Codice di Procedura Penale art. 36 - Astensione 1 2 .1. Il giudice ha l'obbligo di astenersi: a) se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli; b) se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; c) se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; f) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero; g) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 e dalle leggi di ordinamento giudiziario; h) se esistono altre gravi ragioni di convenienza. 2. I motivi di astensione indicati nel comma 1 lettera b) seconda ipotesi e lettera e) o derivanti da incompatibilità per ragioni di coniugio o affinità, sussistono anche dopo l'annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. 3.La dichiarazione di astensione è presentata al presidente della corte o del tribunale che decide con decreto senza formalità di procedura. 4. Sulla dichiarazione di astensione del presidente del tribunale decide il presidente della corte di appello; su quella del presidente della corte di appello decide il presidente della corte di cassazione3.
[1] Per il procedimento davanti al giudice di pace, v. art. 10, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e art. 2 d.m. 6 aprile 2001, n. 204 (G.U. 31 maggio 2001, n. 125). [2] La Corte cost. con sentenza 20 aprile 2000, n. 113 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del presente articolo, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., escludendo dalle «altre ragioni di convenienza» la pronuncia da parte dello stesso giudice di una sentenza ai sensi dell'art. 444 c.p.p. nei confronti di uno o più coimputati. [3] Comma così sostituito dall'art. 172, d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 con la decorrenza indicata nell'articolo 247, comma 1, del citato decreto come modificato dall'articolo 1 della legge 16 giugno 1998, n. 188. InquadramentoLa norma in commento — e quella successiva — codifica i casi non “strutturali” che privano il giudice, per i comportamenti tenuti o per i suoi rapporti con una delle parti, della capacità specifica a trattare il procedimento. La ratio della norma e l'ambito della sua applicabilitàLo ha ben (e più volte) spiegato la Corte costituzionale: «nel sistema del codice di procedura penale, norme operanti nel senso di escludere la possibilità di duplicazione di valutazioni della medesima res iudicanda, a opera del medesimo giudice, quale persona fisica, sono dettate nell'ambito sia della disciplina della incompatibilità del giudice (art. 34), da un lato, sia della disciplina dell'astensione e della ricusazione (artt. 36 e 37), dall'altro. Tra i due ambiti, tuttavia, esiste una differenza categoriale. Come risulta dai casi previsti dall'art. 34, nonché dalla stessa rubrica di tale articolo (incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento), la ratio dell'istituto dell'incompatibilità è di preservare l'autonomia e la distinzione della funzione giudicante, in evidente relazione all'esigenza di garanzia dell'imparzialità di quest'ultima, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo processo: autonomia, distinzione e, conseguentemente, imparzialità che risulterebbero compromesse qualora tali attività potessero essere riunite nell'azione dello stesso soggetto chiamato alla funzione giudicante (Corte cost. n. 155/1996). La ratio della disciplina dell'incompatibilità è dunque primariamente quella obiettiva del rispetto della logica del processo penale, delle sue scansioni e delle differenze di ruoli che in esso i diversi soggetti sono chiamati a svolgere: il giudizio non si deve confondere, attraverso una sorta di unione personale, con altre attività che attengono al processo e che hanno una loro diversa ragion d'essere e il cui compimento potrebbe costituire pre-giudizio rispetto al giudizio medesimo. Alla stregua della ratio anzidetta, si comprende come le incompatibilità previste dall'art. 34 siano tutte determinate dal fatto solo di aver svolto determinate attività nel corso del medesimo procedimento penale, indipendentemente dal contenuto che tali attività possono aver assunto (Corte cost. n. 308/1997). In breve: sono tutte incompatibilità interne all'articolazione del processo penale e sono tutte previste in modo da operare in astratto, non in concreto, e le cause che le determinano sono normalmente tali da poter essere evitate preventivamente attraverso idonei atti di organizzazione dello svolgimento del processo, come la formazione dei collegi giudicanti e l'assegnazione delle cause, trasformandosi in motivi di astensione o ricusazione (art. 36, comma 1, lett. g) solo quando tali atti non siano stati posti in essere (Corte cost. n. 307/1997). Le cause di astensione e di ricusazione di cui agli artt. 36 e 37 che attengono ad attività del giudice — escluse quelle (...) indicate nella lett. g) del comma 1 dell'art. 36, la quale richiama le situazioni di incompatibilità del giudice, al fine di farne motivo di astensione e poi, per il richiamo contenuto nella lett. a) del comma 1 dell'art. 37, di ricusazione — si collocano invece su un piano diverso. Esse sono dirette immediatamente alla garanzia dell'imparzialità del giudice e prescindono da qualunque riferimento alla struttura del processo e all'esigenza del rispetto della logica intrinseca ai suoi diversi momenti di svolgimento. Ciò che conta è l'esistenza di comportamenti del giudice che, siano essi tenuti entro o fuori il processo stesso, per il loro concreto contenuto sono tali da poter fare ritenere la sussistenza di un pregiudizio in capo al giudice, rispetto alla causa da decidere (v. le lettere c e h del comma 1 dell'art. 36 e la lett. b del comma 1 dell'art. 37). In breve: le cause di astensione e di ricusazione non hanno strutturalmente a che vedere con l'articolazione del processo e sono previste in modo da operare non in astratto ma in concreto. Data tale loro natura, l'ordinamento prevede, come mezzo normale per farle valere e ottenere la sostituzione del giudice, l'iniziativa dello stesso giudice che è tenuto a chiedere di astenersi (art. 