Codice di Procedura Civile art. 116 - Valutazione delle prove.Valutazione delle prove. [I]. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti [2700, 2702, 2709, 2712, 2733 2, 2734, 2735 1, 2738 1 c.c.]. [II]. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate [118 2, 258] e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo [88 1, 207 3, 420 1-2]. InquadramentoLa norma in esame sancisce il principio del libero convincimento del giudice, in forza del quale lo stesso è libero di apprezzare e valutare le risultanze dell'istruzione probatoria da porre a base della decisione (Picardi, § 151; Cavallone, 1984, 706). Il principio del libero convincimento del giudice implica che, nella valutazione delle prove, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, nel senso che, fuori dai casi di prova legale, esse, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento, del quale il giudice deve dare conto con motivazione il cui unico requisito è l'immunità da vizi logici (Cass., n. 1747/2003). Il comma 2 della disposizione consente al giudice di desumere argomenti di prova da alcune condotte della parte (o dei difensori). Secondo una parte della dottrina gli argomenti di prova sono fonti di presunzioni semplici (Cappelletti 1962, 92, nota 27). Per altri, sono elementi di valutazione di altre prove, integrativi nonché aggiuntivi, mai in grado di costituire da soli l'unico fondamento per la decisione (cfr. Picardi, § 151). In accordo con la giurisprudenza di legittimità, un argomento di prova, specie quando non risulti isolato ma si inserisca in un più ampio contesto valutativo, può costituire esso stesso una sufficiente fonte di prova, e non soltanto un elemento di valutazione degli elementi già acquisiti al processo (Cass., n. 2700/1997). Principio del libero convincimento del giudiceLa norma in esame consacra il principio del libero convincimento del giudice, in forza del quale, sebbene lo stesso sia vincolato all'iniziativa delle parti sia per quanto riguarda l'aspetto delle conoscenze dei fatti della causa, sia per quanto riguarda l'aspetto della concreta dimostrazione di tali fatti, rimane libero di apprezzare e valutare le risultanze dell'istruzione probatoria da porre a base della decisione (Picardi, § 151; Cavallone 1984, 706). Peraltro, secondo autorevole dottrina, il principio della libera valutazione delle prove, pur superando i rigidi formalismi medievalistici di una valutazione della prova fondata su intangibili criteri legali, l'eccessiva liberalizzazione del potere del giudice nel valutare le prove potrebbe avere come conseguenza l'impoverimento del valore legale del giudizio (Verde, 1990, 465 ss.) In giurisprudenza si è osservato che il giudice al cui prudente apprezzamento — salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale — è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonché l'iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata. Tale valutazione, secondo quanto costantemente ribadito dalla S.C., è insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 16056/2016; Cass., n. 12912/2004). E' stato precisato che, pertanto, il giudice è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un'esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; tale attività selettiva si estende all'effettiva idoneità del teste a riferire la verità, in quanto determinante a fornire il convincimento sull'efficacia dimostrativa della fonte-mezzo di prova, con la conseguente inammissibilità di una tardiva produzione documentale volta a confutarla, salva soltanto l'eventuale “remissione in termini” (Cass., n. 16467/2017). Pertanto, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116, opera interamente sul piano dell'apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità , sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non prefigura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 360, comma 1, n. 4, ma prefigura un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall'art. 360, comma 1, n. 5, come riformulato dall'art. 54 d.l. n. 83/2012, conv., con modif., dalla l. n. 134/2012 (Cass. n. 23940/2017). Peraltro, la deduzione avente ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie (nella specie, per aver considerato il contrasto tra le dichiarazioni rese da una stessa persona in dibattimento e nel corso delle indagini preliminari) attiene alla sufficienza della motivazione ed è, pertanto, inammissibile ove trovi applicazione l'art. 360, comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal d.l. n. 83/2012, conv., con modificazioni, nella l. n. 134/2012 (Cass. n. 11863/2018). Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell' art. 360, comma 1, n. 5, (che attribuisce rilevanza all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell' art. 132, n. 4, - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892/2016 ). Il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di fondamento, sicché la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass. n. 19150/2016). Analogamente, il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, risolvendosi nell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. (Cass. n. 13922/2016, la quale ha cassato la sentenza di merito che, in un giudizio per il risarcimento dei danni cagionati ad un neonato in occasione del parto, aveva disatteso i rilievi tecnici formulati dal CTU, secondo i quali gli interventi praticati durante il travaglio ed il parto non corrispondevano ai protocolli della corretta assistenza, senza indicare le ragioni per cui aveva ritenuto erronei tali rilievi, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici utilizzati per addivenire alla decisione contrastante con essi). Il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; nei medesimi termini v. anche Cass. n. 13399/2018, la quale ha annullato la sentenza con cui, in un giudizio avente ad oggetto la domanda di indennizzo assicurativo in forza di polizza che prevedeva, tra i rischi assicurati, le affezioni conseguenti a morsi e punture di animali, il giudice d'appello, nel valutare l'incidenza del pregresso stato patologico dell'assicurata sull'accertata invalidità permanente, aveva disatteso l'esito della consulenza tecnica d'ufficio svolta in secondo grado - che aveva determinato nella misura del 55%, al netto della rimanente situazione di comorbilità, la misura dell'invalidità contratta per effetto del morso di una zecca - senza indicare le ragioni per le quali aveva ritenuto di disattendere tali conclusioni). E' stato precisato che tale vizio ricorre anche nel caso in cui nel corso del giudizio di merito siano state espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, ed il giudice si sia uniformato alla seconda consulenza senza valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, limitandosi ad un'acritica adesione ad essa, ovvero si sia discostato da entrambe le soluzioni senza dare adeguata giustificazione del suo convincimento mediante l'enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti (cfr. Cass. n. 13770/2018, la quale ha annullato la sentenza di merito che, in un giudizio per il risarcimento del danno biologico, aveva ridotto la percentuale di invalidità riconosciuta dal primo giudice avvalendosi acriticamente della CTU rinnovata ed omettendo del tutto non solo di sviluppare un'analisi comparativa, ma anche di menzionare le diverse conclusioni cui era giunto l'ausiliare di primo grado). Peraltro, se la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso (nella specie, documentata attraverso l'allegazione di un certificato medico indicativo del nesso di causalità tra la sindrome depressiva lamentata e la condotta illecita del convenuto), costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (Cass. n. 17399/2015). Nell'ipotesi di consulenza tecnica c.d. percipiente il giudice può anche disattenderne le risultanze, ma solo ove motivi in ordine agli elementi di valutazione adottati e a quelli probatori utilizzati per addivenire alla decisione, specificando le ragioni per le quali ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del CTU (Cass. n. 36638/2021, la quale ha annullato la decisione di merito che, in una controversia in tema di responsabilità civile per sinistro stradale mortale, aveva ravvisato un concorso di colpa della vittima, quantificandolo nella misura del 50 per cento, senza specificare le ragioni per le quali aveva ritenuto di disattendere le conclusioni peritali, le quali avevano escluso qualsiasi apporto causale o concausale del danneggiato nella determinazione dell'evento). Il principio del libero convincimento del giudice implica che, nella valutazione delle prove, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, nel senso che, fuori dai casi di prova legale, esse, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento, del quale il giudice deve dare conto con motivazione il cui unico requisito è l'immunità da vizi logici (Cass. n. 1747/2003). Inoltre, in ragione del principio, espresso dalla norma in esame, di libera valutazione delle prove, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti (Cass. n. 11011/2000). Peraltro, non è consentito al giudice di merito fondare il proprio convincimento sull'esame isolato di singoli elementi istruttori, nonché di ritenere ciascuno insufficiente a fornire ragionevole certezza su una determinata situazione di fatto, dovendo il relativo giudizio derivare da una organica e complessiva valutazione di essi nel quadro unitario dell'indagine probatoria (Cass. n. 6697/2009). In materia di prova testimoniale, la deposizione può essere ritenuta attendibile anche limitatamente a determinati contenuti, a condizione che, tra la parte del narrato ritenuta inattendibile ed il resto ritenuto meritevole di credito, non sussista un rapporto di causalità necessaria o l'una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell'altro (Cass. n. 10347/2016). Più in generale, la verifica in ordine all'attendibilità del teste - che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso - forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. n. 7623/2016). Argomenti di provaIl comma 2 della norma in esame stabilisce che il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate ed, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. Secondo una parte della dottrina gli argomenti di prova sono fonti di presunzioni semplici (Cappelletti 1962, 92, nota 27). Per altri, invece, sono elementi di valutazione di altre prove, integrativi nonché aggiuntivi, mai in grado di costituire da soli l'unico fondamento per la decisione (cfr. Picardi, § 151, il quale equipara gli argomenti di prova allo zero matematico). In accordo con la giurisprudenza di legittimità, un argomento di prova, specie quando non risulti isolato ma si inserisca in un più