Codice di Procedura Civile art. 339 - Appellabilità delle sentenze (1).

Mauro Di Marzio

Appellabilità delle sentenze (1).

[I]. Possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge [42, 440, 618 2-3] o dall'accordo delle parti a norma dell'articolo 360, secondo comma.

[II]. È inappellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'articolo 114.

[III]. Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia (2).

(1) Articolo così sostituito dall'art. 35 l. 14 luglio 1950, n. 581.

(2) Comma da ultimo così sostituito dall'art. 1 d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006. Ai sensi dell'art. 27 1 d.lg. n. 40, cit., la disposizione si applica: « ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Tuttavia, ai provvedimenti del giudice di pace pubblicati entro la data di entrata in vigore del presente decreto si applica la disciplina previgente ». Precedentemente il comma era stato sostituito dall'art. 33 l. 21 novembre 1991, n. 374. Il testo del comma recitava: «Sono altresì inappellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità.».

Inquadramento

La previsione dell'appello quale normale strumento di controllo delle sentenze rese in primo grado, è espressione del c.d. principio del doppio grado di giurisdizione, peraltro privo di copertura costituzionale (Corte cost. n. 110/1963; Corte cost. n. 36/1965; Corte cost. n. 125/1977, Corte cost. n. 62/1981; Corte cost. n. 224/1983; Corte cost. n. 52/1984; Corte cost. n. 78/1984; Corte cost. n. 299/1985; Corte cost. n. 200/1986; Corte cost. n. 301/1986; Corte cost. n. 80/1988; Corte cost. n. 395/1988; Corte cost. n. 543/1989; Corte cost. n. 433/1990; Corte cost.n. 438/1994).

La dottrina prevalente condivide l'assunto secondo cui il principio del doppio grado non trova fondamento della costituzione (Allorio, 317; Bellomia, 43; Cerri, 628; Ferri, 557; Pizzorusso, 33; Ricci, 9; la tesi del rilievo costituzionale del principio in discorso è sostenuta anzitutto da Liebman, 401). Il principio del doppio grado di giurisdizione, che pur privo di rilievo costituzionale informa l'ordinamento, non richiede né impone, però, che il giudice di secondo grado riesamini integralmente il rapporto controverso già oggetto del giudizio di primo grado. Ed anzi, per converso, è ben possibile che detto principio non operi affatto, come accade non soltanto nel caso delle controversie destinate a svolgersi in unico grado, ma anche in quelle di regola sottoposte al principio del doppio grado. Basti menzionare:

i) il caso della nullità della sentenza di primo grado, nelle ipotesi estranee alla previsione degli artt. 353-354, in cui il giudice di appello deve, per la prima volta in tale sede, decidere il merito della controversia;

ii) il caso della (fondata) denuncia in appello del vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado, che impone nuovamente al giudice d'appello di decidere su domande non precedentemente scrutinate;

iii) il caso della domanda correttamente non esaminata dal primo giudice perché dichiarata assorbita: si immagini l'ipotesi dell'accoglimento della domanda principale con conseguente assorbimento della subordinata e, in appello, il rigetto della principale, in riforma della sentenza impugnata, ed il conseguente esame della subordinata;

iv) il caso del ricorso per cassazione per saltum.

In tale quadro lo strumento dell'appello può essere conformato secondo modelli profondamente diversi. Nel codice di procedura civile l'appello è il principale mezzo di impugnazione ordinario attraverso cui si realizza il principio del doppio grado di giurisdizione. Lo spettro delle doglianze suscettibili di denuncia attraverso l'appello — secondo un'opinione comunemente condivisa fino alle ultime riforme — era ritenuto potenzialmente illimitato. Esso era in questo senso generalmente definito quale mezzo di impugnazione a critica libera, attraverso il quale poteva farsi valere qualunque vizio (nel senso più lato) della sentenza di primo grado, ivi compresa la sua ingiustizia: ed anzi l'appello era considerato il solo strumento attraverso cui direttamente dedurre l'ingiustizia della sentenza impugnata, non per il tramite di un previo giudizio rescindente reso in dipendenza di una violazione delle regole del giudizio. In ciò l'appello viene contrapposto ai mezzi di impugnazione a critica vincolata attraverso i quali possono denunciarsi soltanto taluni vizi normativamente identificati: come accade anzitutto per il ricorso per cassazione attraverso l'elencazione contenuta nell'art. 360.

L'effetto devolutivo

Tuttavia, il connotato di astratta illimitatezza delle doglianze proponibili con l'appello non sta di per sé a significare che il giudice di appello sia chiamato a riesaminare senza limiti il rapporto controverso già sottoposto allo scrutinio del giudice di primo grado: e che, cioè, la proposizione dell'appello produca un automatico effetto devolutivo, inteso come generale idoneità della proposizione dell'impugnazione a determinare il riesame nel merito della causa. Al contrario, è devoluto all'esame del giudice d'appello soltanto quanto è stato fatto oggetto di impugnazione, secondo il latinetto tantum devolutum quantum appellatum.

Viceversa, rimane fermo ciò che non è appellato, salvo quanto ancora rilevabile d'ufficio (per l'individuazione delle questioni eccezionalmente rilevabili d'ufficio in sede d'impugnazione v. Poli, 2000, 300 e 363; Adorno, 838) e — secondo un risalente indirizzo giurisprudenziale meritevole, però, di essere riconsiderato alla luce del nuovo art. 342 — quanto strettamente connesso al profilo colpito dall'impugnazione: il che è quanto stabilisce il comma 2 dell'art. 329.

La regola tantum devolutum quantum appellatum ancora non definisce, però, il carattere saliente dell'appello, giacché esso, pur nell'ambito del principio devolutivo così inteso, può atteggiarsi, secondo la tradizionale distinzione, tanto come novum iudicium (nuovo giudizio sul rapporto controverso), quanto come revisio prioris instantiae (controllo dell'esattezza della sentenza impugnata). È opinione prevalentemente accolta che un definitivo chiarimento sia derivato, in proposito, dalla l. n. 353/1990, che, nel novellare l'art. 345, vi ha anzitutto inserito il divieto non solo di nuove domande, ma anche di nuove eccezioni, restringendo altresì massicciamente l'ammissibilità dei nuovi mezzi di prova. La qual cosa ha da ultimo ricevuto un ulteriore accentuazione l'ultima novella dell'art. 345, che vi ha cassato il riferimento alle prove comunque ammissibili perché indispensabili, restringendo così il campo dei nuovi mezzi di prova ammissibili in appello, oltre che al giuramento decisorio, al solo caso che la parte non abbia potuto dedurli in primo grado per causa non imputabile.

La novella del 1990, inoltre, ha cancellato l'automatico effetto sospensivo, per effetto della proposizione dell'appello, dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, effetto sospensivo che si produce ora esclusivamente mediante l'eventuale provvedimento di sospensiva del giudice di appello, ai sensi degli artt. 283-351.

È dunque esaltata, oggi, la funzione di mero controllo sul giudizio di primo grado, «che viene a svolgersi essenzialmente “sulle carte” e senza una nuova istruttoria, ancorché questo controllo sia destinato comunque a condurre ad una nuova pronuncia, che prende il posto di quella impugnata» (Carrato, 2006): sebbene, cioè, l'appello produca tuttora l'effetto sostitutivo della decisione impugnata al di fuori delle eccezionali ipotesi di rimessione al primo giudice contemplate dagli artt. 353 e 354.

All'opinione dottrinale prevalente ma non univoca che guarda all'appello in termini di revisio, corrisponde in giurisprudenza l'ormai fermo inquadramento dell'istituto entro tale prospettiva.

Basti rammentare, in proposito, l'espressa presa di posizione delle Sezioni Unite nei termini che seguono: «l'appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, ma una revisio fondata sulla denunzia di specifici «vizi» di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata» (Cass. S.U., n. 28498/2005).

La dottrina si interroga se il giudizio di appello sia pur sempre un giudizio sul rapporto controverso, quantunque osservato attraverso la lente dei motivi di impugnazione (Attardi, 1961, 145; Cerino Canova, 582; Balena, 2004, 82; Consolo, 2004, 63), ovvero se il rapporto controverso sia sottoposto allo scrutinio del giudice di appello attraverso la denuncia degli errori contenuti nella pronuncia di primo grado, sì che l'esame si rivolge in prima battuta alla sentenza impugnata, con ricadute solo indirette sul rapporto controverso (Bonsignori, 1998, 65; Verde 1996, 256). Secondo questa impostazione «l'appello si correla direttamente piuttosto alla sentenza impugnata anziché al rapporto oggetto della cognizione in primo grado, poiché è la sentenza stessa che, invero, costituisce l'oggetto che viene a cadere sotto l'immediata percezione e valutazione del giudicante in grado di appello» (Carrato 2006). La nuova formulazione dell'art. 342 sembra oggi confermare la distinzione logica tra una prima fase del giudizio di appello, destinata preliminarmente, sotto il profilo rescindente, all'accertamento della sussistenza, nella sentenza impugnata, di un errore esattamente individuato ed attinente alla ricostruzione del fatto ovvero all'applicazione del diritto.

Principio devolutivo e acquiescenza parziale nella giurisprudenza

In una importante sentenza delle Sezioni Unite (Cass.SU, n. 25246/2008), quella che ha fissato un punto fermo sull'art. 346e sull'onere di riproposizione che esso prevede, la SC ha espressamente dato atto delle possibili diverse interpretazioni della nozione di «parte di sentenza», mostrando propensione per la soluzione indicata, anche se senza tuttavia prendere posizione con nettezza, rammentando «la vexata quaestio del significato da attribuire alla locuzione "parte di sentenza" contenuta nell'art. 329, comma 2,earticolo 336  — ogni singola domanda; od ogni domanda sostanziale; o piuttosto, come sembra preferibile, ogni singola statua risolutiva d'una domanda controversa avente una propria individualità ed autonomia sì da dar luogo ad un decisum del tutto indipendente da quelli resi sulle altre questioni, cui dover riconoscersi carattere imperativo». L'interpretazione dell'art. 346 è stata in seguito oggetto di ulteriori due decisioni delle Sezioni Unite (Cass.SU, n. 7700/2016;Cass.SU, n. 11799/2017), le quali hanno messo entrambe in evidenza l'interferenza tra tale disposizione e l'art. 329, comma 2, chiarendo che il meccanismo dell'acquiescenza parziale di applica non soltanto alle domande, ma anche a frammenti del decisumdi ben più modesta estensione, quali le singole eccezioni, sia di merito (entro determinati limiti) che di rito. Diverse frasi, in cause aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, affermano, ad esempio, nello stesso senso, che, accolta la domanda in primo grado, l'impugnazione sull'UN non rimettermi in gioco criteri adottati dal primo giudice nel determinare gli accessori(interessi, maggior danno, rivalutazione) sulla sorte (Cass. n. 1950/1999;Cass. n. 10676/2000, In Giust. civ., 2001, I, 425, con nota di Rinaldi, Effetto devolutivo dell'appello e obbligazioni pecuniarieCass. n. 5256/2001;Cass. n. 14908/2002;Cass. n. 18093/2005;Cass. n. 500/2017;Cass. n. 13780/2017; si segnala però che Cass.SU, n. 8520/2007,ha affermato, con riguardo al risarcimento del danno da fatto illecito, che il debito del danneggiante ha natura di debito di valore sicché, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un diritto autonomo del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual era all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. La pronuncia, tuttavia, non pone in discussione la nozione di «parte di sentenza», ma si cimenta, per l'appunto, con la natura dell'obbligazione risarcitoria sorta dall'illecito aquiliano). La SC ha puro ritenuto che, a fronte di una sentenza di primo grado che, in un caso di incidente stradale, aveva ripartito nella misura del 70%-30% la responsabilità tra il conducente del veicolo investitore ed il pedone investito, determinando nel 38% la percentuale di invalidità permanente di quest'ultimo, l'impugnazione concernente il ripartizione di responsabilità avesse comportato il passaggio in giudicato della statuizione sull'entità dell'invalidità (Cass. n. 10550/1998; nello stesso senso Cass. n. 6655/2000). Parimenti si trova affermato che, in materia di responsabilità aquiliana, qualora la sentenza di primo grado contenente una statuizione di condanna venga impugnata esclusivamente sull'accertamento della responsabilità e sull'esistenza del danno, il giudice d'appello, se non accoglie l'impugnazione, non ha il potere di riesaminare i criteri di liquidazione del danno (Cass. n. 9902/1998; per l'affermazione secondo cui, se l'appellante censura la sola statuizione sull'UN, il giudice d'appello non può modificare il quantistico, v. puro Cass. n. 12176/2003). È stato detto che, se l'appellante censura la liquidazione del danno biologico, il giudice non può intervenire sulla liquidazione del danno morale (Cass. n. 15434/2004), e che il giudice di appello non può, in mancanza di un motivo specifico, discostarsi dalla ctu cui si è conformato il primo giudice (Cass. n. 13426/2003). Ed ancora, qualora il giudice di primo grado rigetti la domanda di accertamento della responsabilità di un professionista affermando che ha provato l'inadempimento ma non anche la verifica del danno, il giudice investito dell'impugnazione principale del cliente non può, in mancanza di appello incidentale del professionista, riesaminare la questione della sussistenza dell'inadempimento (Cass. n.29642/2017).

