Codice di Procedura Penale art. 192 - Valutazione della prova.Valutazione della prova. 1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione [125 3, 606 1e] dei risultati acquisiti e dei criteri adottati [245 2b trans.]. 2. L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti [2729 c.c.]. 3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato [41, 110, 113 c.p.] o da persona imputata [60, 61] in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità. 4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata [60, 61] di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'articolo 371, comma 2, lettera b). InquadramentoL'art. 192 é norma di assoluta importanza nel sistema codicistico, provvedendo ad indicare i criteri di valutazione delle prove in riferimento al principio del libero convincimento del giudice. Il libero convincimento del giudice ed i suoi limitiIl comma 1 esige che il giudice valuti la prova — per la dottrina (Aprile, 99) solo se acquisita legittimamente — dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. La disposizione propone un modello normativo fondato sulla necessità che il passaggio dal fatto probatorio (fonte e contenuto della prova) al fatto da provare (imputazione) sia giustificato attraverso l'esplicitazione del relativo criterio di valutazione, conferendo un rilievo fondamentale al momento riguardante la valutazione. Il principio del libero convincimento integra un criterio tendenziale, desumibile dalle singole regole dettate dal codice sulla valutazione della prova, senza, tuttavia, trovare un'espressa formulazione nei disposti della Carta costituzionale. È un principio ancorato al dato probatorio e limitato dall'onere della motivazione, raccordandosi all'obbligo generale di motivazione imposto dall'art. 125 ed alle regole sulla decisione stabilite dagli artt. 529 e seguenti. La motivazione assume, infatti, la specifica funzione, interna al processo, di tutelare il diritto di difesa, nonché quella esterna di garantire la pubblicità e la legittimazione democratica della decisione. Il principio del libero convincimento, pertanto, svincola il sistema processuale da qualsiasi valenza delle prove legali e restituisce piena libertà decisionale al giudice nell'ambito di un materiale probatorio legittimamente acquisito, con conseguente diretto raccordo con la norma generale prevista dall'art. 189. I criteri di valutazione delle proveCon riguardo alla specificazione dei criteri di valutazione delle prove, la giurisprudenza ha precisato che i canoni di ordine logico, che devono orientare il giudice di merito nelle scelte da compiere nel proprio lavoro di ricostruzione storica dei fatti da provare ex art. 187 — programmata, da un lato, per dare contenuto alla formula generale racchiusa nei commi secondo e terzo dell'art. 192 e, dall'altro, per tracciare un metodo per l'operazione del motivare cui il comma primo dello stesso articolo fa espresso riferimento — non possono prescindere dalla quaestio facti, che, per le sue intrinseche connotazioni concrete, che la rendono ancorata al singolo accadimento da provare, non può essere costretta in formule classificate, che sviliscano il compito del giudice di «valutare e dare conto» dei concreti risultati acquisiti e dei criteri adottati in relazione al singolo caso concreto (Cass. VI, n. 17248/2004). È stato, poi, affermato che poiché la mancata osservanza di una norma processuale intanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606, comma 1, lett. c), non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192, la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata (Cass. VI, n. 51525/2018), atteso che il vizio di motivazione non può essere utilizzato sino a ricomprendere ogni omissione o errore che concerna l'analisi di determinati e specifici elementi probatori (Cass. III, n. 44901/2012). Un vizio nell'applicazione dell'art. 192, pertanto, può dar luogo a censura solo sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza impugnata. La confessioneI criteri per la valutazione della confessione sono stati precisati in alcune pronunce della S.C. È stato affermato, ad esempio, che la confessione dell'imputato può essere posta a base del giudizio di colpevolezza anche quando costituisca l'unico elemento d'accusa purché il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di un intendimento autocalunnatorio o di intervenuta costrizione dell'interessato (Cass. IV, n. 20591/2008). Analogamente, la confessione può costituire prova sufficiente della responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni (non essendo suscettibili di applicazione analogica i limiti previsti dall'art. 192 per la chiamata in correità), purché il giudice prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato e accompagnato la dichiarazione e dia ragione, con logica motivazione, delle circostanze che escludono intendimenti autocalunniatori o l'intervenuta costrizione dell'interessato (Cass. IV, n. 4907/2018). La confessione, ancora, può essere posta a base del giudizio di colpevolezza dell'imputato nelle ipotesi in cui il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di intendimento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione sul soggetto, anche qualora l'imputato, dopo aver reso confessione nel corso delle indagini preliminari, non abbia confermato in dibattimento le dichiarazioni rese precedentemente (Cass. I, n. 43681/2015). In tema di valutazione della prova, il giudice di merito, in base al principio della scindibilità delle dichiarazioni, ben può ritenere veridica solo una parte della confessione resa dall'imputato, e nel contempo disattenderne altre