ampio contesto valutativo, può costituire esso stesso una sufficiente fonte di prova, e non soltanto un elemento di valutazione degli elementi già acquisiti al processo (Cass., n. 2700/1997). Peraltro, sebbene la norma in commento conferisca al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal comportamento processuale delle parti ed il mancato uso di tale potere non è censurabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, allorché il giudice abbia deciso di non utilizzare tale argomento sussidiario, avendo già acquisito i necessari elementi di prova in base alle risultanze dell'istruttoria (Cass., n. 26088/2011). Peraltro, l’omessa valutazione di un argomento di prova, non avendo valenza decisiva, non può essere denunciata in sede di legittimità quale vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5 (Cass. n. 2052/2025;Cass. n. 8621/2018, con riferimento alla deduzione dell’omesso esame di una perizia stragiudiziale). Casistica Nel giudizio diretto a ottenere una sentenza dichiarativa della paternità, la inidoneità, sancita dall'ultimo comma dell'art. 269 c.c., della sola dichiarazione della madre e della sola esistenza di rapporti tra questa e il preteso padre all'epoca del concepimento a costituire prova della paternità stessa, non è assimilabile al divieto assoluto di utilizzazione di simili dichiarazioni, non potendosi escludere, coerentemente con il disposto del comma 2 dell'art. 116, che il giudice possa utilizzarle, come argomento di prova, al pari di tutti gli altri comportamenti tenuti dalle parti medesime in corso di giudizio, coniugandone il contenuto con altri simili argomenti, così da fondare, sul risultato complessivamente ottenuto in tal guisa, il proprio legittimo convincimento (Cass., n. 7262/2010). La semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante di una società che ha compiuto un'operazione di “swap”, secondo cui quest'ultima dispone della competenza ed esperienza richiesta in materia di operazioni in valori mobiliari, in assenza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell'intermediario finanziario, esonera l'intermediario stesso dall'obbligo di ulteriori verifiche sul punto e costituisce argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, in ordine al riconoscimento della natura di operatore qualificato e all'accertamento della diligenza prestata dall'intermediario (Cass., n. 12138/2009). Il giudice civile può trarre argomenti di prova, ai sensi dell'art. 116, comma 2, da un documento proveniente dal difensore, formato in altro giudizio, in rapporto al comportamento processuale della parte che non ne abbia contestato il contenuto; tale comportamento, tuttavia, non può essere posto da solo a fondamento della decisione, ma deve essere valutato insieme all'intero materiale probatorio acquisito al processo, alla stregua dei parametri indicati dall'art. 2729 c.c. (Cass., n. 10650/2008). Le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno valore confessorio, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, mentre neppure valore indiziario hanno le ammissioni del procuratore contenute in atti stragiudiziali (Cass. n. 7702/2019). Qualora nell'atto introduttivo del giudizio sia stata proposta istanza istruttoria di prova testimoniale senza indicare il nome del teste, e quest'ultimo, tuttavia, sia stato successivamente indicato entro i termini che il rito consente per il completo dispiegamento delle istanze istruttorie, è precluso al giudice attribuire a tale legittima scelta dell'istante un significato sfavorevole allo stesso ex art. 116 (Cass. n. 14706/2016). Il rifiuto della parte di consentire al consulente tecnico d'ufficio le necessarie indagini per l'accertamento del danno, costituisce condotta valutabile, ex art. 116 ai fini dell'accertamento della responsabilità (Cass., n. 12694/1999). In tema di azione di disconoscimento di paternità, se il figlio, maggiorenne si rifiuta di sottoporsi alle prove ematologiche, il suo comportamento è suscettibile di essere valutato ai sensi dell'art. 116, in modo coerente con il grado di efficacia probatoria dell'esame, ma resta l'esigenza di procedere all'accertamento istruttorio dell'adulterio. Al riguardo, vanno considerate attentamente le prove testimoniali, comprese quelle aventi ad oggetto circostanze apprese da terzi, anche a causa della difficoltà di fornire la prova diretta dell'adulterio (Cass., n. 17773/2013). Nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza di accertamento giudiziale della paternità, la mera comunicazione dell'inizio delle operazioni peritali è già di per sé sufficiente per l'attribuibilità alla condotta processuale del destinatario della stessa, che non si presenti alla data fissata, del valore di rifiuto di sottoporsi alla indagine peritale valutabile da parte del giudice ai sensi dell'art. 116, in quanto è da tale momento che il consulente comincia a prestare la propria attività (Cass., n. 1733/2008). La S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 Cost. - del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e artt. 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell'espletamento dell'esame del DNA. E' stato a riguardo evidenziato che, difatti, dall'art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l'accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della l. 31 dicembre 1996, n. 675 (Cass. n. 14458/2018). In tema di prove, con riferimento all'interrogatorio formale, la disposizione dell'art. 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all'interrogatorio, per quanto ingiustificata, l'effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova (Cass. n. 9436/2018). In tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali - ossia organi dell'Amministrazione che hanno avuto contatti sia con il bambino che con i suoi genitori - il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle risultanze di perizie e consulenze (Cass. n. 6138/2015). In caso di controversia su contratti bancari, ai sensi dell'art. 116, va escluso che in assenza di elementi di prova concorrenti, il solo rifiuto della banca convenuta di esibire i contratti (scritture di cui peraltro la stessa attrice avrebbe dovuto avere la disponibilità) possa essere in concreto equiparata all'ammissione del fatto che le diverse clausole contrattuali oggetto dell'azione di nullità avessero il contenuto indicato dall'attrice (Trib. Cagliari 11 settembre 2014). Ai sensi dell'art. 116, comma 2, che consente di desumere argomenti di prova dal contegno delle parti nel processo, la mancanza, da parte del rappresentante legale, di una qualsiasi indicazione, da cui ricavare un qualche collegamento dell'attività e dell'amministrazione della società con il luogo in cui è stata trasferita la sede legale di quest'ultima anteriormente alla notificazione del ricorso per fallimento, costituisce un ulteriore elemento da cui desumere la fittizietà del trasferimento (Cass. S.U., n. 5688/2015). Le dichiarazioni dei redditi dell'obbligato hanno una funzione tipicamente fiscale, sicché nelle controversie relative a rapporti estranei al sistema tributario (nella specie, concernenti l'attribuzione o la quantificazione dell'assegno di mantenimento) non hanno valore vincolante per il giudice, il quale, nella sua valutazione discrezionale, può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie. (Cass. n. 18196/2015, la quale, in applicazione di tale principio, ha ritenuto insindacabile la valutazione del giudice della separazione personale tra coniugi, il cui convincimento si era fondato, ai fini della quantificazione dell'assegno di mantenimento, sull'alto tenore di vita ed il rilevante potere di acquisto dimostrato dal coniuge onerato). Le dichiarazioni del legale rappresentante della società, rese in sede di verifica, possono essere apprezzate come una confessione stragiudiziale e pertanto costituire prova non già indiziaria ma diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non bisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. n. 14150/2021). I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali, o dell'Ispettorato del lavoro, fanno piena prova solo dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza o da loro compiuti, mentre le dichiarazioni ad essi rese dagli interessati, come i dipendenti del datore di lavoro, sono liberamente valutabili e apprezzabili dal giudice che, in base ad una valutazione complessiva delle altre risultanze istruttorie, può attribuire maggior rilievo alle circostanze riferite ai verbalizzanti nell'immediatezza dei fatti rispetto a quelle riferite in sede di deposizione in giudizio, potendo considerare i verbali di contravvenzione prova sufficiente all'esito di tale valutazione complessiva, adeguatamente motivata, o in caso di carenza di elementi probatori contrari (Cass. n. 10634/2025). La dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice in quanto l'ispettore del lavoro, pur agendo quale organo della P.A., non la rappresenta in senso sostanziale, e, quindi, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed è assente l'"animus confitendi", trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell'inchiesta (Cass. n. 17702/2015).
