L'accredito su conto corrente bancario della società successivamente fallita, dell'escussione del pegno derivante dalla sua vendita, è una rimessa revocabile ai sensi dell'art. 67 l. fall.?
La risposta al quesito impone un breve excursus sugli studi effettuati dalla giurisprudenza e dalla dottrina in merito alla natura dell'azione revocatoria fallimentare.
TEORIA “INDENNITARIA”- Secondo l'opinione più risalente, l'esperimento dell'azione revocatoria fallimentare richiede la sussistenza del requisito oggettivo del danno (teoria indennitaria). Esso si traduce nella lesione della par condicio creditorum e si presume sussistente in occasione delle ipotesi di cui all'art. 67 l. fall. Si tratta tuttavia di una presunzione iuris tantum e al convenuto è consentito fornire la prova contraria (vedi Cass. 9853/1991; Cass. 6082/1990; Cass. 20005/2005; Cass. 5713/2005).
È quindi necessario accertare in concreto la sussistenza del danno “attraverso la dimostrazione dell'esistenza di altri crediti aventi diritto di prededuzione o di prelazione di grado superiore o uguale a quello estinto” (così Cassazione 16 ottobre 1987, n. 7649). Solo così può ritenersi integrata l'alterazione effettiva della par condicio creditorum. La procedura, per poter agire, deve in definitiva avere un interesse concreto ed attuale, cosa che non si verificherebbe se il soggetto che ha subito l'azione revocatoria avesse poi diritto, in sede di riparto, di conseguire nuovamente l'intera somma restituita (così Cass. n. 5713/2005; vedi in tal senso Tarzia, La funzione redistributiva ed il danno nella revocatoria fallimentare, in Fall., 8, 2010, 935; si legga in tal senso anche Ferrara, Il Fallimento, Milano, 1974, 402, secondo il quale “dubbia è la revoca dei pagamenti di crediti privilegiati e comunque la stessa va sicuramente esclusa quando non vi siano crediti fallimentari poziori a quello pagato e quando gli stessi trovino sicura capienza nel patrimonio fallimentare”).
Secondo tale teoria il quesito proposto riceverebbe quindi verosimilmente risposta negativa e il pagamento pre-fallimentare di un credito assistito da garanzia reale non sarebbe revocabile nei limiti sopra descritti, in quanto in concreto “inoffensivo” per il ceto creditorio.
TEORIA ANTI-INDENNITARIA - Al contrario, i fautori della teoria anti-indennitaria sostengono che il danno consistente nella lesione della par condicio creditorum è in re ipsa nelle ipotesi di cui all'art. 67 l. fall. e presunto iuris et de iure (si leggano D'Alessandro, La revocatoria dei pagamenti nel fallimento, 162 ss.; De Martini, Rivista di diritto commerciale, 58, II, 244 ss.).
Secondo tale impostazione, quindi, l'azione revocatoria potrebbe colpire in ipotesi anche atti non concretamente dannosi perché l'obiettivo dell'istituto è quello di ridistribuire le perdite conseguenti all'insolvenza del fallito tra tutti coloro che nel periodo sospetto hanno beneficiato consapevolmente degli atti compiuti dal soggetto in stato di dissesto (così spiega Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970).
La Cassazione, pronunciatasi a Sezioni Unite con la sentenza 28 marzo 2006, n. 7028, ha optato per questa seconda impostazione – che oggi può dirsi certamente prevalente - spiegando “che il presupposto oggettivo della revocatoria degli atti di disposizione compiuti dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento si correla non alla nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell'ordinamento, bensì dalla specialità del sistema fallimentare, ispirato all'attuazione della par condicio creditorum, per cui il danno consiste nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio, ricollegata, con presunzione legale assoluta, al compimento dell'atto vietato nel periodo indicato dal legislatore”.
In pratica, come sopra ricordato, l'azione revocatoria fallimentare necessita sì di un requisito oggettivo – il danno inteso come alterazione dei principi della concorsualità –, ma esso è considerato automaticamente ed indiscutibilmente sussistente nelle ipotesi descritte dall'art. 67 l. fall.
Il danno dunque non va valutato secondo gli ordinari criteri dell'ordinamento o secondo le comuni nozioni “civilistiche”, bensì deve essere giudicato alla luce della specialità del sistema fallimentare e del sistema revocatorio fallimentare in particolare, consistendo il pregiudizio nella semplice lesione della par condicio creditorum (vedi conformi all'orientamento precisato dalle Sezioni Unite anche Cass. n. 5505/2010; Cass. 4785/2010 e Tribunale di Napoli 24 febbraio 2012).
Del resto, solamente in seguito alla ripartizione dell'attivo si potrà davvero verificare se il pagamento del credito assistito da diritto di prelazione non pregiudica le ragioni di altri creditori privilegiati (così prosegue Cassazione Sezioni Unite, 7028/2006, cit.).
LA GIURISPRUDENZA PIÙ RECENTE - Sulla scorta di simili considerazioni, la Cassazione, chiamata a risolvere un caso in tutto analogo a quello di cui al quesito, abbracciando dichiaratamente la teoria anti-indennitaria ha stabilito che “in tema di revocatoria fallimentare, la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno ormai consolidatosi in favore della stessa banca, è revocabile, ai sensi dell'art. 67 l. fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l'eventus damni deve considerarsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile all'uscita del bene dalla massa in forza dell'atto dispositivo, e non potendosi escludere a priori il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuatisi in seguito al passivo”.
Ecco quindi che, in ossequio all'insegnamento delle sezioni unite del 2006, anche il pagamento ante fallimento di un credito assistito da garanzia reale – mediante la realizzazione del bene oggetto della garanzia – può essere revocato, stante la presunzione iuris et de iure di dannosità per il ceto creditorio secondo la rigorosa interpretazione anti-indennitaria dell'azione revocatoria fallimentare.
Ciò, si badi bene, precisa la Corte, avviene indipendentemente dalle conseguenze dannose per il creditore privilegiato che perde la disponibilità del pegno a seguito dell'avvenuto realizzo successivamente revocato.
IL CASO PARTICOLARE DEL PEGNO “IRREGOLARE” - È possibile infine un'ulteriore precisazione.
Quanto detto vale per il pegno “regolare”.
Qualora invece i proventi della rimessa derivino dal realizzo di un pegno “irregolare” costituito a garanzia di un finanziamento concesso dalla banca, la revocatoria sarebbe esclusa, perché non ci troveremmo dinanzi ad un pagamento, bensì ad un'ipotesi di compensazione consentita dall'art. 56 l. fall.
Questo perché nel pegno “irregolare” il creditore garantito non acquista la mera disponibilità di un bene, bensì diviene proprietario delle cose fungibili date in pegno e assume l'obbligo di restituire, alla scadenza dell'obbligazione principale, una somma equivalente al valore delle cose costituite in pegno, se il debitore adempie l'obbligazione principale, ovvero una somma parti all'eventuale eccedenza del loro valore rispetto a quello della prestazione dovuta, se tale obbligazione rimane inadempiuta.
In questo modo l'eventuale inadempimento del debitore determina la coesistenza di debiti reciproci tra debitore e creditore garantito che vengono così ad estinguersi secondo i principi della compensazione (così ha stabilito la Cassazione nella sentenza 5 novembre 2004, n. 21237).