/1962).

In sede di regolamento di competenza, non possono essere censurati capi della sentenza, come quello della condanna alle spese giudiziali, estranei alla competenza, dovendo ogni altra censura, che si muove alla sentenza impugnata al di fuori dell'ambito della competenza, formare oggetto di impugnazione ordinaria (Cass. n. 3964/1984; Cass. n. 1039/1996; Cass. n. 7180/1996; Cass. n. 15430/2004). Perciò, la sentenza che ha pronunciato soltanto sulla competenza e sulle spese di lite deve essere impugnata con istanza di regolamento (necessario) di competenza relativamente al primo capo della statuizione, mentre, per il capo attinente alle spese, occorre un'impugnazione distinta da proporre nei modi ordinari e la decisione di quest'ultimo gravame dipende dalla soluzione della questione di competenza dedotta con il regolamento, secondo il principio della soccombenza, stante il carattere accessorio della pronuncia sulle spese (Cass. n. 4623/2002). A fronte di quest'opinione — confermata da Cass. n. 17665/2004 — è stato in seguito affermato che il regolamento (necessario) di competenza avverso la sentenza che ha pronunciato soltanto sulla competenza e sulle spese di lite comporta la devoluzione alla S.C. anche della decisione sul capo concernente le spese, non avendo il ricorrente l'onere di impugnare la pronuncia sulle spese, né potendo ciò fare mediante un'impugnazione distinta, proposta nei modi ordinari - ammissibile soltanto qualora detta parte censuri esclusivamente il capo concernente le spese, ovvero nel caso in cui sia la parte vittoriosa sulla questione di competenza a censurare tale statuizione - in quanto siffatto regolamento costituisce un mezzo di impugnazione al quale sono applicabili le norme generali in materia di impugnazioni non derogate dalla specifica disciplina per esso stabilita e perché la pronuncia sulle spese processuali non costituisce una statuizione autonoma e separata rispetto alla dichiarazione di incompetenza, sicché la rimessione alla S.C. della questione di competenza, mediante l'istanza di regolamento, implica, in via consequenziale, anche la cognizione sulla pronunzia in tema di spese, destinata ad essere caducata, nel caso di suo accoglimento. Peraltro, qualora il regolamento sia accolto ed il giudizio debba proseguire innanzi al giudice dichiaratosi incompetente, la S.C. deve provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 91, comma 1, ultima parte, mentre sulle spese relative alla fase svoltasi innanzi al giudice erroneamente dichiaratosi incompetente deve provvedere quest'ultimo, all'esito del giudizio che, una volta riassunto, continua innanzi al medesimo e nel quale conservano rilevanza gli atti compiuti sino alla sentenza di incompetenza cassata, mentre, nel caso di mancata riassunzione, le spese, ai sensi dell'art. 310, u.c., restano a carico delle parti che le hanno anticipate (Cass. S.U., n. 14205/2005). Soluzione, questa, che pare essersi poi consolidata (Cass. n. 10636/2007; Cass. n. 16552/2008).

In taluni frangenti il regolamento delle spese è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione. P. es., avverso il decreto con il quale la Corte d'appello, nel decidere sull'istanza di modifica o revoca del decreto in tema di revoca di un amministratore di condominio, condanna una parte al pagamento delle spese è ammissibile il ricorso per cassazione, in applicazione del criterio generale della soccombenza, il quale si riferisce ad ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito e, pertanto, anche al procedimento camerale azionato in base agli artt. 1129, comma 11, c.c. e 64 disp. att. c.c. (Cass. n. 25682/2020). Egualmente, in tema di procedimenti di volontaria giurisdizione, è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento sulle spese processuali ove sia adottato, sia pure erroneamente, con il provvedimento di volontaria giurisdizione, in quanto la pronuncia sulle spese, che risolve un contrasto in materia di diritti soggettivi aventi ad oggetto l'individuazione del soggetto che deve sopportare l'onere delle spese, ha carattere definitivo, qualora non sia stato proposto il reclamo alla Corte d'appello. Ove, invece, sia stato proposto il predetto reclamo ex art. 739 nei confronti del provvedimento di merito che la contiene, la statuizione sulle spese, assumendo carattere conseguenziale ad una decisione che potrebbe venir meno con l'accoglimento del reclamo, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., potendo essere riesaminata con il merito del provvedimento in sede di reclamo (Cass. n. 24140/2004). Ed ancora, avverso l'ordinanza che dispone la correzione di errore materiale, ai sensi dell'art. 288, è ammesso il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avente ad oggetto la statuizione di condanna di una delle parti al pagamento delle spese del procedimento di correzione, avendo detta statuizione non soltanto carattere decisorio, ma altresì definitivo, in quanto non impugnabile con il rimedio di cui all'ultimo comma del citato art. 288, preordinato esclusivamente al controllo della legittimità dell'uso del potere di correzione sotto il profilo della intangibilità del contenuto concettuale del provvedimento corretto (Cass. n. 9311/2006).

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