La delimitazione della nozione di «parte di sentenza», e così del meccanismo dell'acquiescenza parziale, si interseca con il quesito — di grande importanza anche pratica — se il giudice d'appello, in mancanza di impugnazione sul punto, possa riqualificare il rapporto giuridico controverso. La risposta della giurisprudenza non è del tutto univoca.

È stato ad esempio ritenuto che il giudicato interno si forme sulla qualificazione giuridica, effettuata dal primo giudice in termini di deposito cauzionale, del versamento di una certa somma e della consegna di titoli di Stato, a garanzia di un credito, sicché tale qualificazione «non è più riesaminabile dal giudice del gravame, per effetto dell'art. 329 cpc» (Cass. n. 1478/1999). La SC ha poi stabilito, in generale, che il potere di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché con riferimento all'appello deve ritenersi precluso al giudice di secondo grado di mutare d'ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione ritenuta dal primo giudice (p. es.Cass. n. 11753/1998;Cass. n. 6712/2001;Cass. n. 8082/2005;Cass. n. 20730/2008).

Si è così con chiarezza affermato che alla mancata, specifica impugnazione della statuizione adottata dal giudice di merito - anche implicitamente ai fini della prescrizione - sulla natura, contrattuale o extracontrattuale, del titolo di responsabilità del convenuto, consegue il passaggio in giudicato, sul punto, della sentenza, non potendo il giudice dell'impugnazione, in conseguenza dell'effetto devolutivo dell'appello, qualificare autonomamente e diversamente tale titolo, al fine di ritenere in applicabile un diverso termine prescrizionale (Cass. n. 25864/2020). Ancora, con riguardo al tema della qualificazione giuridica, è stato affermato che la diversità delle fattispecie dell'occupazione appropriativa e dell'occupazione usurpativa comporta che l'omessa doglianza delle parti sulla qualificazione appropriativa dell'occupazione, in sede di giudizio di merito, determina l'irretrattabilità della questione per il formarsi del giudicato interno sul punto; Pertanto, il ricorso per cassazione non può essere formulato sulla base di una diversa configurazione della fattispecie, in termini di occupazione usurpativa, proponendo in tal modo, al fine di sottrarsi alla prescrizione del diritto risarcitorio derivante dalla qualificazione appropriativa, questioni nuove che alterano l'oggetto sostanziale della domanda ei termini della lite e introducono un tema d'indagine e di decisione mai prima dedotto (Cass. n. 22479/2006). Ed ancora, il giudicato deve ritenersi formato anche sulle questioni di qualificazione giuridica dei rapporti, qualora le parti abbiano accettato sul punto la decisione del primo giudice, omettendone l'impugnazione e svolte le rispettive difese proprio sul presupposto di quella qualificazione. In una tale eventualità, infatti, non può ritenersi che il giudice di secondo grado, pur trattandosi di qualificazione giuridica, debba o possa riesaminare d'ufficio la domanda. Essendo, infatti, i suoi poteri, correlati ai motivi di impugnazione secondo il principio tantum devolutum quantum appellatum, lo stesso può dare alla domanda, nei limiti del petitum, un fondamento giuridico diverso da quello esposto dalla parte, ma solo se e in quanto sia stato direttamente, o comunicazione, investito della qualificazione e non già quando questa, risolta dal giudice di primo grado, non sia stata censurata in sede d'impugnazione o non deve essere necessariamente riesaminata ai fini della decisione di una censura espressamente proposta (Cass. n. 15356/2005).

Altre volte è stato ribadito che il giudice d'appello può sempre dare al rapporto giuridico contro una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, senza incorrere perciò in un vizio di extrapetizione: a condizione, però, si badi bene, che la diversa qualificazione non si fondi su elementi di fatto nuovi rispetto a quelli considerati dal primo giudice (v. es. Cass. n. 580/1977Cass. n. 3132/1980;Cass. n. 1138/1987;Cass. n. 4008/2006): il che non vuol dire nient'altro se non che il giudice di appello può modificare il mero nomen iuris adottato dal primo giudice per incasellare i fatti oggetto del giudizio.

Insomma, vi è in breve in tema di qualificazione giuridica: i) un orientamento, che sembra ampiamente recessivo, e che comunque non sembra più praticabile secondo il nuovo testo dell'art. 342 (si rinvia al relativo commento), alla luce del quale il principio iura novit curia trova applicazione in appello, ed attribuisce al giudice di appello il potere-dovere di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica anche diversa da quella data dal primo giudice, con il solo limite di non esorbitare dalla domanda formulata con l'atto di impugnazione e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito delle domande sottoposte al suo esame (p. es. Cass. n. 7789/2011;Cass. n. 7190/2010;Cass. n. 19090/2007;Cass. n. 7620/2006;Cass. n. 4008/2006); ii) un orientamento secondo cui il potere di qualificazione del rapporto giuridico nei gradi successivi al primo va coordinato con le regole proprie del sistema delle impugnazioni, sicché è precluso al giudice di appello di mutare d'ufficio, in mancanza di specifica impugnazione, la qualificazione giuridica data dal primo giudice al rapporto controverso (v., p. es. Cass. n. 20730/2008;Cass. n. 15496/2007;Cass. n. 14573/2005;Cass. n. 8082/2005).

Resta fermo che, il giudice ha il potere di qualificare la domanda in modo diverso rispetto a quanto prospettato dalle parti a condizione che la causa petendi rimanga identica, il che deve escludersi quando i fatti costitutivi del diritto azionato, intesi quale fondamento della pretesa creditoria e non quali fatti storici, mutano o, se già esposti nell'atto introduttivo del giudizio in funzione descrittiva, vengono dedotti con una differente portata (Cass. n. 10402/2024, che ha escluso che il giudice di merito potesse riqualificare la domanda, proposta dagli eredi del terzo trasportato deceduto in un sinistro stradale, formulata ai sensi dell'art. 141 c.ass., nell'azione ex art. 2054 c.c., essendo sufficiente, ai fini dell'accoglimento della prima, il mero fatto giuridico del trasporto su un veicolo coinvolto in un sinistro, oltre al nesso causale con il danno patito, ed occorrendo invece, nell'azione ex art. 2054 c.c., anche lo scontro tra i veicoli, soggetto ad un regime probatorio del tutto diverso).

L'effetto sostitutivo

L'effetto sostitutivo (Danovi, 1466; Consolo, 1997, 79) si pone in relazione tanto con il principio del doppio grado di giurisdizione, il quale mira a far sì che il giudice d'appello possa emendare la sentenza viziata, sostituendola con altra conforme a diritto, quanto con l'effetto devolutivo, che comporta lo spostamento della cognizione dinanzi al giudice d'appello allo scopo di consentirgli, ancora una volta, di emettere una nuova pronuncia che prenda il posto di quella impugnata.

Stretta è altresì la relazione tra l'effetto sostitutivo ed il regime dei nova in appello: quanto più circoscritto è tale regime (e, dopo l'ultimo intervento del 2012 sull'art. 345 esso è estremamente limitato), tanto più ridotto è il campo entro cui l'effetto sostitutivo può dispiegarsi. In tal senso, si è sottolineata la «crisi» dell'effetto sostitutivo (Proto Pisani, 1991, 113; Consolo, 1997,79), giacché il fenomeno della sostituzione si contrae ogni qual volta la decisione di secondo grado rappresenti non un integrale riesame dell'intero oggetto del giudizio, ma delle sole censure sollevate dalle parti.

Tanto premesso, l'effetto sostitutivo, secondo l'insegnamento della giurisprudenza, ha luogo sia in caso di riforma che di conferma (Cass. n. 601/1969; Cass. n. 3655/2004; Cass. n. 17072/2007). L'appello è cioè — come ha osservato la S.C.— «un mezzo di impugnazione che, in quanto diretto ad attuare il principio del doppio grado di giurisdizione, si conclude con una nuova decisione in merito al rapporto giuridico controverso, la quale si sostituisce a quella del giudice di primo grado, assorbendone tutto il contenuto". La sentenza di appello è pertanto sostitutiva a tutti gli effetti di quella di primo grado, anche se conferma integralmente la stessa. Non condivisibile è, dunque, la tesi... secondo cui, a seguito del riconoscimento della provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado (art. 282, come sostituito dalla l. n. 353/1990, art. 33), titolo esecutivo è la sentenza di primo grado, mentre la sentenza di appello continuerà ad essere titolo esecutivo nel caso di riforma o riforma parziale. La menzionata norma è difatti assolutamente «neutra» per gli effetti di cui qui si discute, poiché la modifica dell'art. 282, ha comportato unicamente che, mentre prima esso riteneva possibile la esecuzione provvisoria della sentenza (di condanna) di primo grado solo su domanda di parte e ope iudicis, cioè per una espressa pronuncia del giudice a riguardo, adesso l'art. 282, ha attribuito in via generale e preventiva alla sentenza (di condanna) di primo grado quell'efficacia esecutiva che prima era propria solo della sentenza d'appello. In altri termini la modifica dell'art. 282, ha comportato unicamente che, mentre prima una sentenza di primo grado poteva essere esecutiva, adesso tutte le sentenze di primo grado sono tali. Per il resto la novella ha lasciato invariate le cose» (Cass. n. 7537/2009; Cass. n. 5212/1999).

