Codice di Procedura Penale art. 309 - Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva 1 2 .1. Entro dieci giorni dalla esecuzione o notificazione del provvedimento, l'imputato può proporre richiesta di riesame, anche nel merito, della ordinanza che dispone una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanza emessa a seguito di appello del pubblico ministero. 2. Per l'imputato latitante il termine decorre dalla data di notificazione eseguita a norma dell'articolo 165. Tuttavia, se sopravviene l'esecuzione della misura, il termine decorre da tale momento quando l'imputato prova di non aver avuto tempestiva conoscenza del provvedimento. 3. Il difensore dell'imputato può proporre la richiesta di riesame entro dieci giorni dalla notificazione dell'avviso di deposito dell'ordinanza che dispone la misura. 3-bis. Nei termini previsti dai commi 1, 2 e 3 non si computano i giorni per i quali è stato disposto il differimento del colloquio, a norma dell'articolo 104, comma 33.
4. La richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7. Si osservano le forme previste dall'articolo 5824. 5. Il presidente cura che sia dato immediato avviso all'autorità giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti presentati a norma dell'articolo 291, comma 1 [100 att.], nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini e, in ogni caso, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini ai sensi dell'articolo 291, comma 1-quater5. 6. Con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi e l'imputato può chiedere di comparire personalmente. Chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame facendone dare atto a verbale [136] prima dell'inizio della discussione6. 7. Sulla richiesta di riesame decide, in composizione collegiale, il tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l'ufficio del giudice che ha emesso l'ordinanza [291, 292; 25 att. min.]7. 8. Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall'articolo 127 [101 att.]. L'avviso della data fissata per l'udienza è comunicato almeno tre giorni prima, al pubblico ministero presso il tribunale indicato nel comma 7 e, se diverso, a quello che ha richiesto l'applicazione della misura; esso è notificato, altresì, entro lo stesso termine, all'imputato ed al suo difensore. Fino al giorno dell'udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia [43 att.] 8. 8-bis. Il pubblico ministero che ha richiesto l'applicazione della misura può partecipare all'udienza in luogo del pubblico ministero presso il tribunale indicato nel comma 7. L'imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente o, quando una particolare disposizione di legge lo prevede, di partecipare a distanza. Il presidente può altresì disporre la partecipazione a distanza dell'imputato che vi consenta9.
9. Entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l'inammissibilità [3112, 5683-4, 5855] della richiesta, annulla, riforma o conferma l'ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza. Il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati ovvero può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso. Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l'autonoma valutazione, a norma dell'articolo 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa10. 9-bis. Su richiesta formulata personalmente dall'imputato entro due giorni dalla notificazione dell'avviso, il tribunale differisce la data dell'udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell'ordinanza sono prorogati nella stessa misura11.
10. Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell'ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l'ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. L'ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione12.
[1] La Corte cost., con sentenza 6 dicembre 2013, n. 293, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo «in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall'art. 297, comma 3, del medesimo codice, sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza». [2] Per la sospensione dei termini processuali per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, v. art. 83, comma 9, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif., in l. 24 aprile 2020, n. 27. Sempre in tema di disposizioni per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 vedi quanto disposto con art. 23, commi 2 e 4, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 176. Da ultimo, v. art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, conv., con modif., in l. 25 febbraio 2022, n. 15, che stabilisce che « Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonché le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2022»; v. anche art. 16, comma 2, d.l. n. 228, cit. [3] Comma inserito dall'art. 16, comma 1, l. 8 agosto 1995, n. 332. Per il caso di differimento del colloquio, v. Corte cost. n. 216 del 1996, sub art. 101 att. [4] Comma sostituito dall'art. 16, comma 2, l. 8 agosto 1995, n. 332. Comma successivamente modificato dall'articolo 13, comma 1, lett. g) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 che ha sostituito le parole seguenti: «dall'articolo 582» alle parole: «dagli articoli 582 e 583». Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. [5] Le parole «e, in ogni caso, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini ai sensi dell'articolo 291, comma 1-quater» sono state aggiunte dopo le parole: «alle indagini» dall'art. 2, comma 1, lett. i), l. 9 agosto 2024, n. 114. Precedentemente il comma era stato sostituito dall'art. 16, comma 3, l. 8 agosto 1995, n. 332. C. cost. 22 giugno 1998, n. 232, aveva dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, una questione di legittimità costituzionale dei commi 5 e 10, sollevata in riferimento agli artt. 3, 13 e 24 Cost. [6] Comma modificato dall'art. 11, comma 1, l. 16 aprile 2015, n. 47. [7] Comma sostituito dall'art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 23 ottobre 1996, n. 553, conv., con modif., in l. 23 dicembre 1996, n. 652, e successivamente così modificato dall'art. 179 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51. Quanto ai tribunali militari, provvede l'art. 5 d.l. n. 553, cit., che qui si riporta: «1. Sulle impugnazioni, diverse dal ricorso per cassazione, dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali emessi dall'autorità giudiziaria militare decidono i tribunali militari di Verona, Roma e Napoli, con competenza sui provvedimenti emessi, rispettivamente, dagli uffici giudiziari militari di Torino, Verona e Padova, dagli uffici giudiziari militari di La Spezia, Roma e Cagliari e dagli uffici giudiziari militari di Napoli, Bari e Palermo». Nel testo originario si faceva riferimento al «tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l'ufficio del giudice che ha emesso l'ordinanza». [8] Comma sostituito dall'art. 16, comma 4, l. 8 agosto 1995, n. 332. Precedentemente C. cost. 31 gennaio 1991, n. 45, aveva dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, una questione di legittimità del combinato disposto del presente comma e dell'art. 1273, in riferimento all'art. 242 Cost. [9] Comma inserito dall'art. 2, comma 1, lett. b), d.l. 23 ottobre 1996, n. 553, conv., con modif., in l. 23 dicembre 1996, n. 652 e modificato dall'art. 11, comma 2, l. 16 aprile 2015, n. 47. Da ultimo l'articolo 13, comma 1, lett. g) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ha aggiunto, in fine, le seguenti parole: «o, quando una particolare disposizione di legge lo prevede, di partecipare a distanza. Il presidente può altresì disporre la partecipazione a distanza dell'imputato che vi consenta». per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. [10] La Corte cost., con sentenza 15 marzo 1996, n. 71, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 illegittimi con «nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso codice». Successivamente modificato dall'art. 11, comma 3, l. 16 aprile 2015, n. 47. [11] Comma inserito dall'art. 11, comma 4, l. 16 aprile 2015, n. 47. [12] Comma sostituito dall'art. 16, comma 5, l. 8 agosto 1995, n. 332 e successivamente modificato dall'art. 11, comma 5, l. 16 aprile 2015, n. 47 InquadramentoIL sistema delle impugnazioni in materia de libertate prevede tre rimedi per le misure cautelari personali: il riesame (art. 309), l'appello (art. 310) e il ricorso per cassazione (art. 311). Ipotesi particolari sono rappresentate dal ricorso in cassazione per violazione di legge ai sensi degli artt. 719 e 736 contro i provvedimenti emessi dal presidente della corte di appello e dalla corte di appello, in materia di misure cautelari applicate provvisoriamente nei confronti di soggetti di cui è chiesta l'estradizione oppure in sede di riconoscimento di sentenze straniere ai fini dell'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale, e il ricorso in cassazione per violazione di legge contro il cd. mandato di arresto europeo in forza del richiamo dell'art. 719, contenuto nell'art. 9, comma 7, l. n. 69/2005. Tutti i suddetti mezzi impugnatori introducono procedimenti di natura incidentale. Tale precisazione ha assunto particolare importanza alla luce della sentenza della Corte cost. n. 121/2009, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 405, comma 1- bis, aggiunto dall'art. 3 l. n. 46/2006, secondo il quale il pubblico ministero, al termine delle indagini, deve formulare richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata per la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e non sono stati acquisiti, successivamente, altri elementi a carico dell'indagato. La Corte ha osservato che tale norma rovescia il rapporto fisiologico tra procedimento incidentale de libertate e procedimento principale e introduce un vulnus al principio di «impermeabilità» del secondo rispetto agli esiti del primo, principio che vale a scandire, salvaguardandola, la distinzione fra indagini preliminari e processo: infatti, il legislatore riconosce a determinate pronunce rese in sede cautelare un'efficacia preclusiva sul processo. Tale soluzione è irragionevole: in primo luogo, per la diversità tra le regole che presiedono alla cognizione cautelare — in cui si effettua un giudizio prognostico di tipo statico, basato su elementi già acquisiti dal pubblico ministero e funzionali alla soddisfazione delle esigenze cautelari in atto — e quelle che legittimano l'azione penale, ove la decisione si fonda su una valutazione di utilità del passaggio