Per altro verso, la S.C. ha precisato che nelle controversie in tema di protezione internazionale dal contegno omissivo serbato dalle parti pubbliche (nella specie il mancato deposito della documentazione relativa alla fase amministrativa insieme alla traduzione dei documenti prodotti dal ricorrente, la mancata costituzione nel giudizio dell'amministrazione ed il mancato intervento del Pubblico Ministero) non possono trarsi argomenti di prova, ai sensi dell'art. 116, assumendo rilevanza soltanto una condotta processuale qualificata, che sia di per sè idonea a rafforzare il convincimento del giudice già raggiunto (Cass. n. 32249/2019). Nell'ambito del giudizio civile di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione in sede penale ai soli effetti civili (al quale si applicano le regole processuali e probatorie proprie del processo civile), le dichiarazioni testimoniali rese dalla parte civile nel processo penale, pur non potendo assumere il valore di prova - neppure atipica - (stante il divieto di cui all'art. 246 c.p.c.), rivestono efficacia di argomento di prova exartt. 116, comma 2, e 117 c.p.c., potendo conseguentemente essere poste dal giudice, in ossequio al principio del suo libero convincimento, a fondamento della propria decisione (Cass. III, n. 27016/2022). PresunzioniPoiché non esiste una gerarchia tra le fonti di prova, quella per presunzioni costituisce prova completa, alla quale il giudice del merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, di controllarne l'attendibilità, di scegliere tra gli elementi sottoposti al suo esame quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, senza che possa predicarsi l'esistenza di una gerarchia delle fonti di prova, salvo il limite della motivazione del proprio convincimento da parte del giudicante. Le prove, pertanto, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice del merito per essere poste a fondamento del suo convincimento. Inoltre, nella prova per presunzione non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile (Cass. III, n. 2394/2008; Cass. III, n. 4743/2005). In tema di prova per presunzioni, quindi, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità (Cass. I, n. 564/1995 ; Cass. lav., n. 154/2006). La S.C. ha chiarito che la presunzione semplice e la presunzione legale "iuris tantum" si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, perché mentre il fatto sul quale si fonda la prima dev'essere provato in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale "iuris tantum", quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell'art. 116 (Cass. n. 4221/2016). Il procedimento valutativo della prova per presunzioni si articola in due indefettibili momenti. In particolare il giudice del merito deve, innanzitutto, valutare in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e per conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Successivamente lo stesso giudice deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva che, magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza, considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. V, n. 11206/2007). Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento. (Cass. n. 9059/2018: in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, affetta da insanabile ed intrinseca contraddittorietà della motivazione, che aveva escluso la responsabilità risarcitoria per lesione della reputazione di un'insegnante, desumibile invece dalla valutazione globale di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria valenza indiziaria). In tema di presunzioni, il requisito della gravità si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre e a tal fine è sufficiente che l'esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica; il requisito della precisione impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; con il requisito della concordanza si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto; la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l'esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito e sottratti al controllo di legittimità in presenza di adeguata motivazione; diversamente, l'esistenza della base della presunzione e dei fatti noti, facendo parte della struttura normativa della presunzione, è sindacabile in cassazione (Cass. lav., n. 4168/2001). Il convincimento del giudice può formarsi anche su di una sola presunzione semplice, in quanto il requisito della concordanza riguarda l'eventualità del concorso di più circostanze presuntive (Cass. III, n. 914/1999). Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un'ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l'accertamento del fatto ignoto (Cass. n. 14788/2024; Cass. n. 20748/2019). Casistica In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (Cass. n. 17163/2016). Le annotazioni e le dichiarazioni contenute nel libretto di lavoro, aventi natura di scrittura privata e consistenti in dichiarazioni unilaterali del datore di lavoro, non valgono da sole a dimostrare la durata e il contenuto del rapporto di lavoro ma possono, in concorso con altri idonei elementi, costituire un valido indice presuntivo, apprezzabile dal giudice di merito, in rapporto alle altre risultanze istruttorie, nell'ambito del suo potere di valutazione discrezionale della prova ex art. 116 c.p.c.; analogamente, un ruolo di qualificato indice dimostrativo del rapporto di lavoro può essere assunto dalla cd. scheda professionale (modello introdotto con d.m. 30 maggio 2001 e abrogato con d.m. 30 ottobre 2007), contenente informazioni relative alle esperienze formative e professionali del lavoratore rilasciata dal competente servizio per l'impiego, soggetto titolare di potestà certificatoria (Cass. n. 15416/2016). Il rapporto di subordinazione e dipendenza dell'obbligazione fideiussoria rispetto a quella principale si riflette necessariamente sul problema della prova, nel senso che il giudice chiamato ad accertare, nei confronti del fideiussore, l'esistenza e l'ammontare del debito garantito può utilizzare, quale valida prova presuntiva, il giudicato di condanna ottenuto dal creditore contro il solo debitore garantito (Cass. n. 22954/2015). Presunzioni in tema di prova del danno non patrimoniale Le Sezioni Unite hanno ribadito che il danno non patrimoniale costituisce un danno-conseguenza che deve pertanto essere oggetto di specifica allegazione e prova da parte del danneggiato, il quale, in applicazione della regola generale espressa dall'art. 2697 c.c., ha quindi l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi posti a fondamento della propria pretesa risarcitoria (cfr., tra le molte, in tema di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, Cass. n. 10120/2009). La connotazione del danno non patrimoniale in termini di danno-conseguenza è stata considerata dalla S.C. principio informatore della materia al quale devono conformarsi anche i giudici di pace nel giudizio di equità necessario di cui all'art. 113, comma 2, c.p.c. Invero, sebbene la S.C. abbia ritenuto nella medesima decisione che nel giudizio secondo equità rimesso dal comma 2 dell'art. 113 c.p.c. al giudice di pace, venendo in rilievo l'equità c.d. «formativa» o «sostitutiva» della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, prevista dall'art. 2059 c.c., sia pure nell'interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione, con la conseguenza che il giudice di pace, nell'ambito del solo giudizio d'equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti, è nondimeno necessario che il danneggiato abbia allegato e provato anche attraverso presunzioni il pregiudizio subito, dovendosi escludere che il danno non patrimoniale rappresenti una conseguenza automatica dell'illecito (Cass. n. 4493/2009). Peraltro, le stesse Sezioni Unite hanno precisato che il danneggiato può comunque fornire la dimostrazione del pregiudizio fornendone la prova in via presuntiva ai sensi dell'art. 2729 c.c. Come rilevato da autorevole dottrina, le presunzioni costituiscono lo strumento probatorio che consente al giudice di pervenire alla conoscenza di un fatto principale o secondario non tramite la diretta dimostrazione dello stesso bensì attraverso un ragionamento logico idoneo a far ritenere sussistente, partendo dalla conoscenza di un fatto noto, l'esistenza di un fatto ignoto in via di ragionevole certezza (Picardi, 2013, § 157.1). In tema di risarcimento del danno da perdita della vita del convivente, ai fini dell'accertamento dell'esistenza della convivenza "more uxorio" - intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale - i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi da valutarsi non atomisticamente ma nel loro insieme e l'uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand'anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento. (Cass. n. 9178/2018: nella specie, la S.C. ha censurato la sentenza con la quale la corte territoriale, in ragione della ritenuta assenza di coabitazione, si era limitata a negare valore indiziario, all'esito di una loro mera valutazione atomistica, ad altri elementi acquisiti in giudizio, tra i quali l'esistenza di un comune conto corrente e la disponibilità in capo ad uno dei conviventi dell'agenda lavorativa dell'altro). Nella delineata prospettiva, si è osservato, nella giurisprudenza di merito, a seguito dell'orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008, il danno non patrimoniale da lesione alla salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici e, sempre in virtù di detta sentenza, sul piano probatorio il danno deve essere allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, dovendosi escludere ogni valutazione di danno in re ipsa (Trib. Teramo 15 luglio 2009). Tenuto conto del consolidato orientamento in forza del quale il giudice può ritenere provato un fatto anche sulla scorta di un unico indizio purché esso sia tale da condurlo ad un ragionevole grado di certezza in ordine alla sussistenza del fatto ignoto da dimostrare (Cass. n. 11117/1996), dall'esame della casistica concreta appare confermato che tanto più grave è il danno non patrimoniale lamentato (ad esempio, danno da perdita del rapporto parentale), tanto più l'onere probatorio del danneggiato finirà con il coincidere, in sostanza, con l'onere di allegazione di specifici fatti connotanti gli stati di grave sofferenza di regola derivanti dall'evento dedotto. In tale prospettiva, già prima dell'intervento delle Sezioni Unite, si è ritenuto, nella giurisprudenza di merito, che nel caso di morte di un congiunto, il risarcimento delle voci di danno biologico e «non patrimoniale» è condizionato alla prova (da fornirsi da parte del danneggiato) dell'esistenza di una lesione scaturita quale conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.) dalla lesione primaria della posizione soggettiva, fermo restando che: a) la morte di un congiunto conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili; b) tale danno può essere riconosciuto sulla base di elementi indiziari e presuntivi; c) la prova del danno morale per morte del congiunto è data dalla dimostrazione sella sussistenza di rapporti con il defunto normali e non di natura ed intensità eccezionali; d) sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire (Trib. Monza 8 maggio 2006, in Giur. merito, 2007, n. 1, 107). La distinzione tra danno in re ipsa e danno-conseguenza che deve comunque essere dimostrato, sebbene anche mediante presunzioni, seppure appaia estremamente attenuata nell'ipotesi in cui l'evento sia talmente grave da far ritenere secondo massime d'esperienza consolidate il danno dedotto conseguenza normale dell'illecito, permane ed assume concreta pregnanza se si pensa alla possibilità per l'altra parte di fornire la prova contraria, possibilità che se non sussiste nell'ipotesi di danno in re ipsa, permane pienamente nell'altra, essendo consentito dimostrare, ad es., a fronte della richiesta di risarcimento dei danni per la perdita del rapporto parentale che per peculiari circostanze i rapporti tra il de cuis ed il danneggiato erano interrotti da tempo o, più semplicemente, la mancanza della dedotta situazione di convivenza al momento del fatto. Nella pratica la ricostruzione del danno non patrimoniale in termini di danno-conseguenza comporta che debba essere tributata peculiare attenzione onde evitare una confusione tra il fatto notorio e le massime di