Codice di Procedura Civile art. 110 - Successione nel processo.

Mauro Di Marzio

Successione nel processo.

[I]. Quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto [299, 300 2, 328 1].

Inquadramento

La norma in commento è dettata per il caso che la parte, persona fisica o giuridica, «venga meno» e, cioè, cessi di esistere nel corso del processo: essa stabilisce che in tal caso il processo prosegue nei confronti del successore a titolo universale.

Il significato della disposizione è discusso. In breve può dirsi che parte della dottrina guarda alla successione nel processo come al risvolto processuale di una vicenda di natura sostanziale determinata dal venir meno della parte e, in conseguenza di ciò, dal congegno successorio che tale evento normalmente determina (Proto Pisani, in Comm. Allorio, 1973, 1211; De Marini, 2; Romagnoli, 691; Andrioli, 298; Marengo, 1383). Altri autori tengono invece distinto il profilo processuale da quello sostanziale ed assumono, cioè, che la disposizione rechi la disciplina di un fenomeno esclusivamente processuale, non dipendente dai mutamenti verificatisi sul piano sostanziale: soluzione, quest'ultima, la quale si appoggia sull'osservazione, ridotta all'essenziale, che, essendo il processo in corso, non potrebbe configurarsi un fenomeno successorio in ordine alla titolarità di diritti che sono ancora al momento sub iudice (Picardi, 194; Liebman, 2007, 96; Redenti, 197).

La S.C., poi, afferma in alcune pronunce che, ove nel corso del giudizio muoia una delle parti, la legittimazione attiva e passiva si trasmette agli eredi indipendentemente dalla successione nel diritto controverso: secondo quest'impostazione, dunque, l'operatività dell'art. 110 appare scollegata dal sostrato sostanziale della vicenda (Cass. n. 5169/1986; Cass. n. 779/1997; Cass. n. 2931/1984; Cass. n. 4141/1985; Cass. n. 8452/1995; Cass. n. 6480/2000; Cass. n. 5603/2001; Cass. n. 2292/2004; Cass. n. 6469/2005; Cass. n. 1887/2006; Cass. n. 1202/2007). Altre pronunce ritengono applicabile l'art. 110 soltanto in caso di successione dell'erede nel rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, sicché la disposizione non mirerebbe a ricostituire la bilateralità del processo, ma sarebbe diretta ad individuare i soggetti che hanno il potere di contraddire sul piano del diritto sostanziale (Cass. n. 5664/1996; Cass. n. 10065/2003).

Ciò detto, la fattispecie prevista dall'art. 110 consta di due elementi: i) il venir meno di una delle parti «per morte o per altra causa»; ii) il verificarsi di una successione a titolo universale. Con la precisazione, tuttavia, che tale successione è talora intesa come successione «nel diritto», secondo l'espressione adottata dalla sentenza da ultimo citata. Resta fermo che, in mancanza di uno dei menzionati elementi si è al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 110.

È bene rammentare che il soggetto che propone impugnazione nell'asserita qualità di successore, a titolo universale, di colui che era stato parte nel precedente grado di giudizio, deve non soltanto allegare la propria legitimatio ad causam per essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, ma è altresì tenuto, a pena d'inammissibilità, a fornire la prova, con riscontri documentali la cui mancanza, attenendo alla regolare instaurazione del contraddittorio, è rilevabile d'ufficio - delle circostanze costituenti i presupposti di legittimazione alla successione nel processo ai sensi dell'art. 110 (Cass. n. 22980/2017; Cass. n. 22507/2016).

Successione della persona fisica

Il «venir meno» della persona fisica si identifica con la morte verificatasi in pendenza del processo. In caso di morte della persona fisica legittimato a succedere nel processo alla parte venuta meno è esclusivamente il successore a titolo universale, ossia l'erede (Cass. n. 14266/2006).

Ed è stato ribadito che in caso di morte di una delle parti nel corso del giudizio di primo grado, la sua legittimazione attiva e passiva si trasmette agli eredi, i quali vengono a trovarsi, per tutta l'ulteriore durata del processo, in una situazione di litisconsorzio necessario di ordine processuale (Cass. n. 6780/2015).

