Codice di Procedura Civile art. 329 - Acquiescenza totale o parziale.Acquiescenza totale o parziale. [I]. Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'articolo 395, l'acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità. [II]. L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate [334]. InquadramentoLa disposizione in commento disciplina al comma 1 il fenomeno dell'acquiescenza, ossia dell'accettazione della sentenza intervenuta prima della scadenza dei termini per impugnare (Liebman, 1984, 269), con conseguente estinzione del diritto di impugnare in via principale (per l'impugnazione incidentale tardiva v. sub art. 334). L'acquiescenza rende l'impugnazione improponibile. L'acquiescenza, che deve essere successiva alla pubblicazione della sentenza, ma antecedente all'impugnazione (Cass. n. 2704/2005), e non può essere pertanto prestata in relazione ad una impugnazione futura, può essere esplicita o implicita (Andrioli, 1956, 382). L'una ricorre in presenza di una dichiarazione espressa, costituente atto unilaterale non recettizio (Liebman, 1984, 270) di accettazione della sentenza a mezzo di un atto unilaterale. L'altra si manifesta attraverso univoci comportamenti incompatibili con la volontà di impugnare la sentenza (Liebman, 1984, 270). Il significato dell'art. 329, comma 2, e la nozione di «parte di sentenza», è in dottrina ampiamente controverso, identificandosi da alcuno la nozione di parte di sentenza con quella di decisione su domanda, da altri con quella di decisione su questione. L'effetto dell'acquiescenza consiste nella decadenza dal potere di impugnazione, sicché l'impugnazione deve essere dichiarata inammissibile anche se proposta nei termini (Liebman, 1984, 271). L'acquiescenza impropria determina invece il formarsi del giudicato formale sulle parti di sentenza non impugnate. Secondo la giurisprudenza l'acquiescenza totale deve essere eccepita dalla parte interessata, mentre l'acquiescenza parziale può essere rilevata anche d'ufficio (Cass. n. 4913/1999). Concorda la dottrina (Liebman 1984, 271. Acquiescenza tacitaLa S.C. richiede che la volontà di prestare acquiescenza alla sentenza venga manifestata, sia pur tacitamente, ma in modo inequivoco. L'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi dell'art. 329, consiste nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare e può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest'ultimo caso, l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l'interessato abbia posto in essere atti incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione (Cass. n. 34539/2021). E cioè, l'acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e, quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio, sicché la relativa manifestazione di volontà deve essere inequivoca e deve necessariamente provenire dal soggetto che di detto diritto possa disporre o dal procuratore munito di mandato speciale (Cass. n. 21267/2020). L'acquiescenza tacita alla sentenza ex art. 329 può sussistere soltanto qualora l'interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, trattandosi di atti assolutamente incompatibili con la volontà di impugnare. (Cass. n. 3934/2016 che ha ritenuto che la parte avesse prestato acquiescenza ad una sentenza di divisione, alla quale, sebbene priva di efficacia immediatamente esecutiva, aveva dato spontanea attuazione, ricevendo le somme dovute a titolo di conguaglio e provvedendo alla riconsegna dell'immobile all'altro condividente). È stato perciò escluso che l'acquiescenza tacita possa essere desunta: i) dalla esecuzione forzata della sentenza che ha affermato la reciproca soccombenza, in riferimento alla parte che vede soccombente colui che intraprende l'esecuzione (Cass. n. 6426/2001; Cass. n. 6086/2006; Cass. n. 21491/2014); ii) dall'esecuzione spontanea della sentenza di primo grado, anche prima dell'intimazione di precetto (Cass. n. 11769/2012; Cass. n. 11729/2004); iii) dal pagamento delle spese di lite, anche se effettuato senza riserve (Cass. n. 14368/2014; Cass. n. 13630/2009); iv) dall'instaurazione di trattative volte alla definizione transattiva della lite (Cass. n. 2312/1997); v) dalla notificazione della sentenza ad opera della parte soccombente, trattandosi di atto diretto a far decorrere il termine breve (Cass. S.U., n. 269/1985); vi) dalla richiesta di correzione di un errore materiale (Cass. n. 6732/1991); L'acquiescenza impropriaSi è accennato al controverso significato del comma 2 secondo il quale l'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate. In breve, si discute se per «parte di sentenza» debba intendersi la decisione su una «domanda» o la decisione su una «questione». D'altronde, alla stessa nozione di «questione» è attribuita, a seconda delle opinioni, una latitudine maggiore o minore. Ora, la soluzione al quesito, al di là degli aspetti ricostruttivi, possiede importanti ricadute pratiche: quanto più si dilata la nozione di «parte di sentenza», tanto più si amplia, proporzionalmente, l'ambito di ciò che, attraverso l'impugnazione, è devoluto alla cognizione del giudice dell'impugnazione; quanto più, invece, si restringe la stessa nozione, tanto più si alleggerisce il compito del giudice dell'impugnazione. Secondo alcuni la «parte di sentenza», cui si riferisce la norma, si individua in correlazione con la domanda dedotta in giudizio, e così con il diritto controverso: «parte di sentenza» è allora quella che decide su un capo di domanda (Liebman, 1964, 52; Attardi, 153; Fazzalari, 145-146; Recchioni, 511; Bianchi, 133), sicché l'art. 329, comma 2, concerne essenzialmente il caso del cumulo oggettivo (Bonsignori, 1974, 1349). Altri intendono la nozione di «parte di sentenza» come soluzione data ad ogni singola questione affrontata e risolta dal giudice al fine di pervenire alla statuizione sulla domanda proposta (Denti, 675; Comoglio-Ferri-Taruffo, 788; Romano, 1205; Poli, 153). Posto che per «parte di sentenza» deve intendersi «decisione di questione», si precisa altresì che per «questione» deve intendersi ogni punto controverso: a) sull'esistenza (o inesistenza) di un fatto; b) sull'individuazione e applicazione (cioè sull'effetto) di una norma di diritto sostanziale; c) sull'individuazione e sull'applicazione (cioè sull'effetto) di una norma di diritto processuale. Parte di sentenza è in definitiva la soluzione di ciascuno dei punti controversi. La posizione della giurisprudenza non è univoca. Diverse sentenze, in cause aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, affermano ad esempio che, accolta la domanda in primo grado, l'impugnazione sull'an non rimette in gioco i criteri adottati dal primo giudice nel determinare gli accessori (interessi, maggior danno, rivalutazione) sulla sorte (Cass. n. 1950/1999; Cass. n. 10676/2000; Cass. n. 5256/2001; Cass. n. 14908/2002; Cass. n. 18093/2005). La S.C. ha pure ritenuto che, a fronte di una sentenza di primo grado che, in un caso di incidente stradale, aveva ripartito nella misura del 70%-30% la responsabilità tra il conducente del veicolo investitore ed il pedone investito, determinando nel 38% la percentuale di invalidità permanente di quest'ultimo, l'impugnazione concernente il riparto di responsabilità avesse comportato il passaggio in giudicato della statuizione sull'entità dell'invalidità (Cass. n. 10550/1998; Cass. n. 6655/2000). Parimenti si trova affermato che, in materia di responsabilità aquiliana, qualora la sentenza di primo grado contenente una statuizione di condanna venga impugnata unicamente sull'accertamento della responsabilità e sull'esistenza del danno, il giudice d'appello, se non accoglie l'impugnazione, non ha il potere di riesaminare i criteri di liquidazione del danno (Cass. n. 9902/1998; Cass. n. 12176/2003). È stato detto che, se l'appellante censura la liquidazione del danno biologico, il giudice non può intervenire sulla liquidazione del danno morale (Cass. n. 15434/2004), e che il giudice di appello non può, in mancanza di un motivo specifico, discostarsi dalla c.t.u. cui si è conformato il primo giudice (Cass. n. 13426/2003). È stato ancora ritenuto che il giudicato interno si formi sulla qualificazione giuridica, effettuata dal primo giudice in termini di deposito cauzionale, del versamento di una certa somma e della consegna di titoli di Stato, a garanzia di un credito, sicché tale qualificazione «non è più riesaminabile dal giudice del gravame, per effetto dell'art. 329» (Cass. n. 1478/1999). La S.C. ha poi stabilito, in generale, che il potere di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché con riferimento all'appello deve ritenersi precluso al giudice di secondo grado di mutare d'ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione ritenuta dal primo giudice (Cass. n. 11753/1998; Cass. n. 6712/2001; Cass. n. 8082/2005; Cass. n. 20730/2008). Ancora, con riguardo al tema della qualificazione giuridica, è stato affermato che la diversità delle fattispecie dell'occupazione appropriativa e dell'occupazione usurpativa comporta che l'omessa doglianza delle parti sulla qualificazione appropriativa dell'occupazione, in sede di giudizio di merito, determina l'irretrattabilità della questione per il formarsi del giudicato interno sul punto; pertanto, il ricorso per cassazione non può essere formulato sulla base di una diversa configurazione della fattispecie, in termini