Codice di Procedura Penale art. 297 - Computo dei termini di durata delle misure.Computo dei termini di durata delle misure. 1. Gli effetti della custodia cautelare [284-286, 722] decorrono dal momento della cattura [293], dell'arresto [380, 381] o del fermo [384]. 2. Gli effetti delle altre misure [281-283, 288-290, 312] decorrono dal momento in cui l'ordinanza che le dispone è notificata a norma dell'articolo 293. 3. Se nei confronti di un imputato [60, 61] sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettere b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave [16 3, 278]. La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio [429, 450, 456, 552] disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma 12. 4. Nel computo dei termini della custodia cautelare si tiene conto dei giorni in cui si sono tenute le udienze [441, 447, 470 s., 599, 602, 611, 614] e di quelli impiegati per la deliberazione della sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni solo ai fini della determinazione della durata complessiva della custodia a norma dell'articolo 303, comma 4 3. 5. Se l'imputato è detenuto per un altro reato o è internato per misura di sicurezza [95 att.], gli effetti della misura decorrono dal giorno in cui è notificata l'ordinanza che la dispone [293], se sono compatibili con lo stato di detenzione o di internamento; altrimenti decorrono dalla cessazione di questo. Ai soli effetti del computo dei termini di durata massima [303], la custodia cautelare [284-286] si considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza.
[1] Comma così sostituito dall'art. 12 l. 8 agosto 1995, n. 332. [2] La Corte cost., con sentenza 22 luglio 2011, n. 233, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma, «nella parte in cui - con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi - non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura». Precedentemente con sentenza 3 novembre 2005, n. 408, la Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma nella parte in cui «non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza». [3] Comma così modificato dall'art. 12 l. n. 332/1995, cit. Relativamente al contesto normativo antecedente a tale modifica, v. l'art. 1 d.l. 1° marzo 1991, n. 60, conv., con modif., nella l. 22 aprile 1991, n. 133. InquadramentoL'art. 297 disciplina le modalità di computo dei termini di durata massima delle misure cautelari, quali sono stabiliti negli artt. 303 e 308, determinando la decorrenza (commi 1 e 2), in particolare nel caso della c.d. contestazione a catena (comma 3), stabilendo il congelamento dei termini di fase (comma 4) e le condizioni di compatibilità con la detenzione per altro reato (comma 5). La decorrenza dei terminiI termini di custodia cautelare decorrono dal momento dell'effettiva privazione della libertà e, quindi, da quello della cattura, dell'arresto o del fermo, quando quest'ultimo preceda l'emissione del provvedimento restrittivo, secondo l'espressa previsione dell'art. 297, comma 1. Dalla coordinazione di questa norma con l'art. 391 deriva che, se all'arresto o al fermo segue l'emissione di un provvedimento cautelare, i termini di custodia cautelare per i reati compresi in tale provvedimento decorrono dalla data di privazione della libertà, mentre, se non interviene la convalida né l'emissione di un provvedimento di custodia cautelare, i giorni di detenzione conseguenti all'arresto od al fermo potranno essere valutati ai fini dell'art. 657, ma non nel computo dei termini di custodia cautelare in relazione ad un provvedimento restrittivo emesso successivamente, a seguito di nuove acquisizioni probatorie. La giurisprudenza ha espresso orientamenti contrastanti con riferimento alla decorrenza del termini di custodia cautelare nel caso in cui questa sia disposta da giudice incompetente. Secondo l'orientamento maggioritario, il provvedimento di custodia cautelare disposto dal giudice che, contestualmente, si dichiari incompetente, viene, a tutti gli effetti, sostituito dalla ordinanza pronunciata nei termini di legge dal giudice competente, sicché i termini di durata della custodia cautelare decorrono ex novo dall'emissione di quest'ultima (Cass. I, n.17931/2004; Cass. VI, n. 27975/2009; Cass. I, n. 5896/2012; Cass. VI, n. 41974/2014; Cass. IV, n. 28741/2021). Secondo altro orientamento, invece, nel caso di misura cautelare emessa da giudice incompetente, il termine di fase della custodia cautelare comincia a decorrere dalla data di emissione del provvedimento che dispone la trasmissione degli atti al giudice competente e non dal momento in cui viene emessa la nuova misura cautelare (Cass. VI, n. 22035/2012; Cass. VI, n. 25713/2016 ; Cass. I, n. 51902/2018). Il comma 2 dispone che i termini delle altre misure coercitive non custodiali (artt. 281-283) e delle misure interdittive (artt. 288-290) decorrono dalla data di notifica dell'ordinanza applicativa. L'applicazione successiva di più misure coercitive non custodiali non comporta il cumulo dei periodi di sottoposizione a ciascuna misura ai fini della determinazione dei termini di fase che, invece, vanno autonomamente computati, ai sensi dell'art.297, comma 2, dal momento in cui le rispettive ordinanze sono notificate. E' stata ritenuta, inoltre, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione all'art.297, comma 2, per contrasto con gli artt. 3,13,25 e 27 Cost., in quanto la disciplina codicistica garantisce un ragionevole contemperamento tra diritto di libertà dell'imputato e tutela della collettività (Cass. VI, n. 10273/2019). Deve evidenziarsi un non risolto contrasto nella giurisprudenza della Suprema Corte sul computo dei termini di custodia cautelare. Secondo una soluzione interpretativa, in tema di decorrenza dei termini di custodia cautelare si applica la regola fissata tanto