È stato anche detto che, qualora si verifichi la morte della parte ed il processo venga riassunto da un soggetto che si qualifichi erede del de cuius, quale figlio del medesimo, dimostrando la relazione familiare, pur senza specificare il tipo di successione e senza indicare come sia avvenuta l'accettazione dell'eredità, l'atto di riassunzione, in quanto proveniente da soggetto certamente chiamato all'eredità quale che sia il tipo di successione, integra atto di accettazione tacita dell'eredità ed è, quindi, idoneo a far considerare dimostrata la legittimazione alla riassunzione (Cass. n. 18294/2024: ma l'affermazione è senz'altro inesatta, poiché non è affatto vero che il figlio sia certamente chiamato all'eredità del de cuius, dal momento che potrebbe trattarsi di legittimario pretermesso, il quale, com'è noto, non è chiamato all'eredità, salvo non eserciti con successo l'azione di riduzione).

Il fenomeno successorio di cui all'art. 110 non ha invece luogo nei confronti del mero chiamato all'eredità (Cass. n. 13571/2006; Cass. n. 8391/1998). In presenza di meri chiamati all'eredità, dunque, gli interessati possono sollecitarne una definitiva presa di posizione attraverso l'impiego dell'actio interrogatoria di cui all'art. 481 c.c. Ed inoltre, sussistendone i presupposti di cui all'art. 528 c.c., colui il quale intenda riattivare il giudizio può far dichiarare giacente l'eredità dismessa dal de cuius ed agire quindi nei confronti del curatore (Cass. n. 27274/2008).

Non del tutto persuasiva, se non frutto di una palese forzatura, è l'affermazione secondo cui, nell'ipotesi di interruzione del processo per morte di una delle parti in corso di giudizio i chiamati all'eredità, pur non assumendo, per il solo fatto di aver ricevuto e accettato la notifica come eredi, la suddetta qualità, hanno l'onere di contestare, costituendosi in giudizio, l'effettiva assunzione di tale condizione soggettiva, chiarendo la propria posizione, e il conseguente difetto di legittimazione, in quanto, dopo la morte della parte, la legittimazione passiva, che non si trasmette per mera delazione, deve essere individuata dall'istante allo stato degli atti, cioè nei confronti dei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conosciuta, o conoscibile con l'ordinaria diligenza, alcuna circostanza idonea a dimostrare la mancanza del titolo (Cass. n. 12987/2020): ma è nozione elementare che non è erede chi non vuole e che l'accettazione, se tacita, richiede il compimento di un atto che presupponga necessariamente la volontà di accettare e che il chiamato non avrebbe il diritto di compiere se non nella sua qualità di erede, sicché non è dato comprendere come l'accettazione dell'eredità possa scaturire da un comportamento meramente passivo, quale l'essere stato destinatario di una notificazione.

Nello stesso senso è stato affermato che il ricorso per riassunzione notificato individualmente nei confronti dei chiamati all'eredità ex art. 486 c.c. è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica, se questi riveste la qualità di successore universale della parte deceduta exart. 110; ne consegue che i chiamati all'eredità, pur non assumendo la qualità di eredi per il solo fatto di aver accettato la predetta notifica, hanno l'onere di contestare, costituendosi in giudizio, l'effettiva assunzione di tale qualità, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la riassunzione (Cass. n. 22870/2015).

Vale qui ricordare, inoltre, la peculiare posizione del legittimario pretermesso, il quale, come si accennava poc'anzi, non è erede fintanto che non intraprenda con successo l'azione di riduzione, il che si ripercuote anche sul fenomeno successorio disciplinato dall'art. 110. È stato difatti osservato che il legittimario pretermesso acquista la qualità di chiamato all'eredità solo dal momento della sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione, rimuovendo l'efficacia preclusiva delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in sé non nulle né annullabili; consegue che, anteriormente all'accoglimento della domanda di riduzione, l'erede pretermesso non è legittimato a succedere al defunto nel rapporto processuale da questo instaurato, non essendo qualificabile come successore a titolo universale, ai sensi dell'art. 110 (Cass. n. 27556/2008; Cass. n. 251/1999).

A seguito della morte della parte, inoltre la qualità di successore nel processo spetta all'erede della parte medesima e non anche al coniuge di tale erede, ancorché contitolare in forza del rapporto di coniugio dei beni ereditari oggetto del processo (Cass. n. 232/1984). Neppure succede nel processo l'esecutore testamentario (Cass. n. 2707/1994).

