Codice di Procedura Civile art. 791 bis - Divisione a domanda congiunta 1 .Divisione a domanda congiunta1. [I] Quando non sussiste controversia sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono, con ricorso congiunto al tribunale competente per territorio, domandare la nomina di un notaio ovvero di un avvocato aventi sede nel circondario al quale demandare le operazioni di divisione. Le sottoscrizioni apposte in calce al ricorso possono essere autenticate, quando le parti lo richiedono, da un notaio o da un avvocato. Se riguarda beni immobili, il ricorso deve essere trascritto a norma dell'articolo 2646 del codice civile. Si procede a norma degli articoli 737 e seguenti del presente codice. Il giudice, con decreto, nomina il professionista incaricato eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest'ultimo, nomina un esperto estimatore. [II] Quando risulta che una delle parti di cui al primo comma non ha sottoscritto il ricorso, il professionista incaricato rimette gli atti al giudice che, con decreto, dichiara inammissibile la domanda e ordina la cancellazione della relativa trascrizione. Il decreto è reclamabile a norma dell'articolo 739. [III] Il professionista incaricato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull'immobile a norma dell'articolo 1113 del codice civile , nel termine assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili e dà avviso alle parti e agli altri interessati del progetto o della vendita. Alla vendita dei beni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni relative al professionista delegato di cui al Libro terzo, Titolo II, Capo IV, Sezione III, § 3-bis. Entro trenta giorni dal versamento del prezzo il professionista incaricato predispone il progetto di divisione e ne dà avviso alle parti e agli altri interessati. [IV] Ciascuna delle parti o degli altri interessati può ricorrere al Tribunale nel termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione dell'avviso per opporsi alla vendita di beni o contestare il progetto di divisione. Sull'opposizione il giudice procede secondo le disposizioni di cui al libro secondo, titolo I, capo III-quater; non si applicano quelle di cui al primo comma dell'articolo 281-duodecies. Se l'opposizione è accolta il giudice dà le disposizioni necessarie per la prosecuzione delle operazioni divisionali e rimette le parti avanti al professionista incaricato2. [V] Decorso il termine di cui al quarto comma senza che sia stata proposta opposizione, il professionista incaricato deposita [in cancelleria] il progetto con la prova degli avvisi effettuati. Il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi3. [1] Articolo inserito dall'articolo 76, comma 1, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv., con modif., in l. 9 agosto 2013, n. 98. [2] Comma modificato dall'art. 3, comma 8, lett. s), num. 1), num. 1.1) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha sostituito le parole: «libro secondo, titolo I, capo III-quater» alle parole: «Libro quarto, Titolo I, Capo III-bis» e dall'art. 3, comma 8, lett. s), num. 1), num. 1.2) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha sostituito le parole: «di cui al primo comma dell'articolo 281-duodecies» alle parole: «di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 702-ter»; ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. [3] Comma modificato dall'art. 3, comma 8, lett. s), num. 2) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha soppresso le parole «in cancelleria»; ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. InquadramentoLa disposizione in esame è stata introdotta dall'art. 76, comma 1, d.l. n. 69/2013, decreto c.d. del fare, nell'intento di rendere più celere ed efficiente il procedimento di divisione nell'ipotesi in cui non vi sia contrasto tra le parti sul diritto alla divisione, ne ha previsto una variante semplificata per le ipotesi nelle quali non vi siano questioni giuridiche da risolvere (Busani). Il procedimento deve essere promosso congiuntamente, a pena di inammissibilità, dagli eredi o condomini nonché dagli eventuali creditori ed aventi causa che si siano opposti alla divisione con atto notificato o trascritto. Mediante il ricorso è richiesto all'autorità giudiziaria che il complesso delle operazioni di divisione venga delegato ad un notaio o ad un avvocato aventi sede nel circondario: l'oggetto della delega è quindi molto più ampio di quello ex art. 786. Nella fase iniziale, volta soprattutto alla nomina del professionista delegato e, almeno di regola, dello stimatore il procedimento di divisione a domanda congiunta, viene disciplinato, sotto il profilo processuale, secondo le forme del procedimento in camera di consiglio previste dagli artt. 737 ss. Il professionista delegato, prima di predisporre il progetto di divisione, deve sentire i comproprietari nonché gli altri soggetti legittimati alla proposizione del ricorso congiuntoex art. 791-bis (cfr., sulla necessità di osservare il principio del contraddittorio nelle operazioni di divisione, Cass. n. 22390/2009). I condividenti e gli altri soggetti interessati possono ricorrere al tribunale, che deciderà nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, per come puntualizzato dal d.lgs. n. 164 del 2024 (così risolvendo una questione nel senso cui poteva pervenirsi già in via interpretativa dopo la riforma c.d. Cartabia) senza possibilità di mutamento nel rito ordinario, ove vogliano opporsi alla vendita o contestare il progetto di divisione. PremessaL'articolo in esame è stato introdotto nell'intento di rendere più celere ed efficiente il procedimento di divisione nell'ipotesi in cui non vi sia contrasto tra le parti sul diritto alla divisione, sulle quote ovvero su altre questioni pregiudiziali la cui decisione deve essere demandata all'autorità giudiziaria. A riguardo, è opportuno ricordare che sussiste la comunione quando la proprietà o altro diritto spettano in comune a più persone, sicché il diritto di ciascun membro è limitato, nell'esercizio, da quello degli altri che, nello stesso senso, limita. Al centro si pone la quota c.d. ideale, ossia la misura della partecipazione di ciascun condividente, quota che costituisce anche il parametro per l'esercizio di alcuni diritti. Nell'ambito della comunione ordinaria possono distinguersi: la comunione volontaria, che si costituisce mediante contratto; la comunione incidentale che si costituisce indipendentemente da una manifestazione di volontà dei partecipanti ma può essere liberamente sciolta (esempio tipico di tale comunione è quella ereditaria); la comunione forzosa, tale perché insuscettibile di scioglimento (ad esempio, quella originaria dei condomini sulle parti ed i servizi comuni dell'edificio nonché quella successiva all'esercizio di un diritto potestativo come nella comunione forzosa del muro ex art. 874 c.c.). La divisione di un bene appartenente pro quota a più soggetti può essere convenzionale o giudiziale, i.e. eseguita con un contratto o a seguito di un giudizio. La divisione convenzionale è un contratto, avente forma scritta ad substantiam e soggetto a trascrizione ai fini dell'opponibilità a soggetti terzi, mediante il quale i comproprietari si accordano liberamente tra loro sulla ripartizione del cespite indiviso. La divisione giudiziale è, invece, quella che si realizza a seguito di un procedimento dinanzi all'autorità giudiziaria, che deve svolgersi con la partecipazione necessaria di tutti i condividenti, qualora non sussista un accordo tra gli stessi sulla necessità della divisione, sui diritti di ciascuno e/o sull'entità delle singole quote. Al medesimo risultato di carattere negoziale proprio della divisione convenzionale, i condividenti possono addivenire deferendo congiuntamente le operazioni divisionali ad un notaio che sarà nominato, secondo quanto disposto dall'art. 730 c.c., in mancanza di accordo tra le stesse, mediante decreto del tribunale del luogo dell'aperta successione. In tale ipotesi il provvedimento di divisione conserverà carattere stragiudiziale, assumendo il Notaio le funzioni di arbitratore essendo i poteri decisori attribuiti allo stesso dalla volontà unanime delle parti. Qualora, peraltro, insorgano durante il corso delle operazioni di divisione delegate dalle parti al Notaio contestazioni tra le stesse la decisione sarà rimessa all'autorità giudiziaria che deciderà delle stesse con sentenza. Invero, il procedimento di volontaria giurisdizione, che il notaio, delegato alle operazioni divisionali di comunione ereditaria, promuova con ricorso al presidente del tribunale, per superare difficoltà insorte nel corso delle operazioni medesime, si trasforma in procedimento contenzioso, ove insorgano questioni sui diritti dei coeredi, e, pertanto, in tale evenienza, deve svolgersi in contraddittorio di tutti i condividenti e deve essere definito con sentenza, impugnabile nei modi ordinari (cfr. Cass. II, n. 1520/1988, in Giust. Civ., 1988, I, 1173, con riguardo ad una fattispecie in tema di rifiuto della trascrizione del relativo verbale da parte del conservatore dei registri immobiliari). Il descritto procedimento di divisione convenzionale mediante delega delle operazioni ad un Notaio, sebbene disciplinato dall'art. 730 c.c. nell'ambito dello scioglimento delle comunioni ereditarie, può trovare applicazione anche ai fini dello scioglimento di altre comunioni in ragione del rinvio operato dall'art. 1116 c.c. Il giudizio di scioglimento delle comunioni, sia per le comunioni ordinarie che per quelle ereditarie, può essere incardinato da ciascun condividente per l'esercizio del proprio diritto potestativo alla trasformazione del diritto su quote ideali in comunione in diritti di proprietà individuale su quote concrete. Diversamente, la comunione legale tra i coniugi può sciogliersi esclusivamente in presenza di uno dei presupposti indicati dall'art. 191 c.c., ossia per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l'annullamento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi. La regola della natura potestativa del diritto di ciascun condividente ad ottenere la divisione del bene in comunione è poi derogata, anche nell'ambito della comunione ordinaria, in tema di condominio in quanto, ai sensi dell'art. 1119 c.c., le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, salvo che la stessa possa eseguirsi senza rendere meno gravoso l'esercizio del diritto da parte di ciascun partecipante alla comunione e, comunque, a seguito della riforma realizzata dalla l. n. 220/2012, previo consenso di tutti i condomini. Il procedimento giudiziale di divisione si caratterizza per una scansione in differenti fasi, costituite dalla fase di accertamento del diritto alla divisione e da quella, successiva ed eventuale presupponendo una pronuncia affermativa dell'esistenza del diritto di ciascun partecipante alla comunione, di specificazione del contenuto di tale diritto. Il giudizio di scioglimento delle comunioni, come espressamente disposto dall'art. 784, deve svolgersi nel contraddittorio tra tutti i condividenti, onde evitare che la pronuncia conclusiva, disponendo su diritti di soggetti che non abbiano partecipato al giudizio, sia inutiliter data. Nel giudizio di divisione della cosa comune, pertanto, il risultato finale della trasformazione dei diritti pro quota dei singoli partecipanti in altrettanti diritti individuali di proprietà esclusiva su concrete e determinate porzioni di beni comuni non è immediato come avviene nel caso di divisione convenzionale, attuandosi attraverso tre fasi fondamentali e progressive, ossia la fase della c.d. assificazione, quella della formazione delle quote e quella della attribuzione. Peraltro, sia nell'ipotesi di divisione convenzionale che di divisione giudiziale, l'atto di divisione non produce effetti traslativi dei diritti derivanti dallo stesso, avendo carattere soltanto dichiarativo ed essendo quindi inidoneo a fornire autonomamente la prova dell'acquisto della proprietà nei confronti dei terzi. La natura del giudizio di divisione è tradizionalmente controversa in dottrina come in giurisprudenza. Il dibattito, in particolare, si fonda sulla natura contenziosa o meno di tale giudizio. La questione, peraltro, non è priva di importanti conseguenze pratiche, essendo correlata alla risoluzione della stessa l'applicabilità, ad esempio, al procedimento giudiziale di divisione delle disposizioni giuridiche dettate per il giudizio ordinario di cognizione dagli artt. 163 e ss., tra le quali rientrano anche le norme sulle preclusioni assertive. La problematica si riconnette alla peculiare struttura del giudizio divisorio, in quanto non necessariamente destinato a concludersi con una sentenza potendo, come si è autorevolmente evidenziato, essere definito aliunde nell'ipotesi di intervenuto accordo tra le parti sulla formazione dei lotti, deciso mediante ordinanza dichiarativa dell'esecutività del progetto di divisione o,ancora, “trasferito” dalle aule giudiziarie allo studio del Notaio delegato per ritornare dinanzi al giudice soltanto ai fini dell'emanazione di un decreto concesso pressoché automaticamente in ordine al predisposto progetto divisorio. In sostanza, infatti, il giudizio divisorio si conclude con una sentenza e può quindi ad esso tributarsi natura propriamente contenziosa esclusivamente qualora le parti, nel corso dello stesso, non pervengano ad alcun accordo neppure sull'entità delle singole quote e sulla formazione dei lotti. Per vero, nella diversa ipotesi in cui non sorgano contestazioni sul progetto di divisione predisposto dal giudice (ovvero dal notaio delegato), il procedimento si concluderà mediante ordinanza non impugnabile dichiarativa dell'esecutività dello stesso. In tale ipotesi potrebbe pertanto dubitarsi della natura contenziosa del procedimento divisorio. Tenendo conto delle evidenziate peculiarità del giudizio di divisione, la giurisprudenza ha quindi assunto una posizione pragmatica sulla questione affermando più volte il principio per il quale il procedimento di divisione può svolgersi in forme contenziose o non contenziose in dipendenza dell'atteggiamento delle parti a seguito della formazione del progetto di divisione (Cass. n. 13701/2011). L'art. 786 consente al giudice, nell'esercizio di un proprio potere discrezionale (e, quindi, senza