Non trova dunque riscontro, in giurisprudenza, l'opinione secondo cui l'effetto sostitutivo non si verificherebbe quando la sentenza è sì di conferma, ma il giudice di appello si limita a ravvisare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata (Proto Pisani, 1999, 535 e 538). È da credere, invece, che l'effetto sostitutivo non abbia luogo quando il giudice d'appello pronunci una sentenza di mero rito concernente il giudizio di appello (si immagini la dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione per difetto del requisito di specificità di cui all'art. 342), la quale produce il solo effetto di fare passare in giudicato la sentenza di primo grado. Non sembra inoltre che l'effetto sostitutivo sia configurabile nelle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, ex artt. 353 e 354 (Comoglio, Ferri, Taruffo 1998, 831).

L'effetto sostitutivo, d'altro canto, può essere totale solo se la sentenza è impugnata nella sua totalità, mentre non può essere che parziale nel caso in cui l'appello investa soltanto alcuni capi o parti della sentenza, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nella parte non impugnata, secondo il meccanismo già ricordato di cui all'art. 329, comma 2 (Cass. n. 601/1979). Il menzionato effetto, operante sia in caso di riforma che di conferma, sta a fondamento del fermo indirizzo secondo cui il giudice d'appello può confermare la sentenza di primo grado adottando una motivazione difforme da quella del primo giudice (Cass. n. 15185/2003).

Le parti

Spetta il diritto potestativo di appellare a chi: a) è stato parte del giudizio di primo grado; b) è rimasto in tutto o in parte soccombente; c) ha interesse ad appellare.

È soccombente, secondo l'opinione tradizionale, la parte la cui domanda non sia stata accolta ovvero che abbia subito l'accoglimento di una domanda spiegata nei suoi confronti (Liebman 1964, 57).

La giurisprudenza, come la prevalente dottrina, sembra accogliere una nozione non formale ma sostanziale e materiale di soccombenza, derivante non tanto dalla diversità tra le conclusioni della parte e la pronuncia, ma dagli effetti pregiudizievoli che possano derivare.

Dall'altro versante, l'appello va proposto nei confronti di chi, parte del giudizio di primo grado, ne sia risultato in tutto e in parte vincitore.

Le sentenze soggette ad appello

L'art. 339, comma 1, stabilisce che possono essere appellate «tutte le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti». Sono perciò impugnabili mediante appello le sentenze — vedremo subito quale ne sia la nozione — tanto definitive, quanto non definitive, di rito o di merito, pronunciate in primo grado dal tribunale ovvero dal giudice di pace. Sono parimenti appellabili per espressa previsione di legge, ai sensi dell'art. 702-quater, le ordinanze pronunciate all'esito del procedimento sommario ai sensi dell'art. 702-bis

In generale, secondo l'insegnamento della giurisprudenza, l'appellabilità delle sentenze si verifica attraverso un doppio passaggio. Da un lato occorre stabilire se il provvedimento impugnato è una sentenza, dall'altro lato, una volta accertato che di sentenza si tratta, occorre considerare il rilievo della qualificazione della domanda, e conseguentemente della decisione, operata dal giudice. I due profili si combinano, come è stato efficacemente riassunto, così, che «l'impugnabilità del provvedimento va stabilita in base al suo contenuto; il mezzo di impugnazione concretamente esperibile in base al principio dell'apparenza» (Tedoldi, L'appello civile, Torino, 2016, 65).

 

La nozione di sentenza appellabile.

Il primo passaggio mira a stabilire quando si sia di fronte ad una sentenza, come tale appellabile, secondo quanto prevede l'art. 339, comma 1.

Il problema sorge giacché vi sono provvedimenti che hanno natura di sentenza, quantunque non ne abbiano veste formale, natura, cioè, di sentenza intesa in senso sostanziale e, dunque, in un senso coincidente — fatta salva l'ovvia distinzione che subito si porrà in evidenza — con quello in cui si discorre di sentenza per i fini della soggezione al ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111 Cost. Hanno in particolare natura di sentenza in senso sostanziale, con conseguente sottoposizione all'appello, quei provvedimenti che posseggono attitudine ad incidere con efficacia di giudicato su diritti soggettivi o su status, e che, cioè, presentano il carattere della decisorietà. L'ovvia distinzione sta in ciò, che i provvedimenti decisori, aventi come tali natura di sentenza, sottoposti ad appello, per definizione non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione e, viceversa, quelli ricorribili per cassazione sono tali proprio per la mancanza di altri rimedi impugnatori (sull'indirizzo formatosi con riguardo alla nozione di sentenza in senso sostanziale, sottoposta al ricorso straordinario per cassazione, basterà richiamare la capostipite Cass. S.U., n. 2593/1953, che ha affermato un principio successivamente rimasto fermo, sia pure con ulteriori precisazioni).

In breve, la verifica dell'appellabilità va fatta, sotto tale profilo, in osservanza al principio di prevalenza della sostanza sulla forma (tra le tanteCass. S.U., n. 3816/2005;Cass. S.U., n. 20470/2005; Cass. n. 8174/2006 ), considerando che, per lo più, il fenomeno delle sentenze in senso sostanziale, perciò sottoposte ad appello, si manifesta in dipendenza dall'errore commesso dal giudice per aver pronunciato il provvedimento, nonostante il suo carattere decisorio, senza adottare l'adeguata veste formale di sentenza.

Un caso paradigmatico di sentenza in senso sostanziale sottoposta ad appello, pur in mancanza di tale connotazione formale, è quello dell'ordinanza di convalida di licenza o sfratto pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge. È ricorrente, in proposito, l'affermazione secondo cui l'ordinanza di convalida di sfratto, ove erroneamente emessa malgrado l'opposizione dell'intimato, assume natura decisoria e contenuto sostanziale di sentenza, sicché è impugnabile con l'appello (da ult. Cass. n. 14625/2017, espressione di un indirizzo giurisprudenziale costante, manifestatosi per lo più nel caso di ordinanza di convalida pronunciata nonostante l'opposizione dell'intimato, ma anche in molte altre ipotesi di violazione del paradigma legale): in un caso del genere, come si diceva, si ha una situazione patologica, dal momento che il giudice, in presenza dell'opposizione, non può, nel rispetto dell'art. 663, emettere l'ordinanza di convalida, ma deve disporre la trasformazione del rito ai sensi dell'art. 667 e decidere all'esito con sentenza; se non lo fa, e prende per così dire la «scorciatoia» dell'ordinanza di convalida, quell'ordinanza è solo formalmente tale, ma in realtà è una sentenza di accoglimento della domanda proposta dal locatore e volta a far dichiarare che il contratto di locazione è cessato o cesserà per scadenza del termine, nel caso di licenza o sfratto per finita locazione, oppure che si è risolto per inadempimento del conduttore, nel caso di sfratto per morosità. Sempre in tema di procedimento per convalida di sfratto per finita locazione, l'ordinanza pronunziata a norma dell'art. 663 con cui lo sfratto è stato convalidato deve contenere la condanna dell'intimato al rimborso delle spese sostenute dal locatore per gli atti del procedimento. Il mancato riconoscimento del diritto al rimborso delle spese del giudizio di convalida si risolve in un vizio di omissione di pronunzia, dunque in una violazione dell'art. 112, che rende l'ordinanza — in virtù del principio di prevalenza della sostanza sulla forma — impugnabile con il rimedio dell'appello (Cass. n. 2675/1999, che ha cassato la sentenza d'appello che aveva ritenuto inammissibile l'impugnazione, da far valere con ricorso per cassazione).

Una situazione analoga si verifica nel caso dell'ordinanza con cui il giudice istruttore, ai sensi dell'art. 789, comma 3, dichiara esecutivo il progetto di divisione, pur in presenza di contestazioni, ordinanza che, anche in tal caso, ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l'appello (Cass. S.U., n. 16727/2012; il principio è stato poi ribadito da Cass. n. 17385/2013). Altro caso si ha qualora il giudice adito, ante causam o in corso di causa, con richiesta di provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700, unifichi la fase cautelare e il giudizio di merito emanando, in luogo del provvedimento d'urgenza, un vero e proprio provvedimento definitivo di merito, come tale impugnabile mediante l'ordinario atto di appello (Cass. n. 16894/2016). Stesso discorso può farsi per l'unificazione delle due fasi nel caso del procedimento possessorio (Cass. n. 8896/1994; nonché Cass. n. 17098/2006; Cass. n. 23495/2007; Cass. n. 17177/2008). Si è al riguardo affermato che, non essendo configurabile la natura necessariamente bifasica del procedimento possessorio, il provvedimento con il quale il giudice, a conclusione della cosiddetta fase interdittale, abbia respinto o accolto il ricorso possessorio senza rimettere le parti innanzi a sé per la trattazione della causa nel merito, così concludendo definitivamente il giudizio e pronunciando sulle spese, ha natura di sentenza — indipendentemente dalla diversa definizione datagli dal giudice — e quindi è impugnabile mediante appello e non mediante reclamo, proponibile, nella materia possessoria, soltanto avverso il provvedimento avente natura di ordinanza (Cass. n. 17098/2006; Cass. n. 23495/2007; Cass. n. 17177/2008).

Ancora, il provvedimento di estinzione del giudizio emesso dal giudice monocratico ha natura sostanziale di sentenza, anche se adottato con ordinanza, in quanto idoneo a definire il giudizio e come tale appellabile (Cass. n. 2837/2016, ove si precisa che non ha tale natura l'ordinanza con cui il giudice monocratico respinga dell'eccezione di estinzione). Parimenti la sentenza non definitiva di rigetto dell'eccezione di estinzione del processo è impugnabile con l'appello, trattandosi di provvedimento le cui statuizioni non possono essere revocate o modificate con la sentenza definitiva, sicché, dovendo ricondursi alla previsione di cui all'art. 279, comma 1, n. 2, pur non definendo il giudizio, essa ha natura decisoria (Cass. n. 23625/2006; Cass. n. 14592/2007). La pronuncia di estinzione conserva, invece, la sua natura di ordinanza reclamabile avanti al collegio se emessa dal giudice istruttore nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale (Cass. n. 8092/2004). Il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza, provvedimento a sua volta soggetto (non essendo escluso dalla legge) ad appello exart. 339, comma 1 (Cass. n. 19973/2004; Cass. n. 14574/2007).

In materia di esecuzioni, poi, ai sensi dell'art. 512, tutte le controversie distributive vanno introdotte e trattate nelle forme di cui all'art. 617, a prescindere dalla circostanza che la causa petendi sia costituita dalla denuncia di vizi formali del titolo esecutivo di uno dei creditori partecipanti alla distribuzione ovvero da qualsiasi altra questione - anche relativa ai rapporti sostanziali - che possa dedursi in tale sede. Pertanto, il giudizio introdotto ex art. 512 (con l'impugnazione del provvedimento del giudice dell'esecuzione) è destinato a concludersi in ogni caso con sentenza non appellabile (Cass. n. 19122/2020).

Il provvedimento con cui il giudice, ancorché in forma di ordinanza, come espressamente indicato nell'art. 612, nel determinare le modalità dell'esecuzione, dirima una controversia insorta fra le parti in ordine alla portata del titolo esecutivo ed all'ammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa, ha natura sostanziale di sentenza in forza del suo contenuto decisorio sul diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata (Cass. n. 3722/2012; Cass. n. 16471/2009).