36) ovvero quella della parte interessata che dichiara la ricusazione (art. 38). — Da quanto precede deve trarsi, come regola di giudizio, che, qualora un motivo di pregiudizio all'imparzialità del giudice derivi da sue attività compiute al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere — siano esse attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro giudizio — si verte nell'ambito di applicazione non dell'istituto dell'incompatibilità ma di quello dell'astensione e della ricusazione» (Corte cost. n. 306/1997). «Nonostante che il trattamento giuridico sia, nel suo nucleo centrale, alla fine lo stesso (ogni pregiudizio dà luogo a un diritto della parte pregiudicata di proporre istanza di ricusazione), collocare le varie fattispecie soltanto nell'area dei casi di astensione o di ricusazione ovvero anche nell'ambito delle situazioni di incompatibilità non è del tutto indifferente: in questa scelta si riflette una diversa articolazione della tutela del principio del giusto processo. Se è vero, infatti, che, nella disciplina contenuta nel Capo VII, Titolo I del Libro I del codice di procedura penale, a quanto risulta dal diritto vivente, le conseguenze della violazione del principio di terzietà sono sempre le stesse e approdano solo all'attivazione dei procedimenti di cui agli artt. 36 e 38, non può tuttavia negarsi che quando il motivo di astensione o di ricusazione consista in una ipotesi di incompatibilità, codificata come tale, quel principio riceve un supplemento di tutela in via preventiva. Una volta tipizzata in riferimento all'avvenuto svolgimento di funzioni, l'incompatibilità è, in effetti, prevedibile e quindi prevenibile, sicché la terzietà del giudice può essere organizzata, così da manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo d'essere della giurisdizione nella sua oggettività (Corte cost n. 155/1996). Ma la pretesa che la terzietà sia previamente organizzata appare ragionevole solo se riferita ad un medesimo procedimento e a tipi di funzioni definibili in astratto; solo se non si estenda, quindi, ad atti adottati in procedimenti diversi e considerati in ragione del loro contenuto in concreto (Corte cost. n. 308/1997). Altrimenti, nella varietà delle relazioni che possono instaurarsi tra procedimenti distinti, e nella molteplicità dei contenuti che i relativi atti sono suscettibili di assumere, si avrebbe una dilatazione enorme dei casi nei quali un qualche pregiudizio potrebbe essere ravvisato e l'intera materia delle incompatibilità, dispersa in una casistica senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi tentativo di amministrazione mediante atti di organizzazione preventiva» (Corte cost. n. 307/1997). «I casi di astensione o ricusazione propriamente detti (...) si ricollegano (...) a situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità della funzione di giudizio che possono anche preesistere, e anzi normalmente preesistono, al procedimento (art. 36, comma 1, lettere a, b, d, e, f), ovvero si collocano comunque al di fuori di esso (art. 36, comma 1, lett. c). In sintesi, nei casi ora menzionati il giudice è a vario titolo interessato al procedimento, ovvero ha manifestato il suo convincimento sull'oggetto del procedimento stesso. Anche l'ipotesi di ricusazione descritta dall'art. 37, comma 1, lett. b, non si sottrae a tale criterio di massima: il giudice che nell'esercizio delle sue funzioni ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione, senza alcuna necessità e senza alcun collegamento con l'attività giurisdizionale, opera — per usare le espressioni della prevalente giurisprudenza di legittimità — fuori della sede processuale e dei compiti che gli sono propri. Le ragioni del pregiudizio appaiono cioè oggettivamente identiche sia nel caso in cui il giudice abbia manifestato il proprio convincimento come privato (art. 36, comma 1, lett. c), sia in quello in cui il convincimento sia stato manifestato indebitamente nell'ambito di funzioni svolte nello stesso procedimento (art. 37, comma 1, lett. b), operando egualmente, in entrambi i casi, la cosiddetta forza della prevenzione. Identica ragione di pregiudizio ricorre, poi, nei casi in cui il giudice abbia espresso legittimamente il proprio convincimento sull'oggetto del procedimento nell'ambito di un diverso procedimento, penale o anche non penale» (Corte cost. n. 308/1997). Segue. L'oggetto del pre-giudizio. Rinvio Come è stato sottolineato anche dalla Corte di legittimità, le norme sulla ricusazione, derogando, in nome dell'imparzialità al principio del giudice naturale, non ammettono interpretazione estensiva o analogica e, quindi, non autorizzano una lettura degli artt. 36 e 37 che pretenda di assimilare interessi emergenti dal caso concreto, non espressamente considerati dall'ordinamento, a quelli oggetto di specifica regolamentazione. Per cui non può essere dedotta quale causa di ricusazione sotto il profilo del difetto di imparzialità, la già intervenuta valutazione da parte del giudice dell'attendibilità dei chiamanti in correità in occasione di altri procedimenti, perché si deve escludere che la valutazione della medesima prova effettuata in diverso procedimento, sia pure a carico dello stesso imputato, in relazione ad un diverso reato «pregiudichi» l'attività dei giudici ricusati (Cass. I, n. 45470/2005). Di conseguenza, è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 36, per presunto contrasto con l'art. 111 Cost., nella parte in cui detti articoli non prevedono come causa di incompatibilità e ricusabilità del giudice il fatto che questi, in altro procedimento, ancorché separato solo in conseguenza di scelta a suo tempo operata dal P.M., abbia già positivamente valutato la credibilità intrinseca di un “collaborante” (Cass. V, n. 47451/2004). Sulle ragioni che “pre-giudicano” la terzietà del giudice si rimanda al più ampio commento dell'art. 34. I singoli casi di astensione. I casi di cui alla lett. g). RinvioSalvi i casi relativi alle “gravi ragioni di convenienza” (di cui al paragrafo che segue) e ai rapporti