Il concetto di finanza esterna nel concordato preventivo: fattispecie problematiche

Mauro Vitiello
11 Maggio 2015

L'esistenza di risorse estranee al patrimonio del debitore che intenda definire la crisi della sua impresa con la procedura concorsuale del concordato preventivo è, come noto, un elemento che qualifica positivamente il piano, consentendo che il soddisfacimento del ceto creditorio discenda, oltre che dai flussi di cassa derivanti dalla liquidazione del patrimonio del debitore e/o dalla prosecuzione dell'impresa, anche dalla cd. finanza esterna.

L'esistenza di risorse estranee al patrimonio del debitore che intenda definire la crisi della sua impresa con la procedura concorsuale del concordato preventivo è, come noto, un elemento che qualifica positivamente il piano, consentendo che il soddisfacimento del ceto creditorio discenda, oltre che dai flussi di cassa derivanti dalla liquidazione del patrimonio del debitore e/o dalla prosecuzione dell'impresa, anche dalla cd. finanza esterna.
La presenza di quest'ultima diviene indispensabile, in particolare, qualora le risorse derivanti dalla liquidazione o dall'impiego del patrimonio del debitore siano insufficienti a garantire il soddisfacimento di tutti i crediti assistiti da una causa di prelazione generale, prima ancora che dei crediti chirografari.
In tali casi, imperniare il piano anche sulla finanza esterna (di regola riconducibile alla persona fisica del socio o dell'amministratore o ad altra società facente parte del medesimo gruppo d'impresa del debitore in crisi) anzitutto assicura la realizzazione della funzione economica del concordato, cioè la soluzione della crisi, in un lasso di tempo ragionevolmente breve, con il soddisfacimento di tutti i creditori concorsuali, in secondo luogo rende possibile un'allocazione delle risorse esterne che prescinda dalle regole che governano il pagamento dei crediti concorsuali (artt. 2741 e segg. c.c.), consentendo il soddisfacimento parziale dei chirografari pur in presenza della falcidia dei crediti prelatizi derivante dall'incapienza del patrimonio del debitore.
La stessa Corte di Cassazione ha in diverse occasioni evidenziato che quando la proposta concordataria contempli il pagamento parziale dei crediti assistiti da una causa di prelazione generale, che in quanto tale insiste sull'intero attivo mobiliare, il soddisfacimento del ceto creditorio chirografario non può che discendere da risorse, esterne al patrimonio del debitore, messe a disposizione da soggetti terzi (per tutte Cass., 8 giugno 2012, n. 9373).
Delineare il perimetro del concetto di finanza esterna è quindi essenziale, in quanto dalla sua maggiore o minore estensione discende l'ammissibilità o meno di determinate proposte di concordato.
Alcune recenti pronunce legittimano la qualificazione di finanza esterna dell'individuato e quantificato quid pluris derivante da una liquidazione del patrimonio del debitore con le più agili e convenienti modalità (rispetto a quelle riconducibili ad una liquidazione in sede fallimentare) previste dal piano concordatario (Tribunale di Rovereto, 13 ottobre 2013; Tribunale di Treviso, 26 febbraio 2015; Tribunale di Roma, 24 marzo 2015).
La fattispecie più comune che si inserisce in tale solco giurisprudenziale è quella della vendita di un'azienda, o di un qualunque asset sociale, ad un prezzo (erogato da un soggetto che in genere è già individuato dal proponente il concordato) corrispondente al valore di mercato del bene o dei beni sui quali la causa di prelazione insiste.
Lo stesso soggetto mette poi a disposizione della massa dei creditori una somma ulteriore, rispetto a quella da imputarsi a prezzo della compravendita, a condizione che il concordato venga omologato.
Proposte di tal fatta si caratterizzano quindi per una formale coerenza con il dato normativo, dal momento che la determinazione del valore di mercato del bene o dei beni oggetto di liquidazione avviene secondo le modalità di cui all'art. 160, comma 2, l. fall. (relazione giurata del professionista attestatore), ma per la provenienza delle risorse “aggiuntive” da medesimo soggetto che acquista il bene o i beni del debitore in concordato.
E' innegabile che tali proposte possano portare con sé il rischio di integrare un espediente per consentire l'applicazione del principio di cui all'art. 160, comma 2, l. fall., e quindi la falcidia dei creditori assistiti da una causa di prelazione generale o speciale, anche quando l'effettivo valore di mercato del bene sul quale il privilegio insiste consentirebbe il pagamento integrale di tale credito privilegiato.
I percorsi per scongiurare tale pericolo sono due.
Il primo passa per la valorizzazione delle funzioni di controllo immanenti alla figura del commissario giudiziale, che in fattispecie quali quelle in parola è chiamato ad esercitare penetranti verifiche intese ad escludere che il professionista attestatore del valore di mercato abbia sottostimato il bene per favorire l'imputazione formale di parte del prezzo a finanza esterna.
Tali verifiche possono consistere nello svolgimento di una consulenza tecnica d'ufficio (art. 172, comma 2, l. fall.), che possa supportare il commissario nella valutazione dei beni, o nella pubblicizzazione della vendita con le forme più opportune, chiedendo così al “mercato” una forma indiretta, ma efficace, di riscontro della correttezza dei valori di cessione indicati nel piano.
Il secondo percorso porta ad escludere in radice che la risorsa esuberante rispetto al valore di mercato stimato ex art. 160, comma 2, l. fall. possa integrare un quid pluris liberamente allocabile tra i creditori concorsuali, allorquando essa derivi dal patrimonio del medesimo soggetto che acquista il bene o i beni del debitore in concordato.
Il debitore che cede ai creditori il proprio patrimonio non potrebbe quindi mai destinare l'eventuale risorsa aggiuntiva maturata a creditori diversi da quelli che vanno soddisfatti prioritariamente secondo l'ordine di cui agli artt. 2741 e ss. c.c., qualora essa promani da un soggetto che si renda cessionario di una parte o dell'intero patrimonio del debitore in concordato, per una sorta di presunzione di esistenza di un indissolubile ed integrale nesso sinallagmatico tra atto di acquisto e risorse erogate.
Del resto, ove così non fosse, anche nelle proposte concordatarie che, diversamente da quelle in discorso (chiamate “chiuse” o “vincolate”), sono caratterizzate dalla previsione della realizzazione della cessione dei beni del debitore da parte di un liquidatore giudiziale, si finirebbe per autorizzare una qualificazione alla stregua di finanza esterna di quella parte di prezzo di aggiudicazione che risulti eventualmente esuberante rispetto al valore stimato nel piano e attestato nella relazione del professionista.
Tale conclusione non pare all'evidenza sostenibile, proprio per il nesso di stretta corrispettività che necessariamente va ravvisato tra vendita dei beni facenti parte del patrimonio del debitore e corrispettivo realizzato con l'utilizzo delle procedure di vendita competitive.
E a ben vedere il medesimo nesso di rigorosa corrispettività potrebbe essere ravvisato, in via presuntiva, anche qualora vi fosse l'imputazione di una parte delle risorse erogate dal cessionario dell'azienda o del singolo cespite a liberalità condizionata all'omologazione del concordato, quando l'individuazione del cessionario sia parte qualificante dei contenuti del piano di concordato e qualora non vi fossero elementi concreti idonei a vincere l'anzidetta presunzione.

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