dall'art. 14 c.p., comma 2, (per cui «ogni qual volta la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine»), quanto dall'art. 172, comma 4, (secondo cui «...nel termine non si computa (...) il giorno in cui ne è iniziata la decorrenza...»), in virtù della quale il dies a quo non è compreso nel computo dei termini (Cass. I, n. 2141/1995; Cass. VI, n. 2838/1995; Cass. V, n. 38635/2003; Cass. VI, n. 2182/2008; Cass. VI, n. 2958/2008), La giurisprudenza maggioritaria privilegia la soluzione contraria, per quale quel calcolo va effettuato computando anche il giorno iniziale nel quale l'interessato viene privato della libertà personale, con la conseguenza che il termine ad anni o a mesi deve ritenersi scaduto il giorno immediatamente precedente a quello corrispondente al giorno d'inizio (Cass. IV, n. 1125/1998; Cass. V, n. 456/1998; Cass. V, n. 637/2000; Cass. I, n. 24693/2001; Cass. V, n. 30821/2002; Cass. II, n. 49296/2004; Cass. V, n. 47979/2008; Cass. V, n. 14317/2010; Cass. VI, n. 22035/2012). Sono state individuate molteplici ragioni che militano a favore della tesi maggioritaria (in dottrina v. Kalb, 2307). In primo luogo vi è l'esito di una verifica logico-sistematica, perché, a differenza che per altri istituti, per il computo dei termini di durata delle misure cautelari personali custodiali il codice di rito prevede una apposita disciplina, stabilendo, all'art. 297, comma 1, che «gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell'arresto o del fermo». Esiste, dunque, una specifica norma che regola la materia e che deroga al criterio di calcolo dei termini di cui al citato art. 172, il quale, peraltro, con l'inciso iniziale del comma 4, fa espressamente salve le ipotesi per le quali «la legge disponga altrimenti». Vi è poi il risultato della esegesi letterale della norma operante nei casi di specie, atteso che l'art. 297, comma 1, esplicitamente fissa nel momento della «cattura», cioè in quello in cui l'indagato viene privato della libertà persona per effetto della misura cautelare della custodia cautelare in carcere o di quella parificata degli arresti domiciliari, il punto iniziale del calcolo del termine di durata della custodia. In tale ottica, così come non deve trarre in inganno l'impiego del termine «cattura», poiché è lo stesso art. 285 che, nell'indicare il contenuto e le caratteristiche della misura della custodia cautelare in carcere, prevede che «il giudice ordina agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che l'imputato sia catturato», allo stesso modo non deve essere trascurato che la disposizione dell'art. 297, comma 1, ricalca sostanzialmente - come pure evidenziato nella Relazione governativa al nuovo codice - quella contenuta nell'art. 297, comma 1, del 1930, che, pur facendo riferimento, agli stessi fini, al momento in «t'imputato è stato fermato o arrestato», veniva pacificamente intesa dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza nel senso che nel termine di durata della custodia cautelare dovesse essere computato anche il dies a quo. D'altra parte, sarebbe illogico estendere oltre ogni limite la portata applicativa della regola di calcolo di cui all'art. 172, comma 4, atteso che tale disposizione è chiaramente fissata per regolare nel tempo il compimento di atti delle parti o l'adozione di provvedimenti del giudice, e non si attaglia alle modalità di calcolo dei termini di durata della custodia cautelare rispetto ai quali sarebbe ingiustificato non computare il giorno stesso in cui inizia ad avere esecuzione il provvedimento restrittivo della libertà personale dell'interessato, cioè il giorno in cui la custodia è oramai in atto. Una diversa soluzione finirebbe per comportare un inammissibile sacrificio di un fondamentale diritto costituzionalmente garantito. Il calcolo che tiene conto del «giorno di partenza» significa, quindi, che il termine di durata della custodia indicato a giorni, a mesi o ad anni va determinato secondo il calendario comune e scade alle ore 24,00 del giorno precedente a quello corrispondente al giorno in cui ha avuto inizio la custodia cautelare (eventualmente anche nella forma precautelare derivante dall'arresto in flagranza o dall'esecuzione di un fermo di indiziato di delitto). Nè va dimenticato che il computo del dies a quo nel calcolo dei termini di durata della custodia cautelare assicura anche un risultato più ragionevole sotto l'aspetto sistematico, atteso che il periodo sofferto in custodia cautelare è imputato, in caso di condanna finale, alle pene detentive temporanee, con riferimento alle quali l'art. 134 c.p. - per cui tali pene si applicano a giorni, a mesi e ad anni, senza tenere conto della frazione di giorno - viene comunemente letto nel senso del computo per intero anche del giorno iniziale in cui è avvenuta la privazione della libertà personale (Cass. I, n. 46149/2009). La c.d. contestazione a catenaIl comma 3 dell'art. 297 introduce eccezioni alle regole generali dettate dai primi due commi, al fine di contrastare la prassi delle c.d. contestazioni a catena. Per quanto concerne la ratio dell'istituto, ancora da ultimo la Corte cost. n. 204/2012, ha chiarito che esso «tende ad evitare che, rispetto a una custodia cautelare in corso, intervenga un nuovo titolo che, senza adeguata giustificazione, determini di fatto uno spostamento in avanti del termine iniziale della misura [...]