di coniugio o parentela (di cui all'art. 35, oggetto di separato commento al quale si rimanda), si è preferito riportare l'elaborazione giurisprudenziale relativa ai singoli casi di astensione nel paragrafo dedicato alla casistica ove è raggruppata per casi omogenei. Le situazioni di incompatibilità stabilite dalle leggi sull'ordinamento giudiziario di cui all'art. 36, lett. g), sono quelle previste dagli artt. 18 e 19, r.d. n. 12/1941 relative alle incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense, con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede. Ora, fermo il divieto di far parte dello stesso collegio giudicante, sancito, per i magistrati giudicanti che hanno fra loro vincoli di parentela o affinità fino al quarto grado o di coniugio o convivenza, dall'art. 19, comma 4, r.d. n. 12/1941, negli altri casi l'incompatibilità non è assoluta, ma relativa e deve essere valutata dal Consiglio Superiore della Magistratura caso per caso, secondo i criteri in esse stabiliti. Ne deriva che ove il C.S.M. non rilevi, in concreto, alcuna situazione di incompatibilità di sede del magistrato, non ricorre la specifica causa di astensione di cui all'art. 36, lett. g). Se ne deve dedurre, altresì, che anche in caso di mancata denuncia (omissione disciplinarmente sanzionata), la attitudine della situazione di incompatibilità di sede a incidere sulla terzietà ed imparzialità del giudice deve essere valutata in concreto e non in astratto. Le gravi ragioni di convenienzaCome insegnato dalla Corte costituzionale, «il valore deontico del principio del giusto processo si esprime, in questo caso, sul piano interpretativo ed impedisce di attribuire alla locuzione «altre gravi ragioni di convenienza» un significato così ristretto da escludervi l'esercizio di funzioni in un diverso procedimento che abbia avuto, in concreto, un contenuto pregiudicante. La disposizione in oggetto pone una norma di chiusura a cui devono essere ricondotte tutte le ipotesi non ricadenti nelle precedenti lettere e nelle quali tuttavia l'imparzialità del giudice sia da ritenere compromessa. Il termine «convenienza», che nel linguaggio comune allude a regole non giuridiche di comportamento sociale, sembrerebbe invero orientare nel senso che i presupposti di questa figura di astensione abbiano natura extraprocessuale, sicché il giudice che sia chiamato a farne applicazione sia investito di facoltà discrezionali assai ampie. Tale rilievo, meramente lessicale, perde il suo carattere di decisività se la proposizione normativa viene letta in connessione logico-sistematica con le altre previsioni del medesimo art. 36. In esso, alla lett. h) si parla di «altre» gravi ragioni di convenienza. Non importa se «altre» stia qui per «diverse» o per «ulteriori»; rileva unicamente il fatto che grazie all'uso di questo termine tutte le cause di astensione elencate nelle precedenti lettere dello stesso comma 1 dell'art. 36, nel linguaggio del legislatore, sono da considerare, a loro volta, «altre» e, quindi, «ragioni di convenienza» anch'esse. Sono tali, ad esempio, quelle di cui alla lett. g), molte delle quali hanno sicuramente origine processuale. Quale logico corollario se ne desume che, nella lett. h), la parola «convenienza» assume un valore prescrittivo tale da imporre l'osservanza di un obbligo giuridico che non riguarda soltanto situazioni private del giudice, ma include l'attività giurisdizionale che egli abbia svolto, legittimamente, in altri procedimenti. Eventuali residue incertezze di lettura sono del resto destinate a dissolversi una volta che si sia adottato, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale. Questo impone infatti all'interprete di optare, tra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la disposizione conforme alla Costituzione: nella specie conforme al principio del giusto processo, secondo le indicazioni già contenute nelle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997 (Corte cost. n. 113/2000). L'inosservanza dell'obbligo di astensione per “gravi ragioni di convenienza” non costituisce motivo di ricusazione, non comporta una nullità generale ed assoluta della sentenza, non incidendo sulla capacità del giudice e potendo unicamente rilevare sotto il profilo disciplinare (Cass. VI, n. 44436/2022; Cass. II, n. 19292/2015; Cass. II, n. 36365/2013) (cfr. l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. c, d.lgs. 109/2006). Ne consegue che è inammissibile la ricusazione del giudice fondata sulle «altre gravi ragioni di convenienza» per le quali l'art. 36, comma primo, lett. h, impone al giudice il dovere di astenersi, in quanto tale ultima disposizione non è richiamata nel successivo art. 37, che detta la disciplina dei casi di ricusazione, né può essere ad essa estesa, data la natura di norme eccezionali che la regolano (Cass. VI, n. 44436/2022; Cass. I, n. 12467/2009). Sicché è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 37, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità di ricusare il giudice in presenza delle «gravi ragioni di convenienza» previste quale mera causa di astensione dall'art. 36, comma primo, lett. h), in quanto la mancata inclusione di tale causa di astensione (che ha natura residuale) tra i casi di ricusazione è giustificata dalla sua indeterminatezza, sicché essa, in caso contrario, si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali del giudice naturale e della ragionevole durata del processo, consentendo il proliferare di dichiarazioni di ricusazione pretestuose e strumentali (Cass. II, n. 27611/2007). L'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui all'art. 464 quater c.p.p., non determina l'incompatibilità del giudice nel giudizio che prosegua con le forme ordinarie nei confronti di eventuali coimputati, trattandosi di decisione adottata nella medesima fase processuale che non implica una valutazione sul merito dell'accusa ma esclusivamente una delibazione sull'inesistenza di cause di proscioglimento immediato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. nonché una