parti, allorché si tratti di circostanze tra loro non interferenti sul piano logico e fattuale, e sempre che giustifichi la scelta con adeguata motivazione (Cass. V, n. 47602/2014). La confessione, pur soggetta, come tutte le prove orali, alla verifica di attendibilità, non subisce le limitazioni di cui all'art. 192, commi 3 e 4, e non necessita quindi di riscontri esterni. Ne consegue che, pur in presenza di un'unica fonte dichiarativa, possono subire epiloghi valutativi differenziati le narrazioni contra se rispetto a quelle contra alios, così da rendere i risultati negativi eventualmente conseguiti per queste ultime non automaticamente trasferibili quanto alla valutazione delle prime (Cass. II, n. 10250/2013). Quanto, poi, alla confessione stragiudiziale, è stato affermato che essa può essere assunta a fonte del libero convincimento del giudice quando, valutata in sé e raffrontata con gli altri elementi di giudizio, sia possibile verificarne la genuinità e la spontaneità in relazione al fatto contestato (Cass. I, n. 6467/2018). Inoltre, la confessione stragiudiziale dell'imputato assume valore probatorio secondo le regole del mezzo di prova che la immette nel processo e, ove si tratti di prova dichiarativa, con l'applicazione dei relativi criteri di valutazione (Cass. V, n. 11296/2020). Non è consentito al giudice desumere, dalla rinuncia dell'imputato a rendere l'interrogatorio, elementi o indizi di prova a suo carico, atteso che allo stesso è riconosciuto il diritto al silenzio e che l'onere della prova grava sull'accusa (Cass. VI, n. 8958/2015). Tale assunto è stato, tuttavia, precisato osservando che il silenzio serbato dall'indagato in sede di interrogatorio di garanzia non può essere utilizzato quale elemento di prova a suo carico, ma da tale comportamento processuale il giudice può trarre argomenti di prova, utili perla valutazione delle circostanze aliunde acquisite (Cass. III, n. 43254/2019). In sostanza, la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell'imputato, di circostanze valutabili a suo carico, può fornire al giudice argomenti di prova di carattere residuale e complementare solo in presenza di univoci elementi probatori di accusa, in quanto la valutazione del comportamento processuale dell'imputato non può risolversi nell'inversione dell'onere della prova né sostanzialmente condizionare l'esercizio del diritto di difesa (Cass. IV, n. 19216/2019). La testimonianzaIn tema di valutazione della prova testimoniale, il giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non può assumere come base del proprio convincimento l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, o si inganni su ciò che forma l'oggetto essenziale della sua deposizione, salvo che sussistano elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l'una o l'altra di dette ipotesi (Cass. VI, n. 27185/2014). In assenza, quindi, di siffatti elementi, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza (Cass. IV, n. 35984/2006). È stato affermato che il giudice ha l’obbligo di valutare la testimonianza indiretta con speciale cautela, atteso il carattere “mediato” che ha la rappresentazione del fatto da provare, pur dovendosi escludere che la stessa necessiti di elementi di riscontro a fini probatori (Cass. III, n. 2001/2008). In caso di contrasto tra le dichiarazioni del teste de relato e quelle rese dal teste di riferimento, il giudice ben può ritenere attendibili le prime anziché le seconde, in quanto, da un lato, l’art. 195 non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e, dall’altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il principio del libero convincimento del giudice, cui compete in via esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti da privilegiare (Cass. I, n. 39662/2010). Allo stesso modo, il giudice può ritenere attendibile, all'esito di una valutazione improntata a speciale cautela, la deposizione del teste de relato qualora la persona alla quale il testimone abbia fatto riferimento sia stata chiamata a deporre e non abbia risposto, ovvero abbia fornito una versione contrastante (Cass. III, n. 529/2015). Con riferimento all'assunzione di prova testimoniale di vittima di reati sessuali, va segnalata la recente sentenza Corte EDU, Sez. I, 27/05/2021, caso J.L. contro Italia, in cui è stata affermata la necessità di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi della difesa e i diritti riconosciuti alla persona offesa, che deve essere escussa nel rispetto della sua integrità e dignità personale (lo Stato italiano è stato, infatti, condannato per violazione dell'art. 8 CEDU per non aver impedito agli avvocati della difesa di interrogare la vittima, al fine di screditarne la credibilità, su questioni personali riguardanti la sua vita familiare, i suoi orientamenti sessuali e le sue scelte intime, a volte senza alcun rapporto con i fatti processuali). Le dichiarazioni della persona offesaLa giurisprudenza ha pronunciato un cospicuo numero di sentenze sulla tematica dell'individuazione dei criteri di valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato. In primo luogo, è stato ritenuto che la testimonianza della persona offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisca una vera e propria fonte di prova, purché la relativa valutazione sia sorretta da un'adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e dei risultati acquisiti (Cass. VI, n. 27322/2008), e ciò pure con riferimento al caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile (Cass. VI, n. 443/2005). Le Sezioni Unite hanno precisato che le regole dettate dall'art. 192, comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Cass. S.U., n. 