Nulla rileva, poi, per i fini della successione nel processo, in applicazione della norma in esame, la morte verificatasi anteriormente all'introduzione del giudizio, la quale impedisce che il rapporto processuale possa costituirsi (Cass. n. 2951/1988; Cass. n. 8670/1999; Cass. n. 10437/1994). La morte del convenuto verificatasi prima dell'instaurazione della causa ha allo stesso modo come conseguenza l'inesistenza del rapporto processuale, senza che possa assumere il rilievo di scusante l'incolpevole ignoranza della circostanza (Cass. n. 11688/2001). Ove, poi, il giudizio pervenga a sentenza nonostante la morte del convenuto verificatasi ante causam, la pronuncia così ottenuta sarà parimenti inesistente, e contro di essa gli eredi del defunto potranno agire, oltre che con un'autonoma azione di accertamento negativo, mediante un'opposizione ordinaria di terzo ex art. 404, comma 1, (Cass. n. 2023/1993).

In materia di scioglimento del matrimonio e di separazione coniugale, la morte di uno dei coniugi determina, ovviamente, il venir meno dello stesso rapporto di coniugio. Nondimeno, avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell'art. 149 c.c., sicchè nel giudizio d'impugnazione sono legittimati processuali ex art. 110 gli eredi della parte deceduta in qualità di successori universali, ancorché ad essi non sia trasmissibile il diritto controverso (Cass. n. 1079/2021).

In argomento le S.U. hanno da ultimo stabilito, risolvendo un contrasto insorto al riguardo, che, in caso di divorzio, nell'ipotesi di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo status, con prosecuzione del giudizio al fine dell'attribuzione dell'assegno divorzile, il venir meno, cioè la morte, dell'ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all'accertamento della debenza dell'assegno dovuto sino al momento del decesso. La morte dell'ex coniuge ricorrente nel corso del procedimento per la revisione dell'assegno divorzile, parimenti, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 898 del 1970, non comporta la dichiarazione di improseguibilità dello stesso, ma gli eredi subentrano nella posizione del coniuge richiedente la revisione, al fine dell'accertamento della non debenza dell'assegno a decorrere dalla domanda sino al decesso, nonché nell'azione di ripetizione dell'indebito, ex art. 2033 c.c., per la restituzione delle somme non dovute (Cass. S.U. n. 20494/2022).

Successione della persona giuridica

Con riguardo alle vicende concernenti le persone giuridiche private merita esaminare anzitutto la questione della fusione nelle sue ricadute sul processo.

In passato era affermato in giurisprudenza — sulla scia della dottrina prevalente, per la quale v. per tutti Andrioli, 365; Proto Pisani, in Comm. Allorio, 1973, 1213 — che l'incorporazione di una società realizza una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, del nuovo ente: pertanto, se tale evento si verifica nel corso del giudizio di primo grado, ancorché in quel giudizio non sia stata dichiarata in udienza (o notificata) l'estinzione della rappresentata, il difensore della società incorporata non può proporre impugnazione a nome della società incorporante, in difetto di espresso mandato di quest'ultima, avvalendosi della procura conferita dalla società estinta (Cass. n. 10595/2001; Cass. n. 22877/2004; Cass. n. 11532/2008). Ed inoltre, quantunque l'evento non fosse stato dichiarato, era ritenuta inammissibile l'impugnazione proposta dal procuratore della società incorporata a nome dell'incorporante in difetto del conferimento di nuova procura (Cass. n. 833/1994).

Nella stessa ottica — e cioè sulla premessa che la fusione per incorporazione abbia natura di evento interruttivo — è stato poi più volte ribadito che, una volta verificatasi la fusione delle società mediante incorporazione, l'impugnazione deve essere proposta da o contro il nuovo soggetto (la società incorporante) effettivamente legittimato anche se l'evento della fusione non sia stato né dichiarato né notificato (Cass. n. 6686/2006; Cass. n. 80/2007; Cass. n. 22658/2007; Cass. n. 18615/2008).

