Codice di Procedura Civile art. 437 - Udienza di discussione 1 .Udienza di discussione1. [I]. Nell'udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Quando non provvede ai sensi dell'articolo 436-bis, il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza [429 1]2. [II]. Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio [241; 2736 n. 2 c.c.], salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. È salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio [233; 2736 n. 1 c.c.] in qualsiasi momento della causa. [III]. Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l'udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all'articolo 423. [IV]. Sono applicabili le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 429. [1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [2] Comma così modificato dall'art. 3, comma 31, lett. c), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito le parole: «Quando non provvede ai sensi dell'articolo 436-bis, il collegio» alle parole: «Il collegio» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.- 4. Le norme dei capi I e II del titolo III del libro secondo e quelle degli articoli 283, 434, 436-bis, 437 e 438 del codice di procedura civile, come modificati dal presente decreto, si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023". InquadramentoOccorre premettere che con la riforma del 2022 (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149) all’art. 437 c.p.c., relativo all’udienza di discussione in grado di appello, è stata apportata una modifica di raccordo tra i due modi di definizione del processo, quello «semplificato» previsto dall’art. 436 bis e quello «ordinario» disciplinato, appunto, dall’art. 437. L'udienza di discussione in appello, secondo il rito del lavoro, ha inizio con la relazione della causa. Essa, tuttavia, non è prescritta a pena di nullità e la sua omissione non inficia, quindi, la validità della successiva sentenza, non essendo tale sanzione contemplata da alcuna specifica norma né derivando la stessa dai principi fondamentali che regolano il processo civile (Cass. n. 23495/2010). Neppure è indispensabile, prima della pronuncia della sentenza, la discussione orale della causa, che, se chiesta, deve essere consentita. Il principio della immodificabilità del collegio determina nullità della sentenza solo se il mutamento della composizione collegiale si sia verificata tra la discussione orale e la decisione della causa; non opera invece rispetto ad un cambiamento avvenuto in sede di assunzione della prova, ovvero di rinvio per trattazione (Cass. n. 18126/2016; Cass. n. 18156/2006; Cass. n. 9968/2005). Nel corso dell'udienza di discussione deve svolgersi preliminarmente alla decisione la riunione degli appelli pendenti avverso la medesima sentenza, nonché la riunione di appelli che riguardino anche sentenze differenti, ma che connesse anche solo per identità di questioni, fanno ritenere opportuna una trattazione congiunta. L'udienza di discussione si conclude con la pronuncia della sentenza e la lettura del dispositivo nella stessa udienza. Il regime dei novaL'incipit del comma 2 della norma in esame, nel fare divieto di nuove domande ed eccezioni, ricalca nella sostanza il testo vigente dell'art. 345, nella parte in cui stabilisce che nel giudizio d'appello non sono ammesse domande nuove, né nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, le quali se proposte, vanno dichiarate inammissibili: sicché sulle nozioni di domanda ed eccezione nuova è sufficiente rinviare al commento all'art. 345. Nondimeno, ai sensi dello stesso art. 345, comma 1, possono essere chiesti gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la medesima (v. p. es. Cass. n. 2853/2005). Il divieto di domande ed eccezioni nuove, d'altro canto, non sta a significare che non possano trovare ingresso del giudizio di impugnazione le eccezioni in senso lato o mere difese, intese a negare l'esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda ovvero il valore probatorio dai mezzi istruttori assunti in primo grado (Cass. n. 13076/2004). Con riguardo al tema della riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte si rinvia al comm. all'art. 346. Quanto ai mezzi di prova, la disciplina sul punto è dettata, in generale, dall'art. 345, comma 3. Nel rito del lavoro, però, trova applicazione la disposizione in commento, che fa divieto di nuovi mezzi di prova, salvo non siano «indispensabili», ma consente in ogni caso l'ammissione del giuramento decisorio. Quanto a quest'ultimo la S.C. ha chiarito che il giuramento decisorio può essere deferito, in grado d'appello, in qualsiasi momento della