esperienza (cfr. in arg. Calogero 1937, 15 ss.). In particolare, invero, il fatto notorio (ovvero rientrante nella comune esperienza) è quello ai fini della dimostrazione del quale non occorre ex art. 115 c.p.c., in deroga ai fondamentali principio dispositivo e principio del contraddittorio, alcuna prova e deve quindi essere inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, con la conseguenza che non rientrano nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che fanno parte della scienza privata del giudice (Cass. n. 1696/2010). Le massime di esperienza operano, invece, su un piano distinto, in quanto finalizzate a sostenere induttivamente un'argomentazione probatoria, quale la ricostruzione storica ed individuale di un determinato fatto ed il ricorso alle stesse è quindi usuale in tema di prova per presunzioni, essendo detta prova fondata proprio su un ragionamento di tipo inferenziale (Calogero 1937, 106 ss.). Specialmente nell'ipotesi in cui il danno subito sia meno grave ovvero quando comunque vengano dedotte a fondamento della domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali anche questioni afferenti la concreta incidenza negativa sulla vita quotidiana della persona del danno saranno necessari aderendo alla pronuncia delle Sezioni Unite anche ulteriori mezzi istruttori come la prova per testi. Diversamente, ai fini della dimostrazione del danno alla salute in senso stretto, è necessario un accertamento medico-legale mediante C.T.U. A riguardo, invero, se le Sezioni Unite, nella nota pronuncia più volte richiamata n. 26972/2008, hanno in motivazione sottolineato la valenza soltanto preferenziale dell'accertamento tramite consulenza medica, precisando che il giudice di merito poteva ritenere lo stesso superfluo in caso di ritenuta sussistenza del pregiudizio sulla scorta della documentazione in atti ovvero delle prove orali assunte, non sono mancate prese di posizione più restrittive, a riguardo, anche nella successiva giurisprudenza di legittimità. Tra le altre, si segnala in particolare Cass. n. 10120/2009, la quale ha affermato che il danno alla salute deve essere provato attraverso l'accertamento medico-legale e non attraverso la prova testimoniale, precisando, peraltro, la peculiare valenza di tale principio nell'ipotesi concreta esaminata, nella quale l'attore aveva agito per il risarcimento dei danni da fumo e assunto di essere già un fumatore e come tale già esposto coscientemente ai rischi e danni da fumo, ma aveva lamentato che il passaggio alle sigarette più leggere — che secondo il messaggio subliminalmente ingannevole (lights) avrebbe dovuto comportargli una riduzione del rischio e del danno da fumo — in effetti non gli ha dato il risultato sperato, essendo danno e rischio da fumo rimasti inalterati. Presunzioni in tema di equa riparazione da irragionevole durata del processo In linea di principio spetta al danneggiato-ricorrente in sede di equa riparazione fornire nel relativo giudizio la prova del danno subito in virtù dell'irragionevole durata del processo. Tale danno è nella maggior parte dei casi di carattere non patrimoniale correlandosi alle ansie ed ai patemi sofferti dal ricorrente per la durata eccessiva di un giudizio nell'ambito del quale ha la qualità di parte. Quanto alla prova del danno non patrimoniale occorre ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il danno non patrimoniale è una categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate e, tra queste, nel danno esistenziale perché attraverso lo stesso si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, nella quale confluiscono, tuttavia, fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (Cass. S.U., n. 26972/2008, in Giust. civ., 2009, n. 4-5, con nota di Rossetti). Di conseguenza, hanno sottolineato le Sezioni Unite, il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (ad esempio, danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. In particolare, non sono meritevoli di tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, hanno precisato ancora le Sezioni Unite, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale poiché, al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. In altri termini, non sarà risarcibile il danno esistenziale quando è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (es. non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), ovvero, un danno che, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto (es. graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata. In altri termini, nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite, è compito del giudice di merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate in concreto e provvedendo alla loro integrale riparazione. Il danno non patrimoniale, peraltro, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, anche mediante presunzioni. Quanto, più specificamente, alla tematica della prova del danno non patrimoniale conseguente all'irragionevole durata del processo (Cass. n. 14636/2012), la portata del relativo onere in capo al ricorrente è stata significativamente attenuata dalla S.C. al punto da determinarne una sostanziale inversione. Richiamati i principi sanciti dalle Sezioni Unite per i quali è compito del giudice di merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate in concreto e provvedendo alla loro integrale riparazione (cfr., con riferimento all'esigenza di considerare, pur evitando ogni duplicazione risarcitoria, sia il danno morale che quello esistenziale derivanti dalla perdita di un congiunto a causa del fatto illecito, Cass. n. 22884/2007, in Giust. civ., 2008, 109, con nota di Briguglio) ed il danno non patrimoniale, peraltro, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, anche mediante presunzioni (in tal senso v., già prima dell'intervento della Cass. n. 20987/2007; Trib. Milano X, 30 aprile 2008, n. 5567, in Giustizia a Milano, 2008, 4, 27; con limitato riguardo al danno esistenziale v., invece, Trib. Bari 19 ottobre 2007, n. 2363, in giurisprudenzabarese.it) occorre considerare la giurisprudenza di legittimità sulla prova del danno non patrimoniale cagionato dall'irragionevole durata del processo. Invero è stato sul punto affermato che in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. n. 89/2001, il danno non patrimoniale — che si concreta in quel senso di frustrazione ed impotenza che, secondo l'id quod plerumque accidit, prende qualunque cittadino, causandogli un innegabile stato di stress, allorquando, per ingiustificati ritardi e disfunzioni del servizio giustizia, non riesce ad ottenere tempestivamente il riconoscimento dei propri diritti (App. Reggio Calabria 17 luglio 2012) — è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Di conseguenza, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89/2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. n. 2843/2013). Sebbene l'onere probatorio in ordine alla sussistenza del danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente sia invertito non può concordarsi con quanti ritengono che si tratti di una forma di danno in re ipsa, potendo in concreto effettivamente ricorrere peculiari circostanze che, ove dimostrate dall'Amministrazione, consentono di escludere la sussistenza di tale pregiudizio. Ciò avviene, ad esempio, nelle ipotesi di originaria consapevolezza della inconsistenza delle tesi sollevate in causa, nelle quali, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio, restando così superata la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale (Cass. n. 14607/2017; v., tra le altre, Cass. n. 24358/2006, con riguardo ad una fattispecie relativa alla proposizione di un'impugnazione per revocazione sulla base di due documenti dei quali il giudice dell'equa riparazione aveva escluso la novità e rilevanza, da ciò desumendo la presumibile consapevolezza dell'esito negativo del gravame; Cass. n. 2385/2011, con riferimento ad una fattispecie nella quale nel processo presupposto si era accertato che la compravendita tra il genitore e due figlie mascherava un atto di donazione, data l'esiguità del prezzo, la mancanza di prova del pagamento ed il mancato rinvenimento di somme pur essendo stata la compravendita effettuata in prossimità del decesso del dante causa pertanto, qualora nel processo presupposto sia stata accertata la simulazione di una compravendita disposta in favore del ricorrente, nella sua resistenza in giudizio, pur nella consapevolezza del fondamento della pretesa azionata nei suoi confronti, difetta la necessaria condizione soggettiva di incertezza, e, quindi, la causa dello stato di disagio, traendo, anzi, egli aveva beneficiato, per la durata del processo, dal mantenimento del pieno possesso degli immobili in pregiudizio delle controparti attrici). Tuttavia, non può escludersi il pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, soltanto in ragione dell'esito negativo del giudizio presupposto per il ricorrente in sede di equa riparazione (Cass. n. 25/2011) ovvero invocando l'univoco orientamento giurisprudenziale contrario alla tesi sulla quale si basa la domanda giudiziale, questo non costituendo elemento sufficiente per presumere, quale fattispecie di abuso del processo perseguito dalla parte soccombente, l'insussistenza della incertezza sull'esito del giudizio e, quindi, del disagio per il protrarsi irragionevole della sua definizione (Cass. n. 14978/2012). Nondimeno all'impostazione per la quale in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l'Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto, consegue che la mancata specificazione, da parte del ricorrente, degli elementi costitutivi del danno non patrimoniale lamentato non rileva al fine di escludere l'indennizzabilità del pregiudizio, dalla parte pur sempre presuntivamente sofferto (Cass. n. 7325/2015). Al contempo, è stato precisato che l'esistenza di un diritto vivente consolidato in senso sfavorevole all'accoglimento della domanda giudiziale esclude la configurabilità di un patema d'animo da durata irragionevole del processo e, quindi, un danno non patrimoniale ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89 (Cass. n. 5535/2015). Sotto un distinto profilo, occorre tenere presente che, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la presunzione di danno non patrimoniale notoriamente connessa a situazioni soggettive provocate da un giudizio durato troppo a lungo non può essere superata dalla circostanza che il ricorso, inerente rivendicazioni di categoria, sia stato proposto da una pluralità di attori, poiché la proposizione di un ricorso in forma collettiva e indifferenziata, non equivale certamente a trasferire sul gruppo, come entità amorfa e, quindi, a neutralizzare situazioni di angoscia o patema d'animo riferibili specificamente