necessità del consenso delle parti interessate), di delegare, anche nel corso di esse, la direzione delle operazioni di divisione ad un Notaio. In questo caso, il Notaio provvederà a dare avviso alle parti, ossia ai condividenti ed ai creditori intervenuti, almeno cinque giorni prima, del luogo, del giorno e dell'ora in cui le operazioni avranno inizio. Laddove nel corso delle operazioni divisionali delegate sorgano contestazioni sulle stesse, sempreché le stesse non attengano a modalità e criteri già stabiliti dal Giudice nell'ordinanza di delega, il notaio redigerà processo verbale trasmesso al giudice che provvederà sulle stesse con ordinanza, previa fissazione di un'udienza dinanzi a sé da svolgersi nel contraddittorio tra le parti. Anche le operazioni di divisione dirette dal Notaio sono finalizzate alla predisposizione del progetto delle quote e dei lotti: se il progetto viene approvato dalle parti, il delegato rimetterà il relativo verbale all'autorità giudiziaria per l'approvazione con decreto, mentre, in mancanza, sarà il giudice a decidere delle contestazioni previo contradditorio tra le parti stesse. A differenza di quanto avviene nella divisione giudiziale espletata dinanzi al Giudice ai sensi dell'art. 789, comma 3, il progetto divisionale predisposto dal Notaio può ritenersi approvato dalle parti soltanto in presenza di un accordo espresso in tal senso e non laddove, semplicemente, manchino contestazioni. L'estrazione finale dei lotti potrà avvenire - peraltro secondo regole generali operanti anche nell'ipotesi di progetto divisionale redatto dal giudice istruttore (cfr. Trib. Milano 4 marzo 2000, in Giur. it., 2000, 1844) - da parte del Notaio soltanto dopo l'emanazione della relativa ordinanza del giudice o di sentenza passata in giudicato, ove siano sorte contestazioni. La divisione giudiziale delegata al Notaio si realizza con il verbale mediante il quale lo stesso professionista dà atto del risultato del sorteggio eseguito, mentre il provvedimento del giudice istruttore previsto dall'art. 195 disp. att. per l'attribuzione delle quote è privo di qualsiasi valore decisorio ed ha natura formale ed estrinseca essendo volto a dare conto del risultato del semplice controllo esterno di un atto che seppur caratterizzato dalla volontà degli interessati si inquadra tuttavia in un procedimento di divisione giudiziale (cfr. Cass. n. 11758/1992). Le delineate modalità della tradizionale delega al Notaio delle operazioni di divisione, tuttavia, non alterano la natura del procedimento divisorio né i poteri del Giudice “delegante” nell'ambito dello stesso. In particolare, il Notaio delegato: può ricevere la delega all'effettuazione soltanto di singole operazioni divisionali e non lo svolgimento dell'intera procedura; non può nominare un esperto per procedere alla formazione della massa da dividersi e delle quote; non può assumere mezzi di prova; può disporre la vendita soltanto nella misura in cui non sorgano contestazioni. Alla luce di quanto premesso, il procedimento disciplinato dalla disposizione in esame appare una variante semplificata del procedimento di divisione giudiziale per le ipotesi nelle quali non vi siano questioni giuridiche da risolvere (Busani). Gli indicati obiettivi vengono perseguiti consentendo che, su ricorso congiunto delle parti, il giudice possa delegare la massima parte delle operazioni necessarie per pervenire alla definizione del procedimento di divisione ad un notaio o professionista aventi sede nel circondario e rendendo quindi “residuale”, in alcune parti seguendo espressamente il modello delle vendite delegate immobiliari, l'intervento dell'autorità giudiziaria. La norma innova quindi significativamente l'assetto tradizionale nel quale la possibilità per il giudice di delegare la direzione di una parte delle operazioni divisionali ad un notaio ex art. 786 era considerata come mera deroga al personale esercizio, da parte del giudice stesso, della direzione delle operazioni, costituente la regola (Cass. n. 254/1983). PresuppostiIn generale, oltre all'accordo di tutte le parti in ordine alla scelta di promuovere lo stesso, il procedimento alternativo semplificato introdotto mediante l'art. 791-bis ha quale presupposto generale l'insussistenza di controversie tra le parti stesse su questioni giuridiche afferenti la divisione della massa la risoluzione delle quali non potrebbe essere demandata, vertendo su diritti soggettivi in contesa, che all'autorità giudiziaria. Pertanto, il procedimento disciplinato dalla norma in esame, non avendo quale presupposto diritti soggettivi in contesa tra i partecipanti alla comunione, potrebbe essere ricondotto, di conseguenza, nell'ambito della giurisdizione volontaria, almeno laddove non insorgano controversie nel corso delle operazioni divisionali rimesse al professionista delegato (cfr. Di Cola, § 2). Presupposto fondamentale per la proposizione del ricorso di divisione a domanda congiunta è l'insussistenza di questioni giuridiche da risolvere in ordine al diritto alla divisione, alla consistenza delle quote ovvero su altre questioni pregiudiziali. In primo luogo, pertanto, è necessario che il diritto alla divisione sia certo e che sulla ricorrenza dello stesso non vi sia alcun contrasto tra le parti. Fermo che ciascun condividente può attivare il procedimento giudiziale di divisione qualora voglia addivenire allo scioglimento della cosa in comunione, possono infatti sussistere contestazioni in ordine alla ricorrenza di circostanze impeditive della richiesta divisione. Una prima ipotesi in cui tale situazione può in concreto verificarsi è quella disciplinata dall'art. 713 c.c. in tema di divisioni ereditarie nell'ambito delle quali il diritto di ciascun coerede di richiedere sempre la divisione della massa comune può essere condizionato dal testatore: a) alla circostanza che sia trascorso un anno dal raggiungimento della maggiore età da parte di tutti gli eredi istituiti, qualora uno o più di essi sia minore di età al momento di apertura della successione; b) in generale, al decorso di un periodo non eccedente un quinquennio dalla propria morte. Sotto altro profilo, l'art. 715 c.c., sempre in tema di divisione ereditaria, stabilisce che la divisione, salvo provvedimento dell'autorità giudiziaria che consenta la stessa con le opportune cautele, non può aver luogo prima della nascita del concepito chiamato all'eredità né nel corso della pendenza del giudizio volto all'accertamento della filiazione di un soggetto il quale, in caso di accoglimento della domanda, sarebbe anch'egli chiamato a succedere al de cuius. Nell'ambito delle comunioni non ereditarie, l'art. 1111, comma 2, c.c. consente ai condividenti di stipulare tra loro il patto di rimanere in comunione per un periodo di dieci anni, patto opponibile, entro tali limiti temporali, anche agli aventi causa degli stessi. Ricorrente può essere il contenzioso in ordine all'accertamento del diritto allo scioglimento della comunione nell'ipotesi di comunione legale tra coniugi: invero, potendo cessare lo stato di comunione soltanto in presenza di una delle fattispecie indicate dall'art. 191 c.c., ne deriva che, ove non sia integrata alcuna di tale ipotesi, non sussisterà diritto alla divisione da parte di uno dei coniugi. A riguardo occorre peraltro tener presente che, nella più recente giurisprudenza di legittimità, si ritiene ammissibile la domanda di divisione giudiziale proposta anche qualora uno dei presupposti della stessa, come ad esempio il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale tra coniugi, non sia integrato, purché la domanda sia stata accolta con pronuncia definitiva prima della definizione del giudizio di divisione (cfr. Cass. n. 4757/2010). Diversamente, secondo l'impostazione tradizionale della medesima S.C., poiché lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verifica ex nunc soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non spiegando effetti al riguardo il precedente provvedimento presidenziale (provvisorio e funzionalmente limitato) con cui i coniugi siano stati autorizzati ad interrompere la convivenza, né, a maggior ragione, il semplice fatto in sé della separazione dei coniugi, è improponibile la eventuale domanda di scioglimento della comunione proposta prima della formazione del giudicato sulla separazione (v., tra le altre, Cass. I, n. 19447/2005). Comunione c.d. forzosa è, inoltre, quella tra i condomini rispetto alle parti ed ai servizi comuni degli edifici. A riguardo, invero, l'art. 1119 c.c. pone una presunzione di indivisibilità - che ha dato tradizionalmente luogo ad un rilevante contenzioso in tema sussistenza del diritto alla divisione - in quanto tale presunzione può essere superata dimostrando che la divisione non renderebbe più gravoso l'esercizio del diritto da parte di ciascun condomino. Nella prospettiva della S.C. la maggiore o minore comodità di uso, cui fa riferimento l'art. 1119 c.c. ai fini della divisibilità delle cose comuni va valutata, oltre che con riferimento all'originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione (cfr., tra le altre, Cass.II, n. 867/2012). Peraltro, in presenza di tale consenso, proprio questa potrebbe costituire materia di applicazione del procedimento di divisione ex art. 791-bis la cui introduzione postula, per l'appunto, la sottoscrizione del ricorso da parte di tutti i condividenti e l'insussistenza di qualsivoglia controversia sul diritto alla divisione. Ai fini della percorribilità della divisione congiunta ex art. 791-bis, inoltre, non deve sussistere alcun contrasto tra i condividenti in ordine all'entità delle quote di ciascuno sulla cosa comune, ossia alla misura del diritto vantato da ognuno di essi sul bene allo stato indiviso. In una situazione siffatta, l'esigenza di richiedere, pur con le odierne modalità semplificate, l'intervento del giudice in luogo della divisione convenzionale può giustificarsi principalmente per le seguenti ragioni: - sussistenza di una controversia tra le parti sul valore della massa da dividere; - contrasto tra in condividenti sui criteri da utilizzare per la determinazione del valore complessivo del compendio indiviso; - mancato accordo tra i comproprietari, pacifica la consistenza delle quote di ciascuno, sugli eventuali conguagli da disporre non potendosi suddividere la massa in quote pari ai diritti individuali; -controversia sulle spese sostenute dal comproprietario quale gestore della cosa comune per la conservazione della stessa. In terzo luogo, il ricorso dei comproprietari all'autorità giudiziaria volto all'attivazione del procedimento semplificato di divisione a domanda congiunta può essere precluso laddove ricorrano altre questioni pregiudiziali la cui natura propriamente giuridica, impedisce ex se che la risoluzione delle stesse venga delegata ad un Notaio o ad altro professionista. In generale, molteplici possono essere le questioni pregiudizi che possono confluire nel giudizio di divisione, nel quale è ammessa, peraltro, anche la proponibilità di vere e proprie domande, di natura successoria o contrattuale, la cui decisione è suscettibile di incidere sulla concreta ripartizione della massa comune. Tra le domande di natura successoria possono annoverarsi l'azione di riduzione, l'impugnativa del testamento, la collazione e, tra quelle di natura contrattuale, l'accertamento della simulazione dell'acquisto e l'annullamento del titolo traslativo della proprietà per vizi della volontà. Tra le “altre questioni pregiudiziali” la cui ricorrenza può impedire la proposizione del ricorso congiunto di divisione rientrano, inoltre, le problematiche afferenti la legittimazione attiva di alcune delle parti: fattispecie emblematica è quella del legittimario pretermesso che non abbia previamente sperimentato con successo l'azione di riduzione delle disposizioni lesive della propria quota di riserva e che, di conseguenza, a differenza di quanto previsto dal codice civile del 1865, non può considerarsi erede. Nella giurisprudenza più risalente prevaleva a riguardo l'impostazione, fondata sulla peculiare struttura del procedimento di scioglimento delle comunioni rispetto all'ordinario giudizio di cognizione di carattere contenzioso, per la quale nell'ipotesi di domanda di divisione giudiziale dei beni, tutte le questioni che sorgono nel corso del giudizio vanno esaminate nell'insieme dei rapporti reciproci dei condividenti e, quindi, come incidenti relativi all'unico, inscindibile, giudizio principale, con la conseguenza che, ad esempio, non possono ritenersi nuove, e perciò precluse, la domanda di simulazione dell'atto di vendita di un bene effettuato dal de cuius in favore di uno dei coeredi e la conseguente domanda di collazione del bene nella massa proposte successivamente nel corso del giudizio di primo grado, in quanto entrambe sono volte a far rientrare nell'asse ereditario il bene fittiziamente compravenduto (Cass. II, n. 2568/2003). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno successivamente affermato l'opposto principio in forza del quale in tema di giudizio di divisione, le caratteristiche del relativo procedimento - rappresentate dalla finalità che esso persegue, di porre fine alla comunione con riferimento all'intera massa da dividere e dalla possibilità che esso si concluda, in luogo che con sentenza, con ordinanza che, sull'accordo delle parti, dichiari esecutivo il progetto divisionale - non sono di per sé sufficienti a giustificare deroghe alle preclusioni tipiche stabilite dalla legge per il normale giudizio contenzioso; pertanto, vanno dichiarate inammissibili, ai sensi dell'art. 167, comma 2, le domande di nullità o di simulazione dirette a far rientrare determinati beni nell'asse ereditario proposte, per la prima volta, in sede di discussione del progetto divisionale (Cass. S.U., n. 14109/2006, , in Corr. mer. 2006, n. 12, 1427). LegittimazioneIl procedimento di divisione semplificato in esame deve essere proposto congiuntamente dagli eredi o condomini nonché dagli eventuali creditori ed aventi causa che si siano opposti alla divisione con atto notificato o trascritto. Se la comunione da sciogliere ha natura ereditaria, il ricorso congiunto volto a promuovere il procedimento divisorio semplificato ex art. 791-bisdeve essere sottoscritto da tutti gli eredi. Nella nozione di erede rilevante anche a tali fini rientrano, peraltro, soltanto coloro i quali per successione legittima o per istituzione testamentaria siano chiamati a succedere al de cuius a titolo universale, essendo agli stessi attribuita una quota del patrimonio dello stesso unitariamente considerato. In altri termini, è erede colui il quale sia stato chiamato a succedere nella universalità dei beni o in una quota di essi, legatario chi si veda attribuito un bene singolo o un complesso di beni determinato. Non possono invece considerarsi eredi: - il legatario, cui sono attribuiti soltanto singoli individuati beni;- l'usufruttuario, in quanto, di regola, qualora il testatore attribuisca ad un soggetto il solo diritto di usufrutto, il beneficiario non succede in universum ius del defunto e, pertanto, non acquista la qualità di erede, salva la peculiare ipotesi di attribuzione testamentaria dell'usufrutto generale su tutti i beni, che comprendendo l'universum ius ai sensi dell'art. 588 c.c. e dunque conferendo al designato un titolo potenzialmente idoneo ad estendersi ad ogni bene, configura invece un'istituzione di erede (cfr. Cass. II, n. 13310/2002, in Riv. not. 2003, 234 ed in Il civilista 2011, n. 4, 10, con nota di Carbone);- il legittimario pretermesso, che non può considerarsi erede sino al vittorioso esperimento dell'azione di riduzione; -il creditore il quale abbia impugnato la rinunzia all'eredità del proprio debitore (cfr. Trib. S. Angelo Lombardi 28 gennaio 2004, in Giur. mer. 2004, n. 5, 887, nt. Tedesco, per la quale l'impugnazione della rinunzia all'eredità del debitore, in quanto azione strumentale e cautelare preordinata all'esecuzione sui beni ereditari fino a concorrenza del credito, non attribuisce al creditore la qualità di erede, di talché è inammissibile, per difetto di legittimazione attiva, la domanda di divisione ereditaria promossa dal creditore dell'erede rinunciante che abbia ottenuto, ex art. 524 c.c., l'autorizzazione ad accettare l'eredità in nome ed in luogo dell'erede medesimo). Alla locuzione “condomini” possono essere ricondotti i condividenti nell'ambito delle comunioni non ereditarie. Pertanto, in primo luogo rientrano in tale generale nozione i condividenti nell'ambito delle comunioni ordinarie, ossia i soggetti i quali siano titolari, in modo indiviso, di un diritto di proprietà o di altro diritto reale su uno o più beni: sussiste invero la comunione quando la proprietà o un altro diritto spetta in modo comune a più persone. Sino allo scioglimento della comunione mediante convenzione o a seguito di divisione giudiziale il diritto di ciascuno, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera cosa comune, e non una frazione della stessa, sicché, ad esempio, ciascun comproprietario potrà agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la tutela della cosa comune, nei confronti dei terzi o di un singolo condomino. Pertanto, il diritto non spetta ai singoli, quanto alla collettività. Peculiare forma di comunione ordinaria, c.d. forzosa, è quella che si instaura, poi, in relazione alle parti ed ai servizi comuni degli edifici, tra i condomini ex artt. 1117 ss. c.c. Comunione legale è quella, inoltre, che si costituisce, salva la specifica scelta di altro regime mediante convenzione ex art. 162 c.c., tra i coniugi dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975. Tale comunione, a differenza delle altre, è una comunione senza quote, nell'ambito della quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente a oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, sicché, come più volte ribadito dalla S.C., nei rapporti con i terzi ciascun coniuge mentre non può disporre della propria quota, bene può disporre dell'intero bene comune, mentre il consenso dell'altro coniuge si configura come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell'art. 184 c.c. nel termine di un anno dalla conoscenza dell'atto o dall'atto della trascrizione (cfr. Cass. II, n. 2202/2013, in Guida dir., 2013, n. 13, 72). La comunione coniugale, peraltro, può essere sciolta soltanto in presenza dei presupposti indicati dall'art. 191 c.c. Il ricorso di divisione a domanda congiunta deve essere inoltre sottoscritto, sia nell'ipotesi di comunione ereditaria che in quella di comunione non ereditaria, dai creditori ed aventi causa di un partecipante alla comunione i quali abbiano notificato o trascritto un atto di opposizione alla divisione. In dottrina è stato evidenziato che gli aventi causa di un partecipante alla comunione sono coloro i quali vantino, al momento della divisione, un diritto reale trasferito o costituito dal compartecipe sulla cosa o su una delle cose comuni (Branca, in Comm. S. B., III, 1972, 299 ss.). Tenendo conto del disposto dell'art. 1113 c.c., si è osservato, in ordine all'individuazione dei creditori ed aventi causa dai partecipanti alla comunione che devono sottoscrivere il ricorso volto ad attivare il procedimento di divisione a domanda congiunta che, sebbene per i creditori, la norma in esame faccia riferimento solo ai creditori i quali abbiano notificato o trascritto l'opposizione alla divisione prima dell'inizio del procedimento, tuttavia, atteso il disposto del comma 3 dell'art. 1113 c.c. nella parte in cui prevede che devono essere chiamati ad intervenire nel giudizio di divisione i creditori iscritti, ossia quelli che vantano un diritto di prelazione sul bene risultante dai pubblici registri, è ragionevole ritenere che anche tali soggetti debbano essere chiamati a sottoscrivere il ricorso congiunto in modo che lo scioglimento della comunione possa produrre effetti nei loro confronti e stante l'eadem ratio sotto tale profilo del primo e del terzo comma dell'art. 1113 c.c. Per le medesime ragioni, dovrà ritenersi, seguendo tale impostazione, che nel novero degli aventi causa che devono sottoscrivere il ricorso congiunto di divisone rientrino anche i soggetti i quali abbiano acquistato diritti sull'immobile in virtù di atti trascritti prima della trascrizione della divisione ovvero di quella della domanda (Giordano). CompetenzaIl ricorso congiunto di scioglimento della comunione deve essere depositato dinanzi al tribunale competente per territorio. Non viene quindi stabilito alcun nuovo criterio di collegamento della competenza territoriale né lo stesso potrebbe desumersi dalla disciplina del procedimento nelle forme camerali ex artt. 737 e ss. Invero, con riguardo ai procedimenti in camera di consiglio, non è previsto un canone unitario di individuazione del giudice territorialmente competente e, di regola, è la legge che nel prevedere l'adozione del rito camerale individua al contempo il giudice competente, dovendo, in difetto, operare il foro del luogo nel quale è domiciliato il soggetto della cui situazione giuridica si discute o comunque interessato al provvedimento. Nella fattispecie in esame, peraltro, il riferimento al giudice territorialmente competente operato dall'art. 791-bis deve essere ragionevolmente inteso quale richiamo alle regole operanti per l'individuazione del giudice competente nelle controversie di divisione incardinate ex artt. 784 e ss. Ne deriva che giudice competente per territorio è, ai sensi dell'art. 22 quello del luogo dell'aperta successione, i.e. il luogo dell'ultimo domicilio del de cuius avendo riguardo al disposto dell'art. 456 c.c., nell'ipotesi di comunione ereditaria. La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie deve essere infatti stabilita, ex artt. 22 e 456 c.c., avendo riguardo al luogo in cui il de cuius aveva al momento della morte l'ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione il luogo ove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari (Cass. n. 7750/1999). In proposito costituisce poi jus receptum il principio per il quale, in tema di competenza territoriale, per cause tra coeredi, che l'art. 22, comma 1 n. 1, devolve al giudice del luogo in cui si è aperta la successione, debbono intendersi non soltanto le controversie che riguardano diritti caduti in successione, ma ogni causa avente un oggetto attinente alla qualità di erede, per la quale la legittimazione attiva o passiva delle parti discenda necessariamente da tale condizione (cfr., ex ceteris, Cass. n. 18334/2006; Cass. n. 2249/2000). Sotto altro profilo, ai fini dell'operatività del criterio di collegamento della competenza per territorio stabilito dall'art. 22, n. 1, per le controversie in tema di divisione ereditaria, deve venire in rilievo l'eredità intesa come universalità di rapporti attivi e passivi facenti capo al de cuius. Ne consegue, quindi, che tale criterio non opera: -per la domanda di divisione di un determinato immobile ricompreso soltanto in parte nell'eredità (Cass. n. 4260/1978); -per la domanda di accertamento della concreta porzione di un immobile gravata da usufrutto uxorio, prescindendo la stessa dallo scioglimento della comunione ereditaria (Cass. n. 1143/1978). Il luogo dell'aperta successione coincide con quello dell'ultimo domicilio del de cuius avendo riguardo al disposto dell'art. 456 c.c. L'ultimo domicilio del de cuius deve essere individuato il luogo ove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari. Tale foro, come è stato chiarito anche in sede pretoria, ha natura esclusiva ma è derogabile, alla medesima stregua di quello previsto dall'art. 21 c.p.c. per le controversie in tema di scioglimento delle comunioni non ereditarie. Invero, giudice competente a conoscere della domanda proposta ai sensi della norma in esame è quello del luogo dove si trovano i beni comuni (o la maggior parte di essi) per le comunioni non ereditarie ex art. 21 c.p.c. Non si può trascurare che, almeno in accordo con la più recente giurisprudenza di legittimità, un tema di competenza territoriale per cause tra coeredi, le domande di divisione di eredità di diversa provenienza o di scioglimento di una comunione ordinaria nei confronti di soggetti anche parzialmente diversi non possono, per l'art. 22 c.p.c., essere proposte cumulativamente se appartengono alla competenza territoriale di giudici diversi in quanto lo spostamento di competenza secondo il criterio del cumulo soggettivo non è possibile perché l'art. 33 c.p.c. riguarda il foro generale delle persone fisiche ed, inoltre, l'art. 104 c.p.c., nel prevedere che domande formulate nei confronti della stessa parte, anche non altrimenti connesse, ed appartenenti alla competenza di giudici diversi possano essere proposte davanti al medesimo giudice a causa del vincolo di connessione soggettiva, consente la deroga, per espresso richiamo al comma 2 dell'art. 10 c.p.c., alla sola competenza per valore, con la conseguenza che, se una delle domande appartiene alla competenza territoriale di un giudice diverso, la deroga per soli motivi di connessione soggettiva non è consentita (Cass. n. 4862/2007; Cass. n. 1213/2003; in senso contrario Cass. n. 215/1985). Come evidenziato sia per le domande di scioglimento della comunione ereditaria sia per quelle di scioglimento della comunione ordinaria, rispettivamente gli artt. 22 e 21, stabiliscono un foro esclusivo ma derogabile. Nel giudizio ordinario contenzioso di divisione ne deriva che, da un lato, il Giudice adito non potrà rilevare d'ufficio il proprio difetto di competenza, neppure alla prima udienza e, da un altro, il convenuto dovrà proporre l'eccezione di incompetenza nella comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata, ex art. 167, entro venti giorni prima dall'udienza di trattazione. Ai fini della proposizione dell'eccezione di incompetenza, peraltro, trattandosi di foro esclusivo, non dovranno essere necessariamente contestati tutti i fori alternativamente concorrenti. Peraltro, tali principi non possono trovare applicazione anche nell'ambito del procedimento di divisione a domanda congiunta poiché lo stesso segue le forme del procedimento in camera di consiglio, sicché la competenza territoriale è inderogabile ai sensi dell'art. 28. Deriva da quanto precede, tenuto altresì conto degli ampi poteri del Giudice nella direzione del procedimento camerale e dell'inoperatività delle norme in tema di preclusioni processuali, che il Giudice stesso possa rilevare in ogni momento, d'ufficio, la propria incompetenza, salva la necessità, per il rispetto del principio del contraddittorio, di sottoporre previamente ai ricorrenti la questione. Invero, la natura volontaria del procedimento di divisione a domanda congiunta – nell'ambito del quale, difatti, soltanto laddove vengano sollevate contestazioni da parte dei soggetti i cui diritti sono incisi dagli atti e provvedimenti assunti si instaurano parentesi cognitive di tipo contenzioso – induce a ritenere inapplicabile il principio secondo cui la disposizione contenuta nel comma primo dell'art. 38, là dove ha introdotto una generale barriera temporale, di natura preclusiva, ai fini della possibilità di rilevare l'incompetenza per materia, per valore o per territorio nei casi previsti dall'art. 28, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi contenziosi di cognizione ordinaria, ma anche a quelli di volontaria giurisdizione, da trattare quindi in camera di consiglio, nei quali l'intervento del giudice trova peraltro il suo presupposto in una situazione conflittuale che impedisce ai titolari degli interessi coinvolti di provvedere direttamente alla loro regolamentazione (cfr. Cass. n. 8115/2003). Contenuto e sottoscrizione del ricorsoCon il ricorso in esame gli istanti possono chiedere all'autorità giudiziaria che il complesso delle operazioni di divisione venga delegato ad un notaio o ad un avvocato aventi sede nel circondario. Pur nel silenzio della norma in esame, il ricorso deve individuare, almeno nel nucleo essenziale, la domanda giudiziale proposta, costituita, quanto al petitum, dalla richiesta di divisione di uno o più beni in comunione e, rispetto alla causa petendi, la sussistenza di un diritto di proprietà indivisa sulla massa da dividere.La proposizione di ulteriori domande, come quelle pregiudiziali di carattere successorio pure ammesse nel procedimento di divisione giudiziale, dovrebbe condurre alla declaratoria di inammissibilità in limine litis del ricorso volto di divisione a domanda congiunta che ha – come già rilevato - quale presupposto generale