verifica dell'idoneità del programma di trattamento e una prognosi favorevole di non recidiva; soltanto nell'ipotesi in cui l'ordinanza travalichi tali limiti è possibile sollecitare una verifica in concreto del requisito dell'imparzialità del giudice mediante gli istituti di cui agli artt. 36, comma 1, lett. h) e 37, comma 1 lett. b) c.p.p. (Cass. III, n. 14750/2016). Cass. III, n. 6048/2017 ha affermato il principio che tra le "gravi ragioni di convenienza" che, ai sensi dell'art. 36, comma primo, lett. h), c.p.p., consentono l'astensione del giudice rientra anche l'esigenza di evitare un'istruttoria dibattimentale destinata a diventare inutilizzabile in vista del sicuro protrarsi della stessa oltre il termine di trattenimento in servizio di uno dei componenti del collegio, atteso che la previsione di astensione per le predette ragioni è posta a presidio, non soltanto dell'imparzialità del giudice, ma, più generale, del buon andamento del processo. La Corte ha dunque escluso l'abnormità di un decreto del Presidente del Tribunale che - a seguito del rinvio di una complessa istruttoria dibattimentale a nuova udienza, effettuato dal collegio per il prossimo pensionamento di un suo componente, ed alla luce del dissenso anticipato dalla difesa alla rinnovazione mediante lettura degli atti - aveva accolto la dichiarazione di astensione del magistrato interessato, disponendone la sostituzione nel collegio. La dichiarazione di astensioneLa dichiarazione di astensione, a differenza della domanda di ricusazione — che ha carattere formale, sia per quanto attiene al termine di presentazione, sia per quanto concerne le modalità — non necessita di formule sacramentali, sicché può anche essere inserita nel corpo di una ordinanza dibattimentale, a condizione che tale provvedimento venga portato a conoscenza dell'organo abilitato a decidere su di essa (Cass. V, n. 10423/2000). Essa è efficace dal momento in cui è formulata, e non è revocabile da parte del giudice che la ha proposta, essendo da tale momento soggetta solo al controllo dell'organo giurisdizionale diverso e di grado superiore al quale deve essere presentata ai sensi dell'art. 36, comma 3 (Cass. IV, n. 9942/2000). Inoltre, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, può essere presentata (ed accolta) limitatamente ad alcuni capi di imputazione o ad alcuni imputati. Tale situazione non comporta alcun vizio del successivo provvedimento di separazione dei giudizi in relazione ai capi o agli imputati per i quali è intervenuta la separazione adottato con la partecipazione dello stesso magistrato che si è astenuto, trattandosi di provvedimento che non attiene alla decisione sul merito, ed essendo, al contrario, strumentale al corretto svolgimento del processo, proprio al fine di evitare una decisione sulla notitia criminis da parte del giudice che si è astenuto (Cass. VI, n. 3840/1999; nello stesso senso Cass. VI, n. 313/1999 e Cass. VI, n. 2823/1998, secondo cui non sono abnormi né il decreto del presidente della Corte di appello che autorizzi un giudice ad astenersi limitatamente a uno solo tra più imputati nel medesimo procedimento, precisando che la posizione di tale imputato «formerà oggetto di stralcio», né la successiva ordinanza che dispone lo stralcio nel procedimento «a quo»; e invero, da un lato, una astensione parziale non è preclusa da alcuna norma, ma costituisce statuizione obbligata dell'organo decidente, poiché l'accoglimento della dichiarazione di astensione non può che essere riferita alla prospettata causa di incompatibilità nei suoi limiti oggettivo e soggettivo, senza la possibilità di prendere in esame ex officio situazioni diverse da quella denunciata, dall'altro deve ritenersi che l'inciso «la cui posizione formerà oggetto di stralcio» non integri il provvedimento di separazione ex art. 18, ma costituisca un semplice suggerimento del rimedio, utile per un verso a realizzare gli effetti dell'astensione nei limiti autorizzati, e per altro verso a consentire la prosecuzione del processo in ordine alle altre posizioni). Il decreto presidenzialeIl decreto con cui il presidente del tribunale o della corte decide, senza alcuna formalità procedurale, sulla dichiarazione di astensione (accogliendola o rigettandola), ha natura meramente ordinatoria di atto di amministrazione e non di giurisdizione ed è perciò sottratto, anche per il principio di tassatività delle impugnazioni, ad ogni forma di impugnazione (anche da parte del giudice la cui dichiarazione non sia stata accolta) (Cass. I, n. 40159/2009). Per ulteriori aspetti si rimanda al commento degli articoli che seguono. CasisticaLett. a) L'interesse nel procedimento che, a norma dell'art. 36, comma 1, lett. a ), radica l'obbligo di astensione, consiste nella possibilità per il giudice di rivolgere a proprio vantaggio, anche solamente di ordine morale, l'attività giurisdizionale che è chiamato a svolgere nel processo. Ne deriva che un interesse rilevante ai fini dell'applicabilità della disposizione predetta è ravvisabile in capo al giudice che — sottoposto a procedimento disciplinare per comportamenti attinenti ad attività e provvedimenti giurisdizionali in precedenza adottati — sia poi chiamato a pronunciarsi nello stesso procedimento penale in relazione ai medesimi fatti; non vi è dubbio, infatti, che egli sia in tal caso condizionato dalla pendenza del procedimento disciplinare instaurato in conseguenza delle precedenti decisioni, essendo portato inevitabilmente a porsi il problema della possibile incidenza su di esso delle nuove statuizioni che è chiamato ad adottare (Cass. II, n. 1660/1999). Il motivo di ricusazione previsto per il caso in cui il giudice abbia interesse nel procedimento (art. 36, lett. a) deve circoscriversi all'influenza che per la sfera patrimoniale del magistrato (intesa in senso lato) possa avere la soluzione in un certo senso della controversia. Non può, pertanto, ricomprendersi nella nozione di interesse nel procedimento quello «politico» o «ideologico» — nemmeno sotto forma di «accanimento