Le dichiarazioni rilasciate al curatore dal coimputato contumace valgono come prove contro il fallito
25 Settembre 2015
Sono utilizzabili, quale prova a carico dell'imputato, le testimonianze indirette del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a lui rese da un coimputato rimasto contumace e poi trasfuse nella relazione di cui all'art. 33 l. fall. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 38453 depositata il 22 settembre 2015.
IL CASO – L'amministratore di fatto di una società cooperativa dichiarata fallita veniva chiamato a rispondere del reato di bancarotta fraudolenta documentale in concorso con il liquidatore della stessa società. Ritenuto responsabile dai giudici dei primi due gradi di giudizio, presentava ricorso innanzi alla Corte di Cassazione lamentando l'utilizzo delle dichiarazioni rese dal coimputato, rimasto poi contumace, al curatore fallimentare fuori dal processo, dunque in sede non garantita e in carenza dei presupposti formali di acquisizione.
LA TESTIMONIANZA INDIRETTA DEL CURATORE - Rigettando il ricorso, i Giudici di legittimità sottolineano come il tema principale del ricorso, ovvero quello dell'utilizzabilità o meno di dichiarazioni eteroaccusatorie oggetto di testimonianza indiretta del curatore fallimentare, sia già stato affrontato dalla giurisprudenza.
LA COMPARAZIONE DELLE DICHIARAZIONI - Premessa l'utilizzabilità delle dichiarazioni in tal modo veicolate nel contesto processuale, le dichiarazioni spontanee rese invece dall'imputato durante il giudizio non meritano per ciò solo una maggiore considerazione da parte del giudice al momento della comparazione. In altri termini, e riprendendo le parole dei Supremi Giudici, non può essere attribuita alle prime dichiarazioni la qualifica di serie b e quella di serie a alle seconde, né tanto meno può essere invocata la giurisprudenza CEDU sulla lesione del diritto al giusto processo laddove la condanna si basi su deposizioni di persone che il difensore non ha potuto interrogare formalmente. |