Il provvedimento temporaneo emesso dal giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 610, per superare una difficoltà materiale insorta nel corso dell'esecuzione di rilascio, il quale non incida sulla portata del titolo esecutivo né sia interpretativo del medesimo, è in linea di principio insuscettibile di appello, in quanto privo di contenuto decisorio (Cass. n. 3674/1984). È stato ribadito che, in generale, in tema di esecuzione per consegna o rilascio, i provvedimenti di cui all'art. 610 sono esplicazione dei poteri del giudice di direzione del processo esecutivo e sono finalizzati a risolvere non solo difficoltà materiali, ma anche dubbi o divergenze di opinioni in relazione allo svolgimento del processo e ciò anche per il tramite dell'interpretazione dello stesso titolo esecutivo. Si è tuttavia precisato che, qualora il relativo provvedimento, pur adottato nella forma prevista dal citato art. 610, risolva questioni inerenti al diritto di procedere all'esecuzione forzata, deve ad esso riconoscersi natura di sentenza appellabile, come nel caso in cui, in ipotesi di esecuzione per rilascio, il giudice non si limiti a chiarire la localizzazione del bene di cui al titolo esecutivo, ma ne individui la stessa consistenza, in presenza di una discrepanza fra la situazione fattuale rilevata dall'ufficiale giudiziario e quella apparentemente risultante dal titolo stesso (Cass. n. 20648/2006).

Il provvedimento che il giudice emette a norma dell'art. 612 in tema di esecuzione di obblighi di fare o di non fare ha natura di ordinanza se ed in quanto diretto a determinare le modalità dell'esecuzione con la designazione, sentite le parti, dell'ufficiale giudiziario e delle persone che debbono provvedere all'attuazione pratica della volontà della legge accertata nel titolo; ma, qualora il giudice, oltrepassando i limiti fissati nel titolo, disponga che le opere siano eseguite con modalità con esso contrastanti, o comunque destinate ad incidere su posizioni di diritto soggettivo, oppure decida una controversia circa la conformità o meno dal titolo esecutivo delle opere che la parte vittoriosa pretende siano eseguite, o circa la già avvenuta esecuzione in conformità con il titolo esecutivo affermata dalla parte soccombente, il relativo provvedimento, pur conservando la forma di ordinanza, ha natura di sentenza, in quanto risolve un vero e proprio giudizio di merito, ed e, come tale, impugnabile mediante appello (Cass. n. 3801/1975; Cass. n. 1926/1987; Cass. n. 2730/1987; Cass. n. 3802/1988; Cass. n. 9584/1990; Cass. n. 4407/1992; Cass. n. 3979/2003; Cass. n. 16471/2009; Cass. n. 10959/2010; Cass. n. 3722/2012; Cass. n. 14208/2014).

L'ordinanza di assegnazione di crediti, costituendo l'atto conclusivo dell'esecuzione forzata per espropriazione di crediti e, quindi, essa stessa atto esecutivo, deve essere impugnata con il rimedio dell'opposizione agli esecutivi, quando si tratta di far valere vizi che si riferiscono ai singoli atti esecutivi o ad essa stessa, mentre può essere impugnata con l'appello, quando la sua pronuncia abbia assunto natura decisoria, per avere inciso sulle posizioni sostanziali del creditore o del debitore. Il suddetto provvedimento non è, invece, mai soggetto al ricorso per cassazione ex  art. 111 Cost., che se proposto dev'essere dichiarato inammissibile (Cass. n. 5529/2011; Cass. n. 615/2012).

Altro caso peculiare di soggezione all'appello è quello dell'ordinanza sull'opposizione all'ordine di esibizione (Cass. n. 952/1976).

Il procedimento di rendimento dei conti, di cui agli artt. 263 ss., è bensì compreso nella sezione concernente l'istruzione probatoria, ma, oltre ad essere usato come mezzo istruttorio volto all'accertamento di un comune rapporto di dare-avere, può avere come oggetto precipuo la domanda intesa, sulla base di un rapporto di diritto sostanziale, ad ottenere la presentazione e l'esame del conto. E qualora il rapporto di diritto sostanziale posto come fonte dell'obbligo di rendere il conto, venga contestato, il provvedimento di decisione della controversia non ha natura di ordinanza istruttoria, ma di sentenza, contro cui è ammissibile l'appello (Cass. n. 4144/1975).

Il procedimento delineato dalla l. 22 luglio 1966 n. 607, per l'affrancazione dell'enfiteusi, si colloca nella categoria dei procedimenti sommari, caratterizzati dalla successione di due fasi, integrate tuttavia in un unico processo di tipo giurisdizionale e contenzioso; la prima, necessaria e a cognizione sommaria, affidata inderogabilmente al Pretore (oggi al Tribunale in composizione monocratica: Cass. n. 27033/2014) e concludentesi con ordinanza immediatamente esecutiva, destinata a divenire definitiva nel corso di mancata prosecuzione del processo: la seconda, eventuale a cognizione piena, affidata inderogabilmente alla Sezione specializzata agraria, la cui sentenza è di primo grado e può, quindi, essere impugnata soltanto con l'appello, e non, direttamente, col ricorso per Cassazione (Cass. n. 3192/1976; Cass. S.U., n. 398/1997;Cass. n. 3039/1999).

È appena il caso di aggiungere che il principio di prevalenza della sostanza sulla forma può rendere appellabili provvedimenti che si è esteriorizzano come ordinanze, ma che nella sostanza sono sentenze, perché si caratterizzano per il loro contenuto decisorio. Al contrario, se il giudice sbaglia perché qualifica come sentenza un provvedimento di contenuto meramente ordinatorio, ciò non vale a rendere ammissibile l'appello, giacché in questo caso non di prevalenza della sostanza sulla forma si tratterebbe, bensì, all'opposto, di prevalenza della forma sulla sostanza, con conseguente violazione del precetto posto dall'art. 339, che vuole appellabili esclusivamente le sentenze, che tali siano in senso almeno sostanziale.

Il principio dell’apparenza

Il secondo passaggio concerne la qualificazione che il giudice ha dato alla domanda e, in dipendenza di ciò, alla propria decisione.

Una volta stabilito che il provvedimento ha natura decisoria, ed ha cioè carattere di sentenza, sia pure in senso sostanziale, l'individuazione del mezzo di impugnazione utilizzabile, a seconda dei casi l'appello oppure il ricorso per cassazione, va effettuata in base alla qualificazione data dal giudice alla domanda proposta, in applicazione del principio dell'apparenza ed indipendentemente dalla sua esattezza (Cass. S.U., n. 931/1978; Cass. n. 3380/1981; Cass. n. 335/1986; Cass. n. 9251/2004; Cass. n. 3348/2005). Così, ad esempio, nell'ipotesi che il giudice abbia espressamente qualificato l'azione intrapresa come opposizione agli atti esecutivi, la quale si conclude, ad oggi, con sentenza inappellabile, l'appello eventualmente proposto sarà inammissibile nonostante l'erroneità della qualificazione adottata, trattandosi invece di opposizione all'esecuzione, destinata a concludersi con sentenza suscettibile di appello (Cass. n. 863/1974; Cass. n. 3147/1977; Cass. n. 813/1980; Cass. n. 1406/1983; Cass. n. 5196/1987).

Così, nel giudizio avente ad oggetto tanto la lesione del diritto alla protezione dei dati personali, cui si applica la disciplina processuale speciale di cui al d.lgs. n. 150 del 2011 (che non prevede la ricorribilità in appello), quanto la domanda di risarcimento del danno per la lesione dei diritti alla riservatezza ed all'immagine, cui si applica il rito ordinario, al fine di identificare il mezzo di impugnazione esperibile, in ossequio al principio dell'apparenza, deve farsi riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice; pertanto, qualora il tribunale abbia ritenuto di giudicare unitariamente sulle domande, applicando il rito speciale, in quanto i danni risarcibili erano stati prospettati come conseguenza dell'illecita diffusione dei dati personali, il ricorso in appello avverso la decisione del tribunale é inammissibile (Cass. n. 29336/2020).

 

Alcuni casi particolari

Vengono qui di seguito esaminate talune peculiari combinazioni, risolte dalla S.C., a seconda dei casi, ammettendo o negando l'esperibilità dell'appello.

Si è presentato in caso della sentenza del tribunale rese a seguito di riforma della dichiarazione di incompetenza da parte del giudice di pace. È stato detto che la sentenza di secondo grado che neghi la competenza del primo giudice che aveva respinto l'eccezione di incompetenza sollevata dal convenuto e pronunci su istanza di una delle parti anche nel merito si compone di due distinte pronunce, pur se emesse contestualmente, quella sulla competenza che in quanto emanata in grado d'appello è impugnabile con il ricorso per cassazione e quella di merito che, in quanto pronunciata in primo grado, è invece impugnabile con l'appello (Cass. n. 12248/2007, in un caso in cui il tribunale aveva annullato, per incompetenza per valore, la sentenza del giudice di pace e aveva deciso nel merito. In applicazione del principio soprariportato la S.C. ha interpretato come istanza di regolamento di competenza, respingendola, il ricorso avverso la declaratoria di incompetenza, mentre ha dichiarato inammissibili i motivi di ricorso relativi al merito della causa, riguardando essi statuizioni rese dal tribunale come giudice di primo grado e quindi soggette ad appello). Si deve infatti considerare che, in ipotesi di riforma della dichiarazione di incompetenza non si ha regressione al primo giudice, ai sensi degli artt. 353 e 354, sicché il giudice d'appello si trova in tal caso a giudicare sul merito come giudice di primo grado.

Altro caso al quale val la pena di accennare p quello della sentenza a seguito di opposizione di terzo su sentenza di primo grado. Proposta opposizione di terzo ex art. art. 404 avverso una sentenza di primo grado passata in giudicato, poiché il giudizio di opposizione si svolge davanti allo stesso giudice in primo grado, la sentenza che definisce tale giudizio in quel grado è impugnabile con appello e, pertanto, non e ammissibile il ricorso per cassazione (Cass. n. 2080/1975).

È appellabile secondo le regole generali la sentenza che determina la retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost. Difatti, il potere di emettere una decisione secondo equità ai sensi dell'art. 114 si differenzia dal potere di determinare, nel processo del lavoro, la retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., atteso che, nel primo caso, la decisione viene adottata a prescindere dallo stretto diritto e presuppone l'istanza delle parti, mentre, nel secondo, non è necessaria alcuna richiesta delle parti e la decisione viene adottata secondo le norme di diritto alla stregua della normativa vigente, con applicazione, in via parametrica, del contratto collettivo di settore di cui non sia possibile l'applicazione diretta e sul presupposto che la retribuzione di fatto corrisposta si appalesa rispondente ai criteri di adeguatezza e proporzionalità posti dalla norma costituzionale. Ne consegue, come si premetteva, che la sentenza con la quale è stata determinata la giusta retribuzione è appellabile ai sensi dell'art. 339, comma 1 (Cass. n. 26985/2009).

Un cenno alla sentenza che decide sul rendiconto del tutore. L'impugnazione con reclamo del decreto di approvazione del rendiconto finale del tutore, emesso dal giudice monocratico di prima istanza quale giudice tutelare, deve decidersi con sentenza del tribunale in sede contenziosa ai sensi dell'art. 45 disp.att. c.c. ed in composizione collegiale ex art. 50-bis; tale sentenza, la cui natura decisoria si ricava dall'effetto di rendere definitivi ed irrevocabili gli accertamenti sul rendimento di conto del tutore, è appellabile ai sensi dell'art. art. 339, ma non ricorribile per cassazione (Cass. n. 17956/2008).