alla fase processuale che è di tipo dinamico e tiene conto anche di ciò che può ragionevolmente acquisirsi nel dibattimento. In secondo luogo, la norma trascura la diversità della base probatoria delle due valutazioni a confronto, poiché, se il pubblico ministero fruisce del potere di selezionare gli elementi da sottoporre al giudice della cautela, le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale sono, invece, prese sulla base di tutto il materiale investigativo. Infine, la Corte di cassazione, quando si pronuncia in materia cautelare, non accerta in modo diretto la mancanza del fumus commissi delicti ma si limita a controllare la motivazione del provvedimento impugnato, con la conseguenza che l'eventuale annullamento di quest'ultimo non svela automaticamente l'inesistenza dei gravi indizi. La norma altera, così, la logica dell'istituto dell'archiviazione che, da strumento di controllo volto a verificare che l'azione penale non sia indebitamente omessa, acquisirebbe l'opposto obiettivo di impedire che l'azione penale sia inopportunamente esercitata, con la conseguenza che la richiesta coatta di archiviazione finisce per trasformarsi in una sorta di sanzione extra ordinem per le iniziative cautelari inopportune del pubblico ministero. Dalla natura incidentale del procedimento la Corte di cassazione ha tratto la conseguenza che la nomina del difensore di fiducia effettuata dall'indagato per il procedimento incidentale dinanzi al tribunale del riesame non dispiega effetto alcuno nel procedimento principale, del tutto autonomo e separato dal primo, non essendone prevista la conoscenza da parte dell'autorità giudiziaria procedente, avvisata dell'impugnazione cautelare ai soli fini della trasmissione degli atti (Cass. IV, n. 22042/2009; Cass. I, n. 17702/2010; Cass. III, n.32323/2015; Cass. III, n. 2199/2020). Il riesame è un mezzo di impugnazione interamente devolutivo, nel senso che il tribunale, in sede di riesame, ha la stessa piena cognizione del giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo e può, quindi, considerare non solo ragioni diverse da quelle poste a fondamento della misura, ma anche elementi emersi successivamente all'applicazione della misura medesima (Cass. II, n. 9532/2002; Cass. V, n. 4795/2011). Provvedimenti impugnabili
In genere Il comma 1 dell'art. 309 prevede la possibilità di proporre richiesta di riesame avverso un'ordinanza che “disponga” una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanza emessa a seguito di appello del pubblico ministero. Dunque, il riesame è un mezzo di impugnazione avverso le ordinanze genetiche di applicazione della misura cautelare di tipo coercitivo. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno da subito chiarito che i rimedi impugnatori davanti al c.d. Tribunale della libertà sono esperibili contro tutti i provvedimenti comunque adottati da qualsiasi giudice, sia nella fase delle indagini preliminari che in quelle successive (Cass. S.U. , n. 11/1991) e pertanto, anche contro le ordinanze emesse nel corso del dibattimento ovvero con la sentenza conclusiva del giudizio, in tal modo ravvisando in capo al suddetto Tribunale una competenza funzionale ed esclusiva anche per le ordinanze emesse nelle varie fasi del giudizio, in considerazione dell'autonomia concettuale del procedimento incidentale de libertate da quello avente ad oggetto la decisione sul merito dell'impugnazione (Cass. II, n. 7974/1991; Cass. VI, n. 204/1992; Cass. I, n. 4932/1992; Cass. V, n. 1758/1993; Cass. VI, n. 9282/1994; Cass. I, n. 5536/1996; Cass. I, n. 6550/2000). Il tribunale del riesame, dunque, ha competenza generale, in ordine ai provvedimenti de libertate e, quindi, esplica il controllo di merito in ordine ai provvedimenti emessi sia dal giudice per le indagini preliminari sia da ogni altro giudice. Tale controllo si estende non soltanto ai provvedimenti emessi da un giudice «superiore», ma anche a quelli adottati dal giudice che abbia avuto cognizione piena dei fatti del processo. Per quel che attiene al primo aspetto, il legislatore si è adeguato al dettato dell'art. 107, comma 3, Cost., per cui rappresenta applicazione di tale principio l'istituzione di un giudice «diverso» al quale, in tema di libertà sia attribuita competenza esclusiva nel controllo di merito dei relativi provvedimenti, così da porsi come regola in grado di rendere inoperante la distinzione fra giudice «superiore» e giudice «sottordinato»; distinzione, peraltro, nell'ambito dell'ordinario processo di impugnazione, tuttora basilare. Per quel che attiene al secondo aspetto, l'attribuzione al tribunale della libertà della competenza a rivalutare provvedimenti emessi dal giudice che già abbia avuto cognizione piena del processo ed abbia, in tale vasto ambito cognitivo, deciso pure in tema di libertà personale, si raccorda anch'essa alla detta innovazione normativa volta a concentrare nel giudice della libertà la competenza funzionale a decidere, nell'ambito di una procedura incidentale e, dunque, con la maggiore rapidità possibile, su ogni gravame concernente la libertà personale. Tutto ciò, ovviamente, nel senso che l'oggetto del controllo demandato al tribunale debba essere rapportato, di volta in volta, alla fase processuale in cui il provvedimento viene emesso: se, quindi, giudice a quo è il giudice del dibattimento all'esito della prova sui fatti giustificativi della misura cautelare, il giudice della libertà trova un limite in quel giudizio che, per essere esteso all'apprezzamento delle prove, non può essere sottoposto a controllo sulla base di una nuova valutazione fondata sulla portata degli indizi. Residua, peraltro, anche in simili evenienze, un controllo del giudice della libertà quanto alla esistenza ed all'entità delle esigenze cautelari, controllo che, attenendo ad elementi non necessariamente assorbiti dal giudizio di merito, non può essere considerato come un'impropria interferenza nell'ambito dell'attività giurisdizionale di un diverso organo giudicante ma come conseguenziale applicazione del principio di competenza funzionale del giudice del riesame. Il riesame è rimedio proponibile solo contro le ordinanze genetiche delle misure coercitive, mentre l'appello ex art. 310 è impugnazione di carattere generale e residuale, che trova applicazione in tutti i casi in cui, per i provvedimenti de libertate, non possa sperimentarsi il riesame. Provvedimenti soggetti a riesame Sono soggetti a riesame anche i provvedimenti di applicazione in via provvisoria delle misure di sicurezza, che, ai sensi dell'art. 313, comma 3, ai fini delle impugnazioni sono equiparate alla custodia cautelare. La prevalente e più recente giurisprudenza ritiene che, quando l'ordinanza che dispone una misura cautelare perde efficacia, perché il giudice non procede all'interrogatorio dell'indagato entro il termine previsto dall'art. 294 (art. 302) o perché il competente tribunale non si pronuncia sulla richiesta di riesame nel termine previsto dall'art. 309, comma 9, la misura cautelare divenuta inefficace è tamquam non esset; con la conseguenza che l'ordinanza con la quale essa viene nuovamente disposta deve essere considerata come «ordinanza che dispone una misura coercitiva» e, quindi, soggetta alla richiesta di riesame prevista dall'art. 309 e non all'appello previsto dall'art. 310 (Cass. I, n. 3972/1996; Cass. I, n. 2271/1996; Cass. I, n. 3972/1996; Cass. I, n. 12398/2001; Cass. I, n.29687/2003; contra: Cass. II, n. 2154/1995). L'ordinanza con la quale il giudice, che ha ricevuto gli atti a seguito di dichiarazione di incompetenza, applica la misura cautelare ai sensi degli artt. 27 e 292, non è soggetta all'appello di cui all'art. 310, bensì alla richiesta di riesame ex art. 309: tale ordinanza, infatti, ha natura di autonomo provvedimento coercitivo e non presenta alcun collegamento funzionale con quella precedentemente adottata dal giudice incompetente, né tantomeno di questa costituisce rinnovazione, in quanto tale provvedimento si caratterizza per la sua piena autonomia rispetto al precedente ad effetti interinali, e, quindi, non può essere definito di conferma o reiterazione di quest'ultimo, in quanto emesso da altro giudice sulla base di un'autonoma valutazione delle stesse condizioni legittimanti e di un distinto apprezzamento degli elementi che ne sono a fondamento (Cass. I, n. 1608/1995; Cass. VI, n. 2016/1995; Cass. VI, n. 3424/1995; Cass. II, n. 3713/1997; Cass. I, n. 17235/2001). La sostituzione della misura personale interdittiva con una coercitiva, ha la natura e gli effetti di primo provvedimento che dispone una misura coercitiva, con la conseguenza che avverso di essa è proponibile richiesta di riesame (Cass. I, n. 2911/1995). Nei confronti di ordinanza restrittiva, emessa nei confronti di imputato in stato di libertà successivamente alla revoca del precedente provvedimento cautelare, l'impugnazione esperibile è il riesame (Cass. V, n. 22868/2002). È impugnabile con la richiesta di riesame e non con l'appello l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dopo che l'originario provvedimento applicativo degli arresti domiciliari era rimasto ineseguito per irreperibilità del destinatario, poiché la seconda ordinanza non può essere qualificata come provvedimento di mero aggravamento della misura cautelare disposta con quella precedente atteso che a quest'ultima non era stata data esecuzione (Cass. VI, n. 31568/2009). Provvedimenti non soggetti a riesame L'istituto del riesame è applicabile soltanto alle ordinanze che dispongono le misure coercitive e non a quelle che si dispongono misure interdittive, che sono, pertanto, soggette all'appello (Cass. VI, n. 927/1993; Cass. VI, n. 2411/1994; Cass. II, n. 23057/2001). La richiesta di riesame non può avere ad oggetto una ordinanza di convalida di arresto o di fermo, avverso la quale è proponibile unicamente il ricorso per Cassazione (art. 391, comma 4); infatti, l'ordinanza di convalida del fermo o dell'arresto ha valore circoscritto al controllo di legittimità dell'operato della polizia giudiziaria, con esclusivo riferimento alle condizioni che disciplinano il fermo o l'arresto, e non costituisce titolo di detenzione essendo indispensabile perché permanga lo stato custodiale l'emanazione di uno specifico provvedimento impositivo di una misura coercitiva. Ne consegue che i piani su cui agiscono i due istituti (arresto e fermo da un lato e misura custodiale dall'altra) sono diversi sicché la convalida del fermo non necessariamente