causa, secondo la testuale previsione dell'art. 437, comma 2, e quindi anche nel corso della discussione orale e fino al compimento di questa, restando pertanto escluso che l'appellante, il quale intenda deferire il giuramento, abbia l'onere di individuare la relativa formula sin dall'atto introduttivo del gravame (Cass. n. 7923/2002). Dopodiché occorre chiedersi cosa debba intendersi per prove indispensabili. A tal riguardo va anzitutto precisato che, fino a poco più di un decennio addietro, la questione dell'individuazione della nozione di indispensabilità si poneva esclusivamente con riguardo alle prove «costituende» e non per quelle « precostituite ». In buona sostanza si sosteneva che le produzioni documentali — da effettuarsi, in grado d'appello, secondo alcuni con il ricorso e secondo altri fino all'udienza di discussione — non avrebbero comportato un rallentamento del processo. L'atteggiamento della giurisprudenza è radicalmente cambiato, e la S.C., Sezioni Unite, ha stabilito che la sanzione di inammissibilità dei nuovi mezzi di prova in appello si riferisce anche di documenti (Cass. S.U., n. 8202/2005). Sicché, nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli art. 416, comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare, e art 437, comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova, fra i quali devono annoverarsi anche i documenti, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento — ispirato alla esigenza della ricerca della « verità materiale », cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento — nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Cass. S.U., n. 8202/2005). La produzione di nuovi documenti, in definitiva, deve essere esclusa salvo il caso: a) « che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione » (Cass. n. 11922/2006); b) che la produzione non sia giustificata « dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione » (Cass. n. 11922/2006); c) che la produzione non abbia ad oggetto documenti « destinati a provare un fatto di cui, con ragionevole attendibilità, non era prevedibile una particolare contestazione » (Cass. n. 775/2003). A queste ipotesi, poi, sembra da aggiungere quella della non imputabilità della mancata produzione, a mente della regola generale stabilita dall'art. 345, comma 3, che, come si vedrà tra breve, è applicabile anche al rito del lavoro. Tornando alla questione dell'indispensabilità di cui all'art. 437, comma 2, dunque, è ormai palese che essa concerne tutti i nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti. Ciò detto, il campo di applicazione della disposizione va in primo luogo delimitato in considerazione di due regole che hanno da tenersi per ferme: a) in tanto può discorrersi dell'ammissione di nuovi mezzi di prova indispensabili, in quanto essi abbiano ad oggetto fatti già tempestivamente allegati, giacché è del tutto ovvio che, attraverso le deduzioni istruttorie, non possano farsi entrare nel processo circostanze la cui deduzione è ormai preclusa; b) in tanto può discorrersi dell'ammissione di mezzi di prova con il carattere della « novità », in quanto essi non siano stati già dedotto in primo grado, quantunque non ammessi o non assunti, nel qual caso nuovi non possono considerarsi. Delimitato il campo di applicazione della nozione di indispensabilità, occorre però dire che essa, nel suo esatto contenuto, è alquanto vaga, giacché la dottrina ha in proposito prospettato soluzioni molteplici ed assai eterogenee — tanto molteplici ed eterogenee che non sembra esservi neppure costrutto ad enumerarle tutte — mentre la giurisprudenza non appare aver fornito definizioni risolutive. L'approccio più appropriato al problema, in definitiva, sembra essere quello di chi, in negativo, ne ha evidenziato l'irresolubilità: cosa debba intendersi per indispensabilità è pressoché impossibile spiegarlo in termini di logica o di analisi del linguaggio (Proto Pisani, 1994, 193). In giurisprudenza, si è sostenuto che sono prove indispensabili quelle dotate « di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia » (Cass. n. 9120/2006). E si è sottolineato che la facoltà del giudice di appello di valutare l'indispensabilità dei mezzi di prova, « quand'anche si ritenesse di carattere discrezionale, non può mai essere esercitata in modo arbitrario, dovendo essere espressa in un provvedimento motivato (Cass. n. 9120/2006). In tema di giudizio di appello, cioè, l'inammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia, impone al giudice del gravame — tenuto conto delle allegazioni delle parti sulle ragioni che le rendano indispensabili e verificatene la fondatezza — di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi (Cass. n. 17341/2015). La nozione di indispensabilità è poi passata al vaglio delle Sezioni Unite, che hanno aderito all’indirizzo secondo cui prova nuova indispensabile è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Cass. S.U., n. 10790/2017). Viene insomma ribadito che indispensabile è la prova non soltanto ammissibile e rilevante, ma che possiede un'efficacia probatoria tale da indirizzare ineluttabilmente la decisione in un senso o nell'altro. La decisione fa giustizia dell'altra soluzione con l'impiego di un argomento non privo di fondamento. L'art. 345, nel testo all'epoca applicabile, prevedeva che potessero ammettersi nuovi mezzi di prova e documenti non solo se indispensabili, ma anche se la parte avesse dimostrato di non poterli proporre o produrre per causa non imputabile (precetto, questo, sopravvissuto nella norma vigente): sicché le nuove prove e i nuovi documenti che si rendono utili o necessari in dipendenza della soluzione della lite adottata dal giudice di primo grado sono comunque ammissibili in appello in quanto non proposti o prodotti per causa non imputabile, con l'ulteriore conseguenza che l'ammissibilità delle prove indispensabili, se ancorata al contenuto della sentenza impugnata (trattandosi di prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità durante il giudizio di primo grado), verrebbe inammissibilmente abrogata per via di interpretazione. Indispensabile dunque è, come riassume la massima, quella idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato. La pronuncia è consapevole che la soluzione accolta fa saltare il sistema delle preclusioni: ma in buona sostanza ritiene che questo sia il male minore. Ed infatti, «il regime delle preclusioni istruttorie non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare rispetto del contradditorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata, tecnica che ben può essere contemperata … con il principio della ricerca della verità materiale». Nulla rileva, d'altronde, che il dispiegamento di nuove prove e documenti in appello possa incidere negativamente sulla ragionevole durata del processo, che «è valore servente rispetto al diritto d'azione di cui all'art. 24 Cost.». Difficile immaginare un esito meno convincente. Le incertezze che avvolgevano l'infelice nozione di indispensabilità non sono neppure scalfite dall'intervento delle Sezioni Unite, peraltro successivamente confermato (Cass. n. 24164/2017; Cass. n. 401/2023) e ribadito anche da ultimo, nel senso che costituisce prova nuova indispensabile quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio (Cass. n. 16358/2024). Si era in passato in più occasioni ribadito, in passato, con riguardo all'indispensabilità, che l'ammissione non fosse mai consentita con riguardo ai mezzi di prova rispetto ai quali le parti fossero già incorse in decadenza nel pregresso grado del giudizio, con la precisazione che era sufficiente, a tal fine, che la decadenza vi fosse stata stata, senza che fosse necessario un espresso provvedimento in tal senso del primo giudice (Cass. n. 11607/2010; Cass. n. 1014/2003). A seguito della citata pronuncia delle Sezioni Unite anche questo argine dettato se non altro dal buon senso è caduto, sicché nulla ormai impedisce che in appello, attraverso il grimaldello dell'indispensabilità, il processo possa in buona sostanza dover ricominciare daccapo, con buona pace di ogni esigenza di razionalità ed efficienza del sistema. Saltata ogni barriera si afferma ormai che nel rito del lavoro, il giudice d'appello, nell'esercizio dei suoi poteri istruttori d'ufficio, in applicazione del precetto di cui all'art. 437, comma 2, deve acquisire e valutare i documenti esibiti nel corso del giudizio dall'appellato, sia pure non in contestualità con il deposito della memoria di costituzione, allorquando detti documenti siano indispensabili, perché idonei a decidere in maniera definitiva la questione controversa tra le parti sulla ammissibilità del gravame (Cass. n. 11994/2018, che cassando con rinvio la sentenza di appello, ha ritenuto ammissibile la produzione dell'originale integrale della sentenza impugnata da parte del lavoratore appellato, dopo che lo stesso aveva prodotto solo una copia parziale e ciò al fine della verifica dell'ammissibilità dell'appello). Ancora, nel rito del lavoro, dovendosi contemperare il principio dispositivo con quello di ricerca della verità, il giudice può ammettere il deposito di atti non prodotti tempestivamente ― qualora li ritenga indispensabili ai fini della decisione ― anche in grado d'appello, ricorrendo ai poteri officiosi