a ciascun contendente (Cass. n. 6697/2012). In generale, è stato poi chiarito che l'esistenza del danno non patrimoniale può presumersi solo quando il processo superi in modo significativo la sua durata ragionevole, non anche quando esso trovi definizione a ridosso di tale termine, superandolo di pochi mesi, poiché in questa evenienza appare logico presumere, in relazione alla natura del danno stesso e sempre che non risultino indicazioni contrarie scaturenti in primo luogo dall'importanza della posta in gioco, che un lasso di tempo così breve di eccedenza non possa provocare a carico della parte sofferenze e patemi d'animo apprezzabili e, quindi, autonomamente enucleabili come danno evento (Cass. n. 5317/2013). Sotto altro profilo, è stato precisato che la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera per l'esecutato, poiché egli dall'esito del processo riceve un danno giusto, sicché, ai fini dell'equa riparazione da durata irragionevole, l'esecutato ha l'onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell'espropriazione, dimostrando che l'attivo pignorato o pignorabile fosse «ab origine» tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali in maniera da azzerare o ridurre l'ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente (Cass. n. 14385/2015). Presunzioni in materia tributaria - Accertamenti bancari Ai sensi dell'art. 32 d.P.R. n. 600/1973, nella formulazione originaria, l'accertamento bancario, fondato sulla ricostruzione di movimenti finanziari non giustificabili da parte dell'imprenditore o del lavoratore autonomo, stabilisce che, per l'adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento nei loro confronti, anche relativamente ai rapporti e alle operazioni i cui dati, notizie e documenti siano stati acquisiti a norma del n. 7, ovvero rilevati a norma dell'art. 33, comma 2 e 3, o acquisiti ai sensi dell'art. 18 comma 3, lett. b) d.lgs. n. 504/1995. In virtù di tale norma, la S.C. ha ribadito che l'Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare le risultanze dei conti correnti bancari e i dati derivanti da altri rapporti ed operazioni intercorsi tra la banca ed il contribuente, anche in assenza di preventivo interpello dello stesso, non imposto da alcuna norma e la cui mancanza non determina una lesione del diritto di difesa poiché il contribuente può non solo azionare un procedimento contenzioso, ma anche attivare la procedura di definizione con adesione, nell'ambito della quale, oltre a beneficiare della sospensione dei termini di impugnazione, di pagamento e di iscrizione a ruolo dell'imposta, ha la possibilità di fornire all'Amministrazione finanziaria dati ed informazioni per sollecitare un intervento in autotutela (Cass. n. 4581/2018). Con specifico riguardo agli accertamenti fondati su verifiche dei conti correnti bancari del contribuente,l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, che si presumono riferiti all'attività economica del contribuente, gli accrediti quali ricavi e gli addebiti quali corrispettivi versati per l'acquisto di beni e servizi reimpiegati nella produzione, determinandosi un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass. n. 15857/2016). Tuttavia la prova può essere fornita dal contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell'ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Cass. n. 11102/2017). Per altro verso, occorre considerare che costituisce jus receptum l'assunto per il quale la presunzione ex art. 32 d.P.R. n. 600/1973 consente all'Amministrazione finanziaria di riferire “de plano” ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente, salva la prova contraria da parte di costui, e la legittimità della utilizzazione degli elementi risultanti dalle movimentazioni bancarie non è condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell'accertamento, posto che il citato art. 32 prevede quel contraddittorio alla stregua di mera facoltà, non di obbligo, dell'amministrazione tributaria (trattandosi di accertamenti cd. a tavolino, ove non vengano in rilievo imposte “armonizzate”: Cass. 10249/2017). In tema di accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini sui conti correnti bancari, ai sensi degli artt. 32 d.P.R. n. 600/1973 e 51 d.P.R. n. 633/1972, l'onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui conti correnti intestati a soggetti per i quali è fondatamente ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a sua disposizione non viola il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o “divieto di doppie presunzioni” o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) sia perché tale principio è, in realtà, inesistente, non essendo riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma dell'ordinamento, sia perché, anche qualora lo si volesse considerare esistente, esso atterrebbe esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un'altra presunzione semplice, ma non con una presunzione legale, sicché non ricorrerebbe nel caso di specie (Cass. n. 15003/2017). E' stato precisato che in materia di accertamento del reddito d'impresa, gli artt. 32, n. 7, d.P.R. n. 600/1973 e 51 d.P.R. n. 633/1972 autorizzano l'Ufficio finanziario a procedere all'accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, sicché possono assumere rilievo ai fini delle indagini i conti correnti intestati all'amministratore unico e socio assoluto di maggioranza di una società a responsabilità limitata in ragione di movimentazioni sia in entrata che in uscita che non trovino corrispondenza alcuna nelle registrazioni contabili, non assumendo rilevanza che il medesimo soggetto sia legale rappresentante di una pluralità di persone giuridiche, essendo in tal caso sufficiente, in difetto della prova contraria circa una più corretta imputazione, ripartire i dati estratti dai conti correnti in proporzione al volume di affari di ciascun ente (Cass. n. 1898/2016). Analogamente, in tema di accertamento dell'IVA, almeno nella giurisprudenza più recente, si è evidenziato che la presunzione stabilita dall'art. 51, comma 2, n. 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui le movimentazioni sui conti bancari risultanti dai dati acquisiti dall'Ufficio finanziario si presumono conseguenza di operazioni imponibili, opera anche in relazione alle società di capitali con riferimento alle somme di danaro movimentate sui conti intestati ai soci o ai loro congiunti, conti che devono ritenersi riferibili alla società contribuente stessa, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come la ristretta compagine sociale ed il rapporto di stretta contiguità familiare tra l'amministratore, o i soci, ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica. In tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci, e perfino dei loro familiari, debbano - in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario - ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (Cass. n. 12276/2015; in senso difforme, in precedenza, Cass. n. 6232/2003, per la quale la presunzione in esame trova applicazione unicamente ai conti intestati o cointestati al contribuente, mentre non trova applicazione con riguardo a conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorché legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l'ufficio opponga e poi provi in sede giudiziale che l'intestazione a terzi è fittizia o comunque è superata, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti ). Inoltre, proprio perché l'art. 32 n. 7 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e l'art. 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 autorizzano l'Ufficio finanziario a procedere all'accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall'Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l'utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest'ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un'altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame (Cass. n. 27032/2007). Nell'attuale giurisprudenza della Corte di legittimità si registra, tuttavia, un contrasto sull'ambito applicativo della presunzione di cui all'art. 32 d.P.R. n. 600/1973, a seguito della pronuncia della Corte cost. n. 228/2014, la quale ha ritenuto costituzionalmente illegittima tale disposizione normativa nella parte in cui, a seguito dell'art. 1, comma 402, l. n. 311/2004, la relativa presunzione è stata estesa non solo ai redditi degli imprenditori ma anche ai “compensi” dei professionisti, in quanto lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell'ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito. Tale decisione additiva della Corte Costituzionale è stata motivata rilevando, in primo luogo, che, sebbene le figure dell'imprenditore e del lavoratore autonomo siano per molti versi affini, esistono specificità di quest'ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l'omogeneità di trattamento che era stata prevista ed in virtù della quale il prelievo dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. Invero, secondo tale doppia correlazione, in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l'acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati. La Corte costituzionale ha sottolineato che, se il fondamento economico-contabile di tale meccanismo era stato ritenuto, anche nella propria giurisprudenza, congruente con il fisiologico andamento dell'attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi, alle medesime conclusioni non si può pervenire con riguardo all'attività svolta dai lavoratori autonomi, che, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell'apporto del lavoro proprio e la marginalità dell'apparato organizzativo. La Corte costituzionale ha evidenziato, tuttavia, che la non ragionevolezza della presunzione per i professionisti è avvalorata dal fatto che gli eventuali prelevamenti vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria e nel quale si registra una “fisiologica promiscuità” delle entrate e delle spese professionali e personali. Come evidenziato, nella giurisprudenza della Corte, si registra un contrasto sulle conseguenze della ripercorsa decisione della Corte Costituzionale, risultando, in particolare, controverso se, in tema di accertamenti bancari dei redditi dei lavoratori autonomi, la presunzione di cui all'art. 32 d.P.R. n. 600/1973, sia venuta completamente meno o se la stessa possa ritenersi operante almeno per i versamenti. Di recente, si è ritenuto, sulla problematica, che, in tema di accertamento, rimane invariata la presunzione legale posta dall'art. 32 d.P.R. n. 600/1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l'estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all'esito della sentenza della Corte cost. n. 228/2014, l'equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti (v., da