La Cassazione chiarisce che le società a partecipazione pubblica sono assoggettabili a fallimento. Fine di un problema?

Paolo Pizza
06 Marzo 2014

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza 27 settembre 2013, n. 22209, ha avuto modo di affrontare ex professo l'annoso problema relativo alla fallibilità delle società in mano pubblica. Nella fattispecie oggetto della decisione, in particolare, si afferma che una società partecipata per il 51% da un ente pubblico e affidataria in concessione della realizzazione e gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani deve considerarsi assoggettabile alle procedure concorsuali previste dalla Legge Fallimentare.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza 27 settembre 2013, n. 22209, ha avuto modo di affrontare ex professo l'annoso problema relativo alla fallibilità delle società in mano pubblica. Nella fattispecie oggetto della decisione, in particolare, si afferma che una società partecipata per il 51% da un ente pubblico e affidataria in concessione della realizzazione e gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani deve considerarsi assoggettabile alle procedure concorsuali previste dalla Legge Fallimentare.
La Corte è giunta a tale conclusione con un itinerario argomentativo lineare.
Dopo aver ricordato che per lungo tempo non si era mai dubitato del fatto che le società a partecipazione pubblica fossero società di diritto comune “interamente assoggettate alla disciplina civilistica (e perciò anche alla legge fallimentare)”, la Cassazione ha evidenziato, in particolare, che:
- il legislatore della riforma del diritto societario (D.Lgs. n. 3/2003) ha ribadito, per il tramite degli artt. 2449 e 2450 c.c., che le società a partecipazione integralmente pubblica o mista (pubblico/privata) sono riconducibili al novero delle società di diritto comune;
- le disposizioni normative speciali dedicate alle società a partecipazione pubblica non costituiscono un corpus unitario tale da modificare la natura di soggetti di diritto privato e da sottrarre tali società alla disciplina civilistica;
- le specifiche normative di settore dedicate alle società a partecipazione pubblica che agiscono in settori di pubblico interesse se, da un lato, per ciò che attiene agli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, dall'altro, rivelano, a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica;
- le sentenze della Cassazione che in passato hanno ritenuto applicabili a società di capitali specifiche norme pubblicistiche non si pongono in contrasto con l'orientamento della medesima Cassazione, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede in tutto o in parte il capitale;
- il rapporto esistente tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia, in quanto l'ente socio può incidere sul funzionamento e sull'attività della società solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina;
- nell'ordinamento giuridico italiano esiste una disposizione – l'art. 4 della L. n. 70/1975 - che richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco;
- deve escludersi che peculiarità tali da giustificare l'equiparazione ad un ente pubblico di una società a partecipazione pubblica possano rinvenirsi sul piano del soggetto – cioè dell'ente giuridico “società” – e del modo in cui sono disciplinati la sua organizzazione, il suo funzionamento e i rapporti, al suo interno, tra i diversi organi: ciò in quanto la volontà negoziale della società a partecipazione pubblica, pur se determinata da atti propedeutici dell'Amministrazione, si forma e si manifesta secondo le regole del diritto privato;
- deve altresì escludersi che peculiarità tali da giustificare l'equiparazione ad un ente pubblico di una società a partecipazione pubblica possano rinvenirsi sul piano dell'attività, cioè dei rapporti che la società, in quanto soggetto riconosciuto dall'ordinamento come dotato di una propria capacità giuridica e di agire, instaura con i terzi: eventuali norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al capitale e la designazione degli organi non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica;
- l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile;
- non è condivisibile l'idea secondo cui la verifica dell'applicabilità alle società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di specifiche disposizioni normative, vada compiuta di volta in volta, a seconda della materia di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore;
- non è condivisibile l'idea secondo cui le società a partecipazione pubblica che svolgono un pubblico servizio ritenuto essenziale non possono fallire, perché il fallimento pregiudicherebbe l'esecuzione continuativa e regolare del servizio; e ciò sia perché questa visione dovrebbe condurre l'interprete a ritenere che anche le società a capitale interamente privato che svolgono servizi pubblici in concessione dovrebbero essere esentate dal fallimento; sia perché la necessità del servizio pubblico gestito, di per sé, non osta alla sottoposizione alle procedure previste dalla Legge Fallimentare, come dimostra la L. n. 166/2008, che prevede la possibilità di sottoporre alla procedura di amministrazione straordinaria le grandi imprese che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, da ciò derivando che sarebbe privo di coerenza un sistema che sottrae dalle procedure concorsuali i gestori di servizi pubblici essenziali che non raggiungono certe soglie dimensionali; d'altra parte, il fallimento della partecipata, ancorchè costituita all'unico scopo di gestire il servizio, non preclude l'affidamento della gestione del servizio ad un nuovo soggetto, vigendo nel nostro ordinamento il principio della separazione della titolarità degli impianti e delle reti, necessariamente pubblica, dalla attività di gestione del servizio, affidabile anche a privati, e ciò senza contare che il rischio di interruzione del servizio può essere evitato attraverso il ricorso all'esercizio provvisorio, previsto dall'art. 104 l. fall.;
- la scelta di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali (ovverosia la scelta di consentire il perseguimento di interessi pubblici attraverso strumenti privatistici), implica l'assunzione da parte di tali società dei rischi connessi alla loro insolvenza: se così non fosse, risulterebbero violati i principi di uguaglianza, di affidamento e di tutela della concorrenza, in quanto i soggetti terzi che operano nello stesso mercato in cui operano le società a partecipazione pubblica, che utilizzano le stesse forme e le stesse modalità utilizzate da queste ultime e che entrano in rapporto con esse, debbono potersi avvalere di tutti gli strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall'ordinamento.
L'itinerario argomentativo percorso dalla Corte di Cassazione è convincente.
Il passaggio più interessante della decisione è quello riportato da ultimo: nell'evocare i principi di uguaglianza, affidamento e di libera concorrenza la Cassazione invita gli interpreti ad operare una lettura costituzionalmente orientata delle numerose disposizioni normative che vengono usualmente evocate nell'annoso dibattito relativo alla individuazione della natura delle società a partecipazione pubblica, invito che si pone decisamente in linea con le più recenti tendenze legislative che paiono ben espresse dall'art. 4, comma 13, della legge n. 135/2012, a mente del quale “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.
Si segnala, peraltro, che non tutti i problemi paiono risolti, posto che alla fine del 2013 le Sezioni Unite della Cassazione, in sede di riparto di giurisdizione, con la sentenza 25 novembre 2013, n. 26283 sembrano aver individuato un'eccezione alla regola generale dell'assoggettabilità a fallimento delle società in mano pubblica delineata dalla sentenza 27 settembre n. 22209: quelle tra le società a partecipazione pubblica che siano qualificabili come “in house” non sarebbero comunque assoggettabili a fallimento (cfr. al riguardo il commento di Panzani “La fallibilità delle società in mano pubblica”, in ilFallimentarista.it).
É comunque importante evidenziare che le Sezioni Unite, con encomiabile sforzo, hanno provveduto a delineare in modo particolareggiato i requisiti dell' “in house”, concentrandosi soprattutto su quello denominato “controllo analogo”. Ed è proprio su quest'ultimo punto, probabilmente, che si svilupperà in futuro il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, posto che la lettura prospettata dalla Corte in ordine al requisito da ultimo menzionato è diversa da quella comunemente prospettata dalla giurisprudenza e dalla dottrina di stampo pubblicistico sulla scorta dei pronunciamenti della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che per prima ha enucleato il concetto di “società in house”.

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