giudiziario», in una materia che, per derogare al principio del giudice naturale, non tollera interpretazioni estensive o analogiche —, trattandosi di fenomeno indifferenziato, comune a ogni cittadino, in quanto partecipe della polis. Perché questo interesse non prevalga sull'imparzialità del giudicante, l'ordinamento predispone gli strumenti normativi diretti alla scelta e alla formazione professionale del magistrato, le regole deontologiche e l'istituto della responsabilità disciplinare (Cass. VI, n. 855/1999). In tema di astensione del giudice, l' interesse nel procedimento, cui fa riferimento l'art. 36, comma 1, lett. a), deve essere giuridicamente rilevante, e cioè tale da coinvolgere il giudice nella vicenda processuale in modo da renderla obiettivamente suscettibile di procurargli un vantaggio economico o morale, mentre non rilevano a tal fine semplici presunte irregolarità nella conduzione del procedimento, che non sono indicative di per sé agli effetti di cui sopra (Cass. VI, n. 1711/1998). Nella nozione di “interesse nel procedimento” non rientra quello "politico" o "ideologico", trattandosi di fenomeno indifferenziato, comune a ogni cittadino (Cass. VI, n. 44436/2022, secondo cui la nozione di "interesse" contenuta nell'art. 36, lett. a), si presta ad un'interpretazione in senso estensivo, tale da farvi rientrare non solo l'interesse prettamente patrimoniale, ma anche l'interesse non patrimoniale che, tuttavia, deve essere specifico, giuridicamente rilevante e direttamente incidente sulla sfera soggettiva del magistrato, non potendo assumere rilievo anche un generico interesse ideologico solo indirettamente collegato all'oggetto del procedimento, la cui affermazione è intrinsecamente insuscettibile di tradursi in un vantaggio personale. In applicazione di tali principi, la S.C. ritenuto che l'imparzialità dei giudici iscritti all'ANM (costituita parte civile nel processo a carico di un suo ex presidente) non può essere esclusa sulla base del mero riscontro del dato formale costituito dall'adesione all'associazione, dovendosi vagliare se in concreto, sulla base delle dimensioni dell'associazione, delle funzioni svolte, dell'eventuale incidenza sull'attività degli iscritti, sull'esistenza di vantaggi rilevanti derivanti dall'iscrizione, si possa determinare un effettivo vulnus rispetto al principio di terzietà. Lett. b) Non può essere ricusato il giudice che sia stato citato in giudizio per responsabilità extracontrattuale dal difensore dell'imputato, in quanto il semplice atto di citazione per una causa di risarcimento danni non è idoneo a qualificare il giudice come «debitore» del difensore e ad integrare così gli estremi della causa di ricusazione prevista dall'art. 37, in relazione all'art. 36, comma primo lett. a), e ciò perché fin tanto che non sia stata accertata la responsabilità aquiliana del convenuto non è configurabile tra le parti un rapporto obbligatorio (Cass. VI, n. 3175/2006). Non costituisce motivo di ricusazione il fatto che l'ausiliario in servizio presso il tribunale venga giudicato dal presidente dello stesso ufficio giudiziario, atteso che quest'ultimo non può essere equiparato al «datore di lavoro» dell'imputato ai sensi e agli effetti dell'art. 36, comma primo, lett. b) (Cass. VI, n. 44644/2010). Lett. c) Costituisce parere sull'oggetto del procedimento, a norma dell'art. 37, comma 1, lett. a), in relazione all'art. 36, comma 1, lett. c), la formulazione di una precisa opinione circa le questioni di diritto e di fatto di cui è intessuta la regiudicanda nonché circa le decisioni da assumere, ma non anche la manifestazione di opinioni inerenti a tematiche d'ordine generale o di espressioni del tutto generiche, che non denotino un convincimento del giudice circa l'esito del processo, sia con riguardo alle contestazioni che agli imputati (Cass. VI, n. 18484/2015); in precedenza, Cass. S.U., n. 41263/2005 aveva già affermato il principio per cui l'indebita manifestazione del convincimento da parte del giudice espressa con la delibazione incidentale di una questione procedurale, anche nell'ambito di un diverso procedimento, rileva come causa di ricusazione solo se il giudice abbia anticipato la valutazione sul merito della res iudicanda, ovvero sulla colpevolezza dell'imputato, senza che tale valutazione sia imposta o giustificata dalle sequenze procedimentali, nonché quando essa anticipi in tutto o in parte gli esiti della decisione di merito, senza che vi sia necessità e nesso funzionale con il provvedimento incidentale adottato. Sicché correttamente non sussiste alcuna causa di ricusazione se il giudice esprime valutazioni sul merito del processo, negando l'ammissione d'ufficio di nuove prove per superfluità delle medesime (si veda, sul punto, anche il commento all'articolo 34). L'espressione «oggetto del procedimento» di cui all'art. 36 lett. c), ha contenuto più ampio rispetto a quella di «fatti oggetto dell'imputazione» adottata nell'art. 37 lett. b). Ne consegue che, per effetto del richiamo all'art. 36 lett. c), rientra tra le cause di ricusazione indicate nell'art. 37 lett. a) qualsiasi esternazione sul procedimento nel suo complesso e, in particolare, sulla composizione del collegio o in tema di sospensione dei termini di custodia cautelare e quant'altro possa turbare il regolare svolgimento del processo stesso (fattispecie in cui i difensori degli imputati avevano proposto istanza di ricusazione nei confronti dei due giudici a latere sul presupposto che vi era stata da parte degli stessi indebita anticipazione del proprio convincimento sul merito, avendo essi, in precedenza,presentato richiesta di astensione, successivamente respinta, motivata dalla circostanza che il presidente del collegio aveva espresso, anche fuori dall'esercizio delle funzioni giurisdizionali il parere negativo sulla fondatezza delle imputazioni e dal disagio per le modalità di conduzione del dibattimento reputato irriguardoso nei loro confronti, in quelli del P.M. e di alcuni difensori; ed, inoltre, che i due giudici avevano avuto