ultimo, Cass. n. 7951/2018). Nella motivazione di tale decisione viene evidenziata l'esistenza del difforme orientamento per il quale la presunzione di cui all'art. 32 d.P.R. n. 600/1973, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l'inclusione nella base imponibile oppure l'estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali, essendo venuta meno, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 228/2014, la modifica della citata disposizione, apportata dall'art. 1, comma 402, l. n. 311/2004, sicché non è più sostenibile, ad alcun fine, l'equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d'impresa e professionale per gli anni anteriori (Cass. n. 23041/2015). Segue. Accertamento sintetico Ai fini della determinazione del reddito delle persone fisiche, una modalità di accertamento ricorrente è quella della ricostruzione dello stesso in via induttiva, in base ai parametri indicati in regolamenti ministeriali, considerando le spese effettuate nel periodo d'imposta dal contribuente in relazione al reddito dichiarato. A fronte della presunzione di maggior reddito correlata alle spese ed agli incrementi patrimoniali della persona fisica assoggettata all'accertamento, l'art. 38, comma 6, d.P.R. n. 600/1973, consente alla stessa di addurre prova contraria rispetto alla stessa. Pertanto, in virtù di tale previsione normativa l'accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, fermo restando che, in conformità allo stesso art. 38, comma 6, d.P.R. n. 600/1973, anche l'entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione. In sostanza, quanto all'oggetto della prova contraria posta a carico del contribuente, la norma chiede qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), e, pur non prevedendo esplicitamente la dimostrazione che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, richiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere. Come osservato dalla S.C., infatti, in tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova, risultante da idonea documentazione, della entità di tali eventuali ulteriori redditi e della "durata" del relativo possesso, previsione che ha l'indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi, di tipo quantitativo e temporale, la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell'accertamento sintetico, quali, ad esempio, un ulteriore investimento finanziario, perché in tal caso essi non sarebbero ovviamente utili a giustificare le spese e/o il tenore di vita accertato, i quali dovrebbero pertanto ascriversi a redditi non dichiarati. In definitiva, è stato chiarito che la prova contraria a carico del contribuente ha ad oggetto non soltanto la disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati, in quanto esenti o soggetti a ritenute alla fonte, ma anche la documentazione di circostanze sintomatiche che ne denotano l'utilizzo per effettuare le spese contestate e non altre, dovendosi in questo senso intendere il riferimento alla prova della entità di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso (Cass. n. 7389/2018). Tuttavia, in un altro recente precedente, in senso almeno in parte difforme, si è ritenuto che, ove il contribuente deduca che la spesa sia il frutto di liberalità o di altra provenienza, pur dovendo la relativa prova essere fornita con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all'interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche l'entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall'accertamento, lo stesso non è anche tenuto a dimostrare l'impiego di detti redditi per l'effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica (Cass. n. 7757/2018). Peraltro, si è osservato, in giurisprudenza, che tale onere probatorio non è eccessivamente oneroso per il contribuente, in quanto, non solo la prova non è tipizzata e può essere offerta con qualsiasi elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell'elemento preso in considerazione ma, in particolare, può essere fornita con l'esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare l'entità e la durata del possesso dei redditi in esame, atteso che la produzione di documentazione bancaria, in considerazione della natura di estratto di scrittura contabile, fornisce tutte le indicazioni sull'entità dei redditi, sulle date dei movimenti, sull'eventuale addebito di assegni circolari usati per taluni acquisti (Cass. n. 12026/2018). E' stato inoltre precisato, dalla stessa S.C., che, ai fini dell'accertamento dei redditi con metodo sintetico, la formale intestazione a terzi dei beni-indice non rende di per sé inoperante la presunzione legale di capacità contributiva, qualora la concreta posizione dei terzi intestatari (come il coniuge fiscalmente a carico o una società a base ristretta) consenta di riferire l'effettiva disponibilità di detti beni in capo al contribuente, sul quale incombe, di conseguenza, l'onere della prova contraria dell'inesistenza in concreto dei qualificati vincoli familiari o societari posti a fondamento dell'accertamento presuntivo (Cass. n. 6195/2018). Ai fini dell'accertamento sintetico di cui all'art. 38 d.P.R. n. 600/1973 in relazione a spesa per incrementi patrimoniali, l'esborso per l'acquisto di un bene in comunione legale può legittimamente essere considerato dall'Amministrazione finanziaria come sostenuto esclusivamente dal "partner" che abbia da solo stipulato il contratto e pagato il prezzo, salva la prova contraria da parte del contribuente, atteso che dal regime della comunione legale non deriva alcuna presunzione relativamente alla provenienza comune delle somme utilizzate per i nuovi acquisti (Cass. n. 17806/2017). Quanto all'art. 38 d.P.R. n. 600/1973, nella formulazione originaria, stabiliva che l'Ufficio potesse determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione ad elementi ed a circostanze di fatto certi, stabilendo con decreto del Ministro per le Finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, indici e coefficienti presuntivi di reddito o di maggiore reddito in relazione agli elementi indicativi di capacità contributiva di cui al comma 2 dell'art. 2 dello stesso decreto. Sulla questione, la Corte di legittimità ha precisato, anche di recente, che, poiché la norma non conteneva alcuna previsione in ordine alle modalità di imputazione del reddito accertato in via sintetica sulla base di fatti certi derivanti da spese per incrementi patrimoniali, , salva sempre la prova contraria da parte del contribuente, qualunque tipo di imputazione del maggior reddito - ossia al periodo di imposta in cui il "fatto certo" si era verificato, ovvero ai periodi precedenti - poteva ritenersi legittima, senza limitazioni temporali, non potendo esigersi che l'Amministrazione finanziaria fosse tenuta ad applicare retroattivamente la successiva disciplina di favore introdotta dalla l. n. 413/1991, che ha previsto il criterio della "spalmatura" su più annualità, in quote costanti, del recupero del maggior reddito accertato con metodo sintetico (Cass., n. 12281/2018). Segue. Accertamento mediante studi di settore L'accertamento fondato su studi di settore ha carattere presuntivo ed è disciplinato dal combinato disposto degli art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993 e art. 10 l. n. 146/1998, che consentono all'Amministrazione finanziaria di basare un accertamento su gravi incongruenze tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto dovrebbe essere dichiarato tenendo conto delle condizioni e delle caratteristiche dell'attività svolta. Gli studi di settore sono degli strumenti elaborati dal Ministero dell'Economia e modificati periodicamente, che coinvolgono tutti i contribuenti (imprenditori individuali e/o società) di piccole e/o medie dimensioni. Tale forma di accertamento si articola nelle seguenti fasi: a) elaborazione ed approvazione degli studi di settore; b) compilazione degli studi di settore in fase di dichiarazione; c) contraddittorio, nel quale l'Ufficio convoca il contribuente “non congruo”, invitandolo ad esporre e documentare i fatti e le circostanze che giustifichino lo scostamento; d) emissione dell'avviso di accertamento, qualora non si pervenga ad un accordo nell'ambito del contraddittorio endoprocedimentale. Su un piano generale, la Corte di legittimità ha precisato, anche tenendo conto delle varie evoluzioni normative, che l'accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema unitario, frutto di un progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, per cui si giustifica l'applicazione retroattiva dello strumento più recente, che prevale rispetto a quello precedente, in quanto più raffinato e più affidabile (Cass. n. 23554/2015, la quale ha ritenuto di conseguenza illegittimo l'atto di rettifica, ai fini IRPEF ed IVA, adottato sulla base dei maggiori ricavi presunti in forza dei parametri di cui agli artt. 39 d.P.R. n. 600/1973, e 3, commi 181 e 184, della l. n. 549/1995, vigenti all'epoca dell'accertamento, nonostante la congruità dei ricavi dichiarati dal contribuente rispetto agli studi di settore, previsti dagli artt. 62-bis e 62-sexies d.l. n. 331/1993, conv. in l. n. 427/993, successivamente introdotti). Pertanto, il procedimento di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore, è un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è per legge determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, il quale ha la facoltà di contestare l'applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l'ufficio - ove non ritenga attendibile allegazioni di parte - ad integrare la motivazione dell'atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento (Cass. n. 13908/2018). Stante la necessità del contraddittorio preventivo, in tema di avviso di accertamento fondato su studio di settore, l'Amministrazione finanziaria non è tenuta ad allegare all'atto notificato il decreto ministeriale di approvazione del detto studio, in quanto il contribuente è reso edotto degli indici elaborati per la determinazione in via presuntiva del reddito nel corso del necessario contraddittorio procedimentale preventivo all'emissione dell'atto impositivo (Cass. n. 14552/2018; peraltro, ove il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l'Ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri: Cass. n. 21754/2017). In tema di "accertamento standardizzato" mediante parametri o studi di settore, il contraddittorio con il contribuente costituisce elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l'azione amministrativa, in ispecie quando si faccia riferimento ad una elaborazione statistica su specifici parametri, di per sé soggetta alle approssimazioni proprie dello strumento statistico, e sia necessario adeguarle alla realtà reddituale del singolo contribuente, potendo solo così emergere gli elementi idonei