Codice di Procedura Civile art. 336 - Effetti della riforma o della cassazione (1).Effetti della riforma o della cassazione (1). [I]. La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. [II]. La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimentie agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata [389; 129-bis, 133-bis 1 att.] (2). (1) Articolo così sostituito dall'art. 34 l. 14 luglio 1950, n. 581. (2) Comma così sostituito dall'art. 48 l. 26 novembre 1990, n. 353 Il testo precedente recitava: «La riforma con sentenza passata in giudicato o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata».. InquadramentoLa disposizione in pone il principio dell'effetto espansivo della sentenza riformata o cassata, disciplinando separatamente l'effetto espansivo interno al comma 1 e quello espansivo esterno al comma 2. Secondo il comma 1 la riforma o la cassazione parziale di una sentenza ha effetto anche sulle parti della stessa che siano dipendenti dalla parte riformata o cassata, sicché tali parti possono essere a loro volta riformate o cassate anche se non investite dall'impugnazione, mentre la riforma o la cassazione non produce effetto sulle parti non dipendenti, sulle quali si forma pertanto il giudicato (Andrioli, 1956, 411; Liebman, 1984, 289). Il comma 2 che stabilisce che la riforma o la cassazione della sentenza impugnata estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata. L'effetto espansivo internoL'espressione «parte della sentenza», che compare nel comma 1 della disposizione in esame, è altresì impiegata nel comma 2 dell'art. 329, che disciplina l'acquiescenza parziale (Liebman, 1964, 56; Poli, 2002, 133). La nozione di «parte di sentenza» pone in collegamento il tema dell'effetto espansivo interno con quello dell'acquiescenza parziale o impropria, secondo cui l'impugnazione parziale comporta acquiescenza alle parti di sentenza non impugnate (v. sub art. 329). Secondo una parte della dottrina, l'effetto espansivo interno produrrebbe una mitigazione delle conseguenze altrimenti derivanti dall'applicazione dell'art. 329, comma 2, sospendendo il passaggio in giudicato dei capi dipendenti della decisione rispetto a quali oggetto di gravame; secondo altra opinione l'impugnazione si estenderebbe automaticamente alla parte di sentenza dipendente rispetto a quella fatta oggetto di impugnazione parziale, con il conseguente obbligo del giudice dell'impugnazione di pronunciarsi in proposito, sicché la norma in esame sarebbe chiamata ad operare in mancanza di pronuncia sul punto. Il principio, fissato dall'art. 336, comma 1, comporta che la caducazione, in sede di legittimità, della pronuncia impugnata si estende alla statuizione relativa alle spese processuali, con necessità della rinnovazione della relativa statuizione all'esito della lite (Cass. n. 13059/2007; Cass. S.U., n. 10615/2003; Cass. n. 10378/1995). Peraltro, il principio secondo cui la riforma, anche parziale, della pronuncia di primo grado determina la caducazione ex lege anche della statuizione di condanna alle spese, non risulta violato nel caso in cui il giudice di secondo grado confermi espressamente, per le parti non riformate, la sentenza di primo grado, così recependo il pregresso regime delle spese di lite sulla base di una complessiva riconsiderazione, seppure implicita, riguardante entrambi i gradi, dell'esito della lite Cass. n. 23634/2009). Lo stesso principio trova applicazione anche nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale (Cass. n. 8919/2012; Cass. n. 17631/2007). Qualora la sentenza di primo grado, che ha dichiarato l'illegittimità del termine di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, ed ha riconosciuto il conseguente diritto al risarcimento del danno, sia impugnata solo sulla prima questione, non si forma giudicato sulla seconda, in quanto essa non é capo autonomo, ma dipendente da una decisione ancora sottoposta ad appello, sicché, ove fosse travolta la statuizione sull'illegittimità del termine, verrebbe meno il capo sul quantum, per l'effetto espansivo che la riforma o la cassazione produce sui capi dipendenti, ai sensi dell'art. 336 (Cass. n. 85/2015). In caso di riforma della sentenza di condanna dell'ente previdenziale al pagamento di somme in favore del lavoratore, il predetto ente ha diritto di ripetere quanto il lavoratore medesimo abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass. n. 2691/2024). È stato inoltre stabilito che, in applicazione dell'effetto espansivo interno della riforma e della cassazione, accolta in primo grado la domanda di restituzione di somme nei confronti di due debitori e accolta nel contempo la domanda di manleva che uno ha proposto nei confronti dell'altro, la sentenza di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, statuisce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario comporta la caducazione della pronuncia di accoglimento della domanda di garanzia, in quanto dipendente rispetto alla domanda principale ( Cass. S.U., n. 7442/2005; Cass. S.U., n. 3054/2004). L’effetto espansivo esterno della riforma della cassazione opera limitatamente al versante processuale, senza ricadute su quello sostanziale. Perciò, in caso di illegittimità del licenziamento, il diritto riconosciuto al lavoratore dall’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, di optare fra la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità sostitutiva, in quanto atto negoziale autonomo nell’esercizio di un diritto potestativo derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, non soggiace agli effetti espansivi