41461/2012). Il soggetto che riveste la qualità di imputato in procedimento collegato probatoriamente, anche se persona offesa del reato, deve, invece, essere assunto nel procedimento relativo al reato collegato con le forme previste per la testimonianza cosiddetta “assistita”, con la conseguenza che le sue dichiarazioni devono essere valutate ai sensi dell'art. 192, comma 3 (Cass. VI, n. 47529/2012). La valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta, poi, una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Cass. II, n. 41505/2013), ovvero si sia fondato su affermazioni apodittiche o illogiche (Cass. III, n. 40542/2007). La S.C. ha, poi, chiarito che è illegittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, riferibili ad un unico episodio avvenuto in un unico contesto temporale, in quanto il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze inficia, in tale ipotesi, la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato. In tal caso, infatti, l'attendibilità della persona offesa deve essere valutata globalmente, tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo (Cass. III, n. 21640/2010). In senso parzialmente difforme, è stata ritenuta, tuttavia, legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (Cass. VI, n. 20037/2014). Con riferimento al particolare ambito relativo all'accertamento dei reati sessuali, è stato affermato che la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi (Cass. IV, n. 44644/2011). Ove, poi, la vittima di reati sessuali sia un minore, la valutazione del contenuto delle sue dichiarazioni deve essere effettuata in riferimento al modo di rapportarsi del minore rispetto alla sfera sessuale e, in quanto presuppone una percezione ed un approccio diretti, è riservata ai giudici del merito. Infatti, la credibilità di un bambino deve essere esaminata in senso omnicomprensivo, valutando la posizione psicologica del dichiarante rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne, la sua attitudine a testimoniare - che coinvolge la capacità di recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle —, le sue condizioni emozionali in riferimento alle relazioni con il mondo esterno ed alle dinamiche familiari, nonché i processi di rielaborazione cognitiva delle vicende vissute, processi tanto più limitati quanto più il bambino è in tenera età (Cass. III, n. 23278/2004). Una volta accertata, quindi, la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne, la sua deposizione deve essere inquadrata in un più ampio contesto sociale, familiare e ambientale, al fine di escludere l'intervento di fattori inquinanti in grado di inficiarne la credibilità (Cass. III, n. 8057/2013). L'alibiCon riferimento all'alibi, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che non può essere ritenuto rilevante a fini probatori il fallimento o la mancanza di alibi da parte dell'imputato, in quanto essi costituiscono elementi di segno neutro, inidonei a sorreggere la deduzione indiziaria (Cass. VI, n. 15255/2020) Peraltro, mentre il fallimento dell'alibi non può essere posto a carico dell'imputato come elemento sfavorevole, non essendo compito di quest'ultimo dimostrare la sua innocenza, ma onere dell'accusa di provarne la colpevolezza, l'alibi falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, può essere posto in correlazione con le altre circostanze di prova e valutato come indizio, nel contesto delle complessive risultanze probatorie, se appaia finalizzato alla sottrazione del reo alla giustizia (Cass. II, n. 11840/2004). L'alibi falso, pertanto, deve essere considerato come un indizio a carico, in quanto è sintomatico del tentativo dell'imputato di sottrarsi all'accertamento della verità (Cass. II, n. 37317/2019). Gli indiziIl comma 2 dell'art. 192 stabilisce che l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. L'indizio è definibile come l'elemento di fatto potenzialmente idoneo a comprovare l'oggetto dell'imputazione, in quanto, pur non riproducendo la realtà storica oggetto del thema decidendum (come invece avviene nella prova rappresentativa e nella prova critica, in cui è necessaria la correlazione tra premessa e risultato sul piano del ragionamento probatorio), è comunque riconducibile ad essa attraverso un'interferenza di tipo probabilistico. Ciò determina una distinzione tra la prova diretta (che può essere sia rappresentativa che critica) e la prova indiretta (desunta da un fatto introdotto nel processo tale da imporre una valutazione secondo i criteri stabiliti dall'art. 192), rimandando, quindi, alla problematica dell'applicazione, da parte del giudice, dei criteri della logica, a loro volta riconducibili sia alle massime di esperienza che alle leggi scientifiche meramente probabilistiche. Il giudizio di colpevolezza, che superi ogni ragionevole dubbio, ben può essere sostenuto da un compendio probatorio di natura indiziaria, intendendosi per tale un complesso di prove esclusivamente indirette, purché queste possano essere significative al pari della prova rappresentativa, e ciò che qualifica l'indizio non è né la fonte né l'oggetto della prova ma il suo contenuto ed il suo grado di persuasività (Cass. I, n. 47250/2011). La giurisprudenza ha osservato che la regola enunciata nella proposizione iniziale del comma 2, in base alla quale “l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi” — ancorata, sul piano razionale, all'equivocità ontologicamente propria degli indizi, che fa sì che essi possano essere posti in rapporto di causalità, diretta o inversa, con una molteplicità di cause o di effetti — sta a significare che l'indizio è, isolatamente