Come ci si regola per le richieste di C.I.G. c.d. in deroga in caso di procedure concorsuali?
La Cassa Integrazione Guadagni in deroga è un sostegno attivo per operai, impiegati e quadri sospesi dal lavoro che non hanno accesso alla cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria (C.I.G.O. e C.I.G.S.), nonché per gli apprendisti, somministrati/interinali e lavoratori a domicilio.
Si tratta di quelle categorie di lavoratori che, trovandosi sprovvisti di ammortizzatori, subirebbero una condizione pregiudizievole rispetto ad altri soggetti che ne sono beneficiari per legge.
Per brevità, si può affermare che tutti i dipendenti da aziende dichiarate fallite godono di un sostegno al reddito, con modalità diverse in rapporto alle dimensioni aziendali ed al settore (industria/ terziario) di appartenenza.
L'impianto della "C.I.G. in deroga" è diverso dalle forme di ammortizzatori sociali come la C.I.G.O. e la C.I.G.S., alla cui regolamentazione e al cui finanziamento concorrono, nella misura del 40%, le Regioni, con percorsi amministrativi e campi di applicazioni non sempre convergenti.
La questione più frequentemente emersa riguarda i costi supplementari che farebbero capo al fallimento in seguito all'attivazione della C.I.G. in deroga.
Durante il periodo di sospensione dal lavoro, con relativa integrazione salariale, continua infatti a maturare a favore del lavoratore il trattamento di fine rapporto (TFR), il cui pagamento in presenza di C.I.G.S. concorsuale è a carico dell'INPS, mentre per la C.I.G. in deroga non esiste la medesima previsione normativa, con il risultato che, in astratto, il lavoratore potrebbe pretendere il TFR dal fallimento.
Questo onere trae origine, infatti, da un contratto di lavoro stipulato prima della dichiarazione di fallimento; pertanto, in assenza di una esplicita risoluzione contrattuale (licenziamento), il TFR che matura assume il carattere di un debito perdurante che per di più, avendo natura retributiva, è anche privilegiato.
Comprensibile a questo punto la prudenza della curatela nel cercare una via d'uscita che, mentre garantisca comunque ai lavoratori un sostegno al reddito, contemporaneamente non gravi la massa di costi aggiuntivi, finalità ben compresa dagli stessi lavoratori, che di norma, pur di non essere esclusi dalla C.I.G., sono disponibili a non chiedere al fallimento di pagare l'onere del TFR che maturi nel suo corso.
Le strade finora praticate per conciliare i due opposti interessi sono state al momento due.
La prima prevede un verbale di accordo con il quale le organizzazioni sindacali s'impegnano a far sottoscrivere ad ogni lavoratore una dichiarazione con la quale il credito da TFR maturato in costanza di C.I.G. in deroga verrà richiesto in postergazione.
La seconda condiziona l'attivazione dell'ammortizzatore sociale alla sottoscrizione da parte di ogni lavoratore di un verbale di transazione e conciliazione sindacale ex artt. 2113 c.c. e 411 c.p.c., che prevede l'impegno a non richiedere la somma maturata in sede fallimentare.
La prima ipotesi sconta il rischio che, di fronte alla richiesta rivolta all'INPS da parte del lavoratore di anticipo del TFR, l'istituto sostenga poi in sede di surroga la natura perdurantemente retributiva della somma anticipata, qualificandola come privilegiata/non postergata.
In entrambe le soluzioni il curatore deve affrontare comunque alcune problematiche che rallentano l'attivazione della procedura, come l'autorizzazione del comitato dei creditori o, in mancanza, del Giudice Delegato, la raccolta di tutte le dichiarazioni di "postergazione" o di "rinuncia", la firma del verbale di accordo in sede locale oppure al Ministero in presenza di unità produttive diffuse in diverse regioni, l'invio dell'accordo alla Regione di competenza , la richiesta di pagamento debitamente sottoscritta dai lavoratori ed infine la trasmissione telematica della stessa all'INPS.
II primo problema che si incontra è la difficoltà di avere un interlocutore quando il livello di sindacalizzazione della fallita è scarso o, addirittura assente. I lavoratori diventano difficilmente raggiungibili ed aggregabili, con la conseguenza che i citati accordi individuali sono, nel migliore dei casi, molto laboriosi da stipulare e da raccogliere, lasciando il dubbio che il rifiuto da parte di qualche lavoratore a sottoscrivere l'impegno possa pregiudicare l'intera operazione.
Si ritiene opportuno segnalare il peso che assume la questione "tempo". Si presume infatti che per attivare la C.I.G. in deroga il curatore non debba provvedere al licenziamento dei lavoratori in forza, col risultato che di fronte al rifiuto del sindacato e/o dei lavoratori di sottoscrivere un qualsivoglia impegno di "sospensione" del TFR, o si addiviene al licenziamento o tutti gli istituti retributivi previsti dal contratto di lavoro continuino a maturare e ad essere opponibili al fallimento.
Un ulteriore problema è provocato dal diverso campo di applicazione della C.I.G. in deroga previsto dalle diverse Regioni.
Un esempio significativo.
La Regione Veneto prevede che sia "escluso il ricorso alla C.I.G. in deroga nei casi di cessazione dell'attività dell'impresa, con o senza procedura concorsuale, fatto salvo una concessione di C.I.G. in deroga per un massimo di 180 giornate esclusivamente in presenza di fondate e documentate aspettative in ordine alla continuazione o alla ripresa dell'attività produttiva ed alla conservazione, anche parziale, dei rapporti di lavoro in atto, derivanti quali conseguenza dalla acquisizione dell'impresa o di parti della stessa da parte di terzi."
Premesso che per la Regione Lombardia non esistono le limitazioni sopra riportate per l'accesso da parte delle procedure concorsuali alla C.I.G. in deroga, sorgono inevitabili interrogativi quando il curatore si trovi in presenza, ad esempio, di unità produttive in Lombardia e in Veneto, e si rechi al Ministero del lavoro per firmare un verbale di esame congiunto con la Regione Lombardia e la Regione Veneto.
Al di là degli aspetti sociali, comunque rilevanti e non accantonabili, si pone un problema di equità.
Può essere accettabile il discrimine costituito dal fatto che un lavoratore sia in forza ad un'impresa con meno di 15 dipendenti, e comunque, pur in presenza di un ammortizzatore sociale, non sia garantito quanto un altro lavoratore occupato in un'impresa con 16 o più dipendenti?