della sentenza di riforma previsti dall’art. 336, sicché la scelta del lavoratore, in esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’illegittimità del licenziamento e disposto la reintegrazione nel posto di lavoro, di rinunciare all’indennità sostitutiva e riprendere il lavoro ha carattere irreversibile, consumando in via definitiva il diritto di opzione (Cass. n. 4874/2015). L'effetto espansivo esternoL'effetto espansivo esterno opera in relazione a provvedimenti ed atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata: in particolare, tale dipendenza sussiste ogni qual volta viene modificato il provvedimento che ha deciso una questione pregiudiziale e quella su cui si fonda il provvedimento dipendente, il cui presupposto logico viene, pertanto, a mancare. La norma dettata dal comma 2 dell'art. 336 trova applicazione in caso di riforma o di cassazione della sentenza non definitiva, giacché in tal caso avviene l'automatica caducazione della sentenza definitiva le cui statuizioni siano dipendenti dalla pronuncia riformata o cassata (Liebman, 1984, 289). La S.C. ha in proposito affermato che nell'ipotesi in cui sia impugnata soltanto una sentenza non definitiva e non quella definitiva e tra la prima e la seconda intercorra un nesso di consequenzialità, nel senso che l'una costituisca il presupposto logico giuridico dell'altra, gli effetti pregiudicanti determinati dalla riforma o dalla cassazione della sentenza non definitiva si producono su quella definitiva (Cass. n. 24354/2006). In tale frangente non può discorrersi della formazione del giudicato formale, trattandosi di giudicato solo apparente, in quanto necessariamente condizionato alla mancata riforma della sentenza non definitiva che ne costituisce l'antecedente logico-giuridico (Cass. n. 2188/1993; Cass. n. 5633/1990; Cass. S.U., n. 1589/1990; Cass. n. 2125/2006; secondo Cass. n. 5162/2005 la riforma della sentenza di condanna generica non travolge la liquidazione del danno pronunciata per una ragione diversa). E cioè, in caso di sentenze non definitiva e definitiva sull’an e sul quantum, la cassazione, anche se con rinvio, della sentenza non definitiva, che abbia pronunciato positivamente sull’an debeatur, comporta la caducazione della sentenza sul quantum, dipendendo quest’ultima totalmente dalla prima, che della sentenza definitiva costituisce il fondamento logico-giuridico non sostituibile, ex post, dalla nuova pronuncia in sede di rinvio, neppure se contenente statuizioni analoghe a quella della sentenza cassata (Cass. n. 9070/2010; Cass. n. 21456/2019). Nella prospettiva è stato ribadito che la riforma della pronuncia di condanna decisa dal giudice dell'appello, comporta la caducazione di quella avente ad oggetto la liquidazione del danno, ai sensi dell'art. 336 c.p.c., soltanto nel caso in cui faccia venir meno ogni fondamento di quest'ultima, sicché ove la condanna al risarcimento sia confermata, anche se per una ragione diversa da quella posta a fondamento della pronuncia riformata, non si determina automaticamente la caducazione della statuizione relativa alla liquidazione del danno, dovendo quest'ultima costituire oggetto di autonoma impugnazione, in mancanza della quale la relativa questione non può essere sollevata in sede di legittimità, risultando definitivamente preclusa dal giudicato interno formatosi in ordine alla misura del risarcimento (Cass. n. 10112/2021). Il principio è stato ad esempio applicato in caso di sentenza non definitiva che aveva affermato la divisibilità dei beni comuni rispetto a quella definitiva che aveva approvato il progetto di divisione predisposto a norma dell'art. 789 (Cass. n. 1293/1986). L'effetto espansivo esterno del giudicato previsto dall'art. 336, comma 2, opera anche nel caso in cui il diritto posto alla base di un decreto ingiuntivo — ottenuto in base ad una sentenza immediatamente esecutiva sull'an debeatur — sia stato negato a seguito della riforma o cassazione della sentenza che l'aveva accertato e travolge gli effetti anche esecutivi del decreto stesso (Cass. n. 13492/2014 ; Cass. n. 22864/2019). In tema di titolo esecutivo, la riforma in appello del solo quantum debeatur stabilito dalla sentenza di primo grado, in forza della quale è stata promossa l'esecuzione forzata, determina, nell'ambito della procedura esecutiva, conseguenze differenti a seconda che la modifica intervenga in aumento o in diminuzione: nel primo caso, per ampliare l'oggetto della procedura esecutiva già intrapresa, il creditore deve intervenire, per la parte residuale, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza di appello; nel secondo caso, in virtù dell'effetto sostitutivo (con efficacia ex tunc) del titolo, il processo esecutivo prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dalla sentenza di appello, con persistente efficacia, entro tali limiti, anche degli atti anteriormente compiuti (Cass. n. 16664/2024). Specularmente, il passaggio in giudicato della sentenza definitiva sul quantum debeatur, essendo questa condizionata al permanere della precedente sentenza non definitiva sull’an, non fa venir meno l’interesse all’impugnazione già proposta contro quest’ultima sentenza (Cass. S.U., n. 2204/2005; Cass. n. 13915/2014). L'efficacia del congegno in esame non è più subordinato, dopo la novella del 1990, al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma), ma altresì l'immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata. Ove, peraltro, la sentenza di riforma sia stata, a sua volta, oggetto di cassazione, non possono perdurare tali effetti espansivi esterni, posto che, in