colloqui con il rappresentante dell'accusa che aveva loro anticipato l'intenzione di ricusare il presidente) (Cass. II, n. 20923/2005). Ai fini della ricusazione del giudice, il «convincimento» richiesto dall'art. 37, comma 1, lett. b) ha un significato più ristretto, implicante un'analisi ed una riflessione, rispetto al «parere» richiesto dagli artt. 36, comma 1, lett. c) e 37, comma 1, lett. a), che indica un'opinione non preceduta necessariamente da un ragionamento fondato sulla conoscenza dei fatti o degli atti processuali (Cass. II, n. 27813/2013). È insindacabile in sede di legittimità, in quanto frutto di un motivato e non implausibile apprezzamento di fatto, la ritenuta qualificabilità come indebita manifestazione di anticipato convincimento dell'avvenuta predisposizione, da parte del giudice (nella specie. giudice di pace), di un appunto, rinvenuto nel fascicolo processuale posto a disposizione delle parti, contenente la bozza del dispositivo decisorio, ivi comprese la quantificazione della pena e le statuizioni civili (Cass. V, n. 9226/2007). Non costituisce motivo di ricusazione la presa di visione, da parte del giudice, in momento anteriore alla decisione di espunzione dal fascicolo del dibattimento, di documentazione costituita da alcuni compact disk illegittimamente in esso versati dal P.M. (Cass. VI, n. 14599/2007). Per il giudice relatore nel giudizio di cassazione inerente alla legittimità di una misura cautelare reale — nel quale è esclusa la possibilità di una valutazione della fondatezza dell'accusa contestata — non costituisce motivo di incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento la circostanza che egli abbia rivestito il medesimo ruolo in un'altra procedura incidentale concernente una precedente analoga misura disposta per lo stesso reato in relazione a un più limitato oggetto (Cass. III, n. 35219/2006). La causa di astensione e di ricusazione consistente nell'avere il giudice dato consigli fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie non è configurabile qualora la prospettazione offerta dal giudice si collochi nell'ambito delle sue funzioni e ne costituisca legittima espressione. Non ricorre pertanto tale ipotesi qualora un presidente di un collegio giudicante, nell'ambito di un giudizio direttissimo, abbia invitato una parte (nella specie, il pubblico ministero) a precisare le circostanze sulle quali doveva vertere l'esame di un testimone, rientrando tale iniziativa nelle funzioni presidenziali di direzione del dibattimento e accordandosi essa con il ruolo attivo, e non di mero spettatore di una contesa tra le parti, assegnato al giudice dal nostro ordinamento processuale (Cass. VI, n. 405/1998). L'ipotesi di ricusazione prevista dall'art. 37, comma 1, lett. a) in riferimento all'art. 36, comma primo, lett. c), sussiste sempre che un parere sull'oggetto del procedimento sia stato manifestato fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie, senza che rilevino né il momento, né il luogo, né il destinatario, né la qualità del parere medesimo (frutto di approfondita valutazione tecnico-giuridica ovvero frutto di approssimato giudizio), né che il procedimento sia in corso o ancora non si sia iniziato. Ne consegue che essa non è configurabile solo allorché la manifestazione di parere si risolva in espressioni generiche, non attinenti a un caso specifico, formulate nell'ambito di conversazioni su temi generali o costituenti manifestazioni di orientamenti giurisprudenziali (nella specie è stata ritenuta sussistente la causa di ricusazione in argomento nel fatto di un Presidente di tribunale militare che, nel corso di un colloquio avuto con un generale dei carabinieri alcuni mesi prima del processo contro l'ex capitano delle SS tedesche Eric Priebke per l'eccidio delle fosse Ardeatine, aveva affermato che l'operato della Procura militare della Repubblica — la quale aveva aperto indagini preliminari, ipotizzando a carico del Priebke violenza con omicidio continuato — era inutile perché tutt'al più nella condotta dell'ufficiale tedesco si poteva ravvisare un omicidio colposo plurimo, aggiungendo che non era il caso di rivangare il passato, trattandosi di persona avanti negli anni) (Cass. I, n. 5293/1996). Tra i casi di ricusazione non rientra quello dell'opinione espressa dal magistrato nella qualità di giudice, in quanto estensore di provvedimento previsto dalla legge in via provvisoria e sottoposto alla convalida di giudice collegiale, del quale il magistrato faccia parte, trattandosi di facoltà espressamente concessa dal legislatore (per quanto riguarda la legittimazione ad emettere il provvedimento) e di obbligo di legge (per quanto concerne l'opinione espressa attraverso la motivazione del provvedimento stesso) (fattispecie relativa a sequestro provvisorio di beni da sottoporre a misura di prevenzione patrimoniale ex art. 2-bis l. n. 575/1965, adottato dal presidente della sezione di tribunale competente per materia) (Cass. I, n. 4345/1996). La causa di astensione e di ricusazione consistente nell'avere il giudice «manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle sue funzioni giudiziarie» (art. 36 lett. c, richiamato dall'art. 37, lett. a), implica che in quel parere sia riconoscibile l'espressione di un vero e proprio «convincimento» nutrito dal giudice in ordine a quello che egli ritiene essere lo sbocco, giuridicamente necessario, del procedimento de quo, rimanendo quindi estranea alla previsione di legge la diversa eventualità che il giudice si sia limitato ad esprimere una generica valutazione meramente probabilistica circa il presumibile esito del medesimo procedimento (Cass. I, n. 4182/1996). Lett. d) Le posizioni interpersonali di inimicizia grave tra difensore e giudice (od un suo prossimo congiunto) non sono previste nel vigente sistema normativo quali possibili cause di ricusazione, atteso che l'art. 36 lett. d), cui rinvia l'art. 37, limita espressamente i casi di astensione e, conseguentemente di ricusazione, per inimicizia grave, ai soli rapporti fra giudice (o un suo