l'insussistenza di qualsivoglia controversia tra le parti in ordine al diritto alla divisione, all'entità delle quote ed alle altre questioni pregiudiziali. Si prevede che le sottoscrizioni apposte in calce al ricorso possono essere autenticate, se le parti lo richiedono, da un notaio o da un avvocato, di talché ciò rientra in una facoltà e non in un obbligo delle parti. Pertanto, si è evidenziato che non deve ritenersi necessario il patrocinio di un avvocato per la proposizione del ricorso per la divisione a domanda congiunta, istituto da ricondurre nell'ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione che, pur avendo ad oggetto diritti soggettivi, ha il proprio necessario presupposto nella mancanza di contestazioni sull'an della divisione, sulle quote ovvero su altre questioni pregiudiziali (Giordano). Invece per altri la possibilità di un'autenticazione delle sottoscrizioni apposte in calce al ricorso introduttivo si giustifica tenendo conto che la sottoscrizione del ricorso da parte di tali soggetti non assume valenza soltanto procedimentale immediata quanto, altresì, “sostanziale, con efficacia posticipata al termine delle operazioni divisionali e condizionata al buon esito delle medesime” in relazione all'accordo di divisione sul progetto predisposto dal professionista incaricato (Di Cola, La divisione su domanda, § 2). Il ricorso volto ad introdurre il procedimento di divisione a domanda congiunta qualora abbia ad oggetto beni immobili deve essere trascritto ai sensi dell'art. 2646 c.c., norma il cui comma 2 stabilisce, invero, che deve essere trascritta la domanda di divisione giudiziale. Gli effetti della trascrizione del ricorso ex art. 791-bis c.p.c. devono quindi ritenersi analoghi a quelli della trascrizione della domanda di divisione giudiziale e, pertanto, non finalizzati ex art. 2644 c.c. all'opponibilità ai terzi quanto limitati ad assicurare il principio di continuità delle trascrizioni con funzione di pubblicità-notizia, sicché coloro i quali siano subentrati a titolo particolare nella quota del condividente nel corso del giudizio, pur subendo gli effetti della decisione al pari dei loro danti causa, sono legittimati ad impugnare la sentenza ove la ritengano lesiva dei loro diritti (Cass. n. 821/2000). In sostanza, la trascrizione delle domande in materia di divisione è prevista dalla legge per le finalità di cui all'art. 1113 c.c. ovvero, se la trascrizione del ricorso è avvenuta, la divisione sarà opponibile ai creditori ed aventi causa che abbiano trascritto o notificato la propria opposizione successivamente a tale trascrizione, senza che sia necessario chiamarli in giudizio. In ragione della funzione di mera pubblicità-notizia della trascrizione del ricorso occorre risolvere la questione dell'efficacia dell'iscrizione ipotecaria su un bene immobile effettuata successivamente a detta trascrizione. La questione deve essere risolta in senso affermativo. In sostanza, se la domanda di divisione è trascritta anteriormente all'iscrizione ipotecaria, quest'ultima resta efficace e la previa trascrizione della domanda di divisione consente ai comproprietari, in relazione all'effetto prenotativo della stessa, di opporre al creditore ipotecario iscritto l'avvenuta approvazione dell'attribuzione delle quote nel giudizio divisorio anche a prescindere dalla chiamata in causa del creditore ex art. 1113 c.c. Tale chiamata in causa del creditore ipotecario iscritto sarà invece necessaria, per opporre allo stesso gli effetti della sentenza di divisione, qualora, per converso, la trascrizione della domanda di divisione sia avvenuta successivamente all'iscrizione ipotecaria. Obbligatorietà della mediazione
Come noto, il d.l. n. 69/2013, c.d. decreto del fare, ha reintrodotto nel nostro ordinamento processuale il procedimento di mediazione obbligatoria operante quale condizione di procedibilità per alcune controversie in materia civile intervenendo sull'art. 5 d.lgs. n. 28/2010 che, proprio per aver reso obbligatorio tale procedimento, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo in parte qua per eccesso di delega. Sia nell'assetto originario che in quello attuale il previo esperimento del procedimento di mediazione è obbligatorio per le controversie in materia di divisione. Pertanto, occorre interrogarsi se, al fine di evitare l'improcedibilità del ricorso in esame, debba essere previamente incardinato e definito il procedimento di mediazione obbligatoria. La risposta a tale quesito deve essere negativa, in quanto il comma 4, lett. f), dello stesso art. 5 d.lgs. n. 28/2010 chiarisce che il comma primo-bis nella parte in cui sancisce l'obbligatorietà della mediazione non trova applicazione per i procedimenti in camera di consiglio. Deriva da quanto precede, pertanto, che è necessario esperire previamente, a pena di improcedibilità dell'azione successivamente incardinata, il procedimento di mediazione per le cause di divisione giudiziale, mentre il ricorso di divisione a domanda congiunta, seguendo, almeno nella prima fase, le forme del procedimento in camera di consiglio, potrà essere proposto a prescindere dall'espletamento del procedimento di mediazione obbligatoria. ProcedimentoNella fase iniziale, volta soprattutto alla nomina del professionista delegato e, almeno di regola, dello stimatore il procedimento di divisione a domanda congiunta, viene disciplinato, sotto il profilo processuale, secondo le forme del procedimento in camera di consiglio previste dagli artt. 737 ss., e di norma riservate alla giurisdizione c.d. volontaria. Invero, essendo il ricorso proposto congiuntamente, sebbene l'esito del procedimento sia destinato ad incidere su diritti soggettivi dei ricorrenti, lo stesso non può ricondursi alla giurisdizione contenziosa, non essendovi - almeno nella fase iniziale e salve le contestazioni in seguito formulate da uno o più condividenti avverso la scelta di disporre la vendita ovvero il progetto di divisione redatto dal professionista incaricato - diritti contrapposti in contesa. Né peraltro le conclusioni sarebbero differenti laddove si volesse accedere ad una differente ricostruzione teorica in ordine alla natura del giudizio in esame ossia ricondurre lo stesso alla giurisdizione contenziosa, in quanto, tenendo conto della stessa giurisprudenza di legittimità e costituzionale che si è pronunciata sulla questione, il procedimento camerale costituisce un “contenitore neutro” utilizzabile per la tutela di diritti soggettivi purché sia assicurato il rispetto del principio del contraddittorio e sia consentito in via successiva il controllo della Corte di Cassazione, attraverso il ricorso ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. In estrema sintesi, può ricordarsi in questa sede che, salve specifiche previsioni, i procedimenti in camera di consiglio sono introdotti mediante ricorso dinanzi al Tribunale competente. Considerata l'attribuzione di tali procedimenti al collegio, il Presidente nominerà un Giudice relatore che, ai fini dell'emanazione del decreto conclusivo del procedimento, riferirà in camera di consiglio anche all'esito dell'assunzione di informazioni. Il decreto sarà reclamabile dinanzi alla Corte di Appello nelle forme e nei termini previsti dall'art. 739. In sostanza, il procedimento in camera di consiglio si caratterizza per lo svolgimento secondo forme destrutturate, interamente nella camera di consiglio, senza la presenza costante presenza delle parti ed al d fuori di una rigorosa predeterminazione delle loro modalità di partecipazione all'attività processuale, compiuta al di fuori di vincoli formali.Anche sotto il profilo istruttorio, il potere del giudice di assumere informazioni previsto dal secondo comma dell'art. 738 comporta che l'esercizio dei poteri istruttori da parte dell'autorità giudiziaria ha carattere discrezionale ed è svincolato da ogni impulso di parte, il giudice può ricercare autonomamente e da qualunque fonte gli elementi di conoscenza che ritiene necessari, con piena apertura alle prove atipiche e ferma l'assunzione, in forme atipiche, anche di mezzi di prova tipici pure ammessi, specie nei procedimenti camerali contenziosi, soltanto nell'ambito dei quali trova applicazione la regola dell'onere della prova. Poiché l'ultimo comma dell'art. 50-bis attribuisce la decisione dei procedimenti in camera di consiglio al tribunale in composizione collegiale salva una differente previsione normativa che non è stata dettata nella fattispecie in esame deve ritenersi che il procedimento di divisione a domanda congiunta sia attribuito — almeno nella fase camerale — al collegio, a differenza dei giudizi divisori contenziosi che sono decisi dal tribunale in composizione monocratica (Giordano). Per altro verso il legislatore limita significativamente i poteri di intervento del giudice sin dalla fase iniziale del procedimento. In primo luogo, infatti, si stabilisce espressamente che, pur essendo demandata all'autorità giudiziaria la nomina formale con decreto del professionista delegato, il nominativo di quest'ultimo può essere indicato dalle parti ricorrenti. Dovrebbe restare fermo, tuttavia, il potere del giudice di disattendere – previa instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla questione mediante fissazione di un'apposita udienza – l'indicazione dei ricorrenti qualora il professionista scelto dagli stessi non abbia i requisiti per svolgere l'incarico, trattandosi, ad esempio, di un commercialista o di un praticante avvocato ovvero, ancora, di un Notaio o di un avvocato aventi sede in un altro circondario. Secondo, l'impostazione tradizionale, l'esperto nominato nel giudizio divisionale ai sensi dell'art. 194, disp. att. c.p.c., al fine di individuare il valore della massa da dividere, è, alla medesima stregua del consulente tecnico, un ausiliario del giudice, al quale questi fa ricorso per il compimento di quelle attività di carattere tecnico-pratico che generalmente non è in grado di compiere, né su tale qualificazione rileva la circostanza che l'esperto forma le quote che vengono poi sorteggiate trai condividenti, poiché il progetto da lui allestito in tanto costituisce la base per la divisione e le successive operazioni, in quanto le parti stesse l'abbiano accettato o sia intervenuta sentenza che l'abbia approvato. Tuttavia, la norma in esame non rimette la decisione sulla nomina dell'esperto estimatore, come avviene di regola per gli ausiliari dello stesso, ad una scelta discrezionale del giudice bensì alla richiesta in tal senso formulata dal medesimo notaio o professionista incaricato al quale soltanto, pertanto, è immediatamente demandata ogni verifica sugli adempimenti necessari ad espletare le operazioni di divisione. Tuttavia, non può trascurarsi al contempo di evidenziare che la nomina di un perito estimatore si renderà quasi sempre regola necessaria tenuto conto del consolidato principio per il quale in tema di divisione, la stima di beni immobili per la formazione delle quote deve essere compiuta con riferimento al valore venale da essi posseduto al tempo della divisione, coincidente, nel caso di divisione giudiziale, con il momento di proposizione della domanda, potendosi avere riguardo alla stima effettuata in una data non troppo vicina a quella della decisione solo se si accerti che, per la stasi del mercato o per le caratteristiche del bene, non sia intervenuto un mutamento di valore che renda necessario l'adeguamento di quello stabilito al tempo della stima, costituendo onere della parte, che solleciti la rivalutazione, allegare ragioni di significativo mutamento del valore dei beni intervenuto medio tempore (Cass. n. 21632/2010). Pertanto, nel procedimento di divisione a domanda congiunta il valore venale dei beni in comunione dovrà essere accertato avendo riguardo al momento del deposito del ricorso. L'esperto stimatore sarà inoltre chiamato, di regola, accertato il valore complessivo dei cespiti da dividere, anche alla formazione, disponendo ad esempio alcuni conguagli, di un numero di quote pari ai condividenti: in tal senso, la relazione di stima costituirà la “base” per il professionista incaricato ai fini della predisposizione del progetto di divisione. Ai fini della predisposizione della relazione da parte dell'esperto riteniamo trovi applicazione anche nel procedimento di divisione a domanda congiunta il principio, ormai pacifico, per il quale il consulente tecnico d'ufficio, ai sensi dell'art. 194, può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempreché si tratti di fatti accessori, rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr. Cass. n. 14577/2012). Pertanto, ad esempio, devono essere le parti ricorrenti a rimettere al professionista incaricato la documentazione ipo-catastale del ventennio relativa ai cespiti facenti parte della massa da dividere (rilevando tale documentazione anche sotto il profilo della prova della proprietà degli stessi), mentre l'esperto potrà acquisire autonomamente le certificazioni di regolarità urbanistica degli immobili del compendio. Pur essendo la stessa subordinata ad una richiesta del delegato, la nomina dell'esperto stimatore deve essere effettuata necessariamente dal giudice del quale, e non già del professionista, sembra quindi doversi ritenere, l'esperto resta ausiliario. Nulla viene precisato in ordine alla necessità che le nomine in questione debbano essere effettuate dal giudice all'esito di un'udienza nel contraddittorio tra le parti in causa. A riguardo, riteniamo che la fissazione di un'udienza costituisca un adempimento non necessario qualora il nominativo del delegato sia stato già indicato dalle parti nel ricorso introduttivo ai fini della nomina dello stesso, essendo per converso almeno opportuno che le parti siano sentite laddove una siffatta indicazione manchi. Né peraltro, avendo riguardo alla rinnovata formulazione dell'art. 569 dopo la riforma di cui al d.l. n. 83/2015, può ritenersi che sia necessaria la fissazione di un'udienza per il giuramento dell'esperto stimatore che potrà, come ormai avviene nell'espropriazione immobiliare, prestare giuramento mediante sottoscrizione del verbale di accettazione dell'incarico in cancelleria. Declaratoria di inammissibilità del ricorsoPrima verifica demandata al professionista delegato è quella avente ad oggetto l'avvenuta