Codice di Procedura Civile art. 183 - Prima comparizione delle parti e trattazione della causa 1 (1).

Antonio Scarpa

Prima comparizione delle parti e trattazione della causa1 (1).

[I]. All'udienza fissata per la prima comparizione e la trattazione le parti devono comparire personalmente. La mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell'articolo 116, secondo comma.

[II]. Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice, se autorizza l'attore a chiamare in causa un terzo, fissa una nuova udienza a norma dell'articolo 269, terzo comma.

[III]. Il giudice interroga liberamente le parti, richiedendo, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e tenta la conciliazione a norma dell'articolo 185.

[IV]. Se non provvede ai sensi del secondo comma il giudice provvede sulle richieste istruttorie e, tenuto conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa, predispone, con ordinanza, il calendario delle udienze successive inclusa quella di rimessione della causa in decisione, indicando gli incombenti che verranno espletati in ciascuna di esse. L'udienza per l'assunzione dei mezzi di prova ammessi è fissata entro novanta giorni. Se l'ordinanza di cui al primo periodo è emanata fuori udienza, deve essere pronunciata entro trenta giorni2.

[V]. Se con l'ordinanza di cui al quarto comma vengono disposti d'ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi, nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere a norma del quarto comma ultimo periodo.

 

[1] Articolo così sostituito, in sede di conversione, dall'art. 23 lett. c-ter)d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato dall'art. 11 lett. a)l. 28 dicembre 2005, n. 263, con effetto dal 1° marzo 2006; successivamente modificato dall'art. 25 della l. 12 novembre 2011, n. 183 e, da ultimo, così sostituito dall'art. 3, comma 13, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". Si riporta il testo prima della sostituzione: « [I].All'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti dall'articolo 102, secondo comma, dall'articolo 164, secondo, terzo e quinto comma, dall'articolo 167, secondo e terzo comma, dall'articolo 182 e dall'articolo 291, primo comma. [II] Quando pronunzia i provvedimenti di cui al primo comma, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione. [III]  Il giudice istruttore fissa altresì una nuova udienza se deve procedersi a norma dell'articolo 185. [IV] Nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma, il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. [V] Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate.[VI] Se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini perentori: 1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; 2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali; 3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria. [VII] Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. [VIII] Se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro trenta giorni. [IX] Nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al settimo comma, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere ai sensi del settimo comma. [X] Con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il libero interrogatorio delle parti; all'interrogatorio disposto dal giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui al terzo comma».

[2] Comma modificato dall'art. 3, comma 2, lett. m) del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 che ha sostituito le parole:  «inclusa quella»   alle parole:  «sino a quella».  Ai sensi dell'art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

Inquadramento

Sin dagli albori della Riforma operata dalla l. n. 353/1990, la dottrina ha legato il successo o il fallimento della nuova disciplina del rito al concreto funzionamento dell'udienza di trattazione ex art. 183 In tal senso, il perseguimento dello scopo ultimo del processo, costituito dalla finalizzazione ad una decisione di merito, ed il buon esito dell'udienza di trattazione sono valori legati da una condizione di reciprocità. La prima udienza di trattazione (una volta soppressi, per merito della l. n. 80/2005, gli effetti della controriforma del processo civile attuata con la l. n. 534/1995, che aveva imposto una diluizione della fase introduttiva, mediante previsione di un'udienza cronologicamente precedente di almeno venti giorni, definita dall'art. 180 ‹‹di prima comparizione››) ha la funzione di fissare definitivamente il thema decidendum, e, cioè, quello che deve essere l'oggetto sostanziale del processo dato dalla correlazione di domande ed eccezioni. A questa prima fase di allegazione dei fatti fa seguito una seconda fase che, preso atto di quali siano i profili controversi tra le parti, traccia ineluttabilmente il thema probandum, ovvero il contorno dei fatti che, proprio perché controversi o perché comunque sottratti alla disponibilità delle parti, risultano bisognosi di prova.

Spogliata dal d.lgs. n. 149/2022 di tutte le attività del giudice volte alla verifica della regolarità del contraddittorio ed alla indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, nonché di tutte le attività della parte volte alla proposizione, precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni, alla indicazione dei mezzi di prova e alla produzione dei documenti, anticipate, rispettivamente, al momento del decreto ex art. 171-bis e al deposito delle memorie integrative, il contenuto dell’art. 183, e perciò della prima udienza che esso disciplina, è ora molto più esiguo rispetto al passato,

Comparizione personale delle parti

Si prevede che le parti devono comparire personalmente e che la loro mancata comparizione senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116, comma 2.

La comparizione personale delle parti è funzionale a consentire al giudice di interrogare liberamente le stesse, di richiedere loro, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e di tentare la conciliazione a norma dell'art. 185 . Non è infatti più previsto che il giudice istruttore fissi una nuova udienza « se deve procedersi » al tentativo di conciliazione .

La previsione del primo comma dell'art. 183, che ripristina l'obbligo di comparizione personale, va saldata con quella del terzo comma dello stesso articolo, secondo cui il giudice interroga liberamente le parti, richiedendo, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e tenta la conciliazione a norma dell'art. 185.

Scopo della comparizione personale è, quindi, innanzitutto quello di permettere al giudice di interrogare liberamente le parti sui fatti della causa in contraddittorio fra loro, dando modo a ciascuna di esse di chiarire le proprie allegazioni di fatto e conclusioni. I risultati dell'interrogatorio non formale dovrebbero fornire elementi sussidiari di convincimento per corroborare o per disattendere le prove già acquisite al processo e non possono giammai assurgere al volere di confessione giudiziale. Sennonché, il novellato primo comma dell'art. 183 riconduce alla mancata ingiustificata comparizione delle parti la significatività di comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116, comma 2.

Tentativo di conciliazione

La previsione dell'udienza di prima comparizione come luogo esclusivo della comparizione personale per il tentativo di conciliazione si rivela scarsamente coerente con il richiamo all'art. 185 contenuto nel terzo comma dell'art. 183.

L'art. 185 è rimasto, infatti, praticamente immodificato dal d.lgs. n. 149/2022, se non per l'aggiunta che vincola il giudice e le parti a rinnovare il tentativo di conciliazione sempre « nel rispetto del calendario del processo  ». Oltre che, quindi, obbligatoriamente nell'udienza ex art. 183, rimane stabilito che il giudice istruttore, altresì in caso di richiesta congiunta delle parti, deve fissare la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione . E altrettanto può il giudice istruttore fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell'art. 117.

Il difficile coordinamento dell'art. 183, commi 1 e 3, e 185 induce a concludere che : 1) la comparizione personale e il tentativo di conciliazione sono obbligatori nella prima udienza; 2) la comparizione personale, anche mediante rappresentante a conoscenza dei fatti di causa, e il tentativo di conciliazione sono ripetuti ogni volta che vi sia richiesta congiunta delle parti o sia ritenuto opportuno dal giudice, ma compatibilmente con il calendario del processo .

I chiarimenti

L'udienza di trattazione, chiama quest'ultimo ad adempiere al suo tipico dovere di collaborazione con quelle nella formazione della materia del giudizio, in maniera da garantire il principio del contraddittorio che governa il processo.

È nella trattazione del processo che il giudice è chiamato ad individuare e selezionare le questioni che influenzano la risoluzione della controversia.