considerato, inidoneo ad assicurare l'accertamento dei fatti. Esso acquista valore di prova solo quando ricorra l'eccezione espressa dal legislatore nella proposizione successiva del medesimo comma 2 dell'art. 192, vale a dire quando plurimi indizi possano essere tutti ricondotti a una sola causa o a un solo effetto. In sede applicativa, dunque, il giudice deve procedere in primo luogo all'esame di ciascun indizio, identificandone tutti i collegamenti logici possibili, e accertandone quindi la gravità, che è inversamente proporzionale al numero di tali collegamenti, nonché la precisione, che si correla alla nitidezza dei suoi contorni, alla chiarezza della sua rappresentazione, alla fonte diretta o indiretta di conoscenza dalla quale deriva, all'attendibilità di essa; deve, da ultimo, procedere alla sintesi finale, accertando se gli indizi esaminati sono concordanti, cioè se possono essere collegati a una sola causa o a un solo effetto, talché possa essere desunta l'esistenza ovvero l'inesistenza del fatto da provare (Cass. VI, n. 1327/1997). In assenza di prove dirette, quindi, l'esistenza di un fatto può essere desunta anche da circostanze certe attraverso le quali, sulla base di norme e di regole di comune esperienza, si può risalire alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del sillogismo giudiziario previsto dall'art. 192, comma 2 (Cass. I, n. 1718/2000). In relazione ai criteri dettati dal comma 2, la dottrina (Ubertis, 12) ha osservato che gli indizi devono ritenersi: gravi, quando il ragionamento probabilistico sugli stessi fondato è basato su adeguate massime di esperienza; precisi, quando sono da considerare certi i relativi elementi indiziari e dopo che siano state superate le valutazioni in ordine all'affidabilità della fonte; concordanti, quando i risultati di tali ragionamenti probabilistici confluiscono nel senso di una ricostruzione unitaria del fatto oggetto del thema decidendum. Per come osservato in giurisprudenza, gli indizi devono corrispondere a dati di fatto certi — e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza — e devono, ex art. 192, comma 2, essere gravi — cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto — precisi — cioè non equivoci — e concordanti — cioè convergenti verso l'identico risultato —. Requisiti tutti che devono rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale. Inoltre, il procedimento della loro valutazione si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerato, il secondo costituito dall'esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità. Il giudice di legittimità deve verificare l'esatta applicazione dei criteri legali dettati dall'art. 192, comma 2, e la corretta applicazione delle regole della logica nell'interpretazione dei risultati probatori (Cass. V, n. 4663/2014). Coerentemente, è stato affermato che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. II, n. 42482/2013). Il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti), saggiarne l'intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all'imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. I, n. 44324/2013). È stato osservato, infine, con riferimento al movente, che la causale in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, in quanto essi, all'esito dell'apprezzamento analitico e nel quadro di una valutazione globale di insieme, si presentino, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione (Cass. I, n. 17548/2012). Fatti notori e massime di esperienzaLa nozione di massime di esperienza viene, per lo più, individuata facendo riferimento alle modalità di valutazione degli elementi indiziari, in ciò ritenendola distinta da quella di fatto notorio, da considerare come un elemento di fatto acquisito alla comune conoscenza sulla base di cognizioni generali. Le massime di esperienza sono delle generalizzazioni empiriche tratte con metodo induttivo dal comune patrimonio cognitivo, che offrono al giudice notizie su ciò che accade secondo un convincimento di tipo diffuso, derivante da una pluralità di casi particolari. In giurisprudenza è stato affermato che la massima di esperienza si differenzia dalla mera congettura perché è formulata sulla scorta dell'id quod plerumque accidit come risultato di una verifica empirica dell'elemento preso in considerazione (Cass. VI, n. 27862/2009). Ne consegue che è affetta dal vizio di illogicità e da carenza della motivazione la decisione del giudice di merito che, in luogo di fondare la sua decisione su massime di esperienza — che sono caratterizzate da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione — utilizzi semplici congetture, cioè ipotesi fondate su mere possibilità, non verificate in base all'id quod plerumque accidit ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica (Cass. VI, n. 36430/2014). Pertanto, in materia di prova indiziaria, il controllo della cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, costituite da giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su ripetute esperienze, ma autonomi da queste, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull' id quod plerumque accidit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Cass. I, n. 18118/2014). Il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d'esperienza, pertanto, conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile (Cass. IV, n. 22790/2018). È stato affermato, infine, che la valutazione della ricorrenza dell'elemento psicologico del reato richiede ordinariamente il previo esame della condotta, posto che, per ricostruire il fatto psichico interno del soggetto agente, deve farsi ricorso a massime di esperienza