detta ipotesi, viene meno il loro stesso presupposto e, qualora il giudice del rinvio confermi la sentenza di primo grado, la temporanea inefficacia di quest'ultima pronuncia nel periodo tra sentenza di riforma e quella di cassazione non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dei diritti da essa riconosciuti, con conseguente risarcibilità delle relative lesioni eventualmente realizzatesi medio tempore (Cass. n. 5323/2009). Gli atti di esecuzione e le pretese restitutorie conseguenti alla riforma o alla cassazioneL'eliminazione, per effetto della riforma del 1990, dell'inciso «con sentenza passata in giudicato», contenuto nel comma 2 della disposizione in esame, importa un'immediata efficacia riflessa della riforma della sentenza di primo grado sugli atti esecutivi dipendenti dalla sentenza di condanna riformata. Si è pertanto affermato che l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado viene meno subito dopo la pubblicazione della sentenza di appello di riforma. L'art. 336, disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, non appena sia pubblicata la sentenza di riforma, vengono meno immediatamente sia l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l'efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione precedente (Cass. n. 26171/2006; Cass. n. 10124/2009; Cass. n. 12622/2010). Parimenti, in caso di decreto ingiuntivo, gli atti di esecuzione già compiuti sono immediatamente caducati nel momento in cui viene emessa, a conclusione del giudizio di opposizione, la sentenza di accertamento negativo della pretesa fatta valere (Cass. n. 19491/2005; Cass. n. 9626/2004). Per quanto attiene alle pretese restitutorie, si è consolidato l'indirizzo secondo cui nel giudizio di appello, non configura una domanda nuova la richiesta di restituzione delle somme versate in forza della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado. È stato peraltro precisato che la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado deve essere formulata, a pena di decadenza, con l'atto di appello, se proposto successivamente all'esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione (v. da ult. Cass. n. 7144/2021). Resta in ogni caso inammissibile la domanda di restituzione proposta con la comparsa conclusionale in appello, atteso che tale comparsa ha carattere meramente illustrativo di domande già proposte, non rilevando in contrario che l'esecuzione della sentenza sia successiva all'udienza di conclusioni ed anteriore alla scadenza del termine per il deposito delle comparse (Cass. n. 16152/2010). In taluni casi si è anche affermato, quanto agli obblighi di restituzione derivanti dalla riforma o dalla cassazione (in un caso concernente il rilascio di un immobile), che il ripristino potrebbe essere disposto anche di ufficio dal giudice, il quale ha il potere di adottare direttamente i provvedimenti a tal fine necessari, non diversamente da quanto accade nella situazione disciplinata dall'art. 669-novies, in cui il giudice, nel dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare, deve dare direttamente le disposizioni necessarie a ripristinare la situazione precedente (Cass. n. 15220/2005). Anche di recente si è ribadito che il giudice dell'impugnazione, il quale riformi (per ragioni di rito o di merito) la decisione gravata, ha il potere, ma non l'obbligo, purché ne ricorrano i presupposti e non siano necessari accertamenti in fatto che comportino un ampliamento del thema decidendum, di pronunciarsi d'ufficio sui conseguenti effetti restitutori e/o ripristinatori poiché - come si evince dagli artt. 389 e 402 c.p.c. - tali effetti non discendono ipso facto dalla sentenza riformata o cassata, con la conseguenza che la parte interessata può proporre la relativa domanda in sede di impugnazione ovvero instaurando un autonomo giudizio (Cass. n. 24171/2020). Si è ribadito che la restituzione può essere altresì richiesta in separato giudizio (Cass. n. 27943/2022). L'importo da restituire comprende anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di restitutio in integrum e di ripristino della situazione precedente (Cass. n. 25143/2008; Cass. n. 11491/2006). In proposito occorre rammentare che, poiché l'azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza d'appello successivamente cassata, ovvero della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva riformata in appello, non si inquadra nell'istituto della condictio indebiti (art. 2033 c.c.), sia perché si ricollega ad un'esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza, sia perché il comportamento dell'accipiens non si presta a valutazione di buona o mala fede ai sensi della suddetta norma di legge non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, gli interessi legali, devono essere riconosciuti dal giorno del pagamento e non da quello della domanda (Cass. n. 21992/2007; Cass. n. 14178/2009). Secondo altra pronuncia, il giudice di appello, quando statuisce sulle istanze di restituzione, opera quale giudice di primo grado con la conseguenza che se omette di pronunziarsi sul punto la parte ha la facoltà, alternativa, di far valere l'omessa pronuncia con ricorso in cassazione o di riproporre la domanda restitutoria in un separato giudizio (Cass. n. 15461/2008; Cass. n. 15464/2011). BibliografiaAttardi, Note sull'effetto devolutivo dell'appello, in Giur. it. 1961, IV, 153; Besso, Principio di prevalenza della sostanza sulla forma e requisiti formali del provvedimento: un importante revirement della Corte di Cassazione, nota a Cass. 24. 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