In tema di provvedimento di separazione delle cause, la S.C. ha ripetuto che, qualora il giudice di primo grado, separando due cause connesse, ne decida una soltanto e rimetta, con separata ordinanza, l'altra in istruttoria, la decisione di separazione dei giudizi può essere impugnata soltanto con l'appello, perché con esso non viene censurata l'ordinanza con la quale il giudice provvede per l'istruttoria della causa separata, bensì il provvedimento della sentenza con il quale è posta in essere la separazione delle cause (Cass. n. 21816/2006; Cass. n. 7626/2009). Egualmente, non è ammissibile la proposizione del regolamento di competenza necessario nel caso in cui, provvedutosi alla riunione di due cause connesse (che conservano, in ogni caso, la loro autonomia), il giudice adotti una sentenza di incompetenza relativa ad una sola delle cause omettendo del tutto la trattazione e la decisione sull'altra causa riunita, sussistendo, in siffatta ipotesi, il diritto di appello in ordine a tale omissione decisionale, che costituisce il rimedio idoneo per far valere anche i vizi del procedimento (Cass. n. 5331/2009, che ha cassato la decisione con la quale era stata dichiarata l'inammissibilità dell'appello avverso una sentenza di incompetenza adottata in primo grado relativa ad una sola causa riunita, avente ad oggetto un'azione risarcitoria da inadempimento, con omissione totale della decisione sull'altra controversia oggetto di riunione riguardante un'opposizione a decreto ingiuntivo).

Nel caso di sentenza che decide sull'opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi ciascuna statuizione è sottoposta al proprio mezzo di impugnazione. In tema di esecuzione forzata, difatti, qualora in sede di opposizione a precetto siano fatti valere dall'opponente sia motivi qualificati dal giudice come opposizione all'esecuzione sia motivi identificati come opposizione agli atti esecutivi, la sentenza resa su tale opposizione, formalmente unica, contiene due decisioni distinte, soggette rispettivamente ad appello e a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. Sono, pertanto, inammissibili, nel ricorso per cassazione proposto ex art. 111 Cost., i motivi relativi ai capi della sentenza afferenti la statuizione sull'opposizione all'esecuzione, nonché sulle pronunce accessorie a quest'ultima (Cass. n. 7611/2006). In breve, trova allora applicazione il principio secondo cui, quando le contestazioni della parte si configurino, nello stesso procedimento, come opposizione all'esecuzione ed opposizione agli atti esecutivi, si deve ritenere che la sentenza, formalmente unica, contenga due decisioni distinte, soggette rispettivamente ad appello ed a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n. 12730/2016).

L'ordinanza con cui il giudice dell'esecuzione, investito dell'opposizione ai sensi dell'art. 615, comma 2, esaurita la fase sommaria del procedimento demandata all'emanazione dei provvedimenti sull'istanza di sospensione dell'esecuzione, ravvisa di non essere competente e rimette, in virtù dell'art. 616 (sia nel regime introdotto dalla l. n. 52/2006 che in quello conseguente alle modifiche previste dalla più recente l. n. 69/2009 ), le parti per il prosieguo davanti al giudice individuato come competente, ha carattere ordinatorio e non assume valore di sentenza sulla competenza. Pertanto, detto provvedimento non è impugnabile con il regolamento di competenza, ma, una volta avvenuta la riassunzione, rimane intatta la possibilità, sia per le parti che per il giudice con riferimento ai criteri di competenza la cui violazione è rilevabile d'ufficio, di rilevare l'incompetenza ed eventualmente la sussistenza della competenza — oltre che di un diverso giudice — proprio dello stesso giudice dell'esecuzione, con la conseguenza che sulla relativa questione è necessario decidere con sentenza (nel regime della l. n. 69/2009 con ordinanza), la quale sarà soggetta ai rimedi ordinariamente esperibili, e quindi: a) se pronunciata da giudice togato, al ricorso straordinario nel regime della l. n. 52/2006 o all'appello ai sensi dell'art. 339, se applicabile la l. n. 69/2009 ; b) se adottata dal giudice di pace, al ricorso straordinario nel regime della citata l. n. 52/2006 ed a quello dell'art. 339 nel regime della l. n. 69/2009 (Cass. n. 15629/2010).

Appellabilità simultanea di più sentenze con un unico appello

In generale, è inammissibile l'appello proposto con unico atto contro due sentenze concernenti le stesse parti, ma in cause distinte ed in diversa posizione processuale, anche se in tale atto siano ben individuati le sentenze impugnate ed i motivi di gravame riguardanti ciascuna di esse, atteso che, al di fuori delle ipotesi — che trovano nella legge la loro fonte espressa od implicita — in cui un giudizio unitario su pronunce distinte può essere instaurato su iniziativa di una parte (es. in caso di impugnazione di sentenza non definitiva e definitiva nello stesso giudizio, ovvero di impugnazione di sentenze emesse nel giudizio di appello e di revocazione), rientra esclusivamente nella funzione del giudice, anche in fase di gravame, di determinare la riunione dei giudizi (artt. 273 e 274, applicabili in appello in virtù del generale richiamo contenuto nel successivo art. 359, nonché negli artt. 335 e 350, comma 2 (Cass. n. 342/1993). È  cioè sempre inammissibile l'impugnazione cumulativa, proposta mediante un unico ricorso avverso una pluralità di sentenze, quando non ricorra, nelle decisioni gravate, l'identità delle parti coinvolte e delle questioni affrontate (Cass. n. 21005/2019).

Nè, trattandosi di diversi procedimenti instaurati con distinti atti introduttivi, rileva che essi siano vertenti fra le medesime parti e su rapporti analoghi o connessi (Cass. n. 6533/1981).

L'impugnazione, con un unico atto, di più sentenze è consentita solo nel caso in cui le pronunce siano state emesse in unico procedimento (artt. 340 e 361), nonché in altri casi al primo assimilabili (come quelli dell'impugnazione (congiunta) di una sentenza di merito e di quella emessa nel giudizio di revocazione della stessa e l'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione relativa a più procedimenti vertenti fra le stesse parti e tanto intimamente connessi da non poter essere decisi separatamente). Al di fuori di tale ipotesi, l'impugnazione congiunta di più sentenze è, invece, vietata e sanzionata con la nullità dell'atto d'impugnazione, e con la conseguente inammissibilità della stessa, senza che, per quanto concerne le controversie regolate dal rito del lavoro, possa indurre a conclusioni diverse la norma dell'art. 151 (nuovo testo) disp. att. (concernente la riunione dei procedimenti connessi anche soltanto per identità di questioni), suscettibile di applicazione estensiva anche ai giudizi di cassazione (Cass. n. 6754/1982).

Risulta per contro isolato il responso secondo cui, con riguardo a più sentenze o provvedimenti, resi fra le medesime parti in distinti procedimenti su rapporti analoghi o connessi, l'instaurazione del giudizio di impugnazione deve ritenersi consentita anche mediante la proposizione di un unico atto qualora esso, proposto, nel rispetto dei prescritti requisiti formali e sostanziali e dei termini di legge, davanti al giudice competente a conoscere di ciascun gravame, sia, ancorché esteriormente unico, esplicitamente diretto contro i distinti provvedimenti e si fondi su specifici motivi di censura nei confronti di ciascuno di essi, sì da escludere la possibilità di ingenerare nel giudice e nelle controparti confusione tanto in ordine ai provvedimenti impugnati, quanto in relazione alle ragioni dell'impugnazione esperita contro ciascuno di essi (Cass. n. 12461/2004, concernente fattispecie in cui con unico atto, denominato «opposizione-appello», era stato proposto, dinanzi al Tribunale, (a) appello contro sentenza resa dal Pretore a seguito di opposizione ai sensi dell'art. 669-septies avverso la pronuncia sulle spese recata dal provvedimento negativo sulla richiesta cautela; (b) opposizione, ai sensi del citato  art. 669-septies, avverso l'ordinanza collegiale resa dal Tribunale, tra le medesime parti, in sede di reclamo, ex art. 669-terdecies, contro l'ordinanza pretorile di rigetto della misura cautelare). Peraltro, in materia di contenzioso tributario, è stato detto che, ove esistano elementi di consistente connessione, che, benché solo oggettiva, riflettano lo stretto collegamento esistente tra le pretese impositive, è ammissibile l'impugnativa collettiva e cumulativa (proposta da più soggetti ed avverso diverse sentenze), trovando applicazione anche in appello la disciplina del litisconsorzio facoltativo, in virtù del combinato disposto degli artt. 103 e 359, richiamati dagli artt. 1, comma 2, e 49 d.lgs. n. 546/1992 (Cass. n. 22657/2014).

Provvedimenti non appellabili

Ai sensi dell'art. 339 sono inappellabili: io) la sentenza di primo grado per le quali l'appello sia escluso dalla legge; ii) le sentenze di primo grado per le quali l'appello sia escluso dall'accordo delle parti, che hanno optato per il ricorso per cassazione per saltumex art. 360iii) le frasi si pronunciano secondo equità a norma dell'art. 114, ossia nel caso in cui la causa abbia d'oggetto diritti disponibili delle parti e queste gliene facciano concorde richiesta.

L'appello delle frasi di primo grado è escluso per legge:

i) per le sentenze rese in controversie individuali di lavoro o di previdenza o assistenza obbligatoria, nonché di locazione, di valore non superiore a € 25,82 (artt. 440 e 442; art. 447-bis,che rinvia all'art. 440);

ii) le sentenze che decidono sull'opposizione agli atti esecutivi (articolo 618 in relazione all'art. 617, comma 1); va al riguardo precisato che l'impugnazione dell'iscrizione ipotecaria e del fermo di beni mobili registrati non può essere ricondotta nella categoria delle opposizioni ex art. 617 c.p.c., trattandosi di ordinaria azione di accertamento negativo della pretesa dell'esattore di eseguire il fermo o di iscrivere l'ipoteca, sia nel caso in cui l'accertamento si estenda al merito della pretesa creditoria, sia che riguardi l'esistenza del diritto dell'agente di procedere alla iscrizione, sia che si contesti l'iscrizione di fermo o di ipoteca sotto il profilo della regolarità formale dell'atto, con la conseguenza che la sentenza resa all'esito del giudizio è impugnabile con l'appello e non col ricorso per cassazione (Cass. n. 6844/2024)

iii) le decisioni della corte d'appello in unico grado tra cui: sentenze su istanza di accertamento dei requisiti per il riconoscimento delle sentenze e dei provvedimenti di volontaria giurisdizione stranieri (art. 67 l. 218/1995); sentenze su ricorso contro la dichiarazione di esecutività di sentenze degli Stati UE (art. 44 Reg. CE 44/2001); frasi rese all'esito dell'impugnazione per nullità di lodo arbitrale (art. 830); sentenze su opposizione al decreto di esecutività dei lodi arbitrali stranieri(art. 840, comma 1); frasi pronunciate in materia antitrust ai sensi dell'art. 33, comma 2, l. n. 287/1990; frasi su opposizione alla stima e determinazione dell'indennità di occupazione dell'espropriazione per pubblica utilità (art. 54 dPRn 327/2001); provvedimenti resi contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione(ai sensi della l. n. 89/2001, come novellata dalla l. n. 83/2012, convertito con modifiche dalla l. n. 134/2012); provvedimenti presi sull'opposizione a sanzioni amministrative materia bancaria e finanziaria (artt. 145 d.lgs. n. 385/1993 18-bis, 187-settantae 195 d.lgs. n. 58/1998); frasi rese sui ricorsi avverso le decisioni della commissione circondariale elettorale(art. 42 dPRn 223/1967); le frasi in materia di acque pubbliche ex  art. 138, reg. 1775/1933; le ordinanze nei procedimenti di liquidazione dei compensi per prestazioni giudiziali civili pronunciate nel quadro ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 150/2011.