L'art. 183, comma 4, rimette al giudice il compito di richiedere alle parti i necessari chiarimenti.

Al pari della facoltà di interrogatorio non formale delle parti sui fatti della causa, la richiesta di chiarimenti (che si rivolge essenzialmente ai difensori), si descriveva in passato come potere spettante al giudice anche dopo la rimessione della causa in decisione; e, in ogni caso, come esercizio di attività squisitamente discrezionale, il cui mancato uso, lungi dal poter formare oggetto di un motivo d'impugnazione per violazione della legge processuale, avrebbe comportato soltanto una maggiore attivazione probatoria della parte interessata a rendere i chiarimenti stessi.

Due ordini di considerazioni hanno indotto a rivedere queste ultime argomentazioni.

Innanzitutto, l'esercizio tempestivo dell'attività di collaborazione e sollecitazione del giudice è, nel rimodellato rito civile, necessitato, come già detto nei precedenti capitoli, dall'insorgenza delle preclusioni per le parti, che vedrebbero sconvolte le loro facoltà difensive ove l'istruttore prospettasse interrogativi o tematiche implicanti aggiustamenti di domande, eccezioni o deduzioni istruttorie non più consentiti.

C'è poi l'effetto indotto dell'art. 111, comma 2, Cost., per il quale ‹‹ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale››. Il nuovo precetto costituzionale ha dunque rafforzato il divieto di sentenze cd. ‹‹di terza via››, di sentenze, cioè, motivate sulla base di questioni non sottoposte al previo contraddittorio tra le parti (Cass. III, n. 25054/2013, evidenzia, appunto, il fondamento costituzionale del dovere di evitare sentenze ‹‹a sorpresa››, poiché contrarie al principio della ‹‹parità delle armi››; da ultimo, Cass. II, n.  30716/2018).

In tale prospettiva:

i) il giudice può richiedere chiarimenti e rilevare questioni d'ufficio nei limiti dei fatti principali e secondari risultanti dagli atti ed allegati prima dello scadere delle preclusioni;

ii) il giudice deve interpretare e qualificare domande ed eccezioni pur sempre nel rispetto del criterio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, ovvero col divieto di sostituire d'ufficio un'azione diversa a quella espressamente e formalmente proposta, o di valorizzare eccezioni, dirette a paralizzare la domanda avversaria, non proposte espressamente dalla parte;

iii) il giudice che, quando sia ormai esaurita l'udienza di trattazione, ritenga, nondimeno, di dover porre a fondamento della sua pronuncia una questione rilevata d'ufficio e non considerata dalle parti, riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione (così il comma 2 dell'art. 101, aggiunto dall'art. 45, comma 13, l. n. 69/2009; principio già presente nel giudizio di cassazione, per l'art. 384, comma 3, introdotto dalla d.lgs. n. 40/2006).

     

Attività consentite all'attore

Ove il convenuto si sia difeso in comparsa individuando in un terzo il titolare , sotto il profilo attivo o passivo, del rapporto dedotto in causa, o allegando la sussistenza di un rapporto pregiudiziale con un terzo, senza sobbarcarsi, però, l'onere processuale della chiamata, è intuibile che l'attore può avere interesse ad estendere l'accertamento della situazione litigiosa nei confronti del terzo, provvedendo egli alla istanza di autorizzazione alla chiamata, ai sensi degli artt. 106 e 269, comma 3, sempre, a pena di decadenza, all'interno della prima memoria ex art. 171- ter . Il sistema giustifica la preclusione dell'attore rispetto alla chiamata del terzo che non sia richiesta nella prima memoria ove il convenuto si sia difeso nella comparsa di risposta depositata a norma dell'art. 167 deducendo sul terzo stesso. Allorché, però, il convenuto si sia costituito successivamente, e così soltanto nella sua comparsa di risposta intempestiva abbia poi svolto le difese su cui possa fondarsi l'interesse dell'attore a chiamare il terzo, viene sacrificato il diritto di difesa dell'attore stesso, cui è imposto di rivolgere nella prima memoria ex art. 171- ter la richiesta di autorizzazione alla chiamata.

Può sovvenire in tale evenienza l'art. 101, comma 2, che investe il giudice del dovere di adottare i provvedimenti opportuni per assicurare il rispetto del contraddittorio.

Il giudice nell'udienza di trattazione autorizza così l'attore a chiamare in causa il terzo, nel qual caso viene fissata una nuova udienza a norma dell'art. 269, comma 3, allo scopo di consentirne la citazione nel rispetto dei termini dell'art. 163- bis . Nonostante l'infelice riformulazione del secondo comma dell'art. 183, che fa salva al riguardo l'applicazione dell'art. 187, non può ovviamente intendersi che la mancata autorizzazione della chiamata del terzo richiesta dall'attore preluda alla immediata rimessione in decisione.

 

Calendario del processo, ammissione e assunzione dei mezzi di prova

Ove non debba procedersi né ad immediata rimessione in decisione né alla chiamata di terzi invocata dall'attore, il giudice provvede motivatamente sulle richieste istruttorie, valutandone l'ammissibilità,  cioè la conformità del mezzo di prova all'astratto modello normativo, e la rilevanza, cioè l'idoneità della prova stessa a favorire l'accoglimento, integrale o parziale, di domande o eccezioni.

Può tuttavia accadere che il giudice, esaurita la fase della comparizione personale e del tentativo di conciliazione, ritenga la causa matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, nel qual caso rimette le parti davanti al collegio. Il giudice può rimettere le parti al collegio anche affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, che può definire il giudizio, o questioni attinenti alla giurisdizione, alla competenza o altre pregiudiziali, se non dispone che siano decise unitamente al merito. Ove sia stata disposta l'immediata rimessione al collegio e la decisione su tali questioni non si riveli, però, idonea a definire il giudizio, sicché si impone l'ulteriore istruzione della causa, il novellato art. 187, comma 4, prevede ora che «   i termini di cui all'art. 183, comma 4, non concessi prima della rimessione al collegio, sono assegnati dal giudice istruttore, su istanza di parte, nella prima udienza dinanzi a lui». Tuttavia, l'attuale quarto comma dell'art. 183 non contempla alcuna concessione di termini su istanza di parte.

Nella stessa ordinanza di ammissione delle prove, il giudice, tenuto conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa, predispone il calendario delle udienze successive sino a quella di rimessione della causa in decisione, indicando gli incombenti che verranno espletati in ciascuna di esse.

È stato così riscritto dal d.lgs. n. 149/2022 altresì l'art. 81- bis disp. att. c.p.c. Resta fermo che i termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d'ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti e che la proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini. Resta fermo pure che il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario da parte del giudice, del difensore o del consulente tecnico d'ufficio può costituire violazione disciplinare, e può essere considerato ai fini della valutazione di professionalità e della nomina o conferma agli uffici direttivi e semidirettivi. Resta ancora il disposto inerente al difensore che documenti il proprio stato di gravidanza.