sottoscrizione del ricorso ad opera di tutte le parti che, ai sensi del comma 1 della disposizione in esame, devono proporre lo stesso affinché possa essere attivato il procedimento di divisione a domanda congiunta. A tal fine, è necessario un puntuale esame da parte del delegato della documentazione necessaria all'esatta individuazione del bene e della proprietà dello stesso. Tale documentazione è costituita, in particolare, dalle visure catastali e dei registri immobiliari relative all'ultimo ventennio o da un certificato notarile sostitutivo.La necessità del deposito di documentazione ipo-catastale relativa al periodo di venti anni anteriore all'instaurazione del procedimento di divisione a domanda congiunta si giustifica con l'esigenza di individuare un titolo originario di acquisto del bene, in ragione della progressione risalente dei titoli derivativi sino all'originario costitutivo (ovvero del maturare del periodo del possesso ad usucapionem ai fini dell'acquisto a titolo originario: v., in tema di rivendica, Cass. n. 6521/2008, in Guida dir., 2008, n. 18, 79). Non è precisato, peraltro, se la predetta documentazione possa essere consegnata dalle parti direttamente al professionista delegato ovvero debba essere allegata al ricorso introduttivo per consentire anche al Giudice, in accordo con l'impostazione che ci appare preferibile in una prospettiva di economia processuale, di effettuare tale verifica già prima della nomina del delegato stesso. Invero, nella giurisprudenza più recente in materia di giudizio divisorio, attesa la necessità della documentazione in questione per l'istruzione e la decisione del procedimento, è stato affermato il principio per il quale, poiché l'omessa rituale produzione dei certificati storici catastali e della documentazione concernente le iscrizioni e trascrizioni nel ventennio anteriore, ovvero di relazione notarile sostitutiva, è indispensabile per verificare la ricorrenza delle condizioni dell'azione di divisione, quali la sussistenza del diritto dominicale in capo alle parti del giudizio, e l'esistenza di altri eventuali litisconsorti necessari, creditori o aventi causa da un partecipante alla comunione, ex art. 1113 c.c. e art. 784 c.p.c., in difetto della suddetta tempestiva produzione, è inammissibile "in radice" la domanda di divisione ereditaria. In particolare, è stato osservato che l'omessa rituale produzione dei certificati storici catastali e della documentazione concernente le iscrizioni e trascrizioni nel ventennio anteriore, ovvero di relazione notarile sostitutiva, è indispensabile per verificare la sussistenza di condizioni dell'azione di divisione, quali la sussistenza del diritto dominicale in capo alle parti del giudizio, e l'esistenza di altri eventuali litisconsorti necessari (creditori o aventi causa da un partecipante alla comunione) ex art. 1113 c.c. e art. 784 c.p.c.; di conseguenza, in difetto della suddetta tempestiva produzione, è inammissibile "in radice" la domanda di divisione ereditaria (App. Roma III, 10 giugno 2011 n. 2480, in Guida diritto, 2011, n. 32,81). In sostanza, come per qualsiasi altro giudizio civile anche nel procedimento avente ad oggetto la divisione di un compendio ereditario grava sulla parte attrice l'onere di allegare all'incarto processuale la documentazione necessaria a dimostrare la titolarità in capo al "de cuius", all'epoca dell'apertura della successione, dei beni oggetto di divisione e la libertà dei beni medesimi da eventuali pesi o iscrizioni, non essendo a tal fine sufficiente la mera produzione della dichiarazione di successione che assume rilevanza esclusivamente a fini fiscali. Ne deriva che al mancato adempimento di siffatto onere non può ovviare il giudice mediante l'espletamento di consulenza tecnica d'ufficio che non può non può valere ad eludere l'onere di allegazione incombente sulle parti processuali per la dimostrazione dei fatti posti a base delle pretese azionate (Trib. Salerno, II, 16 novembre 2009 n. 2396; cfr. anche Trib. Nuoro II, 1° dicembre 2011 n. 894, in Guida dir., 2012, n. 9, 57, per la quale è improcedibile la domanda di divisione laddove non siano state depositate, pur a fronte di un ordine di produzione in tal senso, la documentazione catastale e la certificazione della Conservatoria dei pubblici registri immobiliari, per non avere le parti provato la composizione delle masse da dividere, atteso che qualora la parte onerata non abbia assolto all'onere probatorio posto a proprio carico secondo la regola generale enunciata dall'art. 2697 c.c. la domanda dovrà essere, piuttosto, rigettata). Nondimeno, in mancanza di un'espressa previsione in tal senso, analoga all'art. 567 in tema di esecuzione immobiliare, non può ritenersi che il ricorso ex art. 791-bis possa essere sanzionato con l'inammissibilità della domanda proposta qualora i certificati storici catastali e la documentazione concernente le iscrizioni e trascrizioni nel ventennio anteriore, ovvero la relazione notarile sostitutiva, non siano allegati allo stesso, potendo il delegato richiedere alle parti, prima di dare inizio alle operazioni divisionali, tali documenti. Peraltro, ove le parti, nonostante la richiesta in tal senso, omettano di consegnare al delegato i documenti necessari per verificare la sussistenza delle condizioni dell'azione proposta, il professionista possa rimettere gli atti del procedimento al Giudice affinché dichiari inammissibile la domanda, alla medesima stregua di quanto avviene nell'ipotesi, espressamente disciplinata, in cui, prodotta la documentazione catastale, dalla stessa risulti che il procedimento divisorio a domanda congiunta non sia stato attivato da tutti i soggetti indicati dal comma 1. La disposizione in esame stabilisce, infatti, che, in quest'ultimo caso, a fronte della rimessione degli atti del procedimento da parte del delegato, il Giudice dichiarerà inammissibile la domanda, ordinando la cancellazione della relativa trascrizione. Sebbene il primo periodo del comma successivo dell'art. 791-bis preveda che in linea di principio debba essere il professionista incaricato a rimettere gli atti al Giudice per la declaratoria di inammissibilità del ricorso correlata alla mancata proposizione dello stesso ad opera di tutte le parti indicate dal primo comma, riteniamo, inoltre, anche per ragioni di economia processuale, che, laddove il Giudice rilevi già in sede di proposizione del ricorso tale vizio, possa provvedere sulla questione dichiarando, sollecitando il contraddittorio delle parti, inammissibile il ricorso con decreto. A fronte della previsione, da parte del periodo successivo del rimedio del reclamo avverso il decreto in questione, che il giudice possa senz'altro disattendere le indicazioni provenienti dal professionista delegato laddove, magari in forza di una differente impostazione giuridica, verifichi che, invece, il ricorso sia stato proposto da tutte le parti indicate dal primo comma. Ne deriva che, oltre a dichiarare inammissibile la domanda, il giudice potrà rimettere gli atti al delegato disponendo la prosecuzione delle operazioni di divisione. Mediante il decreto con il quale dichiara invece inammissibile la domanda il giudice dovrà anche ordinare la cancellazione della trascrizione della stessa. Pressoché superfluo appare l'inciso in esame laddove prevede la reclamabilità, ai sensi dell'art. 739, del decreto mediante il quale il giudice dichiara l'inammissibilità della domanda di divisione congiunta non proposta da tutti i soggetti indicati dal primo comma, trattandosi del rimedio generale previsto contro i decreti del giudice istruttore nell'ambito dei procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli artt. 737 ss., norme già espressamente richiamate per il procedimento in esame. Problematica nella fattispecie in esame, peraltro, è la questione relativa alla necessità che la pronuncia del decreto provenga da parte del Giudice monocratico ovvero del Tribunale in composizione collegiale. In accordo con una prima impostazione interpretativa, potrebbe ritenersi che il decreto di inammissibilità debba essere emanato dal giudice monocratico. Potrebbe difatti valorizzarsi in tal senso il riferimento, compiuto dall'art. 791-bis, al Giudice e non al Tribunale, riferimento da intendersi, in tale direzione, quale deroga alla decisione dei procedimenti in camera di consiglio da parte del Tribunale in composizione collegiale. Oltre all'argomento letterale potrebbe poi attribuirsi rilievo in tale direzione anche a quello sistematico costituito dalla decisione delle controversie in tema di divisione, a seguito della riforma istitutiva del giudice unico di primo grado, da parte del Tribunale in composizione monocratica. Se si assume, nella prospettiva ora delineata, che il decreto di inammissibilità deve essere emanato dal Giudice monocratico, il reclamo, in accordo con il disposto dell'art. 739 dovrà quindi essere proposto al collegio entro il termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di più parti. Nell'ipotesi in esame riteniamo che, sebbene il procedimento sia attivato necessariamente ad iniziativa di più parti, le stesse, rispetto alla richiesta di procedere alla divisione dei cespiti, non possano essere considerate parti contrapposte, di talché il termine per la proposizione del reclamo decorrerà, per ciascuna parte, dal momento della comunicazione del decreto. Peraltro, non appare peregrina – seppure tale conclusione possa porsi in contrasto con le esigenze di semplificazione e speditezza del procedimento che hanno portato all'emanazione dell'art. 791-bis- l'opposta tesi secondo la quale il decreto di inammissibilità deve essere pronunciato dal Tribunale in composizione collegiale poiché, secondo quanto previsto in via generale dal secondo comma dell'art. 50-bis c.p.c., per i procedimenti in camera di consiglio la decisione da parte del Giudice monocratico, in deroga alla regola generale della collegialità, deve essere espressamente prevista dal legislatore. Seguendo quest'ultima impostazione interpretativa, sempre in accordo con il disposto dell'art. 739, la competenza a conoscere del reclamo avverso il decreto di inammissibilità del ricorso di divisione a domanda congiunta spetterà alla Corte d'Appello. In ogni caso, è opportuno ricordare che rispetto all'ipotesi di violazione delle norme in tema di composizione monocratica o collegiale del Tribunale, l'art. 50-quater stabilisce che la stessa non integra violazione delle disposizioni sulla costituzione del Giudice e, quindi, nullità processuale c.d. assoluta, trattandosi, per converso, di una nullità relativa e “propria” della decisione assoggettata al generale principio di conversione in motivi di gravame ex art. 161. Sulla questione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale legittimato a decidere su una domanda giudiziale costituisce, alla stregua del rinvio operato dall'art. 50-quater al successivo art. 161, comma 1, un'autonoma causa di nullità della decisione e non una forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza e, perciò, soggetta al regime di sanatoria implicita, con la sua conseguente esclusiva convertibilità in motivo di impugnazione e senza che la stessa produca l'effetto della rimessione degli atti al primo giudice se il giudice dell'impugnazione sia anche giudice del merito, oltre a non comportare la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza nulla (Cass. S.U., n. 28040/2008, in Giust. Civ., 2009, n. 3, 602). In applicazione di tali principi, ove si ritenga che il decreto debba essere emesso dal Tribunale in composizone collegiale, annche ove fosse pronunciato dal Giudice monocratico, il relativo vizio potrà e dovrà necessariamente essere denunciato in sede di reclamo del decreto stesso, in difetto sanandosi definitivamente. Il reclamo deve essere proposto dinanzi alla Corte di Appello competente entro il termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di più parti. Nell'ipotesi in esame , sebbene il procedimento sia attivato necessariamente ad iniziativa di più parti, le stesse, rispetto alla richiesta di procedere alla divisione dei cespiti, non possono essere considerate parti contrapposte, di talché il termine per la proposizione del reclamo decorrerà, per ciascuna parte, dal momento della comunicazione del decreto. Nella giurisprudenza, anche di legittimità, sono state riconosciute, peraltro, come equipollenti alla comunicazione da parte della cancelleria ulteriori attività, quali, ad esempio, l'estrazione formale di una copia dell'atto (cfr. Cass. n. 9421/2012; Trib. Napoli 23 febbraio 2006, in Corr. mer. 2006, n. 5, 582), la notificazione del medesimo provvedimento ad iniziativa della controparte (Cass. n. 26914/2008; conf. Trib. Torino IX, 6 ottobre 2006). E' irrilevante, invero, la conoscenza che la parte abbia avuto aliunde, i.e. in via di mero fatto, del provvedimento da impugnare (v., tra le altre, Cass. n. 3989/2011; Cass. n. 11758/2002). L'ultimo comma dell'art. 739 c.p.c. stabilisce che, salva diversa disposizione di legge, non è ammesso alcun reclamo avverso i provvedimenti resi dalla Corte di Appello. Peraltro, la norma deve essere coordinata con il consolidato orientamento della S.C. in forza del quale, ai fini della proponibilità del c.d. ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., la nozione di sentenza deve essere intesa in senso sostanziale, i.e. intendersi riferita a qualsivoglia provvedimento decisorio sui diritti soggettivi delle parti e definitivo, avverso il quale, cioè, non sia proponibile alcun altro rimedio. Tuttavia, incidendo la decisione di inammissibilità in questione soltanto sulla possibilità di scegliere un rito processuale in luogo di un altro, ossia il procedimento ex art. 791-bis, piuttosto che quello di divisione giudiziale, ne deriva che viene in rilievo esclusivamente un diritto di natura processuale come quello di azione che, non avendo quale sostrato un diritto sostanziale, poiché non è compromesso per questo il diritto di ciascun condividente di richiedere la divisione, non consente la proponibilità del ricorso straordinario per Cassazione (Cass. S.U., n. 11026/2003). Cancellazione della trascrizione del ricorso Mediante il decreto con il quale dichiara invece inammissibile la domanda il giudice è tenuto ad ordinare la cancellazione della trascrizione della stessa. Peraltro, detto ordine non è sufficiente affinché venga meno il vincolo sul bene determinato dal deposito della domanda congiunta di divisione. Invero, l'ordine giudiziale di cancellazione della trascrizione della formalità pregiudizievole non è considerato sufficiente per realizzare la vicenda estintiva del vincolo, occorrendo a tal fine, altresì, l'eliminazione della stessa attraverso l'effettuazione dell'annotazione della cancellazione che elide, erga omnes, il vincolo di indisponibilità al bene. In sostanza, all'ordine giudiziale deve seguire la relativa attività di annotazione la quale è imposta, coerentemente, e con esso si armonizza, dal sistema di pubblicità previsto dal nostro ordinamento nelle vicende circolatorie dei beni immobili. Per altro verso, sono dibattute, specie in giurisprudenza, le soluzioni a disposizione delle parti per l'ipotesi nella quale il provvedimento non contenga, invece, l'ordine di cancellazione dai registri immobiliari della trascrizione della domanda. Tra le differenti impostazioni interpretative proposte sulla questione, tenendo conto della circostanza che l'art. 791-bis prevede espressamente che in sede di declaratoria di inammissibilità della domanda il Giudice debba contestualmente ordinare la cancellazione della relativa trascrizione, mediante, quindi, una previsione assolutamente analoga all'art. 2668 c.c., riteniamo che la soluzione più ragionevole sia quella di consentire alla parte interessata di proporre, a tal fine, ricorso per la correzione degli errori materiali ex artt. 287 e ss. Infatti, può applicarsi, a riguardo, il corretto principio interpretativo per il quale il carattere accessorio e necessario dell'ordine giudiziale di cancellazione della trascrizione della domanda, quale desumibile dall'art. 2688 c.c. - che costituisce, invero, una statuizione posta a tutela di interessi generali, quali quelli della regolare tenuta dei Registri Immobiliari e della loro corrispondenza alla realtà sostanziale -, rende agevole far rientrare la mancata pronuncia ex art. 2668, comma 2, c.c. tra quelle omissioni suscettibili di rettificazione attraverso il procedimento di correzione dell'errore materiale ex art. 288 (cfr. Trib. Busto Arsizio 23 novembre 2010; sulla possibilità di promuovere, in alternativa, sempre qualora non vi sia accordo tra le parti, un autonomo giudizio ordinario di cognizione v. Trib. Varese I, 23 ottobre 2012). Se si accede alla ricostruzione ora prospettata, l'istanza di correzione dell'errore materiale contenuto nel decreto di inammissibilità per l'omissione dell'ordine di cancellazione della trascrizione della domanda potrà essere sia formulata in sede di reclamo avverso il decreto di inammissibilità sia essere proposta autonomamente, anche una volta decorsi i termini previsti per la reclamabilità del provvedimento. Sotto quest'ultimo profilo, è invero opportuno ricordare che la possibilità per la parte interessata di richiedere mediante un'autonoma istanza, a prescindere dall'avvenuta proposizione del reclamo ex art. 739 (e nonostante la pendenza per la proposizione di tale gravame) avverso il decreto di inammissibilità, la cancellazione della trascrizione della domanda può desumersi dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 287 ad opera di Corte cost. n. 335/2004, (in Giur. it., 2005, 1573, con oss. Giannatale, in Giust. civ. 2005, I, 618, in Foro it., 2006, n. 5, 1320 ed in Riv. cancellerie, 2005, 194). Tale decisione, invero, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 3 e 24 Cost., l'art. 287, limitatamente alle parole "contro le quali non sia stato proposto appello", evidenziando che la norma impugnata dal rimettente esclude la sola sentenza di primo grado già investita dall'appello - ma non anche quella non ancora appellata - dallo speciale procedimento di correzione di errore materiale da essa disciplinato, e in tale modo viene a determinare una situazione eccezionale rispetto alla regola - ricavabile dall'esame del sistema normativo in cui tale norma si inserisce - secondo la quale il procedimento di correzione è insensibile alla proposizione dell'impugnazione ed è di competenza del giudice che ha emesso il provvedimento affetto da errore lato sensu ostativo, mentre la circostanza che la l. n. 353/1990 abbia introdotto la duplice regola della mancanza di efficacia sospensiva dell'appello, unitamente a quella dell'immediata esecutività della sentenza di primo grado, rende tale disciplina - che non può essere più giustificata in base a mere esigenze di economia processuale - del tutto irragionevole, risolvendosi essa altresì in una ingiustificabile compressione del diritto di agire esecutivamente della parte vittoriosa, e pertanto - costituendo l'azione esecutiva strumento essenziale dell'effettività della tutela giurisdizionale - in una violazione dell'art. 24 Cost. Pertanto, se nell'assetto tradizionale l'istanza di correzione degli errori materiali per i provvedimenti, sentenze o ordinanze, ancora impugnabili doveva essere necessariamente proposta in sede di gravame, essendo in difetto preclusa la possibilità di dedurre l'errore materiale o l'omissione, nel contesto attuale, dopo l'intervento della Corte Costituzionale, il procedimento di correzione degli errori materiali ex artt. 287 e ss. può essere promosso a prescindere dalla proponibilità ovvero dalla concreta proposizione di un mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti stessi. Sebbene l'ordinanza di correzione delle omissioni o degli errori materiali contenuti in un provvedimento giurisdizionale possa essere emanata anche all'esito di procedimento contenzioso laddove non vi sia accordo tra le parti sulla sussistenza dell'errore o dell'omissione denunciata, la S.C. ha più volte ribadito il principio – che appare conseguentemente operante anche nella fattispecie in esame – secondo cui l'ordinanza di correzione di errore materiale non è autonomamente impugnabile neanche con ricorso ex art. 111 Cost., essendo l'impugnazione consentita solo a tutela dei diritti nascenti dalla parte corretta attraverso la verifica della legittimità degli effetti sostanziali della disposta correzione, di talché la denuncia di eventuali vizi di formazione dell'ordinanza di correzione che non coinvolgano anche il merito sostanziale del provvedimento determinano l'inammissibilità dell'impugnazione, potendo essere formulate esclusivamente censure che riguardino o la verifica dell'ammissibilità del procedimento di correzione o la fondatezza del merito del provvedimento di correzione (v., tra le altre, Cass. III, n. 9425/2011). Svolgimento delle operazioni dinanzi al professionista delegatoLa norma in commento stabilisce che il professionista delegato, prima di predisporre il progetto di divisione, deve sentire i comproprietari nonché gli altri soggetti legittimati alla proposizione del ricorso congiunto ex art. 791-bis. Sotto tale profilo, la norma recepisce gli indirizzi interpretativi già consolidati, con riguardo alla delega delle operazioni divisionali al Notaio nel corso del procedimento di divisione giudiziale, ed in forza dei quali nel giudizio di divisione, ove il giudice istruttore deleghi un notaio per l'espletamento delle operazioni ai sensi dell'art. 790, questi ha l'obbligo di dare avviso, almeno cinque giorni prima, ai condividenti e ai creditori intervenuti, del luogo, giorno e ora di inizio delle operazioni: l'omissione o la tardività di tale avviso, traducendosi in irregolarità procedurale che impedisce la partecipazione alla vendita all'incanto, determina la nullità di tutte le operazioni divisionali inerenti alla vendita stessa (cfr. Cass. n. 22390/2009, in Vita not., 2010, n. 3, 1261, con nota di Bognanni). Sebbene la disposizione rimanga silente sul punto, è verosimile che, nella maggior parte dei casi, il delegato, prima di fissare l'audizione delle parti per discutere su tali determinazioni procedimentali, dovrà esaminare la perizia di stima del compendio da dividere redatta dallo stimatore nominato dal giudice proprio a seguito della richiesta del medesimo professionista delegato. Invero, soltanto in forza della perizia di stima potrà essere determinato il valore complessivo del compendio e delle singole quote nonché essere accertata la divisibilità dei beni in comunione. Quanto alle forme che il professionista incaricato dovrà seguire per la comunicazione alle parti dell'inizio delle operazioni di divisione, appare opportuno anche sotto tale profilo tener conto del principio, già affermato dalla Corte di Cassazione con riguardo alla delega al Notaio delle operazioni di divisione ex art. 786, non sussistendo ragioni nella fattispecie considerata per discostarsi dallo stesso, principio secondo cui qualora a dirigere le operazioni di divisione sia stato delegato, ai sensi dell'art. 790, un notaio, l'attività da questo svolta ha natura amministrativa, onde non trovano applicazione i principi che disciplinano le notifiche e le comunicazioni eseguite ad istanza del giudice, come confermato dal fatto che il Notaio, quale organo amministrativo, si avvale per le comunicazioni di uno strumento particolare come l'avviso (cfr. Cass. n. 869/2000). Peraltro, specie quando il ricorso di divisione a domanda congiunta sia proposto dalle parti assistite da un avvocato, nell'assetto attuale gli avvisi lungo tutto il corso della procedura delegata potranno essere validamente effettuati dal professionista incaricato mediante posta elettronica certificata all'indirizzo del difensore. All'esito del contraddittorio iniziale con i ricorrenti, il delegato predispone, ove possibile, il progetto di divisione dei beni oggetto del procedimento o, in mancanza, almeno secondo la formulazione letterale del periodo in commento, disporrà la vendita, oltre che dei beni strutturalmente indivisibili, dei beni non comodamente divisibili. A quest'ultimo riguardo, è opportuno evidenziare che la non comoda divisibilità di un immobile può essere ritenuta solo nell'ipotesi in cui risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, i quali consistono, sotto l'aspetto strutturale, nell'impossibilità di formare in concreto porzioni suscettibili di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessivi, e non richiedenti opere complesse e di notevole costo e, sotto l'aspetto economico-funzionale, nel sensibile deprezzamento del valore delle porzioni rispetto al valore dell'intero, tenuto conto dell'usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso (Cass. n. 12498/2007). Per l'ipotesi di beni non comodamente divisibili e, deve ritenersi, a fortiori, per quella di beni insuscettibili di frazionamento, come evidenziato, il comma 3 dell'art. 791-bis, sembra porre al professionista delegato quale unica soluzione quella della vendita, non potendo essere predisposto il progetto di divisione. In materia di divisione giudiziale, la non comoda divisibilità di un immobile, integrando un'eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante alla comunione di conseguire i beni in natura, può ritenersi legittimamente praticabile solo quando risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, costituiti dall'irrealizzabilità del frazionamento dell'immobile, o dalla sua realizzabilità a pena di notevole deprezzamento, o dall'impossibilità di formare in concreto porzioni suscettibili di autonomo e libero godimento, tenuto conto dell'usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso. Il concetto di comoda divisibilità di un immobile presupposto dall'art. 720 c.c. postula, sotto l'aspetto strutturale, che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento, che possano formarsi senza dover fronteggiare problemi tecnici eccessivamente costosi e, sotto l'aspetto economico-funzionale, che la divisione non incida sull'originaria destinazione del bene e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell'intero, tenuto conto dell'usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso (Cass. n. 14577/2012). Pur nel silenzio della norma in esame sulla questione, non sussistendo alcuna valida ragione per addivenire a conclusioni diverse nel procedimento di divisione a domanda congiunta, deve ritenersi che l'art. 791-bis vada letto in combinato disposto con l'art. 720 c.c. secondo cui nel giudizio di scioglimento delle comunioni ereditarie se vi sono immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell'igiene e la divisione dell'intera sostanza non può effettuarsi senza il loro frazionamento, essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell'eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l'attribuzione, mentre, soltanto se nessuno dei coeredi è a ciò disposto, si fa luogo alla vendita all'incanto. Le disposizioni contenute nell'art. 720 c.c. in tema di divisione avente ad oggetto beni immobili indivisibili o non comodamente divisibili caduti in comunione ereditaria si applicano anche allo scioglimento di ogni altro tipo di comunione, per effetto del richiamo contenuto nell'art. 1116 c.c. Nella prassi si ritiene che la richiesta di attribuzione dell'intero immobile non comodamente divisibile, rientrando nel contenuto dalla domanda di scioglimento della comunione, non attiene alla disposizione del diritto sostanziale e quindi ben può essere avanzata dal procuratore della parte rappresentata ai sensi dell'art. 84, senza che occorra a tal fine il rilascio da parte di quest'ultima di uno specifico mandato (cfr. Cass. n. 543/1994). In linea di principio l'attribuzione, ove richiesta, dovrebbe avvenire in favore del condividente titolare della maggior quota sul bene indivisibile o non comodamente divisibile. Peraltro, il giudice in considerazione dell'avverbio “preferibilmente” contenuto nell'art. 720 c.c. può discostarsi dal criterio preferenziale sancito dalla norma, avendo quindi potere discrezionale, da esercitare secondo criteri di opportunità e tenendo conto del reale interesse delle parti, nella scelta del condividente cui assegnare l'intero immobile indivisibile, dietro versamento del relativo conguaglio. Pertanto, riteniamo che, nonostante l'art. 791-bis non faccia riferimento a tale possibilità alternativa, anche nei procedimenti di divisione congiunta, aventi ad oggetto o meno beni ereditari, il professionista delegato, riscontrata la presenza nel