prossimo congiunto) ed una delle parti private, senza possibilità di estensione analogica al difensore della parte privata (Cass. II, n. 43884/2014). È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 36, comma 1, lett. d), e 37, comma 1, lett. a), in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., per la parte in cui non prevedono la ricusabilità nell'ipotesi di grave inimicizia tra il giudice, o un suo prossimo congiunto, e il difensore, giacché è il solo rapporto di ostilità tra giudice e parte privata a costituire serio ed univoco pericolo per la serenità ed imparzialità del giudice (Cass. III, n. 27711/2010; nello stesso senso, Cass. I, n. 974/1996). L'inimicizia grave come motivo di ricusazione deve sempre trovare riscontro in rapporti personali estranei al processo ed ancorati a circostanze oggettive, mentre, invece, la condotta endoprocessuale può assumere rilievo solo quando presenti aspetti talmente anomali e settari da costituire sintomatico momento dimostrativo di una inimicizia maturata all'esterno (in applicazione del principio, la Corte ha precisato che le decisioni prodromiche a quelle sulla colpevolezza o sull'innocenza — quali quelle in materia di ammissione o revoca delle prove, ovvero di rigetto di richieste di definizione anticipata del giudizio ex art. 129, ovvero, ancora, di ammissione delle parti civili, di rigetto di richieste di rinvio o di fissazione di udienza straordinarie — esulano dal concetto di inimicizia grave, così come da quello di anticipazione indebita del proprio convincimento da parte del giudice) (Cass. V, n. 5602/2014). Non ricorre l'ipotesi di ricusazione dell'”inimicizia grave” — di cui all'art. 36, comma 1, lett. d), — nel caso in cui un giudice, in una precedente sentenza di condanna riguardante il medesimo imputato, sia incorso in eventuali errori nell'individuazione dei criteri da cui desumere la capacità a delinquere, ai fini della determinazione della pena, non potendo tale comportamento considerarsi una manifestazione di pregiudizio nei confronti dell'imputato (Cass. VI, n. 30181/2013). Non costituisce motivo di «grave inimicizia» tale da legittimare la ricusazione il fatto che quel giudice abbia adottato una decisione sfavorevole alla parte in altro giudizio riguardante altre vicende, pur se detta decisione sia riformata nel successivo grado o smentita dal diverso esito di altri procedimenti, in assenza di ulteriori elementi che denotino la chiara intenzione di arrecare nocumento alla parte (in motivazione la Corte ha precisato che la composizione collegiale dell'organo giudicante rende ancor meno plausibile l'ipotesi di una sostanziale perversione della funzione giurisdizionale per simili finalità) (Cass. III, n. 16720/2011). Non costituisce motivo di inimicizia grave, ai sensi dell'art. 36, comma 1, lett. d), la pendenza di una causa civile di risarcimento danni intentata dal ricusante nei confronti del giudice, a seguito della trattazione di altro procedimento (Cass. VI, n. 45512/2010). La presentazione di una denuncia contro un magistrato non è di per sé sufficiente ad integrare l'ipotesi di ricusazione di cui all'art. 37, comma primo, lett. a), in relazione all'art. 36, comma 1, lett. d), poiché il sentimento di grave inimicizia, per risultare pregiudizievole, deve essere reciproco, deve nascere o essere ricambiato dal giudice e deve trarre origine da rapporti di carattere privato, estranei al processo, non potendosi desumere dal mero trattamento riservato in tale sede alla parte, anche se da questa ritenuto frutto di mancanza di serenità (Cass. VI, n. 22540/2018). È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 36, comma primo, lett. d) e 37 c.p.p., in relazione agli artt. 111, 54, comma 2, 117 Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono uno specifico obbligo di astensione e la facoltà di ricusazione del giudice che abbia presentato querela nei confronti dell'indagato per fatti diversi da quelli oggetto del procedimento. Ciò sul rilievo che, tale circostanza non può assumere portata generale ma, impregiudicata la facoltà del giudice di astenersi per "gravi ragioni di convenienza", può in concreto integrare l'ipotesi di "inimicizia grave", quando, ad esito di un rigoroso scrutinio, si possa ritenere che la presentazione della denuncia o querela abbia tratto origine da esperienze di vita e rapporti interpersonali che esulano dalla sfera strettamente professionale (Cass. III, n. 10120/2016) Non possono costituire motivo di ricusazione per «inimicizia grave» le manifestazioni di dissenso ideologico, anche radicale, del giudice nei confronti dell'attività politico-legislativa dell'imputato, salvo che dalle stesse possa desumersi, per la qualità, le modalità, l'intensità e la vicinanza temporale alla fase del giudizio, un'avversione di tipo personale incompatibile con il ruolo imparziale del giudice (Cass. VI, n. 3499/2008). In tema di ricusazione, l'esposto con cui un magistrato, unitamente ad altri colleghi, si rivolge al Consiglio superiore della magistratura per la tutela della propria onorabilità rispetto ad una campagna di stampa ritenuta denigratoria, non è sintomatico di inimicizia grave verso uno dei soggetti che a tale campagna ha partecipato, per cui non vi è spazio per l'accoglimento dell'istanza di ricusazione (Cass. VI, n. 41027/2005). Non sussiste l'inimicizia grave rilevante ai fini della ricusazione del giudice (art. 36, comma 1, lett. d), qualora essa sia ravvisata in asserite violazioni di legge o in discutibili scelte operate dal giudice nella gestione del procedimento, le quali riguardano aspetti interni al processo che possono essere risolti con il ricorso ai rimedi apprestati dall'ordinamento processuale e non già con l'istituto della ricusazione, azionata sotto il profilo della grave inimicizia, la quale deve sempre trovare riscontro in rapporti personali estranei al processo e ancorati a circostanze oggettive, mentre la condotta endoprocessuale può venire in rilievo solo quando presenti aspetti talmente anomali e settari da costituire