impone la protrazione dello stato di privazione della libertà del fermato o del fermato (e viceversa) (Cass. I, n. 4101/1991; Cass. II, n. 18849/2001; Cass. VI, n. 10702/2003). Avverso l'ordinanza con cui il Gip modifica l'imputazione, integrandola con la contestazione di una circostanza aggravante, è esperibile solo l'appello, e non la richiesta di riesame, atteso che tale ultimo rimedio è proponibile solo nei confronti dei provvedimenti dai quali scaturisce la limitazione della libertà personale, mentre tutti gli altri provvedimenti confermativi o modificativi rientrano tra le «ordinanze in materia di misure cautelari» cui si riferisce l'art. 310 (Cass. IV, n. 1496/1998). In senso conforme, in dottrina Epidendio, cit., 2644; contra, invece, Cass. VI, n. 913/1991. Analogamente, il rimedio esperibile avverso l'ordinanza con la quale il giudice procedente, contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna, modifichi in senso peggiorativo il trattamento cautelare, sostituendo la misura in atto con altra di maggiore gravità, è quello dell'appello ai sensi dell'art. 310, non trattandosi del titolo «genetico» del trattamento cautelare (Cass. n. 45653/2015). Avverso l'ordinanza che sostituisce una misura coercitiva in atto è proponibile l'appello cautelare, in quanto non può considerarsi “ordinanza genetica”. In tal senso, la giurisprudenza ha ritenuto che il provvedimento con cui il giudice revoca la precedente ordinanza cautelare ed applica la misura dell'obbligo di dimora non può qualificarsi come provvedimento che applica una misura coercitiva, ma come provvedimento in materia di misure cautelari personali, nei cui confronti è previsto solo l'appello dinanzi al Tribunale cd. della libertà (Cass. I, n. 1739/1997). Il provvedimento che ripristina la custodia cautelare a norma dell'art. 307, comma 2, lett. b ), facendo rivivere quello originario, come si ricava dall'espressione «è tuttavia ripristinata», contenuta nell'alinea del predetto comma, è impugnabile dall'interessato non già mediante il riesame, rimedio proponibile solo contro le ordinanze genetiche delle misure coercitive, bensì con l'appello ex art. 310 (Cass. VI, n. 3807/1997; Cass. VI, n. 4072/2000; Cass. II, n. 33125/2002; Cass. IV, n. 5740/2008; Cass. VI, n. 27459/2017). Peraltro, è stato precisato che l'ordinanza di custodia cautelare emessa contestualmente alla sentenza di condanna dal giudice di secondo grado, sulla base di un erroneo richiamo all'art. 307, nel caso in cui l'imputato sia stato scarcerato per ritenuta insussistenza delle esigenze cautelari e non per decorrenza dei termini, deve essere considerata come un nuovo provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 275 comma 1-bis, soggetto come tale al riesame. Qualora il Tribunale abbia qualificato come riesame l'appello proposto dal difensore avverso la predetta ordinanza, la diversa qualificazione giuridica dell'impugnazione non determina la perdita di efficacia della misura coercitiva per effetto dell'inutile decorso del termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti per la decisione ex art. 309 comma 9 (Cass. I, n. 43814/2008; Cass. I, n. 45140/2014). Le Sezioni Unite, all'udienza 11/07/2024, hanno deciso che il rimedio esperibile dall'imputato contro l'ordinanza con la quale (dopo l'intervenuta declaratoria d'inefficacia dell'ordinanza genetica applicativa di misura cautelare personale, conseguente al proscioglimento pronunciato all'esito del giudizio di primo grado) venga disposta la riemissione della misura cautelare personale ex art. 300, comma 5, è il riesame, ex art. 309, e non l'appello ex art. 310. L'ordinanza che ripristina la misura coercitiva a norma dell'art. 300, comma 5, nei confronti di persona condannata in appello dopo assoluzione in primo grado non può essere considerata come nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso necessario e indissolubile che la lega a quella che ha disposto la precedente misura, ed è pertanto impugnabile mediante appello ai sensi dell'art. 310 e non con il riesame previsto dal precedente art. 309 (Cass. I, n. 23061/2002; Cass. V, n. 32852/2011). Non è impugnabile con richiesta di riesame ai sensi dell'art. 309 l'esecuzione di rilievi dattiloscopici e fotografici eseguiti dalla polizia giudiziaria sulla persona dell'indagato, in seguito all'applicazione di misura cautelare, in quanto essi costituiscono mera attività di polizia amministrativa e/o penitenziaria, prevista dagli artt. 23 e 26 d.P.R. n. 230/2000, e non provvedimenti restrittivi della libertà personale (Cass. II, n. 8895/2002). Il legislatore ha previsto alcune deroghe espresse al regime delle impugnazioni cautelari. Così, in materia di estradizione per l'estero, i provvedimenti applicativi di misure cautelari emessi dalla corte di appello o dal presidente della corte di appello, possono essere impugnati esclusivamente mediante ricorso per cassazione per violazione di legge, a norma dell'art. 719, essendo escluso il rimedio della richiesta di riesame previsto in via generale per le misure coercitive dall'art. 309 (Cass. I, n. 6276/1996; Cass. VI, n. 487/1998). Analogamente, in tema di mandato di arresto europeo, in forza del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, non sono proponibili avverso i provvedimenti relativi a misure cautelari personali emesse per l'esecuzione di un mandato di arresto europeo i rimedi generali previsti dagli artt. 309 ss., bensì, in virtù del rinvio recettizio operato dall'art. 9 ultimo comma, l. n. 69/2005 all'art. 719, il solo ricorso per cassazione (Cass. VI, n. 7482/2009; Cass. VI, n. 20538/2011; Cass. VI, n. 24891/2015). È prevista, poi, la speciale competenza del tribunale per i minorenni in ordine all'impugnazione delle misure cautelari personali, dovendosi, precisare che resta, invece, la competenza del tribunale ordinario in ordine all'impugnazione delle misure cautelari reali, attesa la formulazione letterale dell'art. 25 d.lgs. n. 272/1989, che dispone che “sulla richiesta di riesame o sull'appello proposti a norma degli artt. 309 e 310 decide il Tribunale per i minorenni (Cass. III, n. 46975/2003). Legittimazione all'impugnazioneA norma dei commi 1 e 3 dell'art. 309, i soggetti legittimati alla presentazione della richiesta di riesame sono l'imputato (o indagato ex art. 61) e il difensore. L'intervenuta proposizione di richiesta di riesame da parte di uno dei due soggetti legittimati (imputato o difensore), non preclude, sempre che il termine non sia decorso la proposizione di analoga richiesta da parte dell'altro soggetto. La giurisprudenza meno recente, peraltro, ha affermato che la previsione per l'indagato e per il suo difensore di un diverso regime di decorrenza del termine di dieci giorni fissato dall'art. 309 per la proposizione della richiesta di riesame, non implica la possibilità di duplicare la garanzia del riesame nell'ipotesi in cui sulla richiesta della persona sottoposta alle indagini sia già intervenuta la decisione. Una richiesta di riesame da parte del difensore è ammessa o in rappresentanza dell'imputato ovvero ad integrazione tecnica della difesa personale, sempre a condizione che sulla richiesta dell'imputato il giudice non abbia già provveduto (Cass. VI, n. 188/1992; Cass. I, n. 2223/1996; Cass. VI, n. 1551/1994; Cass. I, n. 3993/1994; Cass. I, n. 2223/1996; Cass. II, n. 19835/2006). Tale orientamento giurisprudenziale, però, dovrebbe essere rivisitato alla luce dei principi desumibili dalla sentenza della Corte costituzionale n. 317/2009, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24,111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., il precedente testo dell'art. 175, comma 2, nella parte in cui non consentiva la restituzione dell'imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato, poiché la misura ripristinatoria della rimessione in termini, prescelta dal legislatore, per avere effettività, non può essere “consumata” dall'atto di un soggetto, il difensore (normalmente nominato d'ufficio, in tali casi, stante l'assenza e l'irreperibilità dell'imputato), che non ha ricevuto un mandato ad hoc e che agisce esclusivamente di propria iniziativa. L'esercizio di un diritto fondamentale non può essere sottratto al suo titolare, che può essere sostituito solo nei limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve trovarsi di fronte all'effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non concordata, potenzialmente dannosa per la sua persona. La giurisprudenza immediatamente successiva alla citata sentenza della Corte costituzionale, non tenendo conto dei principi da questa formulati, ha confermato l'orientamento tradizionale secondo il quale la definizione della procedura del riesame proposto dal difensore di fiducia o di ufficio nell'interesse dell'imputato preclude a quest'ultimo, una volta intervenuta la relativa decisione, non solo la possibilità di adire autonomamente il tribunale del riesame, ma anche quella di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta opposizione (Cass. I, n. 36745/2008; Cass. I, n. 36711/2011). La giurisprudenza più recente, però, adeguandosi ai principi formulati dalla Corte costituzionale, facendone applicazione anche al procedimento cautelare, ha affermato che il tribunale della libertà non può dichiarare l'inammissibilità dell'istanza di riesame proposta personalmente dall'indagato solo perché successiva a quella già depositata dal suo difensore, in ragione sia del disposto di cui all'art. 309, che conferisce ad entrambi la facoltà di adire il tribunale della libertà, prevedendo una differenziata decorrenza dei termini per impugnare, sia del tendenziale superamento del principio di unicità dell'impugnazione (v. Corte cost. n. 317 del 2009) (Cass. V, n. 20539/2019;Cass. I, n. 31655/2021). Tale ultimo orientamento giurisprudenziale trova autorevole conferma nella giurisprudenza della CEDU, che, nel caso Rizzotto c. Italia, con decisione 5 settembre 2019, censurando proprio la decisione della Cass. n. 36711/2011 sopra citata, in applicazione dell'articolo 5 par. 4 della Convenzione, il quale richiede che il rimedio azionabile per valutare la legalità della detenzione sia accessibile ed efficace, ha ritenuto che nel caso di specie si fosse concretizzata la violazione del diritto fondamentale ad un ricorso effettivo a tutela della libertà personale, perché, essendo il ricorrente latitante nel momento in cui veniva emessa nei suoi confronti l'ordinanza di custodia cautelare, il difensore di