di cui all'art. 437 c.p.c., sicché, nel giudizio volto a determinare il minimale contributivo, non può limitarsi a una pronuncia di tardività della produzione del cosiddetto contratto collettivo leader, ma deve esercitare il suo potere-dovere di integrazione probatoria ed acquisire il c.c.n.l. indicato dalla parte onerata della prova, indispensabile a individuare la retribuzione-parametro (Cass. n. 22907/2024). Ed infine il giudizio di appello sembra per questa via trasformarsi in una sorta di safari, in cui, avvalendosi del fiuto di «piste probatorie», il giudice possa a suo libito andare a caccia di materiali istruttori che neppure le parti si sono rappresentate di possedere. Nel rito del lavoro, invero, occorre contemperare il principio dispositivo con quello di verità, pertanto, ai sensi dell'art. 437, comma 2, il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non è oggetto di preclusione assoluta ed il giudice può ammettere, anche d'ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purchè allegati nell'atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative «piste probatorie» emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado (Cass. n. 11845/2018). Il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello, previsto dall'art. 345, comma 3, (fino alla riforma apportata dalla l. n. 134/2012, qui inapplicabile ratione temporis) con riferimento al rito di cognizione ordinaria e dall'art. 437, comma 2, per il processo del lavoro, non attiene al merito della decisione, ma al rito, atteso che la corrispondente questione rileva ai fini dell'accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all'ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte; ne consegue che, quando venga dedotta, in sede di legittimità, l'erroneità dell'ammissione o della dichiarazione di inammissibilità di una prova documentale in appello, la Corte di cassazione, chiamata ad accertare un error in procedendo è giudice anche del fatto, ed è quindi tenuta a stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile (Cass. n. 1277/2016). In tale contesto, si è osservato, il giudice deve vagliare l'ammissibilità di nuovi documenti prodotti in appello sotto il profilo della rilevanza degli stessi in termini di indispensabilità ai fini della decisione, valutandone la potenziale idoneità dimostrativa in rapporto al thema probandum, avuto riguardo allo sviluppo assunto dall'intero processo (Cass. n. 7883/2019). Rimane fuori dall’ambito di applicazione della norma, l'acquisizione di conteggi di parte ad opera del giudice di appello, la quale non integra violazione dell'art. 437, perché attraverso detta acquisizione il giudice non dà ingresso d'ufficio a nuovi mezzi di prova, ma invita la parte a compiere un'attività contabile che ben potrebbe essere svolta dal medesimo o affidata ad un consulente tecnico d'ufficio (Cass. n. 22670/2020). Vi è ancora da chiedersi se la disciplina delle prove non proposte in primo grado per causa non imputabile, dettata dall'art. 345, comma 3, debba applicarsi anche al rito del lavoro. Sembra condivisibile la soluzione positiva data al quesito sulla considerazione che si tratta di una previsione di chiusura di un sistema basato sulle preclusioni, che non può non avere una portata generale. In caso contrario si verrebbe a violare il diritto di difesa della parte, che è costituzionalmente garantito (Trisorio Liuzzi, 235). Sui poteri istruttori officiosi del giudice sembra infine sufficiente rinviare a quanto già detto in precedenza con riguardo al primo grado (v. sub art. 421). Il regime dell'inattività delle parti in appelloRinviando a quanto si è già detto sull'argomento, con riguardo al primo grado del giudizio (v. sub art. 420), occorre dire che, in grado d'appello, vanno distinte le ipotesi di mancata comparizione di entrambe le parti ovvero di mancata comparizione del solo appellante. Questi i termini della questione. Il regime dettato nel rito ordinario per l'inattività delle parti è applicabile anche al rito del lavoro e, ove tale inattività si verifichi nell'udienza prevista dall'art. 437, deve farsi riferimento, rispettivamente, agli artt. 181 (richiamato nel giudizio di secondo grado dal successivo art. 359) e 348, a seconda che nell'udienza in questione non siano presenti entrambe le parti o sia presente solo l'appellato; restando esclusa in entrambe le ipotesi l'immediata decisione della causa, che deve invece essere rinviata ad una nuova udienza, da comunicare nei modi previsti, nella quale il ripetersi dell'indicato difetto di comparizione comporta, nella prima ipotesi, la cancellazione della causa dal ruolo e, nella seconda, la