che consentano di desumerlo da elementi esterni direttamente accessibili e riscontrabili (Cass. III, n. 649/2012). La chiamata di correoI criteri di valutazione della chiamata di correo sono specificati negli ultimi due commi dell'art. 192, nei quali é, rispettivamente, stabilito che le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità (comma 3) e che la disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lett. b) (comma 4). La prevalente dottrina (Aprile, 129) qualifica la chiamata di correo come una prova a tutti gli effetti, coerentemente alla Relazione al progetto definitivo del codice di rito, che l'aveva ascritta al genus delle prove rappresentative, benché oggetto di una specifica regolamentazione normativa derivante da un grado di attendibilità strutturalmente insufficiente. Non rientra nell'indicato concetto la c.d. chiamata impropria, da qualificarsi come mero indizio, che si verifica quando il dichiarante si limiti ad attribuire ad altri condotte cui non abbia preso parte, rappresentando solo responsabilità altrui. In giurisprudenza, invece, la chiamata di correo viene generalmente qualificata come mero indizio, essendo stato affermato che essa, anche se non confermata da altri elementi probatori, ha pur sempre natura di indizio, ovvero di principio di prova idoneo a escludere quella evidenza dell'innocenza che sola può giustificare l'assoluzione nel merito di cui all'art. 129 cpv. (Cass. III, n. 4983/2008). La valutazione della chiamata di correità si fonda sulla necessità della sussistenza di riscontri di carattere esterno, determinando, quindi, un limite legale al principio del libero convincimento, oltre ad una presunzione relativa di inattendibilità del chiamante, superabile solo sulla base della confluenza di ulteriori elementi probatori. La giurisprudenza ha ritenuto che, ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione ed all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l'altro, alla loro spontaneità ed autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l'esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. La S.C. ha pure precisato che l'esame deve essere compiuto seguendo l'indicato ordine logico, perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé considerata, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa (Cass. II, n. 21171/2013). Le Sezioni Unite hanno chiarito che nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l'esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192, comma 3, alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale (Cass. S.U., n. 20804/2012). Pertanto, poiché la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e quella della attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni non si muovono lungo linee separate, posto che l'uno aspetto influenza necessariamente l'altro, al giudice è imposta una considerazione unitaria dei due aspetti, pur logicamente scomponibili; sicché, in presenza di elementi incerti in ordine all'attendibilità del racconto, egli non può esimersi dal vagliarne la tenuta probatoria alla luce delle complessive emergenze processuali, in quanto — salvo il caso estremo di una sicura inattendibilità del dichiarato — il suo convincimento deve formarsi sulla base di un vaglio globale di tutti gli elementi di informazione legittimamente raccolti nel processo (Cass. VI, n. 11599/2007). È stato, quindi, precisato che il sindacato di legittimità sulla valutazione delle chiamate di correo non consente il controllo sul significato concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, potendosi solo verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sé stessi e nel loro reciproco collegamento (Cass. VI, n. 33875/2015). È stato, altresì, affermato che è inammissibile il ricorso con il quale ci si dolga “dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette dei collaboratori di giustizia” per violazione dell'art. 192, commi 2 e 3, senza l'indicazione specifica delle ragioni, riferite ai singoli collaboratori esaminati ed ai relativi punti della motivazione della sentenza impugnata, per le quali detto vizio sarebbe sussistente (Cass. II, n. 19712/2015). In tema di valutazione della chiamata di correo, poi, il giudice può pervenire ad un giudizio di attendibilità, logico e coerente, anche a fronte di dichiarazioni segnate da lacune, incertezze o contraddizioni, quando queste siano spiegate sulla base del tempo trascorso dai fatti narrati, dell'attenzione prestata ai fatti stessi dal dichiarante nell'epoca di loro verificazione, delle capacità mnemoniche ed intellettive dell'interessato (Cass. IV, n. 35569/2003). Il giudizio di credibilità del dichiarante e di attendibilità delle dichiarazioni deve essere l’esito di una motivata valutazione autonoma del giudicante e non può essere soddisfatto dal mero rinvio a quanto avvenuto in separati procedimenti che si risolva in un acritico recepimento di valutazioni operate da altri giudicanti (Cass. I, n. 8799/2019). La chiamata in reità, d'altro canto, può, senza diventare inattendibile, attuarsi in progressione e arricchirsi nel tempo, specie quando i nuovi dati forniti costituiscano un completamento e una integrazione dei precedenti. Peraltro, qualora intervengano aggiustamenti in ordine alla partecipazione al reato di persone precedentemente non coinvolte dal chiamante in correità, vanno motivate con un più penetrante rigore logico le ragioni per le quali le imprecisioni della chiamata in correità non sono state di per sé sufficienti ad escludere l'attendibilità della dichiarazione (Cass. VI, n. 17248/2004). Ancora, è stato chiarito che il giudizio sulla credibilità