Sulla materia, in seguito, è intervenuto l'art. 2504-bis c.c. introdotto dalla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il quale ha stabilito, al comma 1 che la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. Nell'interpretare il significato della nuova disposizione, le Sezioni Unite hanno affermato che la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell'ipotesi di fusione paritaria, ma attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo: deve pertanto escludersi che la fusione per incorporazione determini l'interruzione del processo ai sensi dell'art. 300 (Cass. S.U., n. 2637/2006; nello stesso senso Cass. n. 4661/2007; Cass. n. 10653/2010). Tuttavia, le stesse Sezioni Unite hanno poco dopo ribadito che la fusione mediante incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario realizzava una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale, con quanto ne conseguiva in tema di applicazione delle regole dell'interruzione del processo (Cass. S.U., n. 27183/2007).

Il quadro così delineato — riassumibile in ciò, che la fusione per incorporazione costituiva evento interruttivo fino alla riforma del diritto societario, mentre non è più tale successivamente ad essa (Cass. n. 4740/2011; Cass. n. 6845/2010) — si è ulteriormente modificato a seguito di una successiva pronuncia, ancora una volta delle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di fusione, l'art. 2504-bis c.c. ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (1° gennaio 2004), le quali tuttavia pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione mortis causa perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la incorporante (o risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole: ad esse, di conseguenza non si applica la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 ss. (Cass. S.U., n. 19698/2010; Cass. n. 24498/2014; nello stesso senso, da ult. Cass. n. 1376/2016). In sintesi, nell'ipotesi della fusione per incorporazione, la disciplina dell'interruzione non opera affatto: sicché il difensore della società incorporata può proseguire nello svolgimento del suo incarico, entro i limiti in cui la procura lo consente, come se nulla fosse accaduto.

Un ulteriore sviluppo sì avuto con una successiva pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, ferma restando la facoltà per la società incorporante di spiegare intervento volontario in corso di causa, ai sensi e per gli effetti dell'art. 105 c.p.c.; nondimeno, ove la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l'interruzione del processo, esclusa ex lege dall'art. 2504 bis c.c. (Cass. S.U., n. 21970/2021). 

In breve: i) secondo un ribadito ma ormai superato indirizzo delle Sezioni Unite « … la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata … risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo» (Cass., S.U., 8 febbraio 2006, n. 2637); ii) secondo un più recente indirizzo, frutto di un ripensamento del precedente da parte delle Sezioni Unite, la fusione per incorporazione «estingue la società incorporata» (Cass., S.U., 30 luglio 2021, n. 21970), dando cioè luogo ad un fenomeno (non evolutivo-modificativo, ma, appunto) estintivo-successorio.

Inoltre, in ipotesi di fusione per incorporazione ex art. 2504-bis c.c., intervenuta in corso di causa, la legittimazione attiva e passiva all'impugnazione spetta alla sola società incorporante cui sono stati trasferiti i diritti e gli obblighi della società incorporata e che prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione facenti capo alla società incorporata, salva la possibilità della controparte di notificare l'atto di impugnazione anche nei confronti di quest'ultima, nel caso in cui, nonostante l'iscrizione nel registro delle imprese, non sia stata resa edotta della intervenuta fusione (Cass. n. 14177/2019).

Analoghe regole a quelle in generale dettate per le fusioni societarie si applicano nei riguardi delle associazioni non riconosciute (Cass. n. 1476/2007).

La dottrina è poi concorde nel ritenere che i fenomeni di trasformazione delle persone giuridiche — ed a maggior ragione quelli di semplice mutamento di denominazione — non comportano l'applicazione della disciplina dettata dalla disposizione in commento, dal momento che la trasformazione non dà luogo all'estinzione del soggetto, ma, per l'appunto, semplicemente ad una sua modificazione, senza soluzione di continuità (Montesano e Arieta, 559; Dalfino, 357). Il che è quanto del resto stabilisce l'art. 2498 c.c.

Sulla base di tale disposizione si trova in giurisprudenza affermato la trasformazione di una società da uno ad altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un altro, in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo (Cass. n. 13434/2002; Cass. n. 2636/2005; Cass. n. 26826/2006; Cass. n. 3269/2009; Cass. n. 13467/2011).