La C. cost., 18 luglio 2013, n. 216 , nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 81- bis delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile, nella parte in cui il legislatore sancisce l'obbligatorietà del calendario del processo, premessa l'ampia discrezionalità nella conformazione normativa degli istituti processuali, ravvisò nell'istituto, tuttavia, la meritevole intenzione del legislatore di perseguire l'esigenza di rendere conoscibili alle parti (sia pure in modo non rigido) i tempi del processo, di evitare (per quanto possibile) inutili rinvii e di realizzare il principio di ragionevole durata del processo, prospettandosi in termini di mera eventualità l'iniziativa disciplinare come conseguenza del mancato rispetto dei termini 

fissati dal calendario, il che renderebbe evidente che l'inosservanza deve essere quanto meno colposa.

Il quarto comma dell'art. 183 è completato dalla indicazione di due termini ordinatori , o forse meglio, «persuasivi» : l ' udienza da calendarizzare per l ' assunzione dei mezzi di prova ammessi è fissata entro novanta giorni (seppure l 'art. 81, comma 2, disp. att. c.p.c. continui a postulare che l ' intervallo tra l ' udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti e la prima udienza d ' istruzione, e quello tra le successive udienze di istruzione, non può essere superiore a quindici giorni, salvo che, per speciali circostanze, delle quali dovrà farsi menzione nel provvedimento, sia necessario un intervallo maggiore); l'ordinanza che provvede sulle richieste istruttorie, se emanata fuori udienza, deve essere pronunciata entro trenta giorni (in deroga all'art. 186 c.p.c., il quale tuttora prescrive che sulle domande e sulle eccezioni delle parti, il giudice deve dare in udienza i provvedimenti opportuni e può altrimenti riservarsi di pronunciarli entro i cinque giorni successivi).

Se, infine, con l'ordinanza chiamata a provvedere sulle richieste istruttorie vengono disposti d'ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi, nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere nuovamente su tali richieste.

Funge da completamento l'art. 202, il quale prevede che il giudice istruttore fissi una udienza di assunzione delle prove che non abbia potuto assumere contestualmente alla loro ammissione, e può poi legittimamente differire la prosecuzione dei mezzi di prova il cui espletamento non si esaurisce nell'udienza fissata. Tale ultima norma è sicuramente applicabile anche alla prova testimoniale, sicché il giudice non è obbligato ad assumere la prova contraria nella medesima udienza di assunzione di quella diretta, né tale differimento viola i principi dell'unità e contestualità della prova, i quali, piuttosto, impediscono il frazionamento dell'assunzione in fasi processuali successive, sia nel corso dello stesso grado sia tra il primo e il secondo grado del giudizio.

 

Indispensabilità dell'udienza di assunzione delle prove

L’udienza di assunzione dei mezzi di prova non costituisce un momento indefettibile che debba necessariamente precedere la rimessione della causa al collegio. La rimessione al collegio non comporta infatti la perdita del diritto alle deduzioni istruttorie (Cass. II, n. 16092/2005).

La parte può, comunque, articolare i mezzi di prova in sede di conclusioni e dedurne, in appello, la mancata ammissione, dolendosi dell’omessa fissazione dell’udienza suddetta purché precisi, nell’atto di impugnazione, la decisività e rilevanza delle prove non ammesse nonché il pregiudizio da essa subìto a causa del mancato svolgimento dell’udienza per i provvedimenti istruttori, benché ne avesse ritualmente richiesto la fissazione (Cass. II, n. 19568/2016). Qualora venga, infatti, dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il “thema decidendum” e il “thema probandum”, l’appellante che faccia valere tale nullità – premesso che la medesima non comporta affatto la rimessione della causa al primo giudice - non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il “thema decidendum” sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare, e quali prove erano state dedotte, poiché in questo caso il giudice d’appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività istruttorie non svolte in primo grado (Cass. III, n. 23162/2014; Cass. I, n. 24710/2015).

 

 

Il diritto alla prova

Nel linguaggio comune col termine “prova” si indica tutto ciò che consenta una verifica o un controllo preliminare; più in particolare, tale termine può stare a qualificare l'argomento o lo strumento idoneo a dimostrare la veridicità di un'affermazione o la realtà di un fatto. Nel linguaggio giuridico, invece, il vocabolo “prova”, pur conservando l'attinenza alla tipica funzione di controllo, assume un significato più ristretto: esso vale a designare gli strumenti medianti i quali il giudice controlla i fatti affermati (ma non ammessi) dalle parti, ovvero i fatti controversi, servendosi di determinati procedimenti di fissazione formale della verità legale dei fatti stessi. La prova è il mezzo che 

consente in sostanza al giudice di pervenire ad un certo grado di certezza sufficiente ad affermare l'esistenza o l'inesistenza di un fatto storico allegato. Più in generale, il termine prova, nell'accezione giuridica, esprime sia la fonte di conoscenza del fatto storico preesistente al processo, sia il procedimento che assicura l'acquisizione processuale della fonte di conoscenza, sia l'attività logica del giudice che conduce alla conoscenza dei fatti, sia, infine, il risultato decisionale che discende da questa attività.

L'istituto giuridico della prova obbliga dunque il giudice a non porre a base della sentenza fatti contestati dalle parti, che non siano stati fissati con uno dei procedimenti previsti dalla legge. In tal senso, è enucleabile un diritto delle parti sul materiale probatorio. L'attività istruttoria, conseguente all'avvalimento dei mezzi di prova, è subordinata infatti alla volontà delle parti di controvertere sui fatti storici allegati in giudizio, a meno che non si tratti di diritti indisponibili. Il diritto alla prova esprime, allora, il diritto di agire o di resistere in giudizio provando, ovvero il diritto della parte all'assunzione ed alla valutazione di tutte le prove che siano rilevanti al fine di dimostrare la verità dei fatti che delineano la sua difesa. Il dibattito creatosi negli ultimi anni intorno ai progetti di Riforma del Codice di Procedura Civile ha convalidato l'idea della portata ideologica sottostante al tema del “diritto alla prova”, essendo esso correlato alla più ampia definizione dei rapporti di forza tra poteri delle parti e poteri del giudice. Spesso, i disegni riformatori del rito civile hanno dato spazio alla previsione di un'attività istruttoria di parte, intendendo riconoscere l'utilizzabilità nel processo delle dichiarazioni testimoniali assunte dai difensori prima dell'inizio del giudizio, facendosi peraltro salvo il potere del giudice di disporre al riguardo accertamenti istruttori; ciò sul risalente modello di pretrial e discovery anglosassoni. Dalle regole adottate per disciplinare l'istruzione del processo si fa tradizionalmente discendere l'elaborazione di antitetiche figure di giudice. Un sistema inquisitorio puro legittimerebbe la figura del giudice dittatore; viceversa, un sistema dispositivo puro, di matrice liberale, delineerebbe l'immagine del giudice spettatore. Il nostro ordinamento vorrebbe tendere verso il ruolo del giudice direttore, che ha poteri di ingerenza nel processo dall'inizio alla fine e che sottrae ai contendenti il diritto di disporre dei tempi del processo, in nome del principio di collaborazione, nonché delle garanzie costituzionali del contraddittorio e della parità tra le parti. Peraltro, la dottrina più recente critica per il suo semplicismo e per la sua vaghezza l'equazione “poteri inquisitori del giudice = regime autoritario” e “giudice passivo = regime liberale”, evidenziando come essa sia stata costantemente smentita dalla storia. Né sembrano più esistere davvero sistemi inquisitori o dispositivi puri, caratterizzandosi piuttosto ormai quasi tutti gli ordinamenti processuali per la sussistenza, da un lato, di poteri istruttori del giudice più o meno estesi, e dall'altro dalla piena possibilità riservata alle parti di dedurre tutte le prove ammissibili e rilevanti per l'accertamento dei fatti. Questo è anche l'equilibrio prescelto dal nostro legislatore, retto dal principio di disponibilità delle prove, sancito nell'art. 115, e dal principio dispositivo, evincibile dagli artt. 99, 101 e 112, ma contemperato dall'attribuzione al giudice di alcuni poteri inquisitori che certo non annullando i diritti delle parti.