dichiarazione d'improcedibilità dell'impugnazione (Cass. n. 6334/2001). In proposito va inoltre precisato che il provvedimento pronunciato in forma di ordinanza con il quale il giudice di appello (in controversia soggetta al rito del lavoro) dichiari l'improcedibilità dello stesso per la mancata comparizione dell'appellante, ha natura di sentenza, definendo una questione pregiudiziale attinente al processo, con conseguente ricorribilità in cassazione e obbligo della pronunzia sulle spese processuali a norma dell'art. 91 (Cass. n. 2851/2004). Va infine accennato — senza che sia necessario ripercorrere i travagli che la questione aveva sollevato in passato — agli effetti del mancato deposito del fascicolo di parte appellante e della copia della sentenza impugnata. In proposito la S.C., in una pronuncia tra le molte ormai, ha affermato che il mancato deposito del fascicolo di parte e della copia della sentenza impugnata non comporta la improcedibilità dell'appello, ma l'obbligo per il giudice, ove non sia possibile supplire con gli atti di causa, ai fini della decisione del merito della controversia, alla carenza della documentazione, di ordinare all'appellante detto deposito in forza dei poteri istruttori riconosciuti al giudice del lavoro, in appello, di ammettere d'ufficio nuovi mezzi di prova, se ritenuti indispensabili ai fini della decisione della causa (Cass. n. 10707/2002). BibliografiaAndrioli, Barone, Pezzano e Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987; Arieta e De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, Asprella, La nuova modalità di pronuncia della sentenza nel rito del lavoro, in Giust. civ. 2010, 133; Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994; Borghesi, La giurisdizione nel pubblico impiego privatizzato, Padova, 2002; Carratta, Art. 1, in Chiarloni (a cura di), Il nuovo processo societario, Bologna, 2004; Cecchella, La risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, dopo la riforma del 2010: la conciliazione, in Riv. arb. 2011, 373; Cinelli, Dal «collegato 2010» alle «manovre» dell’estate 2011: quali scenari per la giustizia del lavoro?, in Riv. it. dir. lav. 2011, 559; Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, in Riv. dir. proc. 2003, 387; De Cristofaro, Il nuovo regime delle alternative alla giurisdizione statale (Adr) nel contenzioso del lavoro: conciliazione facoltativa ed arbitrato liberalizzato, in Lav. giur. 2011, 57; Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974; Ferroni, Ancora sull’interesse ad agire in mero accertamento nel rapporto di lavoro, in Giust. civ. 1986, I, 248; Lambertucci, La nuova disciplina della conciliazione delle controversie di lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. collegato lavoro): prime riflessioni, in Riv. it. dir. lav 2011, 581; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992; Menchini, Considerazioni sugli orientamenti giurisprudenziali in tema di art. 409, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1983, 505, Montesano e Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002; Montesano e Vaccarella, Diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Noviello, Sordi, Apicella, Tenore, Le nuove controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 2ª ed., Milano, 2001; Proto Pisani, In tema di contraddittorietà tra dispositivo letto in udienza e dispositivo contenuto nella sentenza depositata nel processo del lavoro, in Foro it. 1981, I, 737; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993; Proto Pisani, Appunti sull’appello civile (alla stregua della l. 353/1990), in Foro it. 1994, V, 193; Rizzardo, Accertamento pregiudiziale ai sensi dell’art. 420-bis: la Suprema Corte detta le regole per le istruzioni per l’uso, in Corr. giur. 2008, 1253; Santagada e Sassani, Mediazione e conciliazione nel nuovo processo civile, Roma, 2010; Sassani, Mero accertamento del rapporto di lavoro, interesse ad agire ed art. 34, in Giust. civ. 1984, I, 626; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5ª ed., Milano, 2008; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, 4ª ed., Padova, 2004; Tizi, Osservazioni in tema di mutamento di rito ex art. 426, inGiust. civ. 2001, I, 2134; Tombari Fabbrini, Correzione di errori materiali e processo del lavoro, in Foro it. 2004, I, 1230; Trisorio Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, Napoli, 2005; Vaccarella, Capponi e Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992; Verde e Olivieri, Processo del lavoro e della previdenza, in Enc. dir. XXXVI, Milano, 1987; Vidiri, Art. 420-bis: norma utile o eterogenesi dei fini?, in Giust. civ. 2009, I, 167. |