ufficio proponeva ricorso al Tribunale del riesame così precludendo allo stesso - essendo stato applicato dalla Corte di cassazione il principio della unitarietà della impugnazione - la possibilità di poter validamente proporre tale ricorso, quando, una volta tratto in arresto e nominato un difensore di fiducia, faceva nuovamente ricorso al Tribunale del riesame: per la Corte EDU, di fronte alla lesione del diritto fondamentale dell'indagato/imputato di essere sentito personalmente per esporre le proprie ragioni, qualsiasi altra garanzia procedimentale non appare idonea a controbilanciare la lesione del diritto di difesa. Per converso, è stato chiarito, proprio in fattispecie di rinunzia al riesame presentata dal difensore di imputato latitante, che il difensore dell'imputato latitante o evaso non può rinunciare al gravame da questi proposto, in quanto detto atto non costituisce un'esplicazione di tutela difensiva, ma richiede una manifestazione di volontà dell'interessato, da esprimere in prima persona o tramite un procuratore speciale (Cass. III, n. 7784/2020). Termini della richiesta di riesameIl termine per proporre la richiesta di riesame è stabilito in dieci giorni, decorrenti rispettivamente dalla notifica o esecuzione del provvedimento per l'imputato (comma 1) o dall'avviso di deposito dell'ordinanza che dispone la misura per il difensore dell'imputato (comma 3): in tale termine, per espressa previsione normativa, non si computano i giorni in cui è stato differito il colloquio del difensore con l'imputato (comma 3-bis). In materia di termini per l'impugnazione, il principio stabilito all'art. 585, comma 3, secondo cui, quando la decorrenza è diversa per l'imputato e per il suo difensore, opera per entrambi quello che scade per ultimo, trova applicazione anche con riguardo ai termini previsti dall'art. 309 per la proposizione della richiesta di riesame, in applicazione del principio del c.d. favor impugnationis e in funzione dell'esigenza di certezza e di funzionalità delle procedure (Cass. VI, n. 363/1992; Cass. III, n. 3009/1995; Cass. VI, n. 770/1996; Cass. II, n. 43763/2001; Cass. V, n. 47556/2008). Risolvendo un contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno stabilito che il termine per la proposizione della richiesta di riesame dell'ordinanza che dispone una misura coercitiva decorre, per il difensore dell'imputato, dal giorno in cui gli è stato notificato l'avviso del relativo deposito a norma dell'art. 309, comma 3, e non da quello della sua partecipazione all'interrogatorio previsto dall'art. 294 o di altro evento che faccia presumere la sua conoscenza, altrimenti conseguita, del provvedimento medesimo (Cass. S.U., n. 18751/2003). In applicazione di tale principio, non è stata ritenuta equipollente all'avviso di deposito ai fini della decorrenza del termine per la richiesta di riesame la conoscenza della ordinanza, ammessa dallo stesso difensore, e desumibile dalla proposizione di altra richiesta di riesame dichiarata inammissibile (Cass. I, n. 21013/2004). Tuttavia, nell'ipotesi in cui venga data lettura dell'ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere da parte del Gip in sede di udienza di convalida, il termine per impugnare davanti al tribunale del riesame decorre da quel momento in quanto la lettura del provvedimento equivale a notificazione (Cass. II, n. 17232/2007). Nel caso di imputato latitante, a norma del comma 2 dell'art. 309, il termine per la proposizione del ricorso per riesame decorre dalla data di notifica eseguita ai sensi dell'art. 165 oppure, se l'imputato provi di non aver avuto tempestiva conoscenza del provvedimento, dal momento della successiva esecuzione di quest'ultimo. È stato precisato che in caso di latitanza, la notificazione al difensore dell'avviso di deposito in cancelleria dell'ordinanza applicativa della misura cautelare rimasta ineseguita non equivale alla notifica della stessa ordinanza da effettuarsi nei confronti dell'imputato a norma dell'art.165; adempimento, quest'ultimo, dal quale, ai sensi dell'art.309, comma 2, decorre, per il latitante, il termine per proporre richiesta di riesame. Ne consegue che, in mancanza di tale adempimento, decorrendo per l'imputato il termine anzidetto dalla successiva data di esecuzione della misura, del medesimo termine può avvalersi, in applicazione della regola generale dettata dall'art.585, comma 3, anche il difensore che non abbia proposto richiesta di riesame entro i dieci giorni dalla notifica del suddetto avviso (Cass. I, n. 6613/1999; Cass. II, n. 43763/2001; Cass. V, n. 42363/2004; Cass. V, n. 47556/2008). Quanto alla prova della mancata tempestiva conoscenza del provvedimento, il comma 2 dell'art. 309 pone a carico dell'imputato latitante, ai fini della decorrenza del termine per proporre istanza di riesame in caso di sopravvenuta esecuzione della misura cautelare, la prova in positivo di fatti concreti dai quali possa desumersi con certezza la mancanza di tempestiva ed involontaria conoscenza del provvedimento (Cass. I, n. 59/2000; Cass. V, n. 599/2004; Cass. III, n. 12539/2015: ha ritenuto che tra i dati concreti obiettivamente valutabili non rientra la mera permanenza all'estero). L'arresto ai fini estradizionali eseguito su ordine del giudice estero non è assimilabile all'esecuzione della misura disposta dal giudice italiano. Pertanto nell'ipotesi del latitante arrestato all'estero, che comporta la cessazione dello stato di latitanza, il predetto termine comincia a decorrere, per lo stesso, dal momento in cui, a seguito del suo ingresso nel territorio dello Stato, gli venga notificato il provvedimento cautelare secondo le modalità di legge (Cass. IV, n. 3032/2008; Cass. I, n. 5640/2009). L'art. 143, come sostituito dall'art. 1 d.lgs. n. 32/2014, nel caso in cui l'imputato non conosca la lingua italiana, prevede la traduzione dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali. La giurisprudenza ha precisato che l'omessa traduzione del provvedimento determina la sua nullità solo se la predetta circostanza era già nota al momento dell'emissione del titolo cautelare; laddove invece la mancata conoscenza della lingua italiana emerge in un momento successivo, la traduzione dell'ordinanza applicativa della misura dovrà essere richiesta dallo straniero alloglotta nel corso dell'interrogatorio di garanzia ovvero con istanza ex art. 299, e il termine per proporre la richiesta di riesame avverso il titolo cautelare, ai sensi dell'art. 309, decorrerà dall'avvenuta traduzione del titolo stesso (Cass. VI, n. 50766/2014). Anche con riferimento alla richiesta di riesame, si applica il principio generale secondo il quale il dies a quo che cada in periodo feriale comincia a decorrere dal primo giorno utile successivo alla scadenza di quel periodo (Cass. IV, n. 10060/2001). La scadenza in giorno festivo del termine di dieci giorni previsto per la richiesta di riesame delle misure cautelari ne comporta la proroga di diritto al giorno successivo non festivo. (Cass. III, n. 46392/2017). È ammissibile la richiesta di riesame avverso ordinanza di misura cautelare personale proposta prima che l'ordinanza stessa sia eseguita o notificata, in quanto la fissazione del dies a quo per l'impugnazione, funzionale alla determinazione del termine finale, non implica l'inammissibilità del ricorso antecedente, e d'altronde il carattere totalmente devolutivo del gravame, indipendentemente dalla proposizione di motivi, esclude per il riesame che la sanzione possa connettersi alla mancata cognizione dei contenuti del provvedimento impugnato (Cass. V, n. 22421/2003; Cass. II, n. 49193/2003; Cass. III, n. 26218/2010; Cass. IV, n. 46471/2018). Forme della presentazioneL'art. 309, comma 4, stabiliva che la richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale di cui al comma 7, cioè del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l'ufficio del giudice che ha emesso l'ordinanza e, per quanto concerne le forme, rinviava agli artt. 582 e 583. L'art. 13, comma 1, lett. g) del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – c.d. “riforma Cartabia”, ha soppresso il richiamo all'art. 583, che è stato abrogato e ha modificato [con l'art. 33, comma 1, lett. e)] l'art. 582. L'intervento è consistito nel prevedere, al comma 1 dell'art. 582, quale regola generale, la presentazione dell'impugnazione mediante deposito telematico, con le modalità previste dall'art. 111-bis c.p.p. nella cancelleria del giudice (inteso come luogo “digitale”), e modalità concorrente, ma solo per le parti private personalmente (anche mediante incaricato) con la presentazione diretta dell'atto di impugnazione, in forma di documento analogico, nella cancelleria del giudice (comma 1-bis, art. 582 c.p.p.). In altri termini, le parti private conservano l'opzione tra deposito telematico e presentazione diretta, a fronte della obbligatorietà del deposito telematico per tutte le parti processuali. Peraltro, ai sensi dell'art. 87 del citato D.Lgs., le modifiche normative, compresa la nuova norma dell'art. 582, comma 1-bis (ai sensi del comma 5 del citato art. 87) si applicano a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti (da adottarsi entro il 31 dicembre 2023) che dovranno definire le regole tecniche riguardanti il deposito, la comunicazione e la notificazione con modalità telematiche degli atti del procedimento penale per gli uffici giudiziari e per le tipologie di atti in esso indicati oppure dovranno individuare gli uffici giudiziari e le tipologie di atti per cui possano essere adottate anche modalità non telematiche di deposito, comunicazione o notificazione, nonché i termini di transizione al nuovo regime Pertanto, fino a quel momento continuano ad applicarsi le previgenti disposizioni. In particolare, fino ad allora continua ad applicarsi, nel testo vigente al momento dell'entrata in vigore del medesimo D.Lgs, la disposizione di cui all'art. 582, comma 1 (così dispone il comma 4 del citato art. 87), mentre alla data di entrata in vigore del D.Lgs. è immediatamente operativa l'abrogazione degli artt. 582, comma 2 e dell'art. 583 (ai sensi dell'art. 98 del citato D.Lgs), sicché allo stato risulta consentita soltanto la presentazione dell'impugnazione nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Con D.M. 4 luglio 2023 (GU Serie Generale n.155 del 05-07-2023) sono stati individuati gli atti il cui deposito da parte dei difensori deve avvenire esclusivamente mediante il portale del processo penale telematico ai sensi dell'art. 87, comma 6-ter, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e con le modalità individuate con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, tra questi atti vi è anche la richiesta di riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva. Il deposito degli atti si intende eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali, secondo le modalità stabilite dal provvedimento. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro le ore ventiquattro del giorno di scadenza. Con successivo D.M. 18 luglio 2023 (G.U. serie generale n. 166 del 18 luglio 2023) è stato disposto che «L'efficacia del decreto del Ministro della giustizia del 4 luglio 2023, nella parte in cui dispone che il deposito da parte dei difensori degli atti indicati nell'elenco di cui all'art. 1 dello stesso decreto avviene esclusivamente mediante il portale del processo penale telematico, decorre dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 87 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Sino alla scadenza del termine di cui al periodo che precede, negli uffici indicati dal decreto del Ministro della giustizia del 4 luglio 2023, è possibile, in via sperimentale, il deposito da parte dei difensori degli atti elencati nell'art. 1 del medesimo decreto anche mediante il portale del processo penale telematico con le modalità individuate con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia». Il detenuto può presentare la richiesta di riesame alla direzione del carcere a norma dell'art. 123 ed tale forma di presentazione ha efficacia come se fosse ricevuta dall'autorità giudiziaria competente, con la conseguenza che non può costituire motivo di inammissibilità della impugnazione il fatto che l'atto sia impropriamente indirizzato all'autorità procedente anziché al tribunale competente per il giudizio di riesame ex art. 309, comma 7, né, ai fini del rispetto dei termini per proporre la richiesta, che a tale ultima autorità l'atto pervenga materialmente oltre il limite temporale previsto dall'art. 309, comma 1, sempre che il suddetto limite temporale risulti rispettato al momento della presentazione della richiesta alla direzione del carcere (Cass. II, n. 3477/1998; Cass. VI, n. 4227/2000; Cass. I, n. 11260/2001). L'imputato detenuto ha facoltà anche di presentare l'atto di impugnazione, ancorché redatto e sottoscritto, nel suo interesse, dal difensore, al direttore dell'istituto in cui trovasi ristretto, considerato che la previsione di cui all'art. 123 non deve essere intesa restrittivamente e cioè circoscritta alle sole ipotesi in cui si tratti di atto formulato e sottoscritto dall'imputato, ma, al contrario, deve ritenersi parimenti operativa nell'ipotesi in cui egli presenti atto di gravame redatto e sottoscritto, nel suo interesse, dal difensore (Cass. II, n. 2110/2000; Cass. V, n. 34157/2006). Contenuto della richiesta di riesameNel procedimento di riesame non è applicabile la particolare disposizione dell'art. 581, comma 1, lett. c) che impone, a pena di inammissibilità, l'indicazione dei motivi di impugnazione contestualmente alla presentazione del gravame, stante la facoltatività, prevista dal comma 6 dell'art. 309, della indicazione dei motivi a sostegno e, quindi, dell'inapplicabilità del principio tantum devolutum quantum appellatum. Si è parlato di una forma sui generis di impugnazione, poiché la richiesta di riesame innesca una procedura tutt'affatto particolare, diversa da quella propria dei normali atti di impugnazione, e rende possibile che il controllo della legittimità del provvedimento restrittivo della libertà personale abbia luogo pur senza specifiche doglianze dell'interessato, sul rilievo del semplice riscontro della correttezza del detto provvedimento e della congruità della motivazione che lo sorregge (Cass. I, n. 4097/1991; Cass. VI, n. 279/1992; Cass. S.U., n. 16/1994; Cass. VI, n. 3728/1995; Cass. IV, n. 3034/2000; Cass. VI, n. 41131/2014). Occorre ricordare (v. sub art. 302 § 2) he nel procedimento di riesame non è deducibile, né rilevabile d'ufficio, la questione inerente all'inefficacia della misura coercitiva per asserita mancanza, tardività o comunque invalidità dell'interrogatorio previsto dall'art. 294, anche se svolto ex ante in udienza di convalida ex art. 391 c.p.p., a nulla rilevando che essa sia proposta unitamente ad altre questioni inerenti a vizi genetici del provvedimento impugnato. Di conseguenza, la predetta questione non può costituire oggetto di ricorso per cassazione ex art. 311 c.p.p. (da ultimo: Cass. II, n. 5376/2023). Peraltro, pur nella specificità del giudizio di riesame sul provvedimento di cautela personale, resta fermo il principio secondo il quale la parte impugnante ha l'onere di specificare le doglianze attinenti il merito (sul fatto, sulle fonti di prove e relativa valutazione) onde provocare il giudice del riesame a fornire risposte adeguate e complete sulle quali, sotto il profilo della correttezza delle regole (giuridiche e di esperienza) applicate, della congruenza e logicità della motivazione, la Corte di cassazione può essere chiamata ad esprimersi. Pertanto, in mancanza di tale devoluzione, non è rituale portare davanti alla Corte di legittimità censure relative a pretese manchevolezze o illogicità motivazionali del provvedimento del tribunale, rispetto a elementi o argomentazioni difensive in fatto di cui non risulti in alcun modo dimostrata l'avvenuta rappresentazione al suddetto tribunale, come si verifica quando essa non sia deducibile dal testo dell'impugnata ordinanza e non ve ne sia neppure alcuna traccia documentale quale, ad esempio, quella costituita da eventuali motivi scritti a sostegno della richiesta di riesame, ovvero da memorie scritte, ovvero ancora dalla verbalizzazione, quanto meno nell'essenziale, delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell'udienza tenutasi a norma dell'art. 309, comma 8 (Cass. VI, n. 3058/1992; Cass. VI, n. 3728/1995; Cass. I, n. 1786/2004; Cass. II, n. 42408/2012; Cass. IV, n. 44146/2014; Cass. II, n. 11027/2016). Si è posto il problema della ritualità di memorie non depositate in cancelleria ai sensi dell'art. 121, ma trasmesse mediante p.e.c. Premesso che l'utilizzo della p.e.c. nel processo penale trova fonte normativa solo nell'art. 16 d.l. n. 179 del 2012 con riferimento alla materia delle notificazioni e riguarda gli articoli 148, comma 2 bis, 149, 150 e 151, comma 2, che attengono alle notificazioni da parte della cancelleria a persone d erse dall'imputato, e che, secondo la prevalente giurisprudenza, alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze mediante l'utilizzo della posta elettronica certificata, tuttavia si è ritenuto (Cass. III, n. 14832/2018) che, quando il procedimento abbia ad oggetto la libertà personale e sia caratterizzato dalla fisiologica ristrettezza dei tempi entro cui deve necessariamente concludersi il controllo di legalità, la p.e.c. può ritenersi produttiva di effetti, peraltro solo se pervenuta alla cancelleria del giudice competente per decisione e non già ove la stessa sia giunta alla cancelleria centrale del tribunale. Interesse alla richiesta di riesame
In genere Il requisito dell'interesse, richiesto dall'art. 568, si applica anche alle impugnazioni dei provvedimenti cautelari, e si identifica con l'interesse al risultato del giudizio sull'impugnazione. Quest'ultimo deve risolversi in un «vantaggio», in una «utilità» in senso obiettivo, per la parte impugnante, deve essere pratico, concreto e attuale. Sul tema vi sono stati molteplici interventi delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Con una prima pronuncia è stato affermato il principio secondo il quale l'interesse dell'indagato ad ottenere una pronunzia, in sede di riesame, di appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità dell'ordinanza che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare permane anche nel caso in cui quest'ultima sia stata revocata nelle more del procedimento. Infatti la pronunzia inoppugnabile di annullamento della misura suddetta adottata nel procedimento incidentale de libertate costituisce «decisione irrevocabile», idonea, nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all'art. 314 comma 2, a fondare il diritto dell'indagato alla riparazione per l'ingiusta detenzione, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 (Cass. S.U. , n. 20/1993; confermata da Cass. S.U., n. 11/1994 e da Cass. S.U., n. 21/1998). Nel contempo è stato precisato che il principio secondo cui la revoca della misura cautelare personale, intervenuta nel corso del procedimento incidentale di riesame o, comunque, di impugnazione del provvedimento con il quale la misura è stata applicata o mantenuta, non comporta il venir meno dell'interesse a coltivare il gravame, poiché la persistenza di questo deve essere apprezzata con riguardo non solo alla perdurante limitazione della libertà personale, ma anche alla necessità di precostituirsi una decisione irrevocabile sulla legittimità della misura ai fini dell'eventuale domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione, trova applicazione nel caso in cui la misura applicata o mantenuta sia la custodia cautelare, comprensiva anche degli arresti domiciliari, e non pure quando si tratti di altre misure coercitive od interdittive, atteso che su di queste non può fondarsi il diritto alla riparazione suddetta. Ne consegue che la revoca di tali ultime misure sopravvenuta nel corso del procedimento incidentale importa il venir meno dell'interesse al gravame da parte dell'indagato (Cass. S.U., n. 22/1993). Poiché l'interesse richiesto come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere concreto, e cioè mirare a rimuovere l'effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato e deve persistere sino al momento della decisione, ne consegue che è inammissibile l'impugnazione qualora l'imputato, nelle more del giudizio, sia stato rimesso in libertà e i motivi di impugnazione pongano in discussione soltanto la sussistenza delle esigenze cautelari e non dei gravi indizi di colpevolezza, posto che l'interesse alla pronuncia è ravvisabile, anche nel caso di liberazione, ed ai limitati fini della equa riparazione per l'ingiusta detenzione, soltanto in relazione all'accertamento della sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura previste dagli artt. 273 e 280 (Cass. S.U., n. 7/1997). È stato ulteriormente precisato che l'interesse all'impugnazione dell'ordinanza applicativa