di occupazione usurpativa, proponendo in tal modo, al fine di sottrarsi alla prescrizione del diritto risarcitorio derivante dalla qualificazione appropriativa, questioni nuove che alterano l'oggetto sostanziale della domanda e i termini della lite e introducono un tema d'indagine e di decisione mai prima dedotto (Cass. n. 22479/2006). Il giudicato deve ritenersi formato anche sulle questioni di qualificazione giuridica dei rapporti, qualora le parti abbiano accettato sul punto la decisione del primo giudice, omettendone l'impugnazione e svolte le rispettive difese proprio sul presupposto di quella qualificazione. In una tale evenienza, infatti, non può ritenersi che il giudice di secondo grado, pur trattandosi di qualificazione giuridica, debba o possa riesaminare ex officio la questione. Essendo, infatti, i suoi poteri, correlati ai motivi di impugnazione secondo il principio tantum devolutum quantum appellatum, lo stesso può dare alla domanda, nei limiti del petitum, un fondamento giuridico diverso da quello esposto dalla parte, ma solo se e in quanto sia stato direttamente, o indirettamente, investito della qualificazione e non già quando questa, risolta dal giudice di primo grado, non sia stata censurata in sede d'impugnazione o non debba essere necessariamente riesaminata ai fini della decisione di una censura espressamente proposta. Altre volte è stato ribadito che il giudice d'appello può sempre dare al rapporto giuridico controverso una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, senza incorrere perciò in un vizio di extrapetizione: a condizione, però, che la diversa qualificazione non si fondi su elementi di fatto nuovi rispetto a quelli considerati dal primo giudice (Cass. n. 15356/2005): il che non vuol dire nient'altro se non che il giudice di appello può modificare il mero nomen iuris adottato dal primo giudice per incasellare i fatti oggetto del giudizio. Insomma, non si può dire che la giurisprudenza sul potere del giudice di appello di modificare la qualificazione giuridica effettuata dal primo giudice, ed in altri termini sull'applicabilità in appello del principio iura novit curia, sia univoca. Vi è in breve: i) un orientamento, che pare ampiamente recessivo, alla luce del quale il principio iura novit curia trova applicazione in appello, ed attribuisce al giudice di appello il potere-dovere di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica anche diversa da quella data dal primo giudice, con il solo limite di non esorbitare dalla domanda formulata con l'atto di impugnazione e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito delle questioni sottoposte al suo esame (Cass. n. 7789/2011; Cass. n. 7190/2010; Cass. n. 19090/2007; Cass. n. 7620/2006; Cass. n. 4008/2006); ii) un orientamento secondo cui il potere di qualificazione del rapporto giuridico nei gradi successivi al primo va coordinato con le regole proprie del sistema delle impugnazioni, sicché è precluso al giudice di appello di mutare d'ufficio, in mancanza di specifica impugnazione, la qualificazione giuridica data dal primo giudice al rapporto controverso (Cass. n. 20730/2008; Cass. n. 15496/2007; Cass. n. 14573/2007; Cass. n. 8082/2005). BibliografiaAttardi, Note sull'effetto devolutivo dell'appello, in Giur. it. 1961, IV, 153; Besso, Principio di prevalenza della sostanza sulla forma e requisiti formali del provvedimento: un importante revirement della Corte di Cassazione, nota a Cass. 24. Marzo 2006, n. 6600, in Giur it. 2007, 946; Bianchi, I limiti oggettivi dell'appello civile, Padova, 2000; Bonsignori, L'effetto devolutivo dell'appello, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1974, 134; Bonsignori, Impugnazioni civili in generale, in Dig. civ., IX, Torino, 1994; Cerino Canova, Impugnazioni, I, Diritto procesuale civile, in Enc. giur., XVI, Roma, 1989; Comoglio-Ferri-Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1995; Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012; Denti, Questioni pregiudiziali (dir. proc. civ.), in Nss. D.I., XIV, Torino, 1967; Fazzalari, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960; Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. dir. proc. 1964, 52; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2002; Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013; Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002; Recchioni, Dipendenza sostanziale e pregiudizialità processuale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999; Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1985; Romano, Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d'appello civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2000, 1205. |