In definitiva, venendo alle sue conseguenze applicative, il contenuto del diritto alla prova spettante alle parti impone al giudice di ritenere sempre ammissibili,  e quindi di assumere, tutte le prove rilevanti; ed implica altresì che le valutazioni di attendibilità della fonte di prova o di verosimiglianza del fatto da provare vadano rinviate alla fase successiva all'assunzione della prova medesima.

È dunque compito del giudice quello di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e di scegliere le risultanze processuali più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti allegati dalle parti. La mancata ammissione o valutazione di una prova vizia pertanto la sentenza soltanto se da essa sarebbe potuta certamente derivare l'invalidazione degli elementi istruttori altrimenti valorizzati dal giudice.

Essendo l'ordinamento processuale vigente ispirato ai principi del libero convincimento del giudice e di libertà delle prove, tutti i mezzi di prova hanno pari valore, e perciò il giudice può trarre gli elementi del proprio convincimento da tutte le risultanze probatorie comunque acquisite agli atti. La violazione del principio del prudente apprezzamento delle prove è denunciabile solo laddove il giudice attribuisca erroneamente ad una risultanza probatoria un valore legale tipico, ovvero pretermetta la specifica valenza  che essa riveste.

Peraltro, una violazione dell'art. 115 può essere ipotizzata come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha deciso la causa sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre; mentre la violazione dell'art. 116 è censurabile solo quando il giudice abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova (Cass. S.U., n. 20867/2020; Cass. III, n. 11892/2016).

 

 

 

Motivazione dell'ordinanza di ammissione delle prove

Resta controverso nella pratica il profilo della motivazione delle ordinanze con cui il giudice provvede sulle richieste istruttorie. Il giudice, come afferma l’art. 183, comma 7,  dispone l’assunzione dei mezzi di prova che ritenga “ammissibili e rilevanti”: in particolare, l’ammissibilità di una prova attiene alla verifica della conformità del mezzo all’astratto modello normativo, mentre  il giudizio di rilevanza impone l’accertamento dell’idoneità della prova stessa a favorire l’accoglimento, integrale o parziale, di domande o eccezioni.

L’art. 134 prevede espressamente che il giudice debba motivare “succintamente” le proprie ordinanze. Tale articolo va tuttavia integrato con il principio costituzionale di obbligatorietà della motivazione, ora espresso nell’art. 111, comma 6, Cost. Da ciò si desume la nullità di ogni provvedimento del giudice che, in violazione dell’obbligo costituzionalmente sancito di motivare sulle questioni di fatto, non consenta di rilevare la ratio decidendi, per mancanza di un requisito formale indispensabile (Cass. II, n. 4177/1998).

Pure laddove l’ammissione di alcuni mezzi istruttori sottenda l’espressione di un potere puramente discrezionale del giudice civile, la valutazione di ammissibilità e rilevanza delle deduzioni istruttorie costituisce estrinsecazione del diritto alla prova costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost., e la motivazione costituisce pertanto l’unico strumento che permette alle parti ed al giudice dell’impugnazione di controllare se il primo giudice abbia fatto buon uso del suo potere ammissivo. Dall’ammissione o meno di una prova dipende solitamente, del resto, l’unica possibilità data alla parte di dimostrare in giudizio l’esistenza di un proprio diritto e quindi in pratica di conseguire l’attesa tutela giurisdizionale. Per questo, i provvedimenti di accoglimento o di rigetto di un’istanza istruttoria, come tutti i provvedimenti del giudice civile che non abbiano funzioni e contenuti meramente “organizzativi”, devono sempre essere congruamente motivati, secondo criteri di razionalità e di adeguatezza al caso cui si riferiscono (Cass. II, n. 3601/2001; Cass. I, n. 7308/1994).

La Cass. II, n. 16517/2020  ha affermato che non può predicarsi, tanto alla stregua delle norme di rango costituzionale, quanto ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio articolato dalla parte, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare, atteso che, da un lato, l’art. 6 cit., pur garantendo il diritto ad un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, trattandosi di questioni rimesse alla regolamentazione della legislazione nazionale, dall’altro, la necessità, da parte del giudice, di scrutinare la rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali non necessarie o superflue ai fini della pronuncia.

Per superare infondate, quanto diffuse, resistenze di carattere ideologico ed arretratezze di natura culturale, si consideri come non possa mai costituire un’indebita anticipazione del convincimento del giudice, rilevante come motivo di astensione, la decisione sulla ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, come ogni altra occasione che sia piuttosto espressione del principio di collaborazione del giudice con le parti, e che culmini nell’emissione di provvedimenti basati sul valutazioni preventive, che non possono mai pregiudicare l’esito del giudizio.

Allorché il giudice di primo grado abbia rigettato l’ammissione di una deduzione istruttoria, ritenendo la stessa irrilevante, giacché attinente ad un fatto incontroverso tra le parti e proprio per questo non bisognoso di prova, l’appellante ha l’onere di censurare la statuizione di rigetto delle istanze istruttorie con uno specifico motivo di appello, non essendo sufficiente che egli impugni la sentenza, lamentando l’omessa pronuncia su domande e l’errata valutazione del materiale probatorio da parte del primo giudice, perché il giudice d’appello debba necessariamente compiere un nuovo apprezzamento discrezionale della complessiva rilevanza delle richieste istruttorie disattese in primo 

grado (Cass. II, n. 5741/2019; Cass. II, n. 1532/2018Cass. lav., n. 4717/2014; Cass. I, n. 5715/2014).

Viceversa, attesi i limiti previsti dagli artt. 342 e 345 in tema di nuove allegazioni e nuovi mezzi di prova, l’appellante che intenda ottenere il riesame delle istanze istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado ha l’onere, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, di reiterarle nell’atto introduttivo del gravame, svolgendo una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice con riferimento alle prove che si assumano trascurate o malamente valutate (Cass. S.U., n. 27199/2017; Cass. I, n. 23978/2015). Così, se il primo giudice abbia omesso di concedere alla parte il termine per l’articolazione di nuovi mezzi di prova ed il deposito di documenti, la parte stessa, nel proporre appello, non può limitarsi a chiedere nuovamente la concessione del suddetto termine ma deve, a pena di decadenza, articolare i nuovi mezzi di prova e depositare i documenti (Cass. III, n. 17046/2018). Allorché, tuttavia, l’appellante impugni in toto la sentenza di primo grado che lo abbia visto soccombente, insistendo per l’accoglimento delle proprie domande, egli non ha l’onere di reiterare specificamente le istanze istruttorie pertinenti a tali domande, ritualmente avanzate in primo grado, in quanto detta riproposizione è insita nell’istanza di accoglimento delle domande, senza che operi alcuna presunzione di rinunzia (Cass. n. 14372/2018; Cass. II, n. 28424/2013Cass. lav., n. 3376/2011Cass. lav., n. 12366/2003; Cass. lav., n. 12629/2002).