. L'introduzione di «parametri certi e predeterminati» nella disciplina delle «contestazioni a catena» risponde all'esigenza di «configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale» (Corte cost. n. 89/ 1996), in assenza dei quali si potrebbe «espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell'imputato, tramite il “cumulo materiale” totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato» (Corte cost. n. 233/2011). La disciplina delle «contestazioni a catena», dunque, si caratterizza per una rigidità indispensabile a scongiurare il rischio di un'espansione, potenzialmente indefinita, della restrizione complessiva della libertà personale, ed è in nome di questa rigidità che la disciplina delle «contestazioni a catena» non tollera alcuna «imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere cautelare». È stato precisato che in caso di applicazione successiva di misure cautelari non custodiali eterogenee, non può trovare applicazione l'istituto della c.d. contestazione a catena, poiché la retrodatazione dell'efficacia della misura applicata in epoca posteriore presuppone che nei confronti dell'indagato o imputato, per lo stesso fatto o per fatti connessi, siano adottate più ordinanze che dispongano la “medesima misura” (Cass. VI, n. 26308/2021). La disposizione è stata oggetto di molteplici interventi delle Sezioni Unite della Suprema Corte e di pronunce di illegittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, che hanno reso complessa la sua interpretazione. Il percorso interpretativo che si è sviluppato nel tempo può essere ricostruito e sintetizzato come di seguito (v., da ultimo, Cass. II, n. 13021/2015). Nel suo testo originario l'art. 297, comma 3, (che riprendeva la disposizione da ultimo appositamente introdotta nel codice abrogato dalla l. n. 398/1984) stabiliva che la decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare applicata con un'ordinanza si sarebbe dovuta retrodatare al momento dell'esecuzione di altra precedente ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso fatto ovvero più fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di aberratio delicti o di aberratio ictus plurioffensiva. Nella versione novellata nel 1995, da un lato è stato ristretto l'ambito applicativo della norma, con la previsione dell'operatività del meccanismo di retrodatazione esclusivamente con riferimento ai casi di connessione qualificata ai sensi dell'art. 12, lett. b) (continuazione tra i reati) e c) limitatamente all'ipotesi di reati connessi per eseguire gli altri (connessione teleologia); dall'altro, introducendo una regola generale di retrodatazione «automatica» («se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura... i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave»): automatismo, tuttavia, non applicabile laddove la seconda ordinanza cautelare veniva emessa dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza («la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma»). La portata applicativa della disposizione in esame è stata, infine, ampliata per effetto della sentenza additiva Corte cost. n. 408/2005, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell'art. 297, comma 3, nella parte in cui «non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell'emissione della precedente ordinanza»; ed ulteriormente precisata dalla sentenza Corte cost. n. 233/2011, con la quale la Consulta – «reagendo» ad un contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva finito per diventare «diritto vivente» – ha dichiarato la illegittimità dello stesso art. 297, comma 3 nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura. Nella cornice normativa così tratteggiata, seguendo il percorso argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Cass. S.U., n. 21957/2005; Cass. S.U., n. 14535/2007), con riguardo alla contestazione di reati diversi, variamente collegabili tra loro, è possibile – in linea schematica – riconoscere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte regole operative. In tutti e tre i casi è, comunque, necessario, perché si possa parlare di «contestazione a catena» e perché possa eventualmente trovare applicazione la disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare, che i delitti oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore, ma il presupposto della anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all'emissione della prima non ricorre allorché il provvedimento successivo riguarda un reato di associazione e la condotta di partecipazione si sia protratto dopo l'emissione della prima ordinanza (in questo senso, da ultimo, Cass. VI, n. 31441/2012; Cass. VI, n. 15821/2014; Cass. VI, n. 52015/2018), a meno che, in caso di contestazione con formula “aperta”, gli elementi acquisiti non consentano di ritenere l'intervenuta cessazione della permanenza quanto meno alla data di emissione della prima ordinanza (Cass. II, n. 16595/2020). La prima situazione è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti – reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologia (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell'art. 297, comma 3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima operi automaticamente e, dunque – impiegando le parole delle Sezioni unite di questa Corte – «indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l'esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l'esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure». Automatica retrodatazione della decorrenza dei termini che risponde all'esigenza «di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata» (così Corte cost. n. 89/1996), e che si determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale (così Cass. S.U., n. 14535/2007). La seconda situazione rappresenta una variante della prima, presupponendo comunque l'accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma è caratterizzata dall'intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti oggetto del primo provvedimento coercitivo. Tale ipotesi presuppone, ovviamente, che le due o più ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti, ma (come hanno chiarito le Sezioni unite nelle più volte richiamate sentenze) è irrilevante che gli stessi siano «gemmazione» di un unico procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini. In siffatta diversa situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo dell'art. 297, comma 3, sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (Cass. I, n. 42442/2013; Cass. VI, n. 50128/2013; Cass. II, n. 17918/2014; Cass. I, n. 26093/2018). Infine, la terza situazione è quella in cui tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata, cioè diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologico) (per quest'ultimo, nei limiti fissati dal codice). Questa ipotesi, che in passato si riteneva pacificamente non riguardare l'art. 297, comma 3, oggi rientra nel campo applicativo di tale disposizione codicistica per effetto della menzionata sentenza «manipolativa» della Corte cost. n. 408/2005. Ne consegue che la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare è dovuta «in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l'autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l'adozione delle singole ordinanze». Il giudice deve, perciò, verificare se al momento dell'emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da intendersi – come sottolineato dai Giudici delle leggi – come «elementi idonei e sufficienti per adottare» il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l'applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (così Cass. S.U., n. 14535/2007; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Cass. I, n. 22681/2008; Cass. I, n. 44381/2010). In definitiva, i principi applicativi della norma di cui all'art. 297, comma 3, possono essere così sintetizzati: – nel caso di emissione nello stesso procedimento di più ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato una misura custodiale per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti diversi, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive opera automaticamente, ovvero senza dipendere dalla possibilità di desumere dagli atti, al momento dell'emissione della prima ordinanza, l'esistenza degli elementi idonei a giustificare le successive misure (art. 297, comma 3, prima parte); – nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate nello stesso procedimento riguardino invece fatti diversi tra i quali non sussiste la connessione qualificata prevista dall'art. 297, comma 3, la retrodatazione opera solo se al momento dell'emissione della prima erano desumibili dagli atti elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive; – il presupposto dell'anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all'emissione della prima, non ricorre allorché il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l'emissione della prima ordinanza; – quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze custodiali per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall'art. 297, comma 3, opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza; – nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero; – la disciplina stabilita dall'art. 297, comma 3, per la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare, si applica anche nell'ipotesi in cui, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura (Corte cost., n. 233/ 2011). La giurisprudenza della Corte di cassazione ha successivamente specificato che la garanzia processuale contenuta nell'art. 297 comma 3 – relativa alla retrodatazione dei termini di decorrenza della misura cautelare data di esecuzione della prima ordinanza – non viene meno a seguito della definizione del procedimento penale nell'ambito del quale è stato emesso il primo provvedimento restrittivo, quale che sia la conclusione di quest'ultimo, sfavorevole (cfr. Corte cost. n. 233/ 2011), ma anche favorevole all'imputato (Cass. I, n. 24438/2015). Per l'applicazione dell'istituto in esame, devono essere tenuti presenti anche i seguenti principi: 1) La regola della retrodatazione della decorrenza dei termini cautelari non trova invece applicazione in caso di provvedimenti dispositivi di misure diverse da quelle coercitive di natura custodiale (Cass. VI, n. 41332/2010) La disciplina del comma 3 dell'art. 297 si applica, invece, anche quando una prima ordinanza abbia disposto gli arresti domiciliari ed una seconda la custodia cautelare in carcere atteso che, a norma dell'art. 284 comma 5, l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare (Cass. VI, n. 3844/1997; Cass. VI, n. 21544/2009; Cass. fer., n. 34203/2009; Cass. II, n. 37975/2020; contra: Cass. IV, n. 14420/2006). 2) Quanto al presupposto della connessione qualificata, mentre non vi sono particolari difficoltà a configurare la connessione, in termini di concorso formale, continuazione o connessione teleologica, fra più reati monosoggettivi, più problematica è la configurabilità dei presupposti della connessione fra delitto associativo e più reati-fine. La più recente e ormai consolidata giurisprudenza ritiene, che, seppur di norma non sia ravvisabile un vincolo rilevante ai fini della continuazione e meno ancora della connessione teleologica, posto che, generalmente, al momento della costituzione della associazione, i reati-fine sono previsti solo in via generica, tale vincolo può, tuttavia, ritenersi sussistente nella eccezionale ipotesi in cui risulti che fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dalla adesione ad esso, un determinato soggetto, nell'ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi. Affinché si possa ipotizzare la sussistenza della continuazione tra reato associativo e reati-fine è dunque necessario che sia dimostrato che questi ultimi fossero già stati programmati al momento della costituzione della associazione o della adesione alla stessa del singolo indagato, in quanto nulla si oppone a che, sin dall'inizio, nel programma criminoso dell'associazione, si concepiscano uno o più reati-fine individuati nelle