soggettiva, nell'ambito della complessiva e unitaria valutazione della chiamata in reità, ha una funzione primaria di determinazione del livello di rigore necessario per il controllo delle dichiarazioni, sicché se il dichiarante ha la propensione a mentire, si impone la massima cautela nella valorizzazione dell'apporto probatorio fornito e il massimo scrupolo nella confutazione delle obiezioni difensive sulla tenuta del racconto (Cass. I, n. 19759/2011); peraltro l'accertata falsità di uno specifico fatto narrato non impedisce di valorizzare le ulteriori parti di un racconto più complesso svolto dal dichiarante, se supportate da precisione di riscontri, anche non specifici su ciascun elemento dichiarato, idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva (Cass. I, n. 35561/2013). In tema di valutazione dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie di un collaboratore di giustizia, il generico interesse a fruire dei benefici premiali non è di per sé solo elemento idoneo ad intaccare la credibilità delle dichiarazioni ove il giudice le abbia doverosamente sottoposte a vaglio critico (Cass. I, n. 11179/2018); in quanto il requisito del disinteresse costituisce uno solo dei criteri con i quali si misura la affidabilità della chiamata, di talché, come la sua presenza non può portare automaticamente a ritenere la stessa attendibile, così la sua assenza non conduce necessariamente ad escluderla. Infatti, la presenza di un interesse nel chiamante, alimentando il sospetto che le sue dichiarazioni ne risultino influenzate, deve indurre il giudice a usare una maggiore cautela, accertando, da un lato, se e quanto quell'interesse abbia inciso sulle dichiarazioni e, dall'altro, applicando con il massimo scrupolo gli altri parametri di valutazione offerti dalla esperienza e dalla logica (Cass. IV, n. 32924/2004). D'altro canto, il c.d. “pentimento”, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all'intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un'intrinseca attendibilità delle sue propalazioni, con la conseguenza che l'indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona — e quindi sulla genuinità del suo pentimento — quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni (Cass. I, n. 5438/2020). Chiamata di correo e riscontriPer la dottrina prevalente (Ubertis, 12), gli «altri elementi di prova» che, ai sensi del comma 3 sono valutati al fine di confermare l'attendibilità del dichiarante coincidono con i riscontri di carattere intrinseco, cioè inerenti la persona del dichiarante e le caratteristiche delle sue dichiarazioni. Secondo la giurisprudenza, invece, i “riscontri estrinseci”, dal punto di vista oggettivo, possono consistere in qualsiasi elemento o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e quindi avente qualsiasi natura, sicché questi possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, ed anche in un'altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma ed avulsa rispetto alla prima. Per converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (Cass. IV, n. 5821/2005). I riscontri esterni alla chiamata di correità devono, quindi, essere individualizzanti, nel senso che devono avere ad oggetto direttamente la persona dell'incolpato. E' stato, altresì, chiarito che la disciplina dell'art. 192, comma 3, si applica non soltanto alla prova degli elementi costitutivi del reato, ma anche in riferimento alla prova delle circostanze aggravanti, per cui, in applicazione di essa, l'elemento estrinseco di riscontro deve avere natura individualizzante (Cass. II, n. 22575/2023). È stato affermato che ai fini della valutazione della chiamata di correo, il “riscontro individualizzante” non può essere inteso come necessariamente concernente le medesime condotte narrate dal dichiarante, potendo riguardare ogni altro profilo idoneo a fondare il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni e riconducibile al fatto da provare che, in relazione al reato di associazione mafiosa, è costituito non dal singolo comportamento dell'accusato, bensì dalla sua appartenenza al sodalizio(Cass. V, n. 32020/2018). I riscontri individualizzanti ad una chiamata in reità de relato possono provenire da elementi di natura logica ed anche da un'altra dichiarazione, sia pure de relato, a condizione che quest'ultima sia sottoposta ad un pregnante vaglio critico e consenta di collegare l'imputato ai fatti a lui attribuiti dal chiamante in reità (Cass. I, n. 33398/2012). Le Sezioni Unite hanno precisato che la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (Cass. S.U., n. 20804/2013). D'altro canto, il giudizio di attendibilità di plurime dichiarazioni accusatorie convergenti provenienti da soggetti rientranti nelle categorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, si deve fondare sulla contestualità ed autonomia delle dichiarazioni, e sulla reciproca non conoscenza dei soggetti dichiaranti, oltre che su ogni altro elemento in concreto idoneo ad escludere l'ipotesi di una fraudolenta concertazione ed a conferire a ciascuna dichiarazione i connotati della reciproca indipendenza ed originalità; le eventuali discrasie su alcuni punti non inficiano irrimediabilmente l'attendibilità delle predette dichiarazioni, ma possono talora confermarne la reciproca autonomia, perché fisiologiche in presenza di narrazioni dello stesso fatto provenienti da soggetti diversi (Cass. II, n. 25795/2012). Con riguardo, invece, al collaboratore di giustizia che abbia militato all'interno di un'associazione mafiosa, la S.C. ha precisato che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività del sodalizio criminoso, appresi come