La funzione della prova e le valutazioni del giudice

L'individuazione della funzione della prova nella dimostrazione della verità di un fatto presuppone evidentemente la parallela individuazione nella veridicità dell'accertamentodei fatti della condizione necessaria, seppur non sufficiente, della giustizia della sentenza del giudice. Se il processo civile è per sua natura orientato verso il conseguimento di decisioni fondate su di un accertamento veritiero dei fatti allegati, allora le prove non appaiono come meri strumenti retorici usati reciprocamente dalle parti soltanto per convincere il giudice della bontà delle loro rispettive versioni, ma come strumenti epistemici volti a fornire al giudice informazioni controllate ed attendibili intorno a circostanze utili per una verifica delle vicende di causa.  Ciò peraltro sempre considerando che il processo civile non intende approdare a verità assolute, e che perciò i fatti allegati e controversi posso essere considerati giudizialmente “veri” purché la loro esistenza risulti confermata dalle prove acquisite in giudizio. Il raggiungimento della verità processuale avviene così non sulla base dell'intimo convincimento del giudice, ma quale esito di operazioni razionali di oggettiva acquisizione di conoscenze. La verità processuale si distingue allora dalla verità materiale, o assoluta, proprio perché, ai fini del processo, secondo l'impostazione anche ideologica adottata nel nostro ordinamento, non si può qualificare vero se non quanto nel processo sia fornito di prova. Nel processo civile, in pratica, la prova si pone come misura della verità dei fatti allegati.

È innegabile che la prova giudiziaria non equivale alla dimostrazione matematica, basata su di un metodo assiomatico-deduttivo; pur tuttavia, il ragionamento probatorio processuale rientra comunque nel concetto di “dimostrazione”, perché poggia non su argomentazioni di carattere retorico, ma su schemi razionali.

Anche la valutazione concernente la credibilità di una prova, o l'attendibilità di una fonte di prova, che effettivamente non presenta nulla di assiomatico – deduttivo deve intendersi come operazione regolata da criteri di controllabilità razionale.

Provare un fatto significa convalidare, in base agli elementi di conoscenza acquisiti, una delle diverse e contrapposte ipotesi relative a quel fatto. Fra le molteplici versioni ipoteticamente enunciabili delle vicende rilevanti della causa, il giudice sceglie quella che appare più verosimile alla luce delle prove offerte dai contendenti. La scelta del giudice deve attenersi ad indici razionalmente modulati e parametrarsi a valutazioni di attendibilità ed a standards di gravità, precisione e concordanza (arg. dall'art. 2729 c.c.), sebbene il tutto avvenga sempre al di fuori di ragionamenti dotati di elementare struttura deduttiva.

Sotto il profilo strutturale, si operano distinzioni delle prove per categorie.

In base alle diversa attività di percezione che possa averne il giudice, si differenziano le “prove dirette” dalle “prove indirette”. Nelle prove dirette (qual è, ad esempio, l'ispezione giudiziale) il giudice percepisce, ossia conosce, immediatamente il fatto oggetto della prova, giacché si tratta di un fatto permanente e ancora durevole nel corso del processo, o di un fatto che si svolge alla sua presenza. Nelle prove indirette, per contro (quali sono i documenti o i testimoni) la percezione da parte del giudice del fatto giuridico da provare è mediata dalla conoscenza di un altro fatto, sicché il procedimento probatorio indiretto è qui complesso, abbinando alla percezione di un diverso fatto la deduzione del fatto da provare. La valutazione di inferenza probatoria cui è chiamato il giudice nel ricostruire indirettamente eventi passati ha, invero, frequentemente carattere prognostico, poggiando su schemi di ragionamento ipotetico relativi alla probabilità di verificazione di un dato fatto.

In riferimento alle modalità di rappresentazione del fatto da provare, le prove si distinguono poi tra “prove precostituite” (quali i documenti) e “prove costituende” (come la testimonianza). Nelle prove precostituite, la rappresentazione del fatto controverso tra le parti è immediata e permanente: essa si sostanzia in un oggetto che esiste al di fuori del processo ed è durevole. Nelle prove costituende, viceversa, la rappresentazione del fatto è mediata dalla memoria dell'uomo che assume uno specifico ruolo nel processo ed è transeunte, perché correlata all'istruzione della causa. Ai fini, tuttavia, della disciplina processuale, sia alle prove costituende che alle prove precostituite si ritiene applicabile l'identico regime temporale delle preclusioni istruttorie, non potendosi del resto concepire l'ammissibilità di una produzione documentale quando sia ormai maturato il limite preclusivo per la deduzione delle prove orali. In ogni caso, se per le prove costituende, stante il dispendio di energie processuale che esse comportano, il giudizio di ammissibilità e di rilevanza viene svolto antecedentemente alla loro acquisizione, per le prove precostituite, che sono acquisite mediante mera 

produzione, la valutazione di ammissibilità e rilevanza è differita al momento della sentenza.

Poiché non è possibile sempre dare diretta dimostrazione del fatto da provare, gli artt. 2727 e 2729 c.c. concedono al giudice la prova per presunzioni, la quale permette di arrivare alla conoscenza del fatto altrimenti non dimostrabile attraverso un procedimento logico di deduzione. In sostanza, laddove le fonti di prova in senso stretto equivalgono alla rappresentazione del fatto da provare, le presunzioni servono piuttosto alla deduzione del medesimo fatto, pur pervenendo al comune risultato costituito dalla fissazione del rapporto controverso. 

A norma dell'art. 2727 c.c. le presunzioni sono appunto le conseguenze che la legge (presunzioni legali) o il giudice (presunzioni semplici o giudiziali) traggono da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Peraltro, mentre il legislatore può comunque ritenere, nella sua discrezionalità, di presumere un fatto ignoto come fatto noto per trarne da questo la veridicità di un fatto egualmente ignoto, il giudice è invece tenuto ad applicare la presunzione soltanto tra un fatto noto e un fatto ignoto, al fine di desumere dal primo il secondo fatto.

Ai sensi del comma 2 dell'art. 2729 c.c., la prova per presunzione è consentita in tutti i casi in cui la legge non esclude la prova per testimoni, e quindi anche nel caso in cui il giudice intendesse ammettere tale mezzo oltre i limiti di valore fissati dall'art. 2721 comma 1 c.c., avvalendosi della facoltà prevista dal comma 2 dello stesso articolo.

I fatti su cui si fonda la presunzione non devono essere tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile delle risultanze istruttorie di giudizio, essendo sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, e cioè avendo riguardo ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità. Poiché allora il giudice, nella sua discrezionalità valutativa, deve inferire il fatto ignoto quale conseguenza necessaria o pure solo ragionevolmente possibile del fatto noto, quest'ultimo deve risultare sicuro, concreto, pacificamente affermato dalle parti o accertato dal giudice, non potendosi certo far derivare una presunzione da un'altra presunzione (praesumptum de praesumpto).

Secondo l'interpretazione prevalente, il requisito della concordanza menzionato dall'art. 2729 c.c. non impone che la presunzione sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti, potendo bastare anche un solo elemento grave e preciso.