compendio da dividere di beni indivisibili ovvero non comodamente divisibili, dovrà prima sentire le parti ed, in particolare, richiedere agli eredi se siano interessati, in alternativa alla vendita di tali beni, all'attribuzione degli stessi, salvo conguaglio, in favore degli altri coeredi. In presenza di una richiesta di attribuzione il professionista dovrà senz'altro preferire tale alternativa a quella della vendita. Laddove, invece, le richieste di assegnazione provengano da più condividenti, sarà rimessa al professionista, almeno nella fase iniziale ed ove non sorgano contestazioni (a fronte delle quali si renderà necessario l'intervento dell'autorità giudiziaria), la scelta, tenuto conto dei criteri dettati dall'art. 720 c.c., del coerede in favore del quale disporre l'assegnazione del cespite indivisibile o non comodamente divisibile. Come nella procedura di divisione giudiziale, anche in tale ipotesi l'assegnazione dovrebbe essere disposta di regola in favore dell'erede titolare della quota maggiore, potendo, nondimeno, una siffatta regola essere derogata valorizzando peculiari aspetti della fattispecie concreta quali, ad esempio, la circostanza che il condividente pur titolare di una quota inferiore viva da diversi anni nell'immobile in questione, risieda nel Comune dove lo stesso è situato ovvero sia privo di altre case d'abitazione. Disposta l'attribuzione dell'immobile in favore di uno dei coeredi, il professionista delegato – magari tenendo conto delle indicazioni provenienti sul punto dalla perizia di stima – dovrà provvedere anche sui conseguenti conguagli. Il conguaglio in danaro che ai sensi dell'art. 720 c.c. deve essere riconosciuto al condividente nel caso di attribuzione dell'intero bene indivisibile ad altro condividente, esprime l'equivalente economico della quota di tale bene e deve, pertanto, essere determinato, con riferimento al valore del bene stesso, al momento della conclusione del relativo giudizio di divisione anche in mancanza di espressa richiesta in tale senso, trattandosi di credito di valore (cfr. Cass. n. 4518/2001). Dal momento della conclusione del procedimento, sulla somma determinata a titolo di conguaglio, che deve rappresentare il valore effettivo del bene al momento della divisione, sono dovuti gli interessi corrispettivi, mentre per il periodo precedente di indivisione deve farsi riferimento rapporto dei comunisti coi beni oggetto della comunione. In applicazione di tale criterio, se il possesso degli stessi ed il godimento dei frutti è stato comune, non sono dovuti interessi compensativi sulla somma a conguaglio, mentre se il solo condividente poi assegnatario ha avuto il possesso dei beni e il godimento dei frutti, sorgerà a favore del non assegnatario il diritto al rendiconto con riferimento ai frutti ed eventualmente il diritto agli interessi corrispettivi sulle somme dovute a tale titolo, in ogni caso non essendo dovuti interessi compensativi sul valore del capitale (v., tra le altre, Cass. n. 9659/2000). A tal fine, non si può trascurare che le migliorie eseguite su di un immobile non divisibile da uno dei condividenti, per il principio dell'accessione, vengono a far parte del bene stesso, con la conseguenza che delle medesime deve tenersi conto ai fini della stima dell'immobile, nonché della determinazione delle quote e della liquidazione dei conguagli. Ove sia necessario disporre la vendita, troveranno applicazione, come espressamente previsto dalla norma in esame, con riserva della concreta compatibilità, le norme dettate dagli artt. 568 ss. in tema di espropriazione immobiliare. Ai fini della verifica di compatibilità con dette disposizioni, in sintesi si può ricordare che In generale, con riferimento al procedimento di vendita, l'art 591-bis prevede l'attribuzione al professionista delegato di una articolata serie di attività, quali, in primo luogo, la predisposizione dell'avviso di vendita contenente tutte le indicazioni concernenti la stessa e provvedere alle forme di pubblicità stabilite dal giudice nell'ordinanza di delega. Rispetto a questa fase preliminare alla vendita è senz'altro compatibile con il procedimento in esame la predisposizione da parte del professionista incaricato dell'avviso di vendita cui pure dovrà, riteniamo, essere data adeguata pubblicità nelle forme, anche telematiche, previste dall'art. 490. Conseguenza della mancata pubblicità obbligatoria prima della vendita giudiziale rende nulla l'aggiudicazione dell'immobile, non potendo trovare applicazione la regola contenuta nell'art. 2929 c.c., secondo cui la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita e l'assegnazione non ha effetto riguardo all'acquirente o all'assegnatario, che, invero, non opera quando la nullità riguardi proprio la vendita o l'assegnazione, sia che si tratti di vizi che direttamente la concernano, sia che si tratti di vizi che rappresentino il riflesso della tempestiva e fondata impugnazione di atti del procedimento esecutivo anteriori ma ad essi obbligatoriamente prodromici (cfr. Cass. n. 13284/2010). Appare invece incompatibile, la necessità che, nel curare la pubblicità della vendita, il delegato si conformi alle indicazioni previste nell'ordinanza di vendita, essendo ogni adempimento in tal senso rimesso al professionista medesimo. Quanto alla fase della vendita, deve ricordarsi che, in conformità alla regola programmatica generale stabilita dall'art. 503, nel testo modificato dal d.l. n. 132/2014, non è più prevista la doppia vendita al medesimo prezzo base prima senza e poi con incanto, poiché il giudice dispone anche la vendita con incanto soltanto qualora ritenga che, mediante la stessa, il bene possa essere aggiudicato ad un prezzo superiore alle metà rispetto al valore di stima determinato ai sensi dell'art. 568, ossia al valore effettivo di mercato del bene. Pertanto, di norma la vendita immobiliare segue le forme previste per quella senza incanto dagli artt. 571 e ss. (v. relativo commento) e deve svolgersi secondo modalità telematiche. Nella disciplina della vendita forzata immobiliare delegata, avvenuto il versamento del prezzo, il professionista predispone la bozza del decreto di trasferimento e trasmette al giudice dell'esecuzione il fascicolo, restando il decreto in questione atto del giudice, come si desume chiaramente dall'art. 586. Il decreto di trasferimento è atto nodale della procedura esecutiva immobiliare in quanto: - l'identificazione dei beni trasferiti a conclusione di un'espropriazione immobiliare deve essere compiuta in base alle indicazioni del decreto di trasferimento di cui all'art. 586, cui vanno aggiunti quei beni ai quali gli effetti del pignoramento si estendono automaticamente, ai sensi dell'art. 2912 c.c., come accessori, pertinenze, frutti ed anche i miglioramenti o le addizioni, ancorché non espressamente menzionati nel predetto decreto (cfr. Cass. n. 26481/2011); - costituisce l'atto conclusivo della procedura esecutiva immobiliare e determina il trasferimento della proprietà del bene staggito, “purgato” da formalità pregiudizievoli, in favore dell'aggiudicatario. Occorre chiedersi se alle medesime conclusioni, in ordine alla necessaria sottoscrizione del decreto di trasferimento da parte del giudice, debba pervenirsi anche nel procedimento in esame, atteso il richiamo alle norme sulla vendita delegata nell'esecuzione forzata soltanto in quanto compatibili con lo stesso. A riguardo, la giurisprudenza tradizionale relativa al procedimento di divisione giudiziale non ha mai dubitato sulla necessità che il decreto di trasferimento dovesse essere sottoscritto dal Giudice anche nell'ipotesi di delega ad un Notaio delle operazioni di divisione: ciò appare peraltro coerente con il richiamo diretto, pur dopo la riforma di cui alla l. n. 263/2005, agli artt. 570 ss. La prospettiva di semplificazione realizzata, invece, mediante l'introduzione dell'art. 791-bis per le ipotesi di divisione che non comportino peculiari questioni giuridiche tra le parti e l'attribuzione nel procedimento, sin dall'inizio, di un ruolo di dominus in capo al professionista incaricato dovrebbe indurre ad avallare, per il procedimento di divisione a domanda congiunta, la soluzione opposta, con conseguente possibilità per il professionista di sottoscrivere il decreto di trasferimento (e attribuzione della relativa responsabilità per la redazione ed i contenuti dell'atto in questione). Sotto un distinto profilo, occorre valutare la compatibilità con il procedimento di divisione a domanda congiunta dell'art. 591-ter secondo cui il professionista delegato all'espletamento delle operazioni di vendita può ricorrere al giudice nel caso insorgano difficoltà nell'espletamento della delega, stabilendo, altresì, che su tale ricorso il giudice provvede con decreto, contro il quale le parti interessate possono proporre reclamo. E' inoltre previsto che le parti possano reclamare dinanzi al giudice dell'esecuzione gli atti posti in essere dal professionista delegato. Una volta proposto, il reclamo il giudice dell'esecuzione è tenuto a provvedere con ordinanza, previa comparizione delle parti interessate in apposita udienza che deve all'uopo essere da lui fissata ed avverso tale ordinanza ciascuna parte potrà proporre opposizione agli atti esecutivi. Riteniamo che, in considerazione della più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della S.C., tale previsione non sia compatibile con il procedimento di divisione in generale, né con quello a domanda congiunta specificamente in considerazione in questa sede. A riguardo, va evidenziato che, prima di tale decisione, la problematica concernente i rimedi esperibili contro gli atti del Notaio delegato nelle operazioni di divisione era stata oggetto di soluzioni contrastanti in giurisprudenza. In particolare, secondo un primo orientamento della S.C., gli atti di vendita di immobili a mezzo notaio, posti in essere nell'ambito del procedimento di scioglimento della comunione, pur essendo disciplinati dagli artt. 570 ss., espressamente richiamati dall'art. 788, comma 3, non sono riconducibili ad una azione esecutiva, avendo solo funzione attuativa dello scioglimento della comunione, di talché il rimedio esperibile avverso gli stessi, compreso il provvedimento conclusivo di trasferimento del bene, non è l'opposizione di cui all'art. 617, bensì un'autonoma azione di nullità (Cass. , n. 1199/2010, in Giust. civ., 2010, n. 3, 557). In altra più recente decisione la stessa Corte di Cassazione, confermando la tesi negativa in ordine alla possibilità di equiparare gli atti del Notaio delegato nella divisione giudiziale ad atti esecutivi, aveva evidenziato che i rimedi esperibili avverso gli stessi sono quelli propri del processo di cognizione, ossia, se di carattere meramente ordinatario, il provvedimento che dispone la vendita sarà revocabile o modificabile con la sentenza di merito e, se risolutivo di controversie nel frattempo insorte, direttamente appellabile, ma insuscettibile di opposizione agli atti esecutivi (cfr. Cass. n. 4499/2011, in Giust. civ., 2012, n. 10, 2433). Secondo una giurisprudenza risalente, diversamente, quando le operazioni di vendita non sono delegate al notaio o ad altro professionista, ma svolte direttamente dal giudice, la nullità degli atti relativi alla vendita con incanto di cui agli artt. 576 ss. va fatta valere con la procedura dell'opposizione agli atti esecutivi prevista dagli art. 617 e 618, anche qualora la vendita sia stata disposta in giudizio di divisione ai sensi degli artt. 787 e 788 (Cass. n. 2063/1985, in Giust. civ., 1985, I, 2241). Come evidenziato, sono peraltro intervenute sulla questione le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiarendo che gli atti del giudice istruttore o del professionista delegato, relativi alle operazioni di vendita di immobili non divisibili, espletate nel corso di procedimento di scioglimento di comunione, agli effetti dell'art. 788, sono soggetti al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, di cui agli artt. 617 e 618 (Cass. n. 18185/2013). In particolare, le Sezioni Unite hanno a riguardo osservato che nell'assetto attuale non può avallarsi un diverso orientamento sull'assunto della mera funzione attuativa e non esecutiva dello scioglimento della comunione che sarebbe affidata al Notaio in quanto non vi è, in realtà, come confermato sul piano del diritto positivo dalle riforme processuali degli ultimi anni volte ad uniformare sotto più profili i due procedimenti, una differente funzione del procedimento di vendita dei beni immobili nel giudizio divisorio o nel processo esecutivo, atteso che in entrambi i casi “si deve convertire in controvalore monetario il bene oggetto di comunione”. Pertanto, concludono le Sezioni Unite, non avrebbe senso scandire il procedimento di vendita nella divisione immobiliare secondo le forme previste per la vendita nell'espropriazione forzata immobiliare, sottraendo tuttavia il primo all'apparato dei rimedi previsto nel secondo caso, costituito dal celere ed efficace meccanismo delle opposizioni esecutive, peraltro assoggettate ad un breve termine di proposizione a pena di sanatoria (Cass. n. 18185/2013). Entro trenta giorni dal versamento del prezzo (nell'ipotesi di vendita o conguaglio), il professionista delegato, redatto il progetto di divisione,dovrà darne avviso alle parti ed agli altri interessati, locuzione, quest'ultima, che appare utilizzata impropriamente in quanto, da un lato, nella loro qualità di ricorrenti “necessari” anche i creditori e gli aventi causa dei partecipanti alla comunione ex art. 1113 c.c. devono considerarsi parti del procedimento e, da un altro, alcun interesse alla comunicazione del progetto di divisione hanno altri soggetti quali, ad esempio, l'aggiudicatario del bene in comunione. Il rispetto del termine di trenta giorni dal versamento del prezzo per la predisposizione del progetto di divisione da parte del delegato è sfornito di sanzione, e pertanto lo stesso ha carattere meramente ordinatorio. Nell'ipotesi di omessa comunicazione dell'avviso di predisposizione del progetto di divisione ad una delle parti ricorrenti, gli atti successivi del procedimento dovranno ritenersi affetti da nullità atteso che tale irregolarità impedisce la contestazione del progetto (cfr. Cass. n. 22390/2009). Peraltro, sembra