di una misura coercitiva persiste, ai fini del giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato con la conseguente rimessione in libertà dell'interessato, non attengano alla mancanza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280, ma alla prospettata carenza di domanda cautelare (Cass. S.U., n. 8388/2009). Le Sezioni Unite hanno ritenuto, da ultimo, perché possa ritenersi comunque sussistente l'interesse a coltivare l'impugnazione, quando una misura cautelare custodiale sia nelle more revocata o divenuta inefficace, in riferimento a una futura utilizzazione dell'eventuale pronunzia favorevole ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, che sia necessario che la circostanza formi oggetto di specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dal mancato conseguimento della stessa, formulata personalmente dall'interessato (Cass. S.U., n. 7931/2010). Peraltro, si è ritenuto che l'interesse dell'indagato ad ottenere, in sede di riesame o di appello, una pronuncia sulla legittimità del titolo cautelare non più efficace o revocato, al solo fine di precostituirsi un titolo in funzione della futura richiesta di equa riparazione per l'ingiusta detenzione, può essere legittimamente dedotto anche dal difensore quando l'indagato è presente in udienza (Cass. I, n. 50721/2014). L'interesse a coltivare l'impugnazione non può essere prospettato per la prima volta con il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale (Cass. I, n. 19649/2017). È controverso se l'interesse all'impugnazione sussista nel caso in cui l'impugnate tenda ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli. Secondo un primo orientamento, l'interesse del ricorrente è ravvisabile non solo quando questi miri a conseguire effetti penali più vantaggiosi ma anche quando tenda ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli o ad assicurarsi effetti penali più favorevoli che l'ordinamento faccia dipendere dalla pronuncia domandata (Cass. V, n. 37677/2012: fattispecie in cui la Suprema Corte ha riconosciuto l'interesse alla impugnazione dinanzi al Tribunale del riesame dell'imputato che, a seguito della imposizione di misura cautelare, era stato sottoposto a procedimento disciplinare, nonostante nelle more il G.i.p. avesse revocato il provvedimento restrittivo; Cass. VI, n. 35989/2015: fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza con cui il giudice di appello, in parziale riforma della pronuncia di assoluzione in primo grado, aveva dichiarato non doversi procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione). Altra giurisprudenza, invece, ritiene che l'interesse del ricorrente ad ottenere un provvedimento de libertate non è ravvisabile in caso di avvenuta cessazione della misura cautelare, anche se l'impugnazione tenda esclusivamente ad evitare conseguenze extrapenali sfavorevoli (Cass. III, n. 7917/2015: fattispecie in cui la Corte ha escluso l'interesse al riesame di misura cautelare, successivamente revocata dal Gip, a seguito della quale l'imputato era stato sottoposto a procedimento disciplinare; Cass. VI, n. 26318/2017: fattispecie in cui la Corte ha escluso l'interesse al riesame di misura cautelare interdittiva, successivamente dichiarata inefficace, a seguito della quale l'imputato era stato trasferito d'ufficio per motivi di incompatibilità ambientale). Ipotesi particolari Da tali principi sono state tratte diverse conseguenze in relazione ad una serie di particolari ipotesi. L'interesse dell'indagato all'impugnazione permane anche nel caso in cui, nelle more del procedimento incidentale de libertate, la misura della custodia cautelare in carcere sia sostituita con quella del divieto di dimora, sempre che l'applicazione dell'originaria misura possa costituire per l'interessato presupposto del diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 (Cass. S.U., n. 26795/2006). È inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso avverso l'ordinanza del tribunale del riesame confermativa della misura della custodia cautelare in carcere, quando, nelle more del procedimento incidentale, la misura sia stata revocata per effetto di sentenza ex art. 444, condizionalmente sospesa, e ciò in quanto, per gli effetti di cui all'art. 314, l'imputato ha rinunciato con la richiesta di patteggiamento a dedurre qualsiasi questione circa la colpevolezza (Cass. VI, n. 40769/2006). Stante l'autonomia esistente tra l'ordinanza applicativa di una misura cautelare emessa dal giudice dichiaratosi incompetente e quella, successiva, adottata nel termine di venti giorni dal giudice competente, deve ritenersi che l'interesse all'impugnazione del primo provvedimento persista nonostante l'emissione del secondo, ai fini di una eventuale futura richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, essendo detta ordinanza priva di ogni altra incidenza (Cass. II, n. 6963/1998; Cass. I, n. 11752/2005; Cass. II, n. 19718/2008; Cass. III, n. 25201/2008 ; Cass. II, n. 37015/2016). L'indagato ha interesse a ricorrere avverso un provvedimento restrittivo della libertà personale anche nel caso in cui il gravame sia limitato ad una sola delle imputazioni, poiché il venir meno del titolo della custodia anche se con riferimento esclusivo ad una delle accuse, pur senza incidere sull'assoggettamento del medesimo alla misura cautelare a causa del mantenimento del provvedimento restrittivo in relazione ad altro reato, rende meno gravosa la posizione difensiva e consente il riacquisto della libertà, nel caso in cui il titolo legittimante l'applicazione della misura venga meno, per un qualsiasi motivo, in ordine all'altro reato (Cass. S.U. , n. 7/1993; Cass. I, n. 4038/1995; Cass. I, n. 1067/2000). Non sussiste l'interesse al ricorso per cassazione avverso un provvedimento de libertate quando sia dedotta l'erronea qualificazione giuridica del reato in ordine ad un capo d'imputazione del tutto ininfluente ai fini della realizzazione di un risultato pratico tutelabile con l'impugnazione esperita (Cass. V, n. 45940/2005: nella fattispecie era stata chiesta in sede di riesame la qualificazione dei fatti come truffa aggravata ex art. 640 comma 2, n. 2, c.p. anziché come furto ex art. 624 bis, 625 comma 2, n. 2, c.p. e la Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha anche evidenziato che la diversa durata dei termini di custodia cautelare dipendenti dalla qualificazione del fatto non integra l'interesse al gravame, che deve essere attuale e concreto; Cass. VI, n. 48488/2008; Cass. VI, n. 41003/2015: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto insussistente l'interesse del ricorrente a richiedere l'inquadramento del fatto ascrittogli nella più lieve ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, in quanto aspetto privo di valenza ostativa rispetto all'applicazione della misura cautelare impostagli). Vi è, invece, interesse ad impugnare quando l'indagato tende ad ottenere una diversa qualificazione giuridica del fatto dalla quale consegua per lui una concreta utilità (Cass. V, n. 7468/2014: fattispecie in cui la qualificazione dei fatti prospettata dall'indagato con ricorso per cassazione nei termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, invece che di violenza privata, come ritenuto in sede di appello cautelare, incideva sulla stessa adottabilità della misura, ai sensi dell'art. 280, in ragione del diverso limite massimo di pena previsto per i due reati). Di converso, sussiste l'interesse ad impugnare quando l'indagato tende ad ottenere una diversa qualificazione giuridica del fatto dalla quale consegua per lui una concreta utilità: fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto sussistente l'interesse del ricorrente all'inquadramento del fatto ascrittogli nella più lieve fattispecie di cui dell'art.73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, il cui limite edittale di pena avrebbe impedito l'adozione della custodia cautelare in carcere (Cass. VI, n. 10941/2017). È inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione contro un provvedimento de libertate non rivolto a contestare la sussistenza del quadro indiziario e delle esigenze cautelari ma solo la configurabilità di determinate circostanze aggravanti, quando dall'esistenza o meno di tali circostanze non dipende, per l'assenza di ripercussioni sull'an o sul quomodo della cautela, la legittimità della disposta misura (Cass. VI, n. 50980/2013; Cass. III, n. 36731/2014: fattispecie in cui la Corte ha evidenziato che l'eventuale insussistenza delle aggravanti contestate non avrebbe comunque determinato una riduzione dei termini di durata massima delle misure cautelari; Cass. VI, n. 5213/2019: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile per carenza d'interesse il ricorso con cui era stata contestata la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa senza che fossero impugnate le valutazioni in punto di pericolo di reiterazione non fondate su tale presunzione). Sussiste l'interesse all'impugnazione anche da parte del soggetto nei cui confronti sia stata emessa ordinanza applicativa della misura cautelare in carcere non eseguibile in mancanza del provvedimento di estradizione, risultando giuridicamente apprezzabile l'interesse dello stesso all'immediato controllo ed alla eventuale rimozione di un provvedimento cautelare, influente significativamente sulla procedura di estradizione suppletiva ed in ogni caso incidente negativamente sulla persona, sotto il profilo del pregiudizio, non solo morale o psicologico, ma spesso anche di natura patrimoniale, che la sola emissione del provvedimento cautelare comporta (Cass. I, n. 412/1998; Cass. IV, n. 24627/2004). Qualora nei confronti di soggetto estradato dall'estero venga disposta, per fatti diversi da quelli per i quali l'estradizione è stata concessa l'applicazione di una misura cautelare di cui, con il medesimo provvedimento, venga sospesa l'esecuzione fino all'eventuale concessione di estradizione suppletiva, è da ritenere comunque sussistente un interesse giuridicamente apprezzabile dell'imputato o indagato a promuovere procedura di riesame avverso l'ordinanza applicativa della misura anzidetta, se non altro in considerazione del fatto che la stessa, ai sensi dell'art.720, comma 1, e dell'art. 12 della Convenzione europea di estradizione, resa esecutiva in Italia con l. n. 3 1963, costituisce il presupposto indefettibile per l'instaurazione e la prosecuzione della procedura estradizionale suppletiva, dal cui esito positivo deriverebbe