Quanto alle decisioni rese sulla sola competenza esse, fino all'avvento della nella l. 69/2009,Erano pronunciate con sentenza inappellabile perché è soggetta all'impugnazione mediante regolamento necessario ai sensi dell'art. 42. Tali decisioni vanno oggi pronunciate con ordinanza, ex art. 44,che, però, ebbe riguardo al principio precedentemente ricordato della prevalenza della sostanza sulla forma, mantenendo il contenuto sostanziale di sentenza e rimanere come tali non appellabili, in quanto ricorribili con il regolamento necessario.

Nella pratica si presenta sovente il problema di stabilire se il giudice, pronunciando ordinanza, in conformità al precetto legale, abbia inteso adottare una decisione definitiva sulla competenza, rendendo così ammissibile il regolamento, oppure abbia compiuto una valutazione soltanto interinale, suscettibile di impugnazione soltanto all'esito del giudizio. In proposito la SC afferma che il provvedimento del giudice adito, che, nel disattendere la corrispondente eccezione, affermi la propria competenza e disponga la prosecuzione del giudizio innanzi a sé, è insuscettibile di impugnazione con il regolamento ex art. 42,ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito, salvo che quel giudice, così procedendo e statuendo, lo ha fatto conclamando, in termini di assoluta e oggettiva inequivocità ed incontrovertibilità, l'idoneità della propria determinazione a risolvere definitivamente, davanti a sé, la suddetta questione (Cass.SU, n. 20449/2014).

Sono invece oggi impugnabili mediante reclamo i provvedimenti, precedentemente inappellabili, di cui agli artt. 16, 121, 137 e153 l. caduta.(per la nuova disciplina v. d.lgs. n. 14/2019– Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza), all'esito delle modifiche ad essa apportate dal d.lgs. n. 5/2006ed.lgs. n. 169/2007.

Scorrendo i responsi della giurisprudenza, può accennarsi che non è ovviamente impugnabile con l'appello la sentenza che pronuncia sulla sola competenzaex artt. 42 e 339, comma 1,dovendosi in tal caso impiegare il regolamento necessario (Cass. n. 12528/2000), e ciò anche nel caso in cui sorga questione sull'ammissibilità e tempestività dell'eccezione di incompetenza, o sul tempestivo rilievo di ufficio della medesima (Cass.SU, n. 21858/2007;Cass.SU, n. 22639/2007;Cass. n. 25248/2008;Cass. n. 23289/2011Cass.  n. 16359/2015; con la pronuncia citata per prima, sulla scia di Cass. n. 16136/2003, le SU hanno contraddetto il precedente stabilito daCass.SU, n. 764/1999, cui si erano conformate numerose decisioni successive, secondo cui la dichiarazione di incompetenza, intervenuta a seguito di eccezione rilevata d'ufficio o sollevata dalla parte in violazione dei limiti temporali stabilità per la sua rilevabilità, non poteva essere impugnata col regolamento di competenza, ma doveva essere impugnata con l'appello o con il ricorso per cassazione, in quanto contenente un errore nel procedere). Altrettanto ovvio, alla luce del disposto del comma 2 dell'art. 339, è la non impugnabilità della sentenza pronunciata secondo equità una norma dell'art. 114, anche se la richiesta in tal senso sia stata effettuata da un difensore privo di mandato speciale (Cassazione n. 11072/2001). È senza dubbio impugnabile con ricorso per cassazione, e non con appello, la sentenza pronunciata su opposizione di terzo contro una sentenza in grado di appello(Cassazione n. 2137/1975). Ribaltando un fermo indirizzo secondo cui l'omessa distrazione delle spese non poteva essere oggetto di correzione attraverso la procedura di cui all'articolo 287, sicché, ove l'omissione fosse addebitabile al giudice di primo grado, occorreva impugnare sul punto la sentenza con l'appello, le sezioni unite hanno stabilito che, al contrario, in caso di omessa pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese proposte dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un'espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288, e non dagli ordinari mezzi di impugnazione (Cass.SU, n. 16037/2010Cass. n. 1301/2012). È appena il caso di aggiungere che dal 1° gennaio 2008 la sentenza dichiarativa di fallimento è sottoposta non all'appello, ma al reclamo di cui all'art. 18 l. caduta. (per la nuova disciplina v. d.lgs. n. 14/2019– Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza).

Passando in rassegna alcune fattispecie concernenti provvedimenti diversi dalle sentenze, merita rammentare che è stata esclusa l'appellabilità dell'ordinanza anticipatoria di condanna all'esito dell'istruzione, se la dichiarazione di rinuncia alla pronuncia della sentenza non è rituale (Cass. n. 3194/2002;Cass. n. 14097/2003;Cass. n. 11611/2004;Cass. n. 22533/2006). Naturalmente non è appellabile la pronunzia sull'ammissione di prove, sia pure disposta con ordinanza collegiale (Cass. n. 3648/1974), ovvero quando prenda in esame domande attinenti a presupposti, condizioni processuali o profili di merito (Cass. n. 5238/1992;Cass. n. 3601/2001). Né è appellabile il provvedimento con il quale il giudice autorizza o nega la chiamata in causa(Cass. n. 28227/2005), come pure l'ordinanza dichiarativa dell'interruzione del processo(Cass.  n. 4733/2007).

Naturalmente, è inammissibile l’appello proposto nei casi in cui esso è precluso. Ed è qui il caso di rammentare che detta inammissibilità non rilevata dal giudice d’appello ― come in genere l’inammissibililtà dell’appello, quale che ne sia la ragione ― è rilevabile d’ufficio in Cassazione: la Corte di cassazione può cioè rilevare d'ufficio una causa di inammissibilità dell'appello, che il giudice del merito non abbia provveduto a riscontrare, cassando senza rinvio la sentenza di secondo grado (tra le tantissime Cass. n. 24047/2009; Cass. n. 25209/2014; Cass. n. 674/2016; Cass. n. 25707/2023). È cosa ovvia, e non è neppure il caso di spiegare il perché, sicché si cade dalle nuvole nel leggere che, secondo una recente pronuncia: «In tema di giudizio di cassazione, la questione processuale concernente l'ammissibilità dell'appello non valutata dal giudice di secondo grado non può essere rilevata d'ufficio dalla cassazione potendo essere esaminata soltanto a fronte di uno specifico motivo di ricorso che censuri l'error in procedendo» (Cass. n. 3352/2024).

L'appello contro le sentenze del giudice di pace

L'art. 339, comma 3,sanciva l'inappellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace ai sensi dell'art. 113, comma 3. In proposito la SC ha chiarito che le sentenze pronunciate secondo equità devono necessariamente individuarsi in funzione del valore della controversia (tra le tante vCass.  n. 17430/2006;Cass.  n. 26592/2009Cass. n. 22537/2007;Cass. n. 5287/2012; Cass. n. 769/2021).

Tale disposizione è stata novellata dall'art. 1, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, sicché essa oggi esclude — all'evidente scopo di ridurre il carico di lavoro della Corte di cassazione, favorendo l'esercizio della funzione nomofilattica — che le sentenze pronunciate secondo equità, a decorrere dal 2 marzo 2006, sono appellabili «esclusivamente» (così l'art. 339, comma 3) per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Vi sono allora due appelli, sottoposti a regole diverse, contro le sentenze del giudice di pace: da un lato l'appello «ordinario» di cui al comma 1 dell'art. 339,contro le frasi emesse in causa di valore eccedente la soglia di millecento euro fissata dal comma 2 dell'articolo 113; dall'altro lato l'appello «speciale», mediante il quale possono farsi valere «esclusivamente» violazioni di norme sul procedimento, costituzionali o comunitarie ovvero di principi regolatori della materia, contro le frasi pronunciate secondo equità. Quest'ultimo appello, che abbiamo indicato come «speciale», è l'unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso avverso le sentenze di equità del giudice di pace, anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza ed al difetto di motivazione (Cass. n. 27356/2017Cass. n. 19050/2017Cass.SU, n. 27339/2008Cass. n. 6410/2013): e cioè, detto in parole semplici, non vi è alcun modo per impugnare direttamente per cassazione le sentenze del giudice di pace secondo equità, al di fuori dei casi del tutto marginali del ricorso per saltum di cui alla regola generale prevista dall'art. 360, comma 2, e della sentenza pronunciata secondo equità ai sensi dell'art.114, che non è appellabile secondo quanto disposto dall'art. 339, comma 2,ed è quindi direttamente ricorribile per cassazione.

E dunque l'appello a motivi limitati, previsto dall'art. 339, comma 3, c.p.c., costituisce l'unico rimedio impugnatorio ammesso (oltre alla revocazione per motivi ordinari) avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace nell'ambito della sua giurisdizione equitativa necessaria, non essendo configurabile altra impugnazione ordinaria per i motivi esclusi e, segnatamente, il ricorso per cassazione per il motivo ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., poiché dette sentenze sfuggono all'applicazione dell'art. 111, comma 7, Cost., che riguarda i provvedimenti aventi natura decisoria in senso c.d. sostanziale, per i quali non è previsto alcun mezzo di impugnazione, e non i casi in cui un mezzo di impugnazione è previsto, seppure limitato a taluni motivi, e la conseguente decisione può poi essere assoggettata a ricorso per cassazione (Cass. n. 9870/2024). Ciò con la precisazione che, nei giudizi previsti dall'art. 113, comma 2, c.p.c., il giudice di pace decide secondo equità anche in ordine alla quantificazione delle spese processuali, con la conseguenza che è inammissibile l'appello volto a far valere la violazione delle disposizioni tariffarie in materia di onorari di avvocato, le quali hanno natura sostanziale e non costituiscono «norme sul procedimento» né «principi regolatori della materia» (Cass. n. 1517/2024).

Inoltre, considerata l'appellabilità delle frasi da decidere secondo equità, esse non possono più essere considerate «pronunciate in unico grado», ex artt. 395 e 404,  trattandosi invece di frasi di primo grado, e dunque non possono essere impugnate non solo direttamente con ricorso per cassazione, ma anche per revocazione e per opposizione di terzo, salva l'esperienza di tali rimedi avverso le frasi già passate in giudicato.

Per completezza occorre rammentare che vi sono cause di valore inferiore a millecento euro che il giudice di pace deve decidere secondo diritto: quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 cc, questo è con moduli o formulari, ai sensi dell'art. 113, comma 2.In tal caso si applica l'appello «ordinario», e non certo del ricorso per cassazione (Cass. n. 16868/2017). La sentenza del giudice di pace, resa secondo equità su controversia non eccedente il valore di millecento euro e avente ad oggetto non l'accertamento di un regolamento relativo predisposto ex articolo 1342 cc bensì l'esistenza stessa del contratto, è invece soggetta ai limiti di appellabilità previsti dall'art. 339, comma 3 (Cass. n. 12736/2016).

Rimane fermo, anche dopo la novella dell'art. 339,il criterio di individuazione delle frasi pronunciate secondo equità. Per stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all'art. 339, comma 3,occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i principi di cui agli artt. 10 e ss., e senza tenere conto, sia detto per inciso, del valore indicato dall'attore ai fini del pagamento del contributo unificato (Cass. n. 9432/2012, la quale ha precisato che ove l'attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro, accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che «sarà ritenuta di giustizia», la causa deve ritenersi di valore indeterminato, e la sentenza che la conclusione è appellabile senza i limiti prescritti dall'articolo 339; nello stesso senso Cass. n. 11739/2015;Cass. n. 7095/2017;Cass. n. 15170/2017). È il caso di aggiungere che, qualora vengano proposte davanti domande connesse, la decisione non può, per esigenze di coerenza logico-giuridica, avvenire per una domanda in via equitativa e per l'altro secondo diritto e tutta la controversia deve essere decisa secondo diritto, con la conseguenza che il mezzo di impugnazione è l'appello «ordinario» (Cass. n. 30055/2017).