a commisurare la "presunzione" alla concreta realtà economica dell'impresa. Ne consegue che la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo dello scostamento dai parametri ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio, solo così emergendo la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui suddetti parametri e la giustificabilità di un onere della prova contraria (ma senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto) a carico del contribuente (Cass. n. 30370/2017). Su un piano più generale, tuttavia, l'esito del contraddittorio non condiziona l'impugnabilità dell'avviso di accertamento, poiché il giudice tributario può liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa, circostanza che, peraltro, può essere valutata dal giudice per il raggiungimento del proprio convincimento (Cass. n. 9484/2017). In tema di accertamento standardizzato mediante parametri e studi di settore, i dati rilevanti sono costituiti esclusivamente, per omogeneità con l'estrapolazione statistica, da ricavi, compensi ed altri corrispettivi inerenti all'attività economica ordinaria, mentre non assumono rilievo le sopravvenienze attive derivanti da eventi economici straordinari e, come tali, estranei alla gestione caratteristica dell'impresa. (Cass. n. 7642/2017, la quale ha annullato la decisione impugnata che, con riferimento ad un esercente l'attività di trasporto merci su strada, aveva valutato l'entrata derivante dalla cessione di un contratto di leasing ai fini dell'applicabilità degli studi di settore). Segue. Presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci nelle società a base ristretta In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, si ritiene legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, e ciò anche in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sè un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell'esistenza di utili extrabilancio (Cass. n. 24572/2014). E' fatta salva la facoltà del contribuente di provare che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati o reinvestiti dalla società, nonché di dimostrare la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cass. n. 18042/2018). Circa la prova contraria a carico del contribuente è stato precisato che rispetto alla circostanza che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non risulta fine sufficiente né la mera deduzione che l'esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili, né il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi contabilizzati, non risultando né accantonati né investiti, siano stati distribuiti ai soci (Cass. n. 5076/2011). Nell'impostazione della giurisprudenza di legittimità, tale presunzione non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale. Ciò posto, tuttavia, perché tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare - cioè il fatto noto alla base della presunzione - abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio, sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l'accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi (Cass. n. 9519/2009). In tema di accertamento tributario, la "contabilità in nero", costituita da appunti personali ed informazioni dell'imprenditore, anche se rinvenuta presso terzi, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 39 d.P.R. n. 600/1973 e legittima di per sé, a prescindere da ogni altro elemento, il ricorso all'accertamento induttivo, incombendo al contribuente l'onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l'atto impositivo notificatogli (Cass. n. 14150/2016). Nella nozione di scritture contabili, disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c., devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore ed il risultato economico dell'attività svolta, spettando poi al contribuente l'onere di fornire adeguata prova contraria. (Cass. n. 12680/2018: nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva ritenuto assolta detta prova richiesta al contribuente in virtù di una perizia giurata di parte, senza fornire alcuna motivazione sulle ragioni della prevalenza di quest'ultima sulla prova indiziaria). Prove atipicheNell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova: ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico — riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato — con le altre risultanze del processo (Cass. II, n. 20739/2012). Peraltro, la disposizione in esame conferisce al giudice di merito un potere ampiamente discrezionale del quale, attenendo esso alle cosiddette prove atipiche o innominate, va motivatamente giustificato l'uso, e non già, come invece in caso di mancata valutazione delle prove tipiche (e salvo sempre il principio del libero convincimento), il non uso (Cass. II, n. 3642/2004). Casistica È stato in particolare precisato che il giudice del merito può porre a fondamento della propria decisione una perizia stragiudiziale, anche se contestata dalla controparte, purché fornisca adeguata motivazione di tale sua valutazione, attesa l'esistenza, nel vigente ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (Cass. n. 25593/2023; Cass., n. 26550/2011). La perizia stragiudiziale, quale prova atipica, pur non avendo piena efficacia probatoria ha comunque un residuale valore probatorio, sia pure meramente indiziario (Trib. Piacenza 21 settembre 2009, n. 598, in Arch. loc., 2010, n. 2, 190). Costituiscono prove atipiche, ad esempio, gli scritti provenienti da terzi a contenuto testimoniale; gli atti dell'istruttoria penale o amministrativa; i verbali di prove espletati in altri giudizi; le sentenze rese in altri giudizi civili o penali, comprese le sentenze di patteggiamento; le perizie stragiudiziali; i chiarimenti resi al c.t.u., le informazioni da lui assunte, le risposte eccedenti il mandato e le c.t.u. rese in altri giudizi fra le stesse od altre parti (Trib. Reggio Emilia II, 2 luglio 2014, n. 1000). Le scritture proveniente da terzi estranei alla lite non hanno efficacia di prova piena in ordine ai fatti da esse attestati e possono contribuire a fondare il convincimento del giudice solo unitamente ad altre circostanze che ne confortino l'attendibilità (Cass. III, n. 23788/2014). Nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass. n. 9507/2023; Cass. n. 17392/2015). Da ultimo, Cass. I, n. 27348/2022, ha affermato che, nei giudizi di separazione fra coniugi, ai fini della statuizione sull'affidamento dei figli il giudice può legittimamente valorizzare il contenuto delle relazioni del coordinatore genitoriale, unitamente alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, poiché nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura che imponga la tassatività dei mezzi di prova ed è pertanto consentito il ricorso alle prove atipiche. Principio di acquisizioneIn materia di prova documentale nel processo civile, il principio di "non dispersione (o di acquisizione) della prova" - che opera anche per i documenti, prodotti con modalità telematiche o in formato cartaceo - comporta che il fatto storico in essi rappresentato si ha per dimostrato nel processo, costituendo fonte di conoscenza per il giudice e spiegando un'efficacia che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, e non può dipendere dalle successive scelte difensive della parte che detti documenti abbia inizialmente offerto in comunicazione (Cass., S.U., n.4835/2023; conf. Cass. n. 7923/2024). Quanto rilevato comporta che il giudice può, ai fini della decisione, valorizzare un documento in senso sfavorevole alla parte che lo ha prodotto nonostante che la parte medesima abbia dichiarato di non volersi più avvalere di esso : ed invero, l'utilizzazione di tale documento non soltanto non importa vizio di extrapetizione, il quale riguarda soltanto lo ambito oggettivo della pronunzia e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione, ma risponde anche al principio per cui il giudice è libero di utilizzare tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito agli atti e può, quindi, trarre elementi di prova in danno di una parte dalle risultanze istruttorie acquisite su iniziativa di questa, ancorché la parte medesima dichiari di non volersi più avvalere di tale risultanze ( Cass. n. 19241/2024 ). Il principio dell'onere della prova non implica che il fondamento del diritto vantato debba essere dimostrato unicamente dalle prove prodotte dal soggetto gravato dal relativo onere: tale fondamento può invece desumersi da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo, anche attraverso l'esercizio da parte del giudice dei poteri officiosi riconosciutigli in materia dall'ordinamento processuale (Cass. II, n. 17336/2003). Il giudice di appello, pur in mancanza di specifiche deduzioni sul punto, deve valutare tutti gli elementi di prova acquisiti, quand'anche non presi in considerazione dal giudice di primo grado, poiché in materia di prova vige il principio di acquisizione processuale, secondo cui le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (Cass. n. 14284/2018). Peraltro, il principio di acquisizione probatoria comporta l'impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ormai assunte, le quali possono giovare o nuocere all'una o all'altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte, e non già l'obbligo del giudice di considerare e tener comunque ferme tutte le prove solo perché già espletate, ancorché ammesse in violazione di norme di legge (Cass. VI, n. 15480/2012). Atti e provvedimenti assunti in un altro giudizioIl giudice civile può liberamente utilizzare, come elementi di prova, le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione , senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (Cass. III, n. 840/2015). Tale prova può valere, come indizio idoneo a fornire elementi di giudizio, solo una volta che la relativa documentazione sia ritualmente esibita dalla parte interessata, secondo le regole dell'allegazione, conseguendone che non può validamente formarsi il convincimento del giudicante ove vengano tratti elementi decisivi dal mero riferimento, operato da una delle parti nella comparsa conclusionale, ad una pronuncia, resa in altro processo tra le stesse parti, non acquisita agli atti, e fondata su un documento ritenuto rilevante nella causa in esame ma neppure questo acquisito, pur se controparte non abbia mosso eccezioni nella memoria di replica (Cass. I, n. 7518/2001). Il giudice di merito, in difetto di particolari divieti normativi, può utilizzare, per la formazione del proprio convincimento, anche prove e, più in genere, risultanze istruttorie, formate in un diverso giudizio estinto, svoltosi tra le stesse parti o anche tra altre parti, da considerare quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio (Cass. II, n. 10972/1994). Tuttavia anche in tale