componente dello stesso, seppure non sono assimilabili a dichiarazioni de relato , possono assumere rilievo probatorio, purché supportate da validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione dell'informazione resa, che consentano di ritenerle effettivamente oggetto di patrimonio conoscitivo comune agli associati (Cass. I, n. 17647/2020). In tal caso occorre tenere distinte le informazioni che il collaboratore di giustizia sia in grado di rendere in quanto riconducibili ad un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio, dalle ordinarie dichiarazioni de relato, che non sono utilizzabili se non attraverso la particolare procedura prevista dall'art. 195, in quanto l'impossibilità di esperire, nel primo caso, l'anzidetta procedura rende le stesse propalazioni meno affidabili e, come tali, inidonee di per sé a giustificare un'affermazione di colpevolezza; nondimeno, le stesse possono assumere rilievo probatorio a condizione che siano supportate da validi elementi di verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia (Cass. I, n. 11097/2006). L'elemento probatorio oggettivo, idoneo a fornire riscontro esterno dell'attendibilità della chiamata in correità, può, inoltre, essere costituito da: la deposizione testimoniale resa dal terzo in ordine a circostanze apprese direttamente dal dichiarante, quando quest'ultima apporti autonomi elementi di prova circa l'attendibilità del chiamante diretto sul thema probandum (Cass. VI, n. 937/2001); le dichiarazioni de relato aventi ad oggetto le confidenze ricevute dall'imputato (Cass. I, n. 18019/2017); una causale del delitto, purché essa sia specifica ed univoca (Cass. II, n. 43311/2013); il rifiuto immotivato dell'imputato di consegnare o lasciar prelevare materiale biologico utile alla comparazione del Dna (Cass. II, n. 44624/2004), ovvero il rifiuto ingiustificato opposto dall'imputato all'espletamento dei rilievi fotografici necessari per lo svolgimento della perizia antropometrica (Cass. II, n. 41770/2018), quando, in entrambi i casi, non siano state prospettate allo scopo modalità invasive o comunque lesive dell'integrità e della libertà personale; i dati emergenti dai tabulati telefonici relativamente a conversazioni intercorse tra apparecchi in uso ai soggetti accusati, laddove difettino plausibili spiegazioni alternative dei contatti avuti tra gli stessi in luoghi e momenti significativi ai fini dell'accertamento del reato (Cass. I, n. 34658/2015), ovvero i dati emergenti dai tabulati telefonici, attestanti infruttuosi tentativi di chiamata (Cass. VI, n. 45933/2015). E' stato ritenuto, invece, che, ai fini dell'affermazione di responsabilità in danno di un concorrente, imputato del reato di estorsione quale soggetto incaricato della riscossione del “pizzo”, non è legittimo valorizzare il contributo concorsuale asseritamente fornito dal mandante, quando quest'ultimo sia stato assolto con sentenza definitiva dal medesimo reato per non avere commesso il fatto (Cass. II, n. 32569/2023). Il contenuto di un'intercettazione, invece, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno dell'imputato che non vi ha preso parte, indicato come autore di un reato, non è equiparabile alla chiamata in correità e, pertanto, se anch'esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all'art. 192, comma 3 (Cass. V, n. 4572/2016). Le Sezioni Unite hanno, in proposito, chiarito che le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall'art. 192, comma 3 (Cass. S.U., n. 22471/2015). Con riferimento, poi, alle dichiarazioni rese dai c.d. “testimoni di giustizia”, è stato precisato che rispetto ad esse non si applica la disciplina dettata dall'art. 192, comma 3, perché il “carattere di attendibilità” postulato dall'art. 16-bis, comma 2, d.l. 15 gennaio 1991, n.8, introdotto dalla l. 13 febbraio 2001, n. 45, evidenzia soltanto la necessità di un sindacato di natura tipicamente amministrativa, destinato a verificare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle speciali misure di protezione in favore di tali soggetti (Cass. I, n. 44356/2015). È stato, poi, affermato che, in tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d'affari ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti non costituiscono elementi di per sé sintomatici dell'appartenenza all'associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell'art. 192, comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante (Cass. II, n. 6272/2017). Sempre in tema di reati associativi, è stato precisato che il thema decidendum riguarda la condotta di partecipazione o direzione, con stabile e volontaria compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio: ne consegue che le dichiarazioni dei collaboratori o l'elemento di riscontro individualizzante non devono necessariamente riguardare singole attività attribuite all'accusato, giacché il “fatto” da dimostrare non è il singolo comportamento dell'associato bensì la sua appartenenza al sodalizio (Cass. II, n. 24995/2015). La conferma dell'attendibilità di un'accusa mossa da un collaboratore di giustizia può essere costituita dalla dichiarazione di un altro collaboratore avente ad oggetto un fatto diverso ma comunque indicativo della partecipazione all'associazione, a nulla rilevando che il riscontro attenga ad un accadimento collocabile in un diverso contesto temporale, se quest'ultimo sia comunque compreso nel periodo di contestazione del reato (Cass. V, n. 21562/2015). Con riferimento, poi, all'ammissibilità di una valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie rese da chiamante in correità, è stato affermato che in tanto essa è possibile in quanto non