loro linee essenziali, di guisa che tra questi reati e quello associativo si possa ravvisare una identità di disegno criminoso: tale problema si risolve in una quaestio facti, la cui soluzione e` rimessa di volta in volta all'apprezzamento del giudice di merito (Cass. I, n. 6530/1999; Cass. V, n. 44606/2005; Cass. I, n. 8451/2009; Cass. IV, n. 9990/2010; Cass. I, n. 40318/2013; Cass. I, n. 1534/2018; Cass. I, n. 23818/2020). È stato anche precisato che la contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 l. n. 203 del 1991 con riferimento a delitto diverso da quello di cui all'art. 416-bis c.p. non consente ex se di ravvisare la sussistenza del rapporto di connessione “qualificata” con il reato di cui all'art. 416-bis c.p., rilevante, ai sensi dell'art. 297, ai fini della retrodatazione del dies a quo della custodia cautelare (Cass. II, n. 3105/2008; Cass. V, n. 49224/2017). Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che possa essere ravvisata una connessione rilevante ai fini dell'art. 297 comma 3 tra il reato di associazione mafiosa e il reato di omicidio commesso nello svolgimento dell'attività del sodalizio, atteso che questi ultimi, pur essendo certamente episodi non inconsueti nel panorama di attività criminosa della struttura delinquenziale, non rappresentano la finalità per cui lo stesso è stato costituito (Cass. I, n. 1815/1998; Cass. V, n. 495/2000; Cass. I, n. 12715/2008; Cass. VI, n. 28023/2011. Contra: Cass. I, n. 6090/1999). La parte che invoca l'applicazione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare ha l'onere di fornire la prova della esistenza di una connessione qualificata, oltre che della desumibilità dagli atti del fatto oggetto della seconda ordinanza già al momento dell'emissione del primo provvedimento, quali condizioni che legittimano l'operatività della disciplina prevista dall'art. 297, comma 3 (Cass. III, n. 18671/2015). Le Sezioni Unite hanno anche chiarito che, in caso di pluralità di misure cautelari emesse in procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione del termine di durata può riconoscersi esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall'art. 297, comma 3 (Cass. S.U., n. 23166/2020). 3) Quanto al requisito relativo alla “desumibilità dagli atti” al momento della emissione della prima ordinanza o al momento del rinvio a giudizio, perché possa ritenersi integrato tale presupposto, è necessario che l'autorità inquirente fosse già in possesso degli elementi sufficienti per richiedere l'adozione della misura cautelare anche per il reato oggetto del successivo provvedimento e non anche quando la stessa era solo a conoscenza dei relativi fatti, ma non aveva ancora provveduto al loro accertamento. Il concetto di “desumibilità dagli atti” non va difatti confuso con i concetti di “conoscenza” o “conoscibilità”: la desumibilità non coincide con la disponibilità degli atti, che costituisce mero dato di fatto, ma consiste, viceversa, in un giudizio sulla possibilità che l'autorità giudiziaria, in possesso di determinati elementi, sia in grado di dedurre da essi date conclusioni, dovendosi tenere conto del tempo obiettivamente occorrente al pubblico ministero per una lettura “ponderata” del materiale e, ancora, della necessità di compiere ulteriori accertamenti, sulla scorta dei quali poter ritenere integrato il requisito di gravità indiziaria ai fini della richiesta di misura cautelare. La desumibilità non è, pertanto, quella astratta ex post, che si realizza nella fase avanzata o finale delle indagini, quando le acquisizioni investigative si ricompongono in un insieme unitario e coerente dinanzi all'autorità giudiziaria procedente, ma è quella concreta ex ante, normalmente esigibile da magistrati dotati di adeguata professionalità (Cass. VI, n. 24695/2007; Cass. V, n. 47090/2007; Cass. II, n. 11133/2009; Cass. IV, n. 2649/2009; Cass. VI, n. 49326/2009; Cass. V, n. 2724/2010; Cass. I, n. 12906/2010; Cass. II, n. 49/2012). In definitiva, la nozione di anteriore «desumibilità», dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare, delle fonti indiziarie poste a fondamento dell'ordinanza cautelare successiva, va individuata non nella mera conoscibilità storica di determinate evenienze fattuali, ma nella condizione di conoscenza derivata da un determinato compendio documentale o dichiarativo che consenta al Pubblico Ministero di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità degli indizi, suscettibile di dare luogo, in presenza di concrete esigenze cautelari, alla richiesta e alla adozione di una nuova misura cautelare (Cass. III, n. 46158/2015; Cass. VI, n. 48565/2016: in motivazione la Corte ha precisato che la valutazione compete al giudice di merito, il quale dovrà considerare la complessità della regiudicanda, il numero degli imputati e delle imputazioni, la mole del materiale da esaminare ed ogni altro elemento di rilievo). È onere della parte, che invoca la retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare, provare la desumibilità dagli atti del primo procedimento del fatto di reato oggetto dell'ordinanza successiva (Cass. V, n. 49793/2013; Cass. II, n. 6374/2015; Cass. III, n. 18671/2015). 4) La giurisprudenza ha precisato che l'indagato ha interesse ad ottenere la scarcerazione in riferimento all'addebito cautelare per il quale i termini di custodia siano scaduti pur permanendo nello stato di detenzione cautelare per altro addebito, se i titoli cautelari afferiscono a procedimenti diversi, e ciò pur quando, per effetto della regola della retrodatazione, i termini delle varie misure cautelari decorrono tutti dall'esecuzione della prima ordinanza, acquistando in tal modo lo status libertatis in ciascun procedimento nel quale egli si trovi coinvolto (Cass. VI, n. 608/2000; Cass. I, n. 42012/2010). Altra giurisprudenza ha, invece, affermato che l'interesse all'accoglimento della richiesta di operatività della cosiddetta contestazione a catena sussiste solo qualora da essa derivi un diverso e favorevole computo del termine di durata della custodia cautelare nella fase delle indagini preliminari, tale da comportare la scarcerazione, e ciò in quanto la retrodatazione degli effetti ne anticipi la scadenza a data antecedente a quella della emissione di uno degli atti di cui all'art. 303, comma 1, lett. a) (Cass. V, n. 32850/2011; Cass. VI, n. 14510/2016). 