poi l'effettiva eseguibilità dell'ordinanza medesima (Cass. I, n. 5582/1997). Ipotesi particolari con riferimento al P.M Anche con riferimento all'impugnazione proposta dal P.M. avverso un provvedimento de libertate, non sussiste l'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, quando l'impugnazione sia inidonea, attraverso l'eliminazione del provvedimento impugnato, a costituire una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante. La giurisprudenza ha esaminato varie ipotesi di interesse del P.M. all'impugnazione in materia de libertate. Deve ritenersi concreto ed attuale l'interesse del P.M. a ricorrere per cassazione avverso l'ordinanza con la quale il tribunale del riesame, pur confermando il provvedimento applicativo della custodia cautelare in carcere, abbia escluso una circostanza aggravante ad effetto speciale, quando dal riconoscimento della predetta circostanza possa conseguire l'applicazione di termini di durata della misura maggiori (Cass. I, n. 25949/2008; Cass. II, n. 32655/2015; Cass. II, n. 45459/2016; Cass. VI, n. 33473/2018). Tale affermazione di principio, peraltro, è contestata da contraria giurisprudenza, la quale afferma che è inammissibile, per difetto di attualità dell'interesse all'impugnazione, il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso l'ordinanza del tribunale del riesame che abbia escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale, in quanto l'incidenza della contestazione cautelare della circostanza sui termini di durata massima della custodia cautelare costituisce oggetto di situazioni future (Cass. VI, n. 18091/2011; Cass. VI, n. 3326/2015). E' stato, inoltre, ritenuto che sia inammissibile, per sopravvenuto difetto di interesse, il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento del tribunale del riesame al solo fine di veder riconosciuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 l. n. 203/1991, qualora nelle more del procedimento l'ordinanza cautelare sia stata revocata; con la precisazione che l'interesse all'impugnazione non può discendere dall'esigenza di procedere alla contestazione dell'aggravante in sede di richiesta di rinvio a giudizio, atteso che la qualificazione giuridica compiuta nella fase cautelare non è in alcun modo vincolante in sede di merito (Cass. VI, n. 29908/2018). Sussiste l'interesse concreto ed attuale del P.M. a ricorrere per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame che ha diversamente qualificato il reato oggetto della contestazione cautelare quando da tale decisione consegua la revoca, ovvero l'abbreviazione dei termini di durata massima della misura cautelare applicata, attesi gli effetti preclusivi derivanti dalla mancata impugnazione (Cass. VI, n. 48764/2011; Cass. VI, n. 5087/2014 ; Cass. VI, n. 17527/2018). Non sussiste, invece, l'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, quando sia dedotta l'erronea qualificazione giuridica del reato in ordine ad un capo d'imputazione del tutto ininfluente ai fini della realizzazione di un risultato pratico tutelabile con l'impugnazione esperita, come nella fattispecie in cui l'impugnato provvedimento aveva ritenuto sussistente l'ipotesi tentata e non consumata del reato di favoreggiamento, determinando una scarcerazione solo formale dell'indagato, che continuava a rimanere sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per gli altri reati di cui all'imputazione (Cass. VI, n. 48488/2008). Sussiste l'interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento con cui il tribunale del riesame, rilevata l'incompetenza del giudice per le indagini preliminari, annulli, per carenza delle condizioni di applicabilità, l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, se l'impugnazione sia funzionale a garantire il tempestivo intervento del giudice competente (Cass. S.U., n. 19214/2020). Deve ritenersi sussistere l'interesse del pubblico ministero a proporre gravame avverso una decisione, emessa in sede di riesame di annullamento di ordinanza impositiva di custodia cautelare per insussistenza di gravi indizi, anche se nelle more la misura è stata revocata: ciò al fine di precludere all'indagato la possibilità di crearsi un titolo per la riparazione per ingiusta detenzione che può essere costituito solo dalla decisione impugnata (Cass. VI, n. 1831/1996). È inammissibile per mancanza di interesse il ricorso per cassazione con il quale il Pubblico Ministero chieda l'annullamento per inosservanza della legge processuale penale di un provvedimento che, in accoglimento delle sue richieste abbia rigettato l'istanza di riesame proposta dall'indagato avverso un'ordinanza impositiva della custodia cautelare (Cass. VI, n. 772/1995). Trasmissione degli atti
In genere L'art. 309 comma 5 stabilisce che il presidente cura che sia dato immediato avviso all'autorità giudiziaria procedente, la quale, entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti presentati a norma dell'art. 291 comma 1, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini. Per «autorità giudiziaria procedente», deve intendersi quella che, attualmente procede, e, cioè, quella che al momento della richiesta, non solo è in possesso degli atti processuali di cui all'art. 291 comma 1, ma anche di quegli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta ad indagini e che, parimenti, debbono essere trasmessi al Tribunale del riesame. i termini di trasmissione degli atti e quelli di decisione si applicano anche allorché autorità procedente è il tribunale (in veste di giudice dibattimentale) e anche se questo e il tribunale della libertà usufruiscono di un unico ufficio di cancelleria, dovendosi tenere distinti i due organi giudiziari che, oltre ad essere diversi nella composizione, svolgono funzioni giudicanti su piani diversi (Cass. V, n. 4545/1997; Cass. I, n. 469/1999; Cass. VI, n. 3598/2000). L'autorità procedente, pertanto, si identifica nel pubblico ministero fino a quando non è esercitata l'azione penale e nel giudice della fase in cui pende il processo dopo l'esercizio dell'azione penale. Si è osservato, però, che il destinatario dell'avviso deve essere l'autorità che ha la concreta disponibilità degli atti, per cui, ove la richiesta sia presentata quando il procedimento di trova nella fase dibattimentale, la trasmissione deve essere effettuata dall'organo dell'accusa, poiché l'autorità che procede potrebbe non essere in possesso degli atti da trasmettere al Tribunale del riesame e, comunque, sarebbe necessaria la collaborazione tra il pubblico ministero e l'autorità procedente nella individuazione degli atti da inviare la tribunale (Furgiuele, in Spangher, 493). L'obbligo di trasmissione può essere adempiuto anche comunicando la avvenuta trasmissione degli atti in occasione di precedenti, analoghe procedure, purché nella comunicazione siano specificati gli estremi delle procedure medesime e gli atti siano ancora reperibili presso il tribunale del riesame, con conseguente possibilità di una loro agevole individuazione e consultazione (Cass. I, n. 4306/2001; Cass. III, n. 49417/2009); nello stesso senso si è ritenuto che il dovere di comunicazione degli elementi su cui è fondata la misura può ritenersi soddisfatto nel caso in cui l'autorità' procedente abbia tempestivamente segnalato che tutti gli atti relativi alla posizione del ricorrente sono depositati presso l'ufficio del G.i.p. allocato nello stesso stabile del giudice del riesame, così da consentirne la immediata consultazione (Cass. VI, n. 7522/2006; Cass. n. 21182/2007); ancora, di recente, si è affermato che la trasmissione parziale al tribunale del riesame degli atti già trasmessi al giudice per le indagini preliminari non vale a configurare inottemperanza al disposto di cui all'art. 309, comma 5, qualora il medesimo tribunale sia già in possesso degli atti del procedimento per la ragione, nota alla difesa, che essi siano stati già trasmessi dal pubblico ministero a seguito della proposizione di altro ricorso relativo al medesimo procedimento (Cass. II, n. 38566/2019). È stato anche ritenuto che, se il quinto comma dell'art. 309 impone la trasmissione al tribunale del riesame degli atti presentati a norma del comma 1 dell'art. 291, la ratio della disposizione non attiene essenzialmente alla materialità dei documenti, quanto, piuttosto al loro contenuto; sicché, quando questo risulti integralmente inserito nell'ordinanza che ha disposto la misura cautelare personale, può ritenersi adempiuto l'obbligo di cui al citato art. 309, comma 5, essendo posta la difesa in condizione di prendere completa cognizione degli atti posti a base della misura restrittiva e degli elementi favorevoli all'indagato (Cass. I, n. 2047/1998; Cass. II, n. 21333/2005; Cass. V, n. 42150/2011). In senso contrario è stato, invece, affermato la trasmissione degli atti al tribunale, prescritta a pena di inefficacia della misura coercitiva, non può considerarsi attuata per il sol fatto che il provvedimento impugnato contenga una trascrizione, più o meno esaustiva, del contenuto dei verbali di prova posti a fondamento della decisione cautelare (Cass. VI, n. 50963/2014; Cass. III, n. 257/2018). E' stata ritenuta legittima la trasmissione di atti da uffici giudiziari in allegato ad "e-mail", essendo tale modalità riconducibile al novero dei mezzi tecnici idonei a garantire la conoscenza dell'atto, ex artt. 150 c.p.p. e 64 disp. att. c.p.p., per le persone diverse dall'imputato. Tuttavia, la mera prova della visualizzazione del file sul computer del ricevente, non è idonea a garantirne l'effettiva conoscenza da parte del giudice chiamato a decidere e della difesa, nè il deposito in cancelleria in data e ora certa (Cass. V, n. 44042/2017). Non è violato l'obbligo di trasmissione degli atti posti a fondamento della richiesta di misura e di tutti gli elementi sopravvenuti a favore del sottoposto alle indagini, e pertanto non si determina la perdita di efficacia dell'ordinanza, nel caso in cui sia stato trasmesso al Gip, e quindi al tribunale del riesame, il solo verbale riassuntivo di interrogatorio reso da persona detenuta, sempre che l'originale sia stato redatto secondo le forme previste dall'art. 141 (Cass. I, n. 8778/2001; Cass. II, n. 39486/2005; Cass. II, n. 11514/2017: che, però, precisa: salvo che il ricorrente indichi quali contenuti, di rilievo decisivo, emergerebbero esclusivamente dalle trascrizioni, ovvero deduca che l'interrogatorio è avvenuto con modalità idonea ad inquinare i contenuti documentati nel