La prova per presunzioni costituisce, in ogni caso, una “prova completa”, non inferiore alle altre gerarchicamente, della quale il giudice può servirsi anche in via esclusiva per motivare la sua decisione, nell'esercizio del potere discrezionale di individuare le fonti di prova, di controllarne l'attendibilità e di scegliere, tra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione. Il ricorso alle presunzioni non configura alcuna violazione dell'onere della prova, perché attinge da elementi già acquisiti al processo. Il giudice, piuttosto, è tenuto a verificare di volta in volta la rispondenza delle presunzioni ai requisiti richiesti dalla legge (gravità, precisione, concordanza), e ad ammettere l'eventuale prova contraria al fatto ignoto che si pretende provare tramite presunzioni, ove ciò sia richiesto da una delle parti e la prova non sia né inammissibile o irrilevante. Risultano invero di regola rilevanti le deduzioni istruttorie dirette a smentire l'esistenza del “fatto ignoto” da desumere o a contestare l'efficacia probatoria dei “fatti noti” sui quali le presunzioni si fondano.

Il documento, in particolare, costituisce un mezzo obiettivo di rappresentazione immediata di un fatto, ovvero della prova di un fatto, di formazione precedente al processo.  La disciplina di acquisizione processuale della prova documentale si sostanzia, perciò, nella mera produzione dei documenti stessi, non conoscendo le fasi, invece tipiche delle prove costituende, dell'istanza di parte, del provvedimento ammissivo e della successiva assunzione. La produzione dei documenti è, infatti, regolata dagli artt. 74 ed 87 disp. att. Questi adempimenti sono evidentemente preordinati allo scopo precipuo di mettere i documenti esibiti a disposizione della controparte, in modo che su di essi possa esercitarsi il diritto di difesa e svilupparsi il contraddittorio. Soltanto, perciò, l'inosservanza di tali modalità rende irrituale la compiuta produzione ed impedisce l'acquisizione al processo dei documenti, precludendo alla parte la possibilità di utilizzarli come fonte di prova ed al giudice di merito di esaminarli. Secondo dunque l'opinione tradizionale, con riguardo  ai documenti non  si porrebbe proprio un problema di ammissibilità e  rilevanza, giacché il giudice istruttore non potrebbe impedire la   produzione di un documento, né ordinarne  l'espunzione  dal   fascicolo di  parte,   anche se si tratti di documento, dovendosi piuttosto rinviare alla fase decisoria l'eventuale pronuncia di inammissibilità o di inutilizzabilità della documentazione. Si assume al riguardo che la produzione di documenti non implica, a differenza di quanto avviene per le  prove  costituende,   alcun  dispendio di  energie  processuali, facendo ingresso nel processo senza necessità di un'apposita attività istruttoria di assunzione. In ogni modo, alla produzione documentale  può conseguire il bisogno di svolgere ulteriori attività processuali, quali l'assunzione di nuovi mezzi di prova contraria, o l'espletamento di una verificazione di scrittura privata o di una querela di falso, con notevole aggravio della durata del processo e possibile violazione dell'art. 111, comma 2, Cost.

Il potere-dovere del giudice di esaminare i documenti prodotti e di valutare gli stessi ai fini della decisione sorge, tuttavia, soltanto se la parte interessata ne faccia specifica istanza, indicando nelle proprie difese gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle rispettive pretese, non potendo altrimenti la controparte controdedurre al riguardo.

Anche la produzione di documenti rimane soggetta, come tutti gli altri mezzi di prova, alla preclusione istruttoria, nonché alle decadenze determinate dal principio di non regressione delle fasi processuali, rimanendo pertanto impedita la esibizione di prove documentali successivamente alla chiusura della fase istruttoria, salvo l'ipotesi di rimessione in termini (art. 153, comma 2), che il giudice può accordare su espressa istanza della parte interessata, qualora vengano allegate e dimostrate le cause non imputabili alla parte che le hanno impedito di disporre e produrre in giudizio il documento. La “irritualità” dell'acquisizione delle prove documentali (che integra vizio di nullità processuale soltanto nel caso in cui arrechi una effettiva lesione del principio del contraddittorio) non deve, in ogni caso, confondersi con la diversa fattispecie processuale della “inammissibilità” della prova per decadenza dal termine perentorio assegnato (Cass. III, n. 7055/2017), risolvendosi invece in una difformità rispetto alle modalità che accompagnano la produzione documentale prescritte dai menzionati artt. 74 e 87 disp. att. (Cass. III, n. 696/2002; Cass. III, n. 14338/2009; Cass. II, n. 8004/2011, le quali affermano tutte che le “irregolarità” attinenti alle modalità di produzione rimangono sanate ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all'atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, dovendosi ritenere raggiunta la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l'esercizio del diritto di difesa).

La giurisprudenza è, così, costante nel ribadire che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (Cass. I, n. 11511/2014Cass. lav., n. 13485/2014; Cass. n. 16467/2017).

La  valutazione  della prova, peraltro,  anche  con riguardo all'attendibilità   delle  fonti  della  medesima,  deve  necessariamente seguire  e  non   precedere la sua assunzione, dovendo il relativo apprezzamento essere   condotto   sulla   base della   presa  in  considerazione dell'intero   contesto  di  tutti gli  elementi  acquisiti nel processo, e non può   quindi essere aprioristicamente compiuta in un momento anteriore, con   la  conseguenza di impedirne l'ingresso nel processo, solo sulla base   di una  valutazione  di  mera probabilità,  quale è quella inerente   alla inverosimiglianza del fatto da provare (Cass. III, n. 847/1994).

Sull'istanza di ammissione di una prova, il giudice è chiamato a compiere altresì una ponderazione di sua concludenza, ovvero di non superfluità, la quale può rivelarsi anche implicita nell'argomentazione con cui si dica già raggiunta, in base all'istruzione esperita, la certezza degli elementi necessari per la decisione (Cass. n. 14972/2006).

Per sottrarre l'elaborazione degli standards probatori all'arbitrio del libero convincimento soggettivo del giudice, la giurisprudenza fa ricorso ad un criterio di “prevalenza”, in virtù del quale, tra le varie ipotesi di fatto che potrebbero essere corroborate dalle risultanze istruttorie, la sentenza dovrebbe prescegliere la ricostruzione che risulti confermata da un grado di logica probabilità prevalente rispetto alle ricostruzioni alternative. Se i dati conoscitivi forniti dalle parti al giudice non permettano a quest'ultimo la scelta razionalmente giustificabile di alcuna delle diverse ipotesi dei fatti controversi, la decisione dovrà essere presa secondo le regole dell'onere della prova.

I ruoli del giudice e delle parti con riferimento alle risultanze istruttorie

Altro principio operante nel nostro ordinamento processuale è quello di acquisizione, in virtù del quale le risultanze istruttorie - indipendentemente da quale sia stata in concreto la parte che abbia preso l’iniziativa di formarle -  concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice.