operante nel procedimento di divisione congiunta, il principio già espresso dalla S.C. con riferimento alla natura dell'attività prestata dal Notaio delegato nella divisione giudiziale, ed in virtù del quale laddove a dirigere le operazioni di divisione sia stato delegato, ai sensi dell'art. 790, un notaio, l'attività da questo svolta ha natura amministrativa, sicché non trovano applicazione i principi che disciplinano le notifiche e le comunicazioni eseguite ad istanza del giudice, come confermato dal fatto che l'organo amministrativo si avvale per le comunicazioni di uno strumento particolare quale l'avviso (Cass. n. 869/2000). Ne deriva che l'avviso può essere dato dal professionista delegato in ogni forma, purché vi sia prova certa della ricezione da parte dei destinatari. Per altro verso, occorre interrogarsi se l'avviso della predisposizione del progetto di divisione deve essere comunicato alle parti personalmente ovvero se sia sufficiente l'invio dello stesso al procuratore costituito. Deve ritenersi sufficiente la comunicazione dell'avviso al procuratore costituito delle parti poiché la mancanza di contestazioni avverso il progetto di divisione che determina, anche nel procedimento di divisione a domanda congiunta, la successiva approvazione, salvi vizi di carattere eminentemente formale, da parte del Giudice con decreto, non si ricollega ad un accordo di tipo contrattuale tra i soggetti in causa, ma soltanto ad un loro contegno processuale non determinante l'insorgenza di lite. Nel procedimento di divisione a domanda congiunta ex art. 791-bis la circostanza che il ricorso debba essere proposto da tutti i condividenti a pena di inammissibilità comporta ex se che non possano esservi parti contumaci, i.e. parti che, pur regolarmente evocate in giudizio, decidano di non parteciparvi attivamente mediante la costituzione nell'ambito dello stesso. Sussiste, invece, la possibilità della contumacia nel procedimento di divisione giudiziale. La questione relativa alla necessità di comunicare il progetto di divisione anche alle parti contumaci è stata risolta in senso affermativo in giurisprudenza mediante l'affermazione del principio per il quale nel procedimento di scioglimento della comunione, la comunicazione del deposito del progetto divisionale e dell'udienza fissata per la relativa discussione deve essere effettuata, a norma dell'art. 789, comma 2, nei confronti di tutti i condividenti, anche se contumaci (Cass. n. 880/2012). Si è osservato che, in difetto di tale adempimento - che non può essere sostituito dal mero deposito in cancelleria dell'elaborato peritale - il giudice istruttore non può dichiarare esecutivo il progetto di divisione per mancanza di contestazioni, risultandone invalidi la relativa ordinanza ed i successivi atti del procedimento, senza che si di ostacolo a tale obbligo di comunicazione la tassativa elencazione contenuta nell'art. 292, comma 1, perché tale disposizione riguarda solo il giudizio contenzioso, mentre l'art. 789 aggiunge nuovi obblighi con specifico riferimento al giudizio di divisione. Ricorso al tribunale di opposizione alla vendita o contestazione del progetto di divisioneEntro il termine di trenta giorni dalla ricezione dell'avviso del delegato, ciascuna parte può proporre opposizione dinanzi al tribunale per contestare la scelta di disporre la vendita ovvero il progetto di divisione redatto dal professionista incaricato. Sotto il primo profilo, il ricorso potrebbe essere fondato, ad esempio, sulla contestazione della ritenuta indivisibilità o non comoda divisibilità del cespite ovvero, ancora, in tema di scioglimento delle comunioni ereditarie, sulla disposizione immediata della vendita di un bene indivisibile da parte del professionista, senza consentire al ricorrente, i.e. al coerede che vanti la quota maggiore, di richiedere l'attribuzione ex art. 720 c.c. Molteplici sono, in secondo luogo, i motivi di opposizione deducibili avverso il progetto di divisione, potendo, tra l'altro, essere contestati il valore attribuito al complesso ovvero a ciascuno dei cespiti in comunione, la conseguente determinazione delle singole quote, i criteri di formazione delle stesse, l'entità degli eventuali conguagli disposti. Sull'opposizione alla vendita ovvero al progetto di divisione il giudice non è chiamato a decidere secondo le norme del procedimento in camera di consiglio ex artt. 737 ss., trovando applicazione il procedimento semplificato di cognizione senza possibilità, peraltro, di convertire lo stesso in rito ordinario . Esecutività del progetto di divisione ed operazioni successiveL'art. 791-bis, comma 4, ultimo periodo, dispone che se l'opposizione è accolta il giudice dà le disposizioni necessarie per la prosecuzione delle operazioni divisionali e rimette le parti avanti al professionista incaricato. La formulazione del periodo non è molto chiara, dovendo essere invero le parti rimesse dinanzi al professionista delegato per la prosecuzione del procedimento di divisione anche nell'ipotesi di rigetto dell'opposizione proposta. L'unica differenza concreta, che rende ragione della previsione, è costituita dall'esigenza di dare disposizioni al professionista incaricato sulle modalità di prosecuzione delle operazioni di divisione, disposizioni che, nondimeno, potrebbero comunque ritenersi direttamente desumibili dal provvedimento. L'art. 791-bis, comma 5, stabilisce che, decorso il termine di cui al comma 4 senza che sia stata proposta opposizione, il professionista incaricato deposita il progetto con la prova degli avvisi effettuati. Il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi. Qualora nel termine di trenta giorni dalla ricezione dell'avviso della predisposizione del progetto di distribuzione da parte del delegato nessuna delle parti si sia opposta allo stesso, il professionista depositerà il progetto stesso, documentando gli avvisi effettuati. A questo punto, il giudice dichiarerà esecutivo il progetto con decreto. La disposizione in commento resta silente in ordine alla necessità di fissare da parte del Giudice un'udienza volta all'approvazione del progetto di divisione predisposto dal professionista incaricato. Tale silenzio normativo può intendersi, tenendo conto anche dei principi affermati su questioni analoghe nel giudizio di scioglimento delle comunioni,nel senso che non dovrà essere a tal fine fissata alcuna udienza, non avendo le parti previamente contestato, proponendo opposizione al Tribunale nelle forme del procedimento sommario c.d. semplificato, il progetto di divisione redatto dal delegato del quale abbiano ricevuto rituale comunicazione e, quindi, abbiano mediante siffatta condotta tacitamente approvato il progetto stesso che, pertanto, sarà oggetto di un vaglio soltanto formale. Occorre peraltro interrogarsi circa il regime del decreto in questione. A riguardo, possono essere ricondotti sostanzialmente a due tipologie gli ipotetici vizi dello stesso. In primo luogo, infatti, il decreto del giudice potrebbe essere affetto da vizi di forma correlati, ad esempio, all'omessa comunicazione del progetto di divisione da parte del professionista incaricato ad una o più parti. Inoltre il decreto di approvazione del progetto di divisione potrebbe essere contestato in quanto emanato dal giudice nonostante la presentazione di un'opposizione avverso lo stesso. Le due problematiche devono essere considerate distintamente. La prima questione non è scevra da complessità in ragione del silenzio del legislatore in ordine al procedimento da seguire ai fini dell'emanazione del decreto di approvazione del progetto di divisione. Tra le differenti soluzioni di conseguenza ipotizzabili, la più ragionevole è, almeno a nostro sommesso parere, quella di ritenere che anche questa fase conclusiva del procedimento sia disciplinata dagli artt. 737 ss. sebbene richiamati espressamente soltanto per la fase della nomina del professionista incaricato e dell'esperto estimatore. Invero, la ratio legis della complessiva disciplina processuale posta dall'art. 791-bis appare, come si è già osservato, quella di regolare nelle forme del procedimento in camera di consiglio le fasi nelle quali l'intervento dell'autorità giudiziaria dovrebbe essere esclusivamente di natura formale ed in quelle del procedimento sommario di cognizione soltanto le opposizioni, i.e. le fasi contenziose del giudizio. Seguendo tale impostazione, i vizi formali del decreto di approvazione del progetto di divisione devono ritenersi reclamabili dinanzi alla Corte di Appello ex art. 739. Al fine di meglio comprendere la portata della questione dell'impugnabilità del decreto di approvazione del progetto di divisione emanato dal giudice nonostante la presentazione di un'opposizione avverso lo stesso, appare opportuno accennare alla problematica, sotto alcuni profili analoga, concernente il regime dell'ordinanza di approvazione del progetto di divisione per assenza di contestazioni ex art. 789 nell'ambito della divisione giudiziale, ordinanza definita espressamente non impugnabile. Sul punto, la giurisprudenza tradizionale della S.C. ha più volte ribadito il principio in forza del quale la stessa non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., qualora risulti emessa all'esito del procedimento svoltosi nel rispetto delle forme prescritte dalla legge ed in presenza di un accordo dei condividenti, dovendosi escludere, in mancanza di contestazioni, che tale provvedimento abbia natura decisoria (Cass. n. 10798/2009). Tuttavia era stato al contempo sancito il principio per il quale è ammesso il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. nelle ipotesi di provvedimento abnorme in quanto pronunciato in difetto dei relativi presupposti, ossia in presenza delle contestazioni di uno o più condividenti (Cass. S.U. , n. 2317/1995, in Giust. civ., 1995, I, 1471, con nota di Triola). Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, peraltro, sono nuovamente intervenute sulla questione, attribuendo prevalenza, per la risoluzione della stessa, in luogo del pregresso principio dell'apparenza, a quello della prevalenza della sostanza sulla forma. In particolare, nella delineata prospettiva le Sezioni Unite hanno evidenziato che in tema di scioglimento di comunioni, l'ordinanza con cui il giudice istruttore, ai sensi dell'art. 789, comma 3, dichiara esecutivo il progetto di divisione, pur in presenza di contestazioni, ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l'appello. Tale ordinanza, infatti, dichiarando esecutivo il progetto divisionale pur in presenza di contestazioni sostituisce la sentenza che dovrebbe essere pronunciata per la risoluzione delle proposte contestazioni ed, in questa funzione oggettivamente sostitutiva della sentenza, deve individuarsi la ragione della necessità di consentire avverso l'ordinanza il medesimo regime impugnatorio che sarebbe stato proponibile nel caso in cui la decisione sulle contestazioni fosse stata adottata con sentenza, non dovendosi sottovalutare il rilievo che, una volta che le contestazioni siano state formalizzate, l'ordinanza che dichiara esecutivo il progetto divisionale contiene comunque una decisione sulle stesse e ciò sia nelle ipotesi di rigetto esplicito o implicito delle contestazioni sia laddove il giudice abbia omesso di provvedere (Cass. S.U., n. 16727/2012, in Giur. it., 2013, 1723, con nota di Di Cola). Per alcuni sarebbero applicabili, per eadem ratio, i suesposti principi anche nella fattispecie in esame, laddove il giudice, nonostante la presentazione di un ricorso in opposizione avverso il progetto divisionale redatto dal Professionista incaricato, abbia, omettendo di provvedere almeno espressamente sulle spiegate contestazioni, approvato con decreto il progetto stesso. Ne deriva che, dovendo il giudice decidere, come evidenziato, delle opposizioni proposte mediante procedimento sommario di cognizione, il decreto in questione avrà sostanzialmente natura di ordinanza conclusiva di tale procedimento e sarà impugnabile mediante l'appello regolato dall'art. 702-quater (Giordano). Con il decreto di approvazione del progetto di divisione, il giudice rimetterà gli atti al delegato per gli adempimenti successivi, cioè a dire il sorteggio e la assegnazione dei lotti. La divisione si realizzerà, pertanto, con il verbale mediante il quale il professionista delegato dà atto del risultato del sorteggio eseguito, senza che appaia necessario, attesa la natura del procedimento in esame, neppure il successivo provvedimento del giudice ex art. 195 disp. att. che, come già evidenziato in giurisprudenza, ha soltanto natura formale ed estrinseca, essendo volto a dare conto del risultato del semplice controllo esterno di un atto che seppur caratterizzato dalla volontà degli interessati si inquadra tuttavia in un procedimento di divisione giudiziale (Cass. n. 11758/1992). Pertanto, se nel procedimento di divisione giudiziale affinché lo stesso possa definirsi concluso, anche nell'ipotesi di delega, non basta il via libera del notaio al progetto divisionale, essendo necessaria, invece, l'approvazione, da parte del giudice, del verbale di assegnazione delle quote attribuite rispettivamente a ciascuno dei condividenti (cfr. Cass. n. 1049/2007), diversamente, nel procedimento in esame, non sarà necessario per la conclusione ad ogni effetto dello stesso tale provvedimento dell'autorità giudiziaria. Sotto altro profilo, occorre rilevare che in tema di scioglimento della comunione, il criterio dell'assegnazione di porzioni eguali mediante estrazione a sorte di cui all'art. 729 c.c., deve ritenersi derogabile quando il sorteggio possa comportare un frazionamento antieconomico, come nel caso in cui un bene oggetto della comunione medesima sia collegato economicamente ad altro bene a essa estraneo, già appartenente a uno dei condividenti o, più in generale, ogniqualvolta il sorteggio possa comportare un frazionamento antieconomico dei beni già comuni o presenti degli inconvenienti che devono essere opportunamente valutati in virtù di valutazioni prettamente discrezionali dal giudice del merito, le quali risultano incensurabili in sede di legittimità, ove la motivazione sia scevra da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. n. 3140/2013). 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