L'appello contro le sentenze del giudice di pace, come previsto dal comma 3 dell'art. 339,e cioè l'appello contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, è dunque regolato, come si diceva, diversamente dal mezzo di impugnazione contemplato dal comma 1 della stessa disposizione. Contro tali frasi del giudice di pace, infatti, possono essere fatti valere i soli motivi che la norma stessa individua. L'art. 339, comma 3, istituisce così uno strumento espressamente configurato come mezzo di impugnazione a critica vincolata, a differenza dell'appello previsto in via generale dal comma, cui per lo più fino alla riforma del 2012 si è riconosciuto natura di mezzo di impugnazione a critica libera. L'istituto in tal modo predisposto dà luogo ad un rimedio impugnatorio con fase doppia— fatta eccezione per la sussistenza dell'ipotesi di rimessione al primo giudice ai sensidegli artt. 353 e 354— rescidente e rescissoria, destinata a svolgersi entrambe dinanzi al tribunale, la prima diretta a verificare, secondo diritto (Carbonara, 509 secondi; Zulberti, 306), la sussistenza di una delle ipotesi previste dall'art. 339, comma 3, la seconda diretta pronuncia sostitutiva di quella impugnata, in funzione ed entro i limiti delle censure spiegate.

Si discute se, in quest'ultima ipotesi, il giudice d'appello, nel procedere alla revisione a priori delle istanze, deve essere pronunciato secondo equità oppure secondo diritto: ciò ha avuto riguardo al rilievo che l'art. 113, comma 2,riserva al giudice di pace (e non estende espressamente al tribunale, che è giudice d'appello del primo) la decisione secondo equità.

Secondo alcune delle formulazioni citateart. 113, comma 2, si spiegherebbe e dovrebbe essere intesa proprio in dipendenza del regime, originariamente previsto, di inappellabilità delle sentenze del giudice di pace, sicché, caduto il limite dell'inappellabilità, dovrebbe necessariamente ritenersi che il giudice d'appello debba decidere secondo equità allo stesso modo del giudice di primo grado(Carbonara, 516;Zulberti, 306).

Secondo altri, il comma 2 dell'art. 113, che prevede la decisione secondo equità per il solo giudice di pace, si porrebbe quale norma eccezionale rispetto al comma 1 della disposizione, che fissa la regola generale alla luce della quale il giudice decide secondo diritto: di modo che la decisione d'appello dovrebbe essere adottata secondo diritto (tra gli altri Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e le impugnazioni delle frasi, III, Milano, 2009, 409).

Nell'equivocità del dato letterale la prima delle soluzioni riassunte sembra senz'altro preferibile. Seguendo la seconda, infatti, si ammetterebbe la decisione della medesima controversia talora secondo equità, talora secondo diritto in funzione di una circostanza patologica e meramente casuale, quale la commissione, da parte del giudice di pace, di un errore (violazione delle norme sul procedimento, delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia) riconducibile alla dichiarazionedell'art. 339, comma 3.  Non risulta, allo stato, che la giurisprudenza di legittimità abbia preso espressamente posizione sul problema. Tuttavia, l'adesione al primo degli indirizzi menzionati pare doversi desumere dalla circostanza che il ricorso per cassazione contro le sentenze del tribunale, rese avverso sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, viene ammesso per i medesimi motivi per i quali è consentito l'appello, mentre, se il tribunale fosse tenuto a decidere secondo diritto, il ricorso per cassazione non potrebbe che essere quello «ordinario», spendibile cioè in tutte le ipotesi contemplate dall'art. 360,esclusa, ovviamente, l'applicabilità del solo n. 5 in caso di «doppia conforme» ai sensi dell'art. 348-ter . La SC ha di fatto affermato che nel caso di sentenza emessa dal giudice di pace secondo equità, la circostanza che il tribunale, adito quale giudice d'appello, ha mancato di rilevare l'inammissibilità del gravame, giacché proposto per motivi esorbitanti quelli deducibili ai sensi dell'art. 339, comma 3,non esclude che, proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello, lo stesso deve necessariamente dedurre l'inosservanza delle norme sul procedimento, ovvero delle norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia, pena la sua inammissibilità ex artt. 339, comma 3, e 360, comma 1, n. 3(Cass. n. 3715/2015;Cass.  n. 5287/2012).

La nozione di «norme sul procedimento»

Merita parimenti approfondimento la nozione di «violazione delle norme sul procedimento», cui l'art. 339, comma 3, si riferisce.

In passato la sentenza pronunciata dal giudice di pace secondo equità era ricorribile per cassazione per motivi concernenti la giurisdizione (art. 360, n. 1) e la competenza (art. 360, n. 2), nonché per vizi del procedimento (art. 360, n. 4) e della motivazione (art. 360, n. 5). Non era prevista la ricorribilità ai sensi del n. 3 dell'art. 360, e cioè per violazione di legge, perché, ovviamente, il giudizio di equità non si presta ad essere controllato dal versante della sua conformità al diritto.

Oggi, la previsione dell'art. 339, comma 3, sembra voler ricomprendere nell'ampia espressione «violazione delle norme sul procedimento» tutti i profili prima riservati alla cognizione della Corte di cassazione.

La sentenza secondo equità del giudice di pace — ossia, secondo l'insegnamento fermo della S.C., le sentenze pronunciate in cause di valore non eccedente la soglia normativamente prevista, indipendentemente dalla circostanza che in concreto la decisione sia stata assunta secondo diritto o secondo equità — è dunque da ritenere anzitutto appellabile per violazione delle norme sulla giurisdizione.

È poi appellabile la decisione sulla competenza. Al riguardo occorre infatti considerare che, indipendentemente dalla previsione dell'appello «speciale» di cui si è detto, contro le pronunce del giudice di pace non è ammissibile il regolamento di competenza, ai sensi dell'art. 46. In contrario non sembra potersi obbiettare che detta decisione — quando il giudice decide soltanto questioni di competenza — va oggi assunta non con sentenza ma con ordinanza, ai sensi dell'art. 279, comma 1, avuto riguardo al rilievo che l'appello è rimedio impugnatorio rivolto contro le sentenze e non contro le ordinanze. Pare infatti doversi applicare la regola più volte ribadita dalla S.C. in altri contesti, di cui si è parlato in precedenza, secondo cui sono impugnabili con l'appello quei provvedimenti che, pur avendo forma di ordinanza, hanno natura sostanziale di sentenza. Deve ritenersi in proposito applicabile la disciplina dell'art. 340.

Possono poi essere impugnate mediante appello le sentenze affette da vizi del procedimento precedentemente riconducibili all'art. 360, n. 4, quali la violazione del principio del contraddittorio (tra le altre, con riguardo al giudizio di cassazione, Cass. n. 727/2008; Cass. n. 18663/2006; Cass. n. 15356/2006), ovvero della corrispondenza fra il chiesto e pronunciato (con riguardo al giudizio di cassazione, v. Cass. n. 552/2012, secondo cui il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato rientra tra i principi informatori della materia). L'art. 91 c.p.c. è norma processuale che il giudice di pace è tenuto ad applicare anche quando decide secondo equità e la cui inosservanza può essere motivo di appello ai sensi dell'art. 339, comma 3, c.p.c., costituendo violazione delle norme sul procedimento (Cass. n. 1108/2022). Da ultimo si è detto che per «norme sul procedimento», la cui violazione, ai sensi dell'art. 339, comma 3, c.p.c., rende appellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, devono intendersi le regole che disciplinano il giudizio di cognizione dinanzi al giudice di pace, regolando l'attività processuale delle parti e del giudice nell'ambito di quel giudizio, e non anche quelle relative ad altri procedimenti, utilizzate dal giudice di pace per la formulazione del proprio giudizio sulla fondatezza della domanda (Cass. n. 27384/2022).

Sembra da escludere, invece, tenuto conto dell'indirizzo formatosi con riguardo all'impugnazione per cassazione, che possa annoverarsi tra i vizi del procedimento la violazione delle regole sul riparto dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c. (Cass. S.U., n. 564/2009, seguita da Cass. n. 22279/2009, secondo cui «la violazione dell'art. 2697 c.c. sull'onere della prova, che pone una regola di diritto sostanziale, dà luogo ad un error in iudicando non deducibile con il ricorso per cassazione avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità»). Anche in tempi più recenti è stato ribadito che la violazione dell'art. 2697 c.c. sull'onere della prova pone una regola di diritto sostanziale e la sua violazione dà luogo a un error in iudicando non deducibile in appello, sì che la sentenza impugnata che abbia invece ritenuto ammissibile l'appello sul punto deve essere cassata senza rinvio, perché il processo non poteva essere proseguito (Cass. n. 9976/2016).

Inoltre, integra vizio di violazione di norme sul procedimento la motivazione apparente, insanabilmente contraddittoria o inesistente, sicché tale vizio è ricompreso nella formula generale dettata dall'art. 339, comma 3 (Cass. n. 10775/2008).

Il motivo di appello con cui si censuri la sentenza del giudice di pace, adìto per una controversia il cui valore non ecceda millecento euro, relativamente alla valutazione di attendibilità e sufficienza probatoria delle circostanze riferite da un teste, è ammissibile, nel regime successivo alla novella dell'art. 339, comma 3,, soltanto ove si deduca il superamento dei limiti costituiti dalle norme costituzionali e dai principi informatori della materia, tra i quali si colloca il principio che affida al giudice il potere di valutare la rilevanza della prova (Cass. n. 31152/2017, che ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto inammissibile il motivo di gravame con cui l'appellante, denunziando la violazione di norme sul procedimento — e, in particolare, degli artt. 115, 116 e 360 — aveva censurato la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese da un teste escusso dal giudice di pace).

La violazione delle norme costituzionali e di rango comunitario e dei principi regolatori della materia

La previsione della violazione delle norme costituzionali e di quelle di rango comunitario fa proprio l'indirizzo giurisprudenziale che considerava il giudice di pace soggetto, laddove decideva secondo equità, al rispetto delle norme costituzionali e comunitarie, per modo che la violazione di tali norme poteva essere pertanto dedotta quale motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 3 (Cass. S.U., n. 716/1999, e la giurisprudenza successiva).

Quanto ai principi regolatori della materia, si deve rammentare che l'art. 113, comma 2,  nel testo introdotto dall'art. 21 l. n. 374/1991, istitutiva del giudice di pace, stabiliva che: «Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede lire due milioni». La norma sostituiva il testo introdotto dall'art. 3 l. n. 399/1984, secondo cui: «Il conciliatore decide secondo equità osservando i principi regolatori della materia». L'eliminazione del riferimento ai principi regolatori della materia ha indotto la S.C. ad affermare che la decisione di equità consistesse in «un giudizio di tipo intuitivo (ancorché fondato sui valori oggettivi preesistenti nella realtà sociale) e non di tipo sillogistico, perciò non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine relazionale tra tale norma e i suddetti valori oggettivi emergenti dalla realtà sociale» (così Cass. S.U., n. 716/1999).

