Dalla lettura delle bozze di mini-riforma della legge fallimentare inserita nel decreto sulla c.d. “crescita sostenibile”, ormai di dominio pubblico, la prima considerazione che può farsi “a caldo” è che il legislatore - pur innovando positivamente sotto svariati profili - stia forse perdendo l'occasione per focalizzare l'impresa ed il sistema produttivo, quale bene da tutelare, più che l'imprenditore.
Di fatto, il legislatore rimane ancorato allo schema del codice civile del 1942 che lo definisce quale estensione del “commerciante” del precedente codice di commercio del 1882, mentre tralascia il concetto di impresa, che invece è la “cellula” costitutiva del sistema produttivo.
Queste considerazioni evidentemente risentono della prospettiva da cui osservo tali fenomeni da economista, che è evidentemente diversa da quella del giurista.
Le norme attuali, anche nella versione che risulterà riformata, considerano le sorti dell'imprenditore nell'illusione che coincidano con quelle dell'impresa. Si tratta di una mera illusione, in quanto il soggetto economico dell'impresa non è solo l'imprenditore, ma l'insieme delle risorse umane, interne ed esterne, che con l'impresa interagiscono, di cui fanno parte, oltre all'imprenditore stesso, anche i lavoratori dipendenti, clienti, fornitori ed in genere i creditori che a vario titolo sono in relazione economica con l'impresa.
Non considerando quindi l'impresa, e di conseguenza il vero soggetto economico nell'accezione più estesa, si perde di vista l'obiettivo principale, che è la salvaguardia del sistema produttivo pur nel rispetto dei diritti patrimoniali dei creditori che a diverso modo hanno interagito con l'impresa.
Da qui la delusione per non aver ritrovato nella bozza di mini-riforma qualche segnale dell'oggettivizzazione dello stato di crisi, un'attenzione alle modalità di emersione anticipata e tempestiva del ritardo nei pagamenti, secondo criteri che si sarebbe potuto mutuare dalla cosiddetta “procedure d'alerte” esistente nel sistema francese.
Lo stato di crisi, in tal modo definito, avrebbe potuto aprire le porte a chiunque per fare proposte ai creditori dell'impresa, con le quali avrebbe potuto competere anche l'imprenditore che, se seriamente interessato a resistere nella sua posizione apicale, sarebbe stato costretto ad immettere nuove risorse nell'impresa, oppure abbandonare il campo a nuovi soggetti economicamente più capaci.
Questa soluzione consentirebbe di anticipare i tempi della crisi, come si afferma in modo unanime in ogni convegno sulla materia, al punto che si considera oramai un luogo comune. L'anticipare i tempi di evidenza dello stato di crisi consentirebbe ai terzi di avere la possibilità di porsi in alternativa alla guida dell'impresa con proposte dirette ai creditori, così rendendo l'impresa in crisi un target potenzialmente appetibile, come dovrebbe esserlo in una sana economia di mercato. Invece la mini-riforma che si sta varando consentirà all'imprenditore soprattutto di allungare con una semplice richiesta, ancor di più, i tempi per fare un'offerta di concordato ai creditori, che sicuramente sarà sempre più tardiva e semmai “fattibile” solo per gli interessi del proponente, ma non per quelli dei creditori, che vedranno ancora di più mortificati i loro diritti di credito.
Il modello sperato - cercare di salvare le imprese in crisi quando costituiscono ancora un interesse economico da scambiare sulla piazza - non è una fantasia, ma si rifà all'istituto dell'involuntary petiton contenuta nel Chapter 11 del diritto USA. Questo sistema consentirebbe di creare un mercato finanziario delle imprese in crisi (PMI, posto che per le grandi imprese quotate ci sono le OPA), mentre ora si è costretti a constatare come le imprese continuino ad essere gestite da imprenditori che, avendo perso il capitale, hanno perduto anche la legittimità economica a gestire l'impresa.
Questi, dunque, pur avendo perso la titolarità economica, quale conseguenza della perdita del capitale proprio, continuano a gestire un bene che dovrebbe essere di fatto dei creditori, i quali con questa riforma risulteranno ulteriormente penalizzati.
Infatti il decreto sulla “crescita sostenibile” prevede che l'imprenditore possa disporre fino a sei mesi, con una semplice domanda di concordato “con riserva”, di una moratoria nei pagamenti senza nemmeno dover specificare in che modo pensi di poter saldare i propri debiti. Questo peggiorerà le sorti di altri imprenditori, creditori dell'impresa in crisi, con un accentuarsi dell'effetto-domino che vede crisi d'impresa generate, a loro volta, da perdite di crediti verso imprenditori in procedura.
Si fa presente che i sei mesi di moratoria “al buio” dovranno aggiungersi ai tempi, non brevi, del concordato preventivo, che partirebbe concretamente dopo il deposito del piano e il decreto di ammissione .
In questi anni abbiamo già potuto constatare come l'imprenditore in crisi usi quasi sempre lo strumento del concordato preventivo per ribaltare le perdite sui creditori, come alternativa alle disposizioni del codice civile che gli imporrebbero di coprirle con nuovi capitali.
Scorrendo il testo della bozza, altre considerazioni si potrebbero fare su che cosa avrebbe potuto essere inserito. Si tratta di tante cose, ma credo utile segnalare, tra le altre, la mancanza di una necessaria riforma dell'art. 186 l. fall. laddove non si prevede il fallimento d'ufficio per i concordati in cui non siano adempiuti gli obblighi della proposta. La richiesta di fallimento riservata ai soli creditori spesso, infatti, rimane non praticata, poiché questi, resi esausti da una procedura deludente, che non ha consentito loro di veder seppur parzialmente soddisfatte le proprie ragioni, hanno perso anche la motivazione (e la fiducia) per predisporre un'istanza di fallimento.
Ci si augura, dunque, che successivi interventi di modifica possano cogliere - prima della emanazione del decreto o della sua conversione in legge - gli aspetti più critici, già evidenti sul mercato, per regolare le vicende della crisi d'impresa a favore dei creditori e del sistema in generale.