ipotesi in difetto di un'istanza della parte interessata, il giudice non può trarre argomenti di prova dalle risultanze istruttorie del diverso procedimento estinto, assumendole dai relativi fascicoli d'ufficio (Cass. II, n. 11842/2003). La valutazione di tale materiale probatorio, peraltro, non va limitata all'esame isolato dei singoli elementi ma deve essere globale nel quadro di una indagine unitaria e organica (Cass. I, n. 569/2015). La sentenza civile, oltre a produrre gli effetti propri del giudicato, può avere, anche rispetto ai terzi che non furono parti del giudizio, la diversa efficacia di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudiziale (Cass. lav., n. 23446/2009). Il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della decisione, di risultanze di relazioni tecniche acquisite in un diverso processo, tanto più quando la relazione sia stata predisposta in relazione ad un giudizio tra le stesse parti ed abbia avuto ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi (Cass. I, n. 5862/2001). Il giudice di merito può, inoltre, legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa (Cass. lav., n. 28855/2008). Il giudice di merito può tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, ancorché quest'ultimo sia stato dichiarato nullo per vizio di costituzione del giudice, poiché ciò che rileva, infatti, è che l'accertamento peritale sia stato ritualmente acquisito nel successivo giudizio e che su di esso vi sia stato il contraddittorio tra le parti (Cass. I, n. 11141/2009). Sotto altro profilo, in forza del principio dell'unità della giurisdizione, il giudice civile può, inoltre, utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta amnistia o per altra causa estintiva del reato e può, a tal fine, porre anche ad esclusiva base del suo convincimento gli elementi di fatto acquisiti in sede penale, ricavandoli dalla sentenza o dagli atti di quel processo, con apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e logica motivazione (Cass. I, n. 5009/2009). La possibilità per il giudice civile, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo c.p.p., di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all'esito del processo penale, non comporta alcuna preclusione per detto giudice nella possibilità di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito con sentenza passata in giudicato e di fondare il proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il giudice penale (Cass. III, n. 11483/2004). Il giudice, inoltre, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre a utilizzare prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, può anche avvalersi delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari, da considerarsi semplici indizi idonei a fornire utili svolte in sede penale (Cass. III, n. 7537/2009). In particolare, il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. II, n. 22020/2007; Trib. Rovereto 9 gennaio 2013) e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. lav., n. 2168/2013). In base al principio del libero convincimento, il giudice civile può trarre elementi di prova, con adeguato vaglio critico, dalle dichiarazioni “auto-indizianti” rese nel procedimento penale, atteso che la sanzione d'inutilizzabilità, posta dall'art. 63 c.p.p. a tutela dei diritti di difesa in quella sede, non ha effetti fuori di essa (Cass. II, n. 12577/2014). Il giudice civile può utilizzare e autonomamente valutare come fonte del proprio convincimento, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria, comprese le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell'ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi, e le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali; ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. lav., n. 22384/2014). Analogamente, le sommarie informazioni assunte durante la fase delle indagini preliminari, ritualmente acquisite nel contraddittorio delle parti , sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell'art. 116, non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche ( Cass. n. 18025/2019 ). Resta fermo che le risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata - in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni - non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 19521/2019). Nella giurisprudenza più recente si è anzi riconosciuto che le dichiarazioni, a sé sfavorevoli, rese dalla persona offesa alla P.G. ed al P.M. nella fase delle indagini preliminari possono essere ricondotte nel novero della confessione stragiudiziale ed utilizzate ai fini della decisione in sede civile, poiché l'assenza, nell'ordinamento processuale vigente, di una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova consente al giudice di porre, alla base del proprio convincimento, anche prove cd. atipiche, quali, per l'appunto, le risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari (Cass. n. 3689/2021). Il giudice civile, investito della domanda di risarcimento del danno da reato, ben può utilizzare, senza peraltro averne l'obbligo, come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato e fondare la propria decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, essendo in tal caso peraltro tenuto a procedere alla relativa valutazione con pienezza di cognizione al fine di accertare i fatti materiali all'esito del proprio vaglio critico (Cass. n. 12164/2021). Analogamente, si è affermato che nel giudizio civile di separazione personale dei coniugi, vertente sulla domanda di addebito della stessa, la sentenza di patteggiamento a carico di uno di essi può costituire, quale fatto storico espressione della sua condotta, idoneo elemento di valutazione in ordine alla dedotta sussistenza di presupposti della separazione medesima, nel contesto degli accertamenti condotti dal giudice civile, secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. I, n. 40796/2021). Il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza (Cass. II, n. 22200/2010). Il giudice civile, anche in presenza di una sentenza penale di condanna non definitiva, può trarre elementi di convincimento dalle risultanze del procedimento penale, in particolare utilizzando come fonti le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti in tale giudizio, ma è necessario che il procedimento di formazione del proprio libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza, attraverso l'indicazione degli elementi di prova e delle circostanze sui quali esso si fonda, non essendo sufficiente il generico richiamo alla pronuncia penale, che si tradurrebbe nella elusione del dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanze probatorie e di conseguenza nel vizio di omessa motivazione (Cass. III, n. 10055/2010). La sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice del merito (Cass. lav., n. 4258/2011): invero, tale sentenza si fonda, da un lato, sull'assenso dell'imputato all'applicazione della pena “concordata” con il P.M. e, dall'altro, sull'accertamento da parte del giudice, che non sussistono i presupposti per pronunciare una sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.; pur non essendo assimilabile ad una sentenza di condanna, emessa all'esito del pieno accertamento del fatto di reato, la stessa costituisce comunque un importante elemento di prova nell'ambito del successivo processo civile, soggetto al libero apprezzamento del giudice ex art. 116 ( Trib. Monza I, 2 gennaio 2009, n. 41). La sentenza penale di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale nei confronti di imputato minorenne non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile risarcitorio, perché esula dalle ipotesi previste negli artt. 651 e 652 c.p.p., non suscettibili di applicazione analogica per il loro contenuto derogatorio del principio di autonomia e separazione tra giudizio penale e civile: ne consegue che il giudizio civile deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione, sebbene, nel rispetto del contraddittorio, possa tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, al fine di ritenere provato il nesso causale fra la condotta del minore e la lesione subita dall'attore (Cass. III, n. 24475/2014). Proprio in virtù della premessa generale per la quale, nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti, il giudice civile valuta liberamente le prove raccolte in sede penale, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale, l'utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese da una coimputata ai sensi dell'art. 192 è questione che riguarda esclusivamente le regole che presiedono alla formazione della prova nell'ambito del processo penale, non assumendo alcun rilievo nel giudizio civile, teso a verificare la fondatezza degli addebiti mossi ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento civile (Cass. n. 9799/2019). Ai fini dell'irrogazione di sanzione disciplinare a carico del funzionario di banca per omessa vigilanza su operazioni irregolari di sportello compiute nell'ambito della sua area di controllo, il proscioglimento in sede penale di altro impiegato, suo sottoposto, dall'accusa di commissione dei fatti è irrilevante, sicché è viziata da illogicità la motivazione della sentenza di merito che, per tale sola circostanza, abbia escluso, pur nell'obiettiva constatazione dell'irregolarità delle operazioni, la responsabilità del funzionario (Cass. n. 5716/2015). Nel contenzioso tributario, la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l'accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva (Cass. trib., n. 2938/2015). Nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula "perché il fatto non sussiste", non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell'esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass. n. 10578/2015). Le risultanze di intercettazioni ambientali legittimamente effettuate in un procedimento penale sono utilizzabili nel giudizio civile riguardante l'incandidabilità ex art. 143, comma 11, d.lgs. n. 267/2000, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270, comma 1, c.p.p., riferibili esclusivamente ai procedimenti penali diversi da quelli in cui sono state disposte; peraltro, nessuna lesione può ipotizzarsi del diritto di difesa della parte nei cui confronti le stesse vengono fatte valere, che può, in quel giudizio, contestare la legittima effettuazione ed il contenuto, nonché dedurre e produrre mezzi di prova in senso contrario, ivi esse assumendo il valore di elementi indiziari, come tali liberamente valutabili dal giudice, ai fini del proprio convincimento sui fatti di causa, sulla base delle regole che disciplinano le prove per presunzioni (Cass. n. 1948/2016). BibliografiaAndrioli, Prova (dir. proc. civ.), in Nss. 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