esista un'interferenza fattuale e logica fra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti che siano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate. Detta interferenza, peraltro, si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l'una sia imprescindibile antecedente logico dell'altra (Cass. I, n. 468/2001). L'esclusione dell'attendibilità per una parte del racconto, cioè, non implica, per il principio della cosiddetta “frazionabilità” della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, sempre che non sussista un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti e l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante (Cass. VI, n. 35327/2013). In ultimo, con riguardo al diverso tema della chiamata in correità nei confronti di una pluralità di soggetti, è stato osservato che la valutazione deve avvenire in modo frazionato per verificare l'esistenza dei riscontri individualizzanti a carico di ciascun accusato, non potendo estendersi l'affidabilità delle dichiarazioni del chiamante, che pure trovino conferme oggettive negli accertati elementi del fatto criminoso e soggettive nei confronti di uno dei chiamati, a un altro chiamato sulla base di reciproche inferenze totalizzanti (Cass. I, n. 16674/2011). Chiamata di correo e indizi cautelariA seguito dell'introduzione dell'art. 273, comma 1-bis, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, ai fini dell'adozione di una misura cautelare personale, si applicano le disposizioni dei commi 3 e 4 dell'art. 273. Per la giurisprudenza, la chiamata di correo quale grave indizio di colpevolezza, oltre che essere apprezzato nella sua attendibilità intrinseca, deve essere supportato da riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col thema decidendum proprio della pronuncia de libertate e di giustificare, quindi, la razionalità della medesima, essendo l'esigenza della corroboration — che inerisca non solo alle modalità oggettive del fatto descritto dal chiamante ma anche soggettivamente indirizzata — imprescindibile nell'ambito di una valutazione che è strumentale all'adozione di un provvedimento, quale quello restrittivo della libertà, dagli effetti rigorosamente ad personam (Cass. V, n. 18097/2010). Le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato integrano, poi, i gravi indizi di colpevolezza di cui all'art. 273, comma 1 - in virtù dell'esplicito richiamo all'art. 192, commi 3 e 4, operato dall'art. 273, comma 1-bis, introdotto dall'art. 11 l. n. 63 del 2001 — soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da attribuire capacità dimostrativa e persuasività probatoria in ordine all'attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell'oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all'acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell'imputato (Cass. V, n. 50996/2014). La S.C. ha, altresì, precisato che ai fini dell'applicazione delle misure cautelari, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 63 del 2001, è ancora sufficiente il requisito della sola gravità degli indizi, posto che l'art. 273, comma 1-bis, (introdotto dalla legge citata) richiama espressamente il terzo e il quarto comma dell'art. 192, ma non il secondo comma che prescrive la valutazione della precisione e della concordanza, accanto alla gravità, degli indizi: ne consegue che essi, in sede di giudizio de libertate, non vanno valutati secondo gli stessi criteri richiesti nel giudizio di merito (Cass. IV, n. 37878/2007). È sufficiente, pertanto, qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato in ordine ai reati addebitatigli, perché i necessari “gravi indizi di colpevolezza” non corrispondono agli “indizi” intesi quale elemento di prova idoneo a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza e non devono, pertanto, essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall'art. 192, comma 2, non richiamato dall'art. 273, comma 1-bis (Cass. II, n. 26764/2013). E' stato ritenuto, infine, che, nella fase delle indagini preliminari, i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l'applicazione di una misura cautelare, che devono essere tali da lasciar desumere la qualificata probabilità di attribuzione all'indagato del reato per cui si procede, possono fondarsi sulla dichiarazione di un collaborante, se precisa, coerente e circostanziata, che abbia trovato riscontro in elementi esterni, anche di natura logica, tali da rendere verosimile il contenuto della dichiarazione (Cass. I, n. 16792/2010). Allo stesso modo, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono integrare i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l'applicazione della misura, senza necessità di acquisire riscontri oggettivi esterni ai fini della valutazione di attendibilità estrinseca (Cass. I, n. 44633/2018). BibliografiaAngeletti, La costruzione e la valutazione della prova penale, Torino, 2012; Aprile, La prova penale, Milano, 2002; Bevere, La chiamata di correo: itinerario del sapere dell'imputato nel processo penale, Milano, 2001; Canzio, L'”oltre il ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2004, 303; Cappa, La chiamata di correità tra riscontri e motivazione, in Giur. it. 2005, 1941; Gianniti, La valutazione della prova penale, Torino, 2005; Melchionda, voce Prova in generale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, 838; Tonini, La prova penale, Padova, 2000; Ubertis, voce Prova, II) Teoria generale del processo penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 1991, 2; Vitale, Il riscontro della chiamata in correità ai fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, in Cass. pen. 2003, 2008. |