Questa impostazione si precisa in ciò, che la continuità delle società si mantiene anche a seguito della trasformazione di una società in accomandita semplice in società irregolare, ferma restando l'identità dell'impresa (Cass. n. 851/2000). Ed ancora, la trasformazione di una ditta individuale in società, ancorché non dotata di personalità giuridica, implica il trasferimento delle situazioni soggettive attive e passive inerenti all'esercizio dell'impresa, in precedenza imputate al titolare della medesima, al nuovo centro di imputazione rappresentato dalla nuova società, dando luogo, per l'effetto, ad una successione a titolo particolare che, verificatasi in corso di giudizio, rientra nelle previsioni dell'art. 111 (Cass. n. 13856/2002). Non dà luogo a successione titolo universale la cessione d'azienda, la quale comporta invece successione a titolo particolare, sia pure inerente ad un complesso di beni e rapporti, con conseguente applicazione dell'art. 111 (Cass. n. 5803/1989).

Nel processo, in caso di contestazione, spetta alla società trasformata, ovvero che abbia mutato denominazione, dimostrare che essa si pone in continuità con il precedente soggetto (Cass. n. 26/2002; Cass. n. 7131/2010).

Il già citato d.lgs. n. 6/2003 ha inoltre modificato anche la disciplina dettata in materia di scissione, trasferita nell'art. 2506 c.c.. Esso prevede che con la scissione una società «assegna» l'intero suo patrimonio, o parte dello stesso, a più società, preesistenti o di nuova costituzione.

Alcuni autori, ponendo l'accento sull'adozione del termine «assegna», hanno dunque ritenuto che la scissione non produca un effetto traslativo, ma determini soltanto un mutamento organizzativo della società (Cagnasso, 2355). Altri hanno affermato che l'espressione «assegna» non si presta ad essere intesa come volta ad escludere il trasferimento del patrimonio societario (Spitaleri, 489). 

Anche su questa materia è intervenuta la S.C., la quale ha affermato che la scissione societaria, secondo la nuova disciplina, con effetti dal 1° gennaio 2004, consistendo nel trasferimento del patrimonio ad una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l'assegnazione di azioni o di quote delle stesse ai soci della società scissa, produce effetti traslativi, che, sul piano processuale, non determinano l'estinzione di quest'ultima ed il subingresso di quella o di quelle risultanti dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l'applicazione della disciplina di cui all'art. 111 c.p.c. (Cass. S.U., n. 23225/2016).

Lo scioglimento delle società era in passato disciplinato dall'art. 2448 c.c., il quale nulla stabiliva in ordine agli effetti della medesima sul processo eventualmente il corso. Nel quadro di applicazione di tale disposizione la S.C. era ferma nel ritenere che la legittimazione processuale della società permanesse, nonostante la cancellazione, fin tanto che non fossero esauriti i rapporti giuridici ad essa (Cass. n. 4652/2006). La materia è oggi regolata dall'art. 2484 c.c. La norma prende espressamente posizione sugli effetti dello scioglimento, chiarendo che gli stessi, nelle ipotesi elencate, si produce con l'iscrizione presso il registro delle imprese. La citata disposizione va poi letta in combinato disposto con l'art. 2495 c.c., dettato in tema di cancellazione delle società, il quale, diversamente dal previgente art. 2456 c.c., attribuisce espressamente efficacia estintiva alla cancellazione della persona giuridica dal registro delle imprese. Il congegno estintivo della società per effetto della cancellazione, con il ribaltamento del precedente indirizzo secondo cui il permanere di rapporti giuridici facenti capo alla società impediva la sua estinzione, è recepito nella giurisprudenza della S.C. (Cass. S.U., n. 4060/2010; Cass. n. 8596/2013; Cass. n. 23574/2014)

Quanto agli effetti processuali dell'estinzione, è stato chiarito che, nel caso in cui una società di capitali, dopo aver promosso un procedimento civile, si estingua e venga cancellata dal registro delle società in pendenza di giudizio, non è possibile emettere una pronuncia di condanna contro di essa, in quanto soggetto non più esistente; ne consegue che, ove una tale condanna sia comunque pronunciata, va dichiarata inammissibile l'impugnazione proposta nei confronti della società estinta (Cass. n. 22830/2010).