verbale riassuntivo). Termine di trasmissione e inefficacia della misura La trasmissione degli atti deve avvenire entro cinque giorni pena la perdita di efficacia dell'ordinanza che dispone la misura coercitiva, in applicazione del disposto dei commi 5 e 10 dell'art. 309 (Corte cost. n. 232/1998). L'art. 100 disp. att., consente la trasmissione da parte dell'autorità giudiziaria procedente, anche solo della copia degli atti indicati dall'art. 309, comma 5, che può essere effettuata attraverso lo strumento della posta elettronica certificata, purché la difesa sia posta in grado, in un tempo compatibile con i termini previsti per la celebrazione del giudizio di riesame, di estrarre copia degli atti trasmessi in formato digitale ovvero di consultarli presso la cancelleria del tribunale investito dell'istanza (Cass. V, n. 48415/2014; Cass. V, n. 54534/2018; Cass. V, n. 32019/2019; contra: Cass. III, n. 51087/2017). Il termine perentorio di trasmissione degli atti è stato introdotto dall'art. 16, comma 5, l. n. 332/1995 e la interpretazione inizialmente seguita dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione fu nel senso che il termine di cinque giorni entro il quale l'autorità procedente deve trasmettere gli atti al tribunale del riesame decorre dal giorno in cui l'avviso del tribunale perviene a detta autorità procedente e non già dal giorno di trasmissione dell'avviso stesso (Cass. S.U. , n. 10/1998), ma tale interpretazione è stata superata a seguito di intervento della Corte costituzionale, che con sentenza interpretativa di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36 e 24 Cost., nei confronti dell'art. 309, commi 5 e 10 (nel testo novellato dall'art. 16, commi 3 e 5, l. n. 332/1995), ha affermato che non si può ammettere che i termini perentori suddetti decorrano da un dies a quo lasciato alla determinazione degli organi giudiziari non astretti nei loro adempimenti a vincoli temporali assistiti da sanzione processuale, con la conseguenza che è doverosa un'interpretazione conforme a Costituzione, nel senso di far risalire l'inizio della decorrenza del termine per la trasmissione degli atti al giorno in cui la richiesta perviene al tribunale del riesame. Questa soluzione — che la piena libertà della forma in cui l'avviso, anche in via telematica, può esser dato, la estrema semplicità del suo contenuto, la configurabilità dello stesso non come un adempimento dotato di un'autonoma funzione processuale, ma solo come condizione materiale affinché l'autorità procedente, che dispone degli atti, possa adempiere all'obbligo di trasmetterli, e la mancanza di ostacoli giuridici, che ne consegue, a che l'avviso venga inoltrato nello stesso contesto temporale in cui perviene la richiesta, dimostrano praticabile — si impone per la preminente forza dei principi costituzionali relativi alla garanzia giurisdizionale in materia di libertà personale, che non consentono di far luogo, anzitutto in sede interpretativa, ad una ricostruzione del sistema che si tradurrebbe in una lesione di essi. Le Sezioni Unite si sono adeguate all'interpretazione costituzionalmente orientata, affermando il principio secondo il quale il termine di cinque giorni entro il quale l'autorità giudiziaria procedente deve trasmettere, a pena di inefficacia della misura, gli atti previsti dal comma 5 dell'art. 309 al tribunale della libertà, decorre dal giorno della presentazione della richiesta di riesame (Cass. S.U. , n. 25/1999), precisando successivamente che, qualora la richiesta di riesame sia presentata nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti o davanti a un agente consolare all'estero, a norma dell'art. 582, comma 2, ovvero sia proposta con telegramma o mediante raccomandata, il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame decorre dal giorno in cui la richiesta stessa perviene alla cancelleria del tribunale del riesame, e non già dal giorno della sua presentazione o proposizione, non potendo ipotizzarsi, a carico del presidente del tribunale, l'adempimento dell'obbligo di immediato avviso prima della ricezione della richiesta; infatti, il principio, enunciato nella sentenza della Corte cost. n. 232/1998, in virtù del quale il termine in questione decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta, è riferito solo al caso, esplicitamente previsto dall'art. 309, comma 4, prima parte, di presentazione della richiesta direttamente al tribunale competente a decidere su di essa, al quale va assimilata l'ipotesi della presentazione, a norma dell'art. 123, da parte di imputato detenuto, in stato di arresto o detenzione domiciliare, ovvero custodito in luogo di cura (Cass. S.U., n. 10/2000). Con riferimento a quest'ultima modalità di presentazione è stato ulteriormente chiarito che la richiesta, presentata dal detenuto al Direttore del carcere a norma dell'art.123, sia stata indirizzata e trasmessa ad un'autorità giudiziaria diversa da quella competente, il suddetto termine decorre dal giorno in cui la richiesta è effettivamente ricevuta dalla cancelleria del Tribunale competente (Cass. I, n. 11260/2001;Cass. V, n. 249222/2004; Cass. VI, n. 34430/2010). È stato ulteriormente precisato che non è sufficiente la mera trasmissione telematica dell'istanza di riesame dall'ufficio ricevente a quello competente, ma occorre il rispetto delle formalità indicate nell'art. 64 disp. att., e, segnatamente, in caso di urgenza ovvero di atti concernenti la libertà personale, l'osservanza delle forme previste dagli artt. 149 e 150, espressamente richiamati dal detto art. 64, comma 3, e, nel caso di utilizzazione di mezzi tecnici idonei, l'attestazione, a cura del funzionario di cancelleria del giudice mittente, di aver trasmesso il testo originale al giudice destinatario, ai sensi del comma quattro del medesimo art. 64 (Cass. I, n. 17534/2017). In caso di invio a mezzo di posta elettronica certificata senza il rispetto delle prescrizioni previste dagli artt. 64 disp. att. e 149 e 150 per l'utilizzo di "mezzi tecnici idonei", ai fini della verifica del rispetto del termine di cinque giorni entro cui, ai sensi dell'art. 309, comma 5, deve guardarsi non al giorno della ricezione della p.e.c. da parte dell'ufficio giudiziario destinatario, ma a quello di effettiva percezione e conoscenza degli atti, dimostrata dalla stampa della mail e dei suoi allegati e dalla positiva verifica, attestata dal cancelliere, dell'integralità degli allegati pervenuti in conformità a quanto indicato nella p.e.c. (Cass. III, n. 21097/2019). Si ha inosservanza del termine perentorio quando gli atti non pervengono nel termine medesimo al tribunale del riesame, a nulla rilevando che il loro invio sia avvenuto nei cinque giorni dall'avviso (Cass. S.U., n. 13/1997). Peraltro, è stato precisato che la sanzione della perdita di efficacia della misura coercitiva è correlata all'omessa trasmissione degli atti da parte dell'autorità procedente al tribunale e non ai ritardi od alle omissioni che, nei casi di inoltro a mezzo posta elettronica certificata, risultino imputabili all'ufficio destinatario (Cass. Sez. V, n. 22620/2022). Il suddetto termine, dunque, decorre dalla presentazione ovvero dalla ricezione (nell'ipotesi di utilizzo di forme alternative di proposizione ex art. 583, comma 2) della richiesta nella cancelleria del Tribunale, intendendosi con ciò designare l'Ufficio giudiziario nella sua unitaria organizzazione, senza che spieghi influenza sul suo decorso e, quindi, sulla conseguente perdita di efficacia della misura cautelare il fatto che detta richiesta sia stata — per evidenti disguidi in ordine ai criteri organizzativi che presiedono all'attività di smistamento degli atti giudiziari — concretamente consegnata alla cancelleria del giudice competente a decidere in ritardo rispetto alle rigide scansioni temporali previste dall'art. 309 (Cass. 1, n. 12554/2002; Cass. IV, n. 2909/2006; Cass. IV, n. 29994/2006; contra: Cass. III, n. 4417/2010, che, invece, richiede che la richiesta pervenga alla cancelleria della sezione competente per il riesame). Per quanto concerne il computo del suddetto termine di cinque giorni, non si computa il giorno iniziale, non avendo il legislatore previsto espressamente una deroga alla regola generale di cui all'art. 172, che esclude dal calcolo il giorno di inizio della decorrenza del termine (Cass. II, n. 3600/1998; Cass. II, n. 315/2000). La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale si applica, ove l'indagato non vi abbia rinunciato, anche al termine di cinque giorni fissato per la trasmissione al tribunale del riesame degli atti presentati dal pubblico ministero con la richiesta di applicazione della misura cautelare ai sensi dell'art. 291 (Cass. II, n. 5501/1996; Cass. IV, n. 4282/1996). Ai fini della verifica della tempestività della ricezione degli atti, è stato precisato che, ai sensi dell'art. 172, comma 6, deve distinguersi tra l'orario di servizio, che riguarda il personale degli uffici giudiziari, la cui durata è regolata contrattualmente e che non ha rilevanza esterna, dall'orario in cui l'ufficio è aperto al pubblico per «fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere altri atti», che è stabilito dai relativi regolamenti e dalla cui inosservanza possono derivare effetti pregiudizievoli per gli interessati. Il termine «pubblico» sta ad indicare, nell'accezione di cui alla citata norma, tutte le persone estranee all'ufficio giudiziario nel quale l'atto deve essere compiuto, ed in particolare le parti che sono le dirette interessate al compimento delle attività suindicate; e non vi è dubbio che tra le parti debba essere annoverato anche il P.M.: il vigente codice di rito ha introdotto, infatti, una netta distinzione di ruoli tra giudice e pubblico ministero, equiparando quest'ultimo alle parti in genere, cosicché il detto organo deve considerarsi estraneo all'ufficio ai fini del compimento delle predette attività e, quindi, assoggettato ai limiti di accesso previsti dalla disposizione di legge sopra indicata. Ne consegue che, ove la dichiarazione di trasmissione degli atti al Tribunale del riesame venga fatta dal P.M. dopo la chiusura al pubblico dell'ufficio di cancelleria, gli effetti di tale dichiarazione decorrono dal giorno successivo, a nulla rilevando la presenza del personale in ufficio al momento della dichiarazione stessa (Cass. I, n. 7112/1998). Atti che devono essere trasmessi Gli atti in relazione ai quali vi è l'obbligo di trasmissione sono individuati dal comma 5