Dal principio di acquisizione si ricavano due simmetrici postulati: il primo sancisce la comunanza tra le parti delle attività processuali in genere, e di quella probatoria in particolare, ed opera pertanto come temperamento del criterio dell’onere della prova, nel senso, come appena chiarito, dell’indifferenza del dato della provenienza dell’elemento rispetto alla valutazione giudiziaria; il secondo postulato del principio acquisitivo comporta, invece l’irretrattabilità della prova acquisita al processo, e funziona, quindi, per conto suo, come limite del principio dispositivo, di tal che, se le parti sono libere di dedurre i mezzi di prova che ritengono maggiormente idonei alle loro difese, non hanno però poi più alcun potere su di essi una volta che gli stessi siano stati acquisiti al processo (si veda Cass. S.U., n. 14475/2015).

 Il criterio della necessaria astratta bivalenza delle emergenze probatorie riverbera, quindi, le sue conseguenze sui meccanismi normativi di rinunciabilità delle prove già ammesse (si veda l’art. 245, comma 2), e regola anche le attività di ritiro e restituzione dei fascicoli di parte

L'onere della prova

L'art. 2697 c.c. contiene la regola generale sulla allocazione dell'onere della prova. Questa disposizione investe l'attore della prova dei fatti posti a fondamento del diritto fatto valere in giudizio, mentre chiama chi eccepisca l'inefficacia di tali fatti, ovvero la modificazione o l'estinzione del diritto dedotto dall'attore, a provare le  circostanze su cui l'eccezione si fonda.

Solo una volta che l'attore abbia adempiuto all'onere della prova relativo ai fatti costitutivi del diritto per cui si agisce, sorge l'onere del convenuto di dimostrare l'inefficacia di quei fatti. Questa distribuzione dei carichi istruttori prescinde dall'obbiettiva difficoltà di fornire la prova e non differisce nemmeno quando l'azione abbia ad oggetto fatti negativi, ben potendo avere anche un fatto negativo carattere costitutivo; tuttavia, la relativa prova potrà essere ricavata anche dalla dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o da presunzioni.

 L'art. 2697 c.c. si ritiene traduzione positiva della tedesca Normentheorie, elaborazione dottrinale secondo cui il carico di dimostrare gli accadimenti che concretizzano una fattispecie astratta di legge grava sulla parte che, dalla applicazione della norma, venga a ricavare effetti per sé favorevoli. L'art. 2697 c.c. è pertanto astrattamente concepito in modo da imporre al giudice una via d'uscita obbligata: se in sentenza possono assumersi soltanto i fatti adeguatamente provati, i fatti non supportati da valida prova risultano inesistenti, e quindi postulano il rigetto della domanda o della eccezione che su essi poggino.

La ragione essenziale della regola di giudizio dell'onere della prova sta nel divieto di “non liquet” (Cass. I. n. 698/1972; Cass. I, n. 2466/1970; Cass. n. 2675/1969). Il nostro ordinamento non conosce pronunce “allo stato degli atti”, e perciò l'accertamento di un diritto, positivo o negativo, con sentenza, anche se dipendente da una situazione di prova mancante o insufficiente, costituisce una pronuncia di merito, che, una volta passata in cosa giudicata, preclude la riproposizione della domanda. Il respingimento della domanda per difetto di prova equivale al rigetto della stessa, in quanto, al pari di quest'ultimo, lascia immutata la situazione giuridica preesistente al processo, né il giudice ha facoltà di privare la sua pronuncia del carattere di stabilità che fissa l'art. 2909 c.c.

In tal senso, l'art. 2697 c.c. è precetto rivolto a più destinatari: alle parti del processo, sicuramente, ma anche al giudice, avendo lo scopo di consentire a quest'ultimo di pronunciare in ogni caso una sentenza, quale essa sia, anche se gli manchi un convincimento certo sugli eventi di lite. L'istituto dell'onere della prova, perciò, oltre a vietare al giudice di cercare da sé la prova, che non sia stata fornita dalle parti, serve a distribuire tra queste, nell'incertezza dei fatti, non il potere di provare (il quale spetta sempre a ciascuno dei litiganti rispetto a ogni vicenda della lite), ma il rischio della prova mancata.

L'art. 2697 c.c. non è norma processuale: esso, dunque, regola l'individuazione del soggetto tenuto a fornire la dimostrazione dei fatti costitutivi, o modificativi, o estintivi dei diritti dedotti in giudizio, e non la valutazione dei risultati ottenuti mediante l'esperimento dei mezzi di prova, attività che trova la sua disciplina negli artt. 115 e 116.

La effettiva misura dell'onere probatorio spettante ai contendenti dipende, peraltro, altresì dal funzionamento del cosiddetto principio di non contestazione, codificato, mediante inserimento nell'art. 115 l. n. 69/2009, ed in forza del quale non hanno necessità di essere provati, dalla parte che intenda allegarli, quei fatti la cui sussistenza non sia posta in dubbio dalla controparte, a meno che la stessa controparte non sia rimasta contumace e che non si verta in ipotesi di diritti indisponibili, o di fattispecie che richiedano la forma ad substantiam o ad probationem. Il principio traeva il proprio fondamento normativo, già prima dell'espressa previsione nell'art. 115, nell'onere del convenuto – imposto dall'art. 416, per il rito del lavoro, e dall'art. 167, comma 1, per il rito ordinario - di prendere posizione, nell'atto di costituzione, sui fatti allegati dall'attore a fondamento della domanda. Il difetto di contestazione dei fatti allegati dall'attore implica, invero, l'ammissione in giudizio degli stessi, se si tratta di fatti principali, ovvero costitutivi del diritto azionato, mentre quanto ai fatti secondari, e cioè dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2. D'altro canto, l'onere di tempestiva contestazione è ormai desumibile 

dall'intero regime processuale: ad esso inducono il carattere dispositivo del processo civile e la sua struttura dialettica a catena; il regime delle preclusioni, che prescrive ad entrambe le parti di delimitare, entro la chiusura della fase di trattazione della causa, il thema decidedum; i principi di lealtà e probità posti ex art. 88; e, soprattutto, il principio di ragionevole durata, e quindi di economia, che deve informare il processo in virtù dell'art. 111, comma 2, Cost.  Sicché all'onere di allegazione e di prova gravante su di una parte deve corrispondere sempre l'onere per l'altra di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, potendosi in mancanza ritenere tale fatto pacifico e quindi non bisognoso di prova.

Altro importante temperamento del generale criterio di ripartizione delineato dall'art. 2697 c.c. è dato dal principio di riferibilità o di vicinanza della prova, in virtù del quale l'onere istruttorio va sempre ripartito tenendo conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione.

Gli argomenti di prova

Gli argomenti di prova si differenziano dalle prove in senso stretto sotto un profilo quantitativo, rappresentando, quanto all'efficacia, un minus, giacché sprovvisti di autonoma valenza, e piuttosto idonei unicamente ad integrare le risultanze istruttorie altrimenti acquisite. Di regola, l'argomento di prova non dovrebbe perciò rivelarsi capace di sorreggere da solo il convincimento del giudice, dovendosi comunque inserire in un più ampio contesto valutativo. Il codice di rito esemplifica alcuni meccanismi tipicamente deputati a far desumere argomenti di prova: le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero, l'ingiustificato rifiuto opposto alle ispezioni giudiziali, il contegno processuale delle parti (art. 116, comma 2), le dichiarazioni rese dalle parti nel corso delle operazioni peritali (art. 200, comma 2), le prove raccolte nel processo estinto (art. 310, comma 3). Ma si considerano idonei a provocare argomenti di prova altresì la mancata risposta all'interrogatorio formale (art. 232, comma 1), nonché le risposte offerte al giudice del lavoro dalle persone da lui interrogate benché incapaci di testimoniare (art. 421, comma 4).