5) In caso di contestazioni a catena, la sospensione dei termini di custodia cautelare, disposta dal giudice con riferimento alla misura adottata per prima, opera anche con riferimento ai termini, decorrenti dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza, relativi alla misura adottata con la seconda ordinanza (Cass. III, n. 19047/2009; da ultimo: Cass. II, n. 11165/2021). 6) La giurisprudenza maggioritaria ritiene che la regola della retrodatazione della durata dei termini di custodia cautelare prevista dall'art. 297, comma 3 non trova applicazione se la richiesta è presentata nel corso di una fase successiva a quella delle indagini preliminari. Tale interpretazione viene giustificata con la considerazione che solo nella fase delle indagini preliminari si pone la concreta esigenza di evitare possibili elusioni dei termini di durata delle misure cautelari (Cass. III, n. 40913/2001; Cass. VI, n. 6841/2004; Cass. II, n. 1129/2008; Cass. I, n. 50000/2009; Cass. III, n. 8984/2015; Cass. II, n. 53664/2016;Cass. I, n. 8786/2017; Cass. VI, n. 12752/2017). In senso contrario, si è, invece, affermato che la regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare, in relazione ad una pluralità di ordinanze che dispongono la medesima misura nei confronti dello stesso imputato per fatti connessi, deve essere applicata anche se la richiesta è presentata nel corso di una fase successiva a quella delle indagini preliminari (Cass. VI, n. 43235/2013; Cass. II, n. 20962/2014). Di recente, si è ritenuto che la regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare opera anche nel caso in cui, nell'ambito di uno stesso procedimento, ad un'ordinanza pronunciata nel corso delle indagini preliminari segua, nei confronti dello stesso imputato, una seconda ordinanza per fatti connessi emessa in fase dibattimentale; in tal caso, ai fini del calcolo dei termini di fase di cui all'art. 303, deve farsi riferimento al “dies a quo” della prima misura e verificare se, per il reato della seconda ordinanza cautelare, i termini di durata di ciascuna fase siano o meno scaduti, mentre devono sommarsi i periodi di custodia subita anche in fasi eterogenee ai soli fini del calcolo dei termini di durata complessiva di cui all'art. 303, comma 4, o del termine di durata massimo di cui all'art. 304, comma 6 (Cass. VI, n. 43599/2021). La garanzia processuale prevista dall'art. 297, comma 3, relativa alla retrodatazione dei termini di decorrenza della misura cautelare alla data di esecuzione della prima ordinanza, determina una dipendenza funzionale dell'ordinanza retrodatata dalla prima, di cui seguirà le sorti procedimentali; ne consegue che l'ordinanza successiva dovrà essere dichiarata inefficace solo nel caso in cui siano decorsi i termini massimi di custodia cautelare afferenti alla prima, ma non in quello di revoca di tale ordinanza per cessazione delle esigenze cautelari (Cass. VI, n. 22571/2017). 7) Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno stabilito che La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all'art. 297, comma 3, deve essere effettuata computando l'intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee (Cass. S.U., n. 23166/2020). La cognizione del giudice del riesamePer lungo tempo, la giurisprudenza di legittimità è stata unanime nel ritenere che la verifica delle condizioni per la retrodatazione esulasse dalla cognizione del giudice investito del procedimento incidentale di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive (art. 309). Tale indirizzo si collocava nell'alveo del più generale orientamento interpretativo secondo cui il riesame - quale impugnazione de libertate a carattere pienamente devolutivo - sarebbe finalizzato alla verifica dei soli requisiti di validità, formali e sostanziali, del provvedimento cautelare impugnato: validità non intaccata dal meccanismo della retrodatazione, il quale incide sul diverso piano dell'efficacia della misura coercitiva disposta, modificando la decorrenza e i criteri di computo della relativa durata massima. Al pari di altri eventi produttivi dell'inefficacia di detta misura la retrodatazione avrebbe dovuto essere fatta valere dall'interessato in altro modo: e, cioè, proponendo istanza di revoca della misura al giudice che procede, ai sensi dell'art. 306, salvo poi impugnare con appello l'eventuale decisione negativa di quest'ultimo (art. 310). A partire dal 2010 è, peraltro, emerso un indirizzo giurisprudenziale di diverso segno, secondo il quale la retrodatazione sarebbe deducibile in sede di riesame, quantomeno allorché, per effetto di essa, i termini massimi risultino già spirati alla data di adozione dell'ordinanza impugnata. Del contrasto sono state quindi investite le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che l'orientamento tradizionale e maggioritario, inteso ad escludere la competenza del giudice del riesame, dovrebbe essere tenuto fermo nei casi in cui l'inefficacia conseguente alla retrodatazione sia sopravvenuta rispetto alla data di emissione del provvedimento coercitivo. A conclusioni parzialmente diverse dovrebbe invece pervenirsi quando, a seguito della retrodatazione, il termine risulti interamente decorso già al momento dell'adozione della misura, in maniera tale da determinare una inefficacia