momento dimostrativo di una inimicizia maturata all'esterno. Sicché è corretto il rigetto dell'istanza di ricusazione fondata sulla mera condotta endoprocessuale del giudice e ravvisata nella mancata considerazione del materiale difensivo, nell'eliminazione di documenti dal fascicolo dibattimentale senza l'intervento della difesa ed infine nella negazione del diritto dell'imputato all'autodifesa (Cass. V, n. 3756/2005). La grave inimicizia del giudice nei confronti della parte privata — che legittima la ricusazione secondo il disposto dell'art. 36, comma 1 lett. d) — deve rendersi palese sulla base di fatti e comportamenti che riguardino direttamente il magistrato interessato, di talché risulta manifestamente inammissibile una ricusazione fondata sul presupposto dell'asserita appartenenza del giudice ad un gruppo associativo professionale con il quale il ricusante si sarebbe trovato in polemica (Cass. VI, n. 1228/2003). Non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono «fatto» riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare (in motivazione, la S.C. ha precisato che invece può costituire motivo di ricusazione il fatto storico riferibile al magistrato, che sia all'origine della denuncia o della causa civile e non sia comunque integrato da asseriti vizi «in procedendo», cagionati da sue determinazioni) (Cass. V, n. 8429/2007). Non è causa di ricusazione o di astensione l'adesione del giudice ad una corrente dell'Associazione nazionale magistrati, neppure se ricollegata ad aspri conflitti personali, non potendo tali conflitti riferirsi ad un rapporto tra una parte privata ed una corrente della magistratura associata come tale e, quindi, a tutti gli aderenti a tale corrente complessivamente e indiscriminatamente considerati. Ne consegue che il motivo di ricusazione formulato con esclusivo riferimento alla asserita inimicizia desunta dall'appartenenza del giudice ricusato alla predetta corrente, qualificato come di natura ideologica, rende inammissibile la richiesta di ricusazione (Cass. VI, n. 37315/2003). Il motivo di ricusazione dell'inimicizia grave di cui alla lett. d) dell'art. 36 non può che riferirsi a rapporti interpersonali derivanti da vicende della vita estranee alle funzioni del giudicante. Non rileva, quindi, l'asserito «insolito attivismo» nella rapida fissazione della trattazione di un processo, specialmente se la celerità non abbia influito sulla assegnazione a giudice tabellarmente previsto e sia stata motivata dalla prossimità della prescrizione del reato; neanche rileva la dedotta «intemperanza verbale» nei confronti dell'imputato, rilevabile in alcuni documenti giudiziari (Cass. VI, n. 855/1999). Lett. f) Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 36, lett. f), nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione del giudice per incompatibilità, ove questi, legato al pubblico ministero da vincolo di coniugio, si trovi investito della cognizione del medesimo fatto che, oggetto di un diverso procedimento, sia stato esaminato dallo stesso pubblico ministero, posto che l'interpretazione della norma impugnata sulla quale è basata la questione di legittimità costituzionale, è destituita di fondamento, in quanto delimita l'operatività dell'obbligo di astensione ricondotto alla ipotesi di incompatibilità prefigurata dall'impugnato art. 36, lett. f), ricorrendo ad una nozione formalistica di procedimento, estranea sia alla lettera della norma, sia alla sua ratio ispiratrice, che è quella di garantire la serenità e l'imparzialità del giudizio ogniqualvolta un rapporto qualificato (in ipotesi, il rapporto di coniugio) tra pubblico ministero e giudice, possa condizionare la valutazione processuale del medesimo fatto, ancorché questo costituisca l'oggetto di procedimenti formalmente diversi, così come è avvenuto, soltanto a causa, peraltro, di una anomala modalità di iscrizione della notitia criminis (Corte cost. ord. n. 404/1995; si veda, però, la decisione della S.C. di cui al capoverso che segue). In tema di astensione del giudice, l'espressione «svolge o ha svolto le funzioni di pubblico ministero» contenuta nell'art. 36 lett. f) non determina un generale dovere di astensione da parte del giudice il cui coniuge sia pubblico ministero, mentre lo impone al giudice il cui coniuge sia PM nel medesimo procedimento (fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza di un dovere di astensione del presidente del collegio giudicante in ragione delle funzioni di pubblico ministero esercitate dal coniuge in altro procedimento, sia pure connesso a quello in corso, nei confronti dello stesso imputato) (Cass. I, n. 17742/2014). Non è violato il principio costituzionale del giusto processo, sotto il profilo della imparzialità del giudice, nell'ipotesi in cui il giudice nelle more della trattazione del processo abbia chiesto ed ottenuto il trasferimento ad un ufficio requirente, neppure sotto il profilo del fondato sospetto di perdita della imparzialità che è previsto dall'ordinamento solo in relazione all'intero organo giudicante (Cass. V, n. 552/2003). In tema di procedimenti inerenti a reati fallimentari, in applicazione del combinato disposto del comma primo lett. g) dell'art. 36 e del comma 1 lett. a) dell'art. 37, può essere ricusato (in quanto incompatibile ai sensi della comma terzo dell'art. 34 del medesimo codice, il quale fa riferimento, tra l'altro, a «chi ha proposto denunzia»), il magistrato che, nella qualità di giudice delegato al fallimento, abbia, in precedenza, sulla base della relazione redatta dal curatore, ed in adempimento di quanto previsto dall'art. 331 del codice di rito, trasmesso al Pubblico ministero la notizia dei reati anzidetti (V. Corte cost. n. 283/2000) (Cass. V, n. 7484/2002). BibliografiaCaputo, sub art. 36, in Codice di procedura penale, a cura di G. Canzio e G. Tranchina, Milano, 2012, I, pagg. 492 e ss; Somma, Astensione/ricusazione: il caso del giudice-scrittore e la vicenda della “Trattativa Stato-Mafia”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2014, 1995. |