Le prove atipiche

L'impossibilità di inquadrare la multiforme varietà strutturale di presunzioni semplici, argomenti di prova ed indizi in schemi precostituiti, e l'assenza di un principio normativo di numerus clausus delle prove civile hanno favorito l'elaborazione nell'ambito del nostro ordinamento processuale della conclusione propensa all'ammissibilità di prove atipiche. In particolare, la mancanza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di   prova legittimerebbe il giudice a porre a base del proprio convincimento anche prove  atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo.

Pure chi riconosce che la tipicità degli strumenti probatori costituisce il portato indispensabile della legalità dei mezzi di prova, invita a non sopravvalutare le conseguenze pratiche di questo principio, il quale sarebbe volto unicamente ad impedire il ricorso a mezzi di prova inattendibili.

La qualificazione di atipicità della prova civile si può astrattamente reputare appropriata sia con riguardo alla fonte del convincimento del giudice, quando cioè si tratti di mezzi istruttori non disciplinati legislativamente (si pensi al documento proveniente da terzi; alla perizia stragiudiziale; alla stessa prova acquisita in altro giudizio); sia invece avendo riguardo alle modalità di assunzione, allorché la prova sia assunta al di fuori, se non proprio in violazione, dei procedimenti tipici di fissazione del fatto controverso ammessi da codice di rito (può pensarsi alla deposizione di chi sia incapace a testimoniare, o all'ispezione non verbalizzata). 

Sennonché, si deve escludere che possa valutarsi come prova atipica la prova in realtà tipica, ma viziata, perché assunta illegittimamente o invalidamente, la quale deve restare del tutto inutilizzabile per il giudice. Le prove illecite, ossia contrastanti con i limiti di ammissibilità o con le modalità di formazione previste dalla legge, o addirittura acquisite con violazioni delle fondamentali garanzie costituzionali (sulle quali si tornerà in seguito), andrebbero pertanto del tutto escluse dal processo. 

Pur non essendo le prove atipiche di rango inferiore alle prove tipiche, il convincimento giudiziale può valutare le prime sempre nel concorso delle seconde che le parti abbiano tempestivamente dedotto; e sempre ancora verificando che sulle medesime risultanze istruttorie atipiche sia stato attivato il contraddittorio tra le parti, avendo potuto queste ultime dibattere prima della decisione sulla loro efficacia e sulla loro valenza probatoria. Prestandosi le prove atipiche come premessa di un ragionamento meramente presuntivo, per quanto acquisite e vagliate dalle parti, esse non dovrebbero tendenzialmente mai dissuadere dall'assunzione delle ulteriori prove, non potendo sorreggere un giudizio di superfluità.

Vengono esemplificativamente ricondotte al novero delle prove atipiche: le dichiarazioni rese da terzi a contenuto testimoniale (attualmente si conosce un disegno legislativo di riforma che renderebbe peraltro prova tipica la cosiddetta “testimonianza scritta”, ovvero la deposizione resa per iscritto dal testimone  sui quesiti formulati); le prove espletate o le sentenze rese in altri giudizi intercorsi tra le stese o tra altre parti (ovviamente al di fuori dei limiti di operatività del giudicato ex art. 2909 c.c.); le perizie stragiudiziali; la parte della  consulenza d'ufficio  eccedente i  limiti  del mandato,  purché non  estranea all'oggetto  dell'indagine disposta; gli atti di indagine penale ed i verbali di polizia (nella parte in cui non rivestano fidefacienza).

Così anche lo scritto anonimo – pur se inutilizzabile ai fini della prova dei fatti in esso rappresentati - ben può costituire l'innesco di attività volte all'assunzione di dati conoscitivi anche in assenza di elementi di riscontro, in attuazione del principio affermato nella materia penale (Cass. V, n. 1348/2019).

Come si vede, in ogni caso, si tratta pur sempre di mezzi conformi, sotto il profilo della  struttura, allo strumento istruttorio dei documenti, pur rappresentando fatti o attività difformi dal contenuto proprio del modello procedimentale tipico.

Uno dei temi più spesso sollecitati dalle cosiddette prove atipiche è quello del limite della tutela della privacy di una delle parti o di un terzo coinvolti nel processo civile. La relazione tra privacy e processo civile vive evidentemente sulla linea del conflitto tra le esigenze di riservatezza delle persone interessate alla res litigiosa e le opposte esigenze di pubblicità degli atti, che sono alla base del diritto di difesa e del principio del contraddittorio. In questo ambito, si pone appunto la questione della utilizzabilità in giudizio delle prove assunte in violazione della riservatezza, o, addirittura, della disciplina in materia di protezione dei dati personali. Invero, il codice di procedura civile non conosce alcuna norma che sancisca un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite “in violazione dei divieti stabiliti dalla legge”, sul modello di quanto ad esempio previsto dall'art. 191 c.p.p. Anzi, operando la regola della libera produzione dei documenti, sottratta a qualsivoglia verifica di preventiva ammissibilità, appare arduo rinvenire nella legge processuale un divieto di allegazione  di prove precostituite ottenute tramite illecite interferenze nella sfera privata di una delle parti (si pensi alle fotografie scattate di nascosto, alle registrazioni abusive di conversazioni, alla sottrazione o alla copiatura di appunti, corrispondenze o scritti riservati).

In proposito,  l'art. 160-bis d.lgs. n. 196/2003 stabilisce che: “La validità, l'efficacia e l'utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali.

Non sarebbe dunque corretto fondare una sanzione di assoluta inutilizzabilità delle prove assunte in violazione della disciplina del trattamento dei dati personali. In tal senso, il problema dell'efficacia delle prove civili acquisite in violazione della privacy confluisce nel problema più ampio della sorte riservata alle prove illecite nel processo civile. Per una tesi più estrema, il fatto di essersi procurato illecitamente una prova (precostituita), pur potendo dar luogo a responsabilità penale o risarcitoria, non inciderebbe comunque sulla utilizzabilità e sulla rilevanza istruttoria di essa, purché ritualmente dedotta nel giudizio civile. Altrimenti, si raccomanda che il giudice orienti il proprio convincimento circa l'utilizzabilità della prova illecita alla luce, di volta in volta, della natura dei beni e delle situazioni emergenti nella singola lite.

Bibliografia

 

Caponi, Il processo civile telematico tra scrittura e oralità, in Riv. trim. dir e proc. civ. 2015, 305 ss.; Cordopatri, Per la chiarezza delle idee in tema di forma del provvedimento dichiarativo dell'estinzione del processo e del suo regime impugnatorio, in Riv. trim. dir e proc. civ., 2014, 785 ss.; Didone, Le ordinanze anticipatorie di condanna e la nuova trattazione della causa, in Giur. mer. 2008, 333 ss.; Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 2006; Mirenda, Le ordinanze ex art. 186-bis, ter e quater c.p.c., in Giur. mer. 1999, 189 ss.; Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, Torino, 2010; Saletti, voce Estinzione del processo: 1) dir. proc. civ., in Enc. giur., XIII, Roma, 1989; Scrima, Le ordinanze ex art.186-bis e ter c.p.c., in Giur. mer. 1998, 137 ss.

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