La cancellazione dal registro delle imprese, causando l'estinzione della società (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall'art. 10 l. fall. per la nuova disciplina v.d.lgs. n. 14/2019– Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza),  ove intervenga nella pendenza di un giudizio nel quale essa sia parte, determina un'ipotesi di interruzione, con possibilità di prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell'art. 110. Qualora l'evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non era più possibile, l'impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società, in assenza di ripartizione dell'attivo, deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai socio nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso (Cass. n. 5605/2021Cass. n. 19580/2017, l'orientamento risale a Cass. S.U., n. 6070/2013). Ne consegue che, qualora l'estinzione della società a seguito di cancellazione dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio che la veda parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione ad opera o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell'art. 110; ove l'evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, purché dei presupposti della legitimatio ad causam sia da costoro fornita la prova (Cass. n. 25869/2020). Peraltro, il soggetto che agisce a tutela della pretesa creditoria di una società cancellata dal registro delle imprese ha l'onere di allegare espressamente e, poi, di dimostrare la propria qualità di avente causa della società, come assegnatario del credito in base al bilancio finale di liquidazione oppure come successore nella titolarità di un credito non inserito nel bilancio e non oggetto di tacita rinuncia, senza che assuma alcun rilievo la dichiarata qualità di ex-socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione nella posizione giuridica (Cass. n. 8521/2021).

In tema di giudizio di legittimità, è inammissibile il controricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese atteso che, da un lato, l'estinzione, intervenuta in pendenza di giudizio, determina la perdita della capacità processuale, l'interruzione del processo ex art. 299 ss. e la successione dei soci ai sensi dell'art. 110, e, dall'altro, la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso della controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso per cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci (Cass. n. 15177/2016).

Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6/2003, qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l'obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (Cass. S.U., n. 6070/2013; Cass. n. 13183/2017; Cass. n. 20840/2018).

Resta da accennare agli effetti sul processo della collocazione in liquidazione della società, che non determina un mutamento della personalità giuridica della stessa, né tantomeno la sostituzione di un soggetto di diritto ad un altro, ma semplicemente la modifica dell'oggetto sociale, che, per effetto della liquidazione, è ora diretto alla liquidazione dell'attivo ed alla sua ripartizione tra i soci, previa soddisfazione dei creditori sociali; pertanto, vi è continuità tra la società prima e dopo la messa in liquidazione (Cass. n. 29776/2008). Val quanto dire che nella fase liquidatoria di una società non opera la norma sulla successione nel processo.

Interruzione e riassunzione

Il meccanismo della successione si realizza normalmente, nel processo di cognizione ordinaria, attraverso l'applicazione delle disposizioni dettate in generale in tema di interruzione e riassunzione del processo dagli artt. 299,300,302,303 e 305. In particolare, se il venir meno della parte ha luogo dopo la costituzione, l'interruzione si determina dal momento in cui il procuratore di essa lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti, sicché il processo può continuare, senza estinguersi, soltanto se proseguito o riassunto da o nei confronti del successore a titolo universale entro il termine perentorio che l'art. 305 fissa attualmente in tre mesi.

Rinviando qui, per quanto concerne il funzionamento della interruzione e riassunzione del processo, al commento agli artt. 299 ss., occorre limitarsi a rammentare che la prosecuzione da parte del successore universale non presuppone tuttavia necessariamente la interruzione, potendosi egli costituirsi volontariamente prima ancora dell'interruzione, ai sensi dell'art. 302.

La costituzione volontaria in giudizio del successore universale, cioè, impedisce l'interruzione del processo (Cass. n. 8437/1997), In particolare, nell'ipotesi di morte di una delle parti nel corso del giudizio, gli eredi, indipendentemente dalla natura del rapporto controverso, vengono a trovarsi, per tutta la durata del processo, in una situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, sicchè, nel caso in cui intervenga volontariamente in causa uno degli eredi di detta parte, non vi è bisogno della dichiarazione del procuratore della stessa, perché la costituzione dell'erede è rivolta alla prosecuzione del giudizio, e quindi, a precludere l'effetto introduttivo con un'implicita comunicazione dell'evento interruttivo, e, pertanto, il giudice, avendo dunque conoscenza processuale di detto evento, deve ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti di altri eventuali eredi (Cass. n. 28447/2020; Cass. n. 24639/2020)

Bibliografia

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