Il comma 2 dell'art. 113, nella lettura datane dalla S.C. venne però dichiarato incostituzionale, per violazione degli artt. 24 e 101, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevedeva che il giudice di pace dovesse osservare «i principi informatori della materia» (non più i «principi regolatori»), sulla considerazione che il giudizio di equità «deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale, il che era del resto ciò che esprimeva il testo previgente della norma, attraverso la previsione dell'obbligo di osservanza dei principi regolatori della materia» (Corte cost. n. 206/2004). Per tale via è sorto il quesito se i principi informatori della materia si identificassero con i principi regolatori.

In proposito alcune decisioni hanno ritenuto che le due nozioni dovessero intendersi come equivalenti (V. in questo senso, p. es., Cass. n. 22537/2007; Cass. n. 6626/2005; Cass. n. 24089/2004). Un secondo indirizzo (per il quale possono vedersi tra le molte Cass. n. 9534/2009; Cass. S.U., n. 21934/2008; Cass. n. 284/2007; Cass. n. 12691/2007; Cass. n. 12147/2006; Cass. n. 26687/2005) ha invece sostenuto che è principio informatore quello «cui si ispira il legislatore nel dettare una determinata disciplina e, in quanto tale, preesiste alla regola; esso costituisce il principio tenuto presente per dettare una determinata regola» e pertanto il giudice di pace «non dovrà individuare la regola equitativa, traendola dalla disciplina in concreto dettata dal legislatore, ma nell'individuazione di detta regola dovrà avere cura che essa non contrasti con i principi cui si è ispirato il legislatore nel dettare una determinata disciplina» (p. es. Cass. n. 382/2005).

L'art. 113, comma 2, è stato poi modificato dall'art. 1 d.l. n. 18/2013, conv., con modif. in l. n. 63/2003, secondo cui: «Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c.». In tale contesto si inserisce la riformulazione del comma 3 dell'art. 339 ad opera dall'art. 1 d.lgs.n. 40/2006, a far data dal 2 marzo 2006, il quale oggi stabilisce che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità sono appellabili, tra l'altro, per violazione «dei principi regolatori della materia».

Tale novella ha dato luogo ad ulteriore dibattito, che ha visto contrapporsi coloro i quali hanno ritenuto che le nozioni di «principi regolatori» e «principi informatori» siano rimaste distinte ed entrambe operanti, e coloro i quali hanno invece affermato che il legislatore, attraverso il riferimento ai principi regolatori, ha inteso prendere le distanze dall'indirizzo giurisprudenziale che si è ricordato, per il quale i principi informatori si differenzierebbero dai principi regolatori. Quest'ultima soluzione (Carratta, La riforma del giudizio in cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 1113) pare condivisibile.

Vale infatti osservare, per un verso, che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità possono essere appellate «esclusivamente» per violazione del principi regolatori, oltre che nelle altre ipotesi contemplate dall'art. 339, comma 3. Dunque è da escludere l'ammissibilità di un appello per violazione dei principi informatori. Per altro verso, neppure può ammettersi il ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, in dipendenza della violazione dei principi informatori: e ciò alla luce del precetto con cui si apre l'art. 360, secondo cui sono soggette a ricorso per cassazione unicamente le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado. A voler mantenere ferma la distinzione tra principi regolatori e principi informatori, dunque, dovrebbe ammettersi che il giudice di pace è tenuto ad osservare gli uni e gli altri, ma che la violazione dei primi può essere corretta mediante l'appello, mentre la violazione dei secondi non è sanzionata.

Resta fermo che l'appello per violazione dei principi regolatori della materia è inammissibile, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., qualora non indichi il principio violato e come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga con esso in contrasto (Cass. n. 18064/2022).

L’appello avverso le sentenze sulle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione

L'art. 23 l. n. 689/1981, sanciva inizialmente l'inappellabilità delle sentenze pronunciate all'esito del giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, sentenze che erano invece esclusivamente ricorribili per cassazione, fatta eccezione per quelle concernenti violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, attinenti ad omesso versamento di contributi assicurativi, che erano ritenute appellabili secondo le regole generali (Cass. n. 15376/2004).

La disposizione è stata successivamente novellata dall'art. 26, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 40/2006, che ha generalizzato l'appellabilità secondo le regole ordinarie delle sentenze sulle opposizioni a sanzioni amministrative, sia se pronunciate dal giudice di pace, sia dal tribunale in composizione monocratica, a seconda delle rispettive competenze stabilite dall'art. 22-bis  l. n. 689/1981: dunque le sentenze del giudice di pace si appellavano dinanzi al tribunale in composizione monocratica, trattandosi di materia estranea alla riserva di collegialità prevista dall'art. 50-bis,  mentre le sentenze del tribunale si appellavano dinanzi alla corte di appello. Anche da ultimo si è dunque ribadito che la sentenza che definisce il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, compresa quella del giudice di pace, è impugnabile con l'appello non sottoposto alle limitazioni di cui all'art. 339, comma 3, c.p.c., in quanto, per espressa disposizione dell'art. 6, comma 12, del d.lgs. n. 150 del 2011, non è applicabile l'art. 113, comma 2, c.p.c., sicché non è possibile una pronuncia secondo equità (Cass. n. 922/2022). Quanto al regime transitorio, in caso di provvedimento pronunciato nel giudizio di opposizione all'ordinanza-ingiunzione emessa prima del 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006, trovava applicazione il rimedio del ricorso per cassazione, essendo invece appellabili i provvedimenti emanati dopo il 2 marzo 2006 (Cass. n. 25073/2010; Cass. n. 6376/2011).

Nel quadro di applicazione della menzionata disciplina si riteneva che il procedimento di appello relativo all'impugnazione di una sentenza resa su opposizione a sanzione amministrativa si dovesse svolgere secondo le regole generali del processo ordinario, e che dovesse essere dunque introdotto non con ricorso, ma mediante atto di citazione tempestivamente notificato alla parte appellata. Si osservava difatti che la disciplina in materia di opposizioni a sanzioni amministrative non conteneva alcuna disposizione specifica in ordine alla forma dell'atto di appello avverso la pronuncia di primo grado, con conseguente applicazione, per quanto non espressamente previsto o derogato, delle norme generali previste dal codice di procedure civile per i giudizi ordinari (per tutte Cass. S.U., n. 2907/2014, la quale ha anche chiarito che l'appello contro sentenze in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, pronunciate ai sensi dell'art. 23 l. n. 689/1981, in giudizi iniziati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, ove erroneamente introdotto con ricorso anziché con citazione, è suscettibile di sanatoria, a condizione che nel termine previsto dalla legge l'atto sia stato non solo depositato in cancelleria, ma anche notificato alla controparte; nello stesso senso da ult., con riferimento alla disciplina previgente, v. Cass. n. 5295/2017). 

Il d.lgs. n. 150/2011, sulla semplificazione dei riti, del 2011, agli artt. 6 e 7, ha disciplinato ex novo il procedimento di opposizione a ordinanza-ingiunzione e quello di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, senza tuttavia dettare disposizioni in ordine al regime delle impugnazioni, con conseguente applicabilità dell'art. 2 del medesimo decreto legislativo, che richiama la disciplina del rito del lavoro, cui sono sottoposte le controversie in tema di opposizione a sanzioni amministrative, con conseguente applicazione, anche per il giudizio di appello del rito del lavoro, esclusi, ai sensi del cit. art. 2, gli artt. 433, 438, comma 2, e 439.

Inapplicabile l'art. 433, l'appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale in materia di opposizioni a sanzioni amministrative, introdotte ai sensi degli artt. 6 e 7 già menzionati, si propone, ai sensi della regola generale dettata dall'art. 341, rispettivamente al tribunale in composizione monocratica e alla corte di appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza, esclusa in ogni caso l'applicabilità del c.d. «foro erariale» di cui all'art. 25 (Cass. S.U., n. 23285/2010Cass. n. 185/2015), sicché deve escludersi, come si diceva, che l'appello contro le sentenze del giudice di pace debba essere proposto presso il tribunale avente sede nel luogo ha sede l'Avvocatura dello Stato.

La soggezione delle opposizioni a sanzioni amministrative al rito del lavoro ha definitivamente sciolto la questione concernente le forme dell'atto introduttivo del giudizio di appello ed il rito applicabile nella materia in questione, atto che deve avere forma di ricorso, secondo la previsione dell'art. 434, mentre il giudizio di appello segue il rito del lavoro, esclusi gli artt. 438, comma 2, e 439 (sulla forma dell'atto d'appello, con riferimento al regime vigente, v. Cass. n. 22390/2015). È il caso di rammentare che anche nel nuovo regime l'errore nella scelta della forma dell'atto, e cioè l'impiego della citazione in luogo del ricorso, può rivelarsi esiziale. Difatti, il giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada, instaurato successivamente all'entrata in vigore del  d.lgs. n. 150/2011, è soggetto al rito del lavoro, sicché l'appello avverso la sentenza di primo grado, da proporsi con ricorso, è inammissibile ove l'atto sia stato depositato in cancelleria (oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica della sentenza ovvero, in caso di mancata notifica) oltre il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., anche laddove l'impugnazione sia stata irritualmente proposta con citazione, assumendo in tal caso comunque rilievo solo la data di deposito di quest'ultima, giacché non può trovare applicazione, onde superare la decadenza maturata a carico dell'appellante, art. 4, comma 5, del citato d.lgs., riferendosi tale norma esclusivamente al mutamento del rito disposto in primo grado e non già in appello (Cass. n. 19298/2017; Cass. n. 1020/2017; Cass. n. 25061/2015).

Non v'è dubbio che il rinvio al rito del lavoro non escluda l'applicazione di quelle norme del rito ordinario concernenti aspetti che il primo non disciplina: e dunque gli artt. 340 (in tema di riserva facoltativa di appello avverso le sentenze non definitive), 346 (sulla riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte), 353 e 354 (sulla rimessione al giudice di primo grado), 355 (sul giudizio incidente di falso).

L'appello, come appena accennato, si propone con ricorso. Il deposito deve avvenire nei termini ordinari a seconda che la sentenza sia stata o meno impugnata, ai sensi degli art. 325 e 327. Non vi sono altre peculiarità che debbano essere qui richiamate. Sembra utile però rammentare che, in mancanza di disposizioni di segno diverso, anche nell'appello avverso sentenze rese su opposizioni a sanzioni amministrative trova applicazione il congegno della dichiarazione di inammissibilità per mancanza di probabilità di accoglimento prevista dagli artt. 348-bis e 348-ter  e richiamata per il rito del lavoro dall'art. 436-bis

Anche l'ordinanza di convalida del provvedimento opposto di cui agli artt. 6 comma 10, lett. b, e 7, comma 9, lett. b, già citati, è appellabile (v., con riferimento al regime previgente, Cass. n. 24748/2009; Cass. n. 182/2011). Si deve inoltre rammentare che, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, il provvedimento con cui viene dichiarata l'inammissibilità per tardività dell'opposizione a sanzione amministrativa deve essere adottato con sentenza previa instaurazione del contraddittorio (v. comma 10, lett. a, dell'art. 6 e comma 9, lett. a, dell'art. 7). Anche tale sentenza è soggetta ad appello, all'esito del quale, in caso di accertata tempestività della proposizione del ricorso in primo grado, il giudice deve decidere la causa nel merito non ricorrendo alcuna delle tassative ipotesi di rimessione al primo giudice contemplate dagli artt. 353 e 354  (Cass. n. 13260/2014; Cass. n. 15827/2014).

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