originaria del titolo cautelare. Anche in quest'ultima ipotesi (termine già scaduto alla data del provvedimento coercitivo impugnato), la deducibilità della retrodatazione in sede di riesame non sarebbe peraltro piena, ma rimarrebbe soggetta ad una ulteriore condizione limitativa. È stato infatti tenuto conto delle particolari caratteristiche della procedura incidentale di riesame "che non prevede l'esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento ..." e che "si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza"; dall'altro, della "notevole complessità" che l'accertamento delle condizioni per la retrodatazione è suscettibile di assumere ed è stato così affermato che i presupposti ai quali è subordinata, a seconda dei casi, la configurabilità di una "contestazione a catena" potrebbero rendere necessarie verifiche particolarmente penetranti e porre problemi di non agevole soluzione. Da ciò le Sezioni unite hanno desunto che "soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione è possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della più ampia tutela del bene primario della libertà personale", riconoscendo al tribunale del riesame il potere di pronunciarsi in materia. È stato così enunciato il principio di diritto per cui, "nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare" (Cass. S.U., n. 45246/2012). La Corte cost. n. 293/2013, è stata investita di censure di illegittimità costituzionale solo con riguardo alla seconda condizione limitativa indicata. Non è stata dunque oggetto di contestazione avanti ai giudici delle leggi la prima condizione, che, come indicato nella stessa sentenza della Corte Costituzionale, è in linea con il carattere impugnatorio del mezzo e circoscrive la cognizione del giudice del riesame all'ipotesi in cui la retrodatazione implichi un "vizio" (lato sensu) originario del titolo coercitivo, a fronte del quale la misura da esso disposta non avrebbe dovuto essere applicata fin dall'inizio. I giudici delle leggi hanno ritenuto che la regula iuris censurata si presta a determinare disparità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo e hanno rilevato che il tribunale del riesame dispone, ai fini della sua decisione, sia degli atti trasmessigli dall'autorità giudiziaria procedente ai sensi dell'art. 309, comma 5, sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza, ai sensi del comma 9 del medesimo articolo e che quindi non è certo impossibile che le condizioni per la retrodatazione emergano in modo del tutto piano da fonti diverse dall'ordinanza sottoposta a riesame. Hanno pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 309, in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall'art. 297, comma 3, sia subordinata - oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare impugnata - anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza. In applicazione di tali principi, è stato ribadito che nel procedimento di riesame non è deducibile la questione relativa all'inefficacia sopravvenuta dell'ordinanza di custodia cautelare per decorrenza dei termini di fase, in relazione all'asserita contestazione a catena, salvo che, per effetto della retrodatazione, al momento dell'emissione dell'ordinanza tali termini fossero già scaduti, in quanto si tratta di vizio che non intacca l'intrinseca legittimità dell'ordinanza, ma agisce sul piano dell'efficacia della misura cautelare; è stato, quindi, precisato che la questione del diritto alla scarcerazione per decorrenza dei termini, da calcolarsi al momento dell'esecuzione del primo titolo custodiale, deve essere proposta al giudice per le indagini preliminari con istanza ex art. 306 e, successivamente, in caso di provvedimento reiettivo, al tribunale in sede di appello ex art. 310 (Cass. IV, n. 48094/2017; Cass. III, n. 48034/2019). Il congelamento dei terminiL'art. 297, comma 4, ha introdotto l'istituto del cosiddetto «congelamento», in forza del quale, limitatamente ai termini di fase e indipendentemente da un provvedimento del giudice, i giorni in cui sono tenute le udienza e quelli necessari per la deliberazione della sentenza non si computano, con la conseguenza che il relativo calcolo deve essere effettuato secondo il calendario comune, eliminando dal computo i giorni in cui si sono tenute le udienze, così che il termine non viene a scadere con il decorso del periodo di tempo previsto dall'art. 303, dovendosi a quest'ultimo aggiungere un numero di giorni pari a quello delle udienze tenute, senza distinguere tra udienze precedenti o successive alla scadenza del termine ordinario, dovendosi la distinzione ritenere irrilevante alla luce del disposto automatismo, che determina il progressivo spostamento in avanti dal termine originariamente previsto via via che sono tenute le udienze. L'istituto del congelamento si applica soltanto alle fasi del giudizio di primo grado e delle impugnazioni, con esclusione dell'udienza preliminare. (Cass. V, n. 47570/2016) Occorre precisare, inoltre, che esso determina la possibilità di superamento dei soli termini ordinari di cui all'art. 303, commi primo, secondo e terzo, mentre non ha alcuna incidenza sul computo della durata massima della custodia stessa, ai sensi dell'art. 304 comma, che in nessun caso può superare il doppio dei predetti termini (Cass. II, n. 6861/2017). I giorni impiegati per la deliberazione della sentenza devono essere concettualmente distinti da quelli utilizzati per la redazione della sua motivazione, per cui si applicano le regole sulla sospensione degli stessi termini dettate dall'art. 304 (Cass. II, n. 5210/2001; Cass. VI, n. 31389/2011; Cass. VI, n. 11186/2012; Cass. V, n. 9781/2015). Il congelamento dei termini di fase, previsto con portata generale dall'art. 297, comma 4, opera automaticamente, senza necessità di un provvedimento del giudice, mentre tale provvedimento è richiesto per la sospensione di cui all'art. 304, comma 2, qualora ricorrano le condizioni ivi previste (Cass. S.U. , n. 20/1991; Cass. III, n. 27542/2001). L'istituto in esame si distingue da quello della sospensione dei termini di custodia cautelare di cui all'art. 304, comma 2, il quale prevede, in caso di dibattimenti particolarmente complessi, la sospensione dei termini di custodia cautelare, per effetto di un provvedimento del giudice, operante anche sugli intervalli fra le udienze e tra queste e il momento di deliberazione della decisione (cosiddetti tempi morti). Poiché i due istituti sono completamente autonomi, nei casi in cui venga adottato il provvedimento previsto dal comma 2 dell'art. 304, di più ampia portata temporale, il periodo di «congelamento» viene ad essere assorbito da quello di durata della sospensione, con la conseguenza della non cumulabilità dei periodi stessi (Cass. VI, n. 1072/1998). La distinzione fra i due istituti è stata chiarita dal legislatore con l'art. 1 del d.l. n. 60/1991, convertito dalla l. n. 133/1991, recante interpretazione autentica degli artt. 297 e 304, che si compone di due commi. Il primo stabilisce: «l'art. 297, comma quarto, deve intendersi nel senso che, indipendentemente da una richiesta del pubblico ministero e da un provvedimento del giudice, nel computo dei termini di custodia cautelare stabiliti in relazione alle fasi del giudizio di primo grado o del giudizio sulle impugnazioni non si tiene conto dei giorni in cui si sono tenute le udienze e di quelli impiegati per la redazione della sentenza. Dei giorni suddetti si tiene, invece, conto nel computo dei termini di durata complessiva della custodia cautelare stabiliti nell'art. 303, comma 4, salvo che ricorra l'ipotesi di sospensione prevista dall'art. 304, comma 2». Dispone, invece, il secondo comma: «L'art. 304, secondo comma, deve intendersi nel senso che, nella ipotesi di sospensione ivi prevista, la durata complessiva della custodia cautelare può superare i termini stabiliti nell'art. 303, comma quarto, del medesimo codice». Ne deriva che la natura discrezionale del provvedimento contemplato dall'art. 304, comma 2, appositamente richiamato dall'art. 297, comma 4, osta all'automatico effetto sospensivo. Pertanto una cosa è il «congelamento» dei termini, circoscritto ai giorni in cui si sono tenute le udienze ed a quelli impiegati per la deliberazione della sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni e che, comunque, non può incidere sulla durata complessiva della custodia, a norma dell'art. 303, comma 4; altra cosa è la sospensione disciplinata dall'art. 304, comma 2, che, per l'ipotesi in cui, per esigenze collegate alla complessità del dibattimento, non possano essere rispettati i termini ordinatori previsti dall'art. 477 per la durata e la prosecuzione del dibattimento, consente la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare durante il tempo in cui sono tenute le udienze, compresi, perciò, gli intervalli tra i giorni di udienza e tra questi e quelli impiegati per la deliberazione della sentenza (cosiddetti «tempi morti»), in quanto i primi siano imposti da indiscusse necessità processuali, connesse alla complessità dei fatti ed altre obiettive circostanze ostative, che al giudice del dibattimento non è dato potere autonomamente rimuovere (Cass. VI, n. 543/1995). Il cosiddetto «congelamento» dei termini di fase della custodia cautelare, opera anche con riguardo ai termini la cui durata sia stata prolungata in base alla diversa e non incompatibile disposizione di cui all'art. 303, comma 1, lett. b), n. 3-bis. Ai giorni relativi alle udienze ed alla deliberazione della sentenza oggetto di congelamento può, dunque, essere sommato l'ampliamento fino a sei mesi di cui all'art. 303 comma 1, lett. b) n. 3-bis dei termini della fase del giudizio di primo grado in caso di dibattimenti per taluno dei gravi reati di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) (Cass. II, n. 34125/2003). La compatibilità tra misura cautelare ed esecuzione di penaIl comma 5 dell'art. 297 disciplina la coesistenza nei confronti dello stesso soggetto dello stato di imputato sottoposto a misura cautelare e di condannato detenuto per altro reato ovvero internato per misura di sicurezza e distingue a seconda che i due titoli restrittivi della libertà personale siano tra loro compatibili o incompatibili: se sono compatibili, gli effetti della misura decorrono dal giorno in cui è notificata l'ordinanza che la dispone; se sono incompatibili, gli effetti decorrono dal giorno della cessazione dello stato di detenzione o di internamento. Sulla compatibilità degli arresti domiciliari v. sub art. 298. Sugli effetti della compatibilità/incompatibilità in relazione alla durata della custodia cautelare v. art. 304, comma 4 e ivi § 4.3 BibliografiaAprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2006; AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di Amodio, Milano, 1996; AA.VV., La carcerazione preventiva, Milano, 2012; Canzio, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretto da Lattanzi-Lupo, III, Agg. 2003-2007, Misure cautelari (Artt. 272-325), a cura di Canzio-De Amicis-Lattanzi-Silvestri-Spagnolo, Milano, 2008; Di Chiara, Libertà personale dell'imputato e presunzione di non colpevolezza, in Fiandaca - Di Chiara, Una introduzione al sistema penale, Napoli, 2003; Grevi, Misure cautelari, in Conso - Grevi, Compendio di procedura penale, Padova, 2010; De Maria, Sub art. 297, in Codice di procedura penale, a cura di Tranchina, I, Milano, 2008; Spangher, Le misure cautelari personali, in Procedura penale teoria e pratica del processo, Torino, 2015; Zappalà, Le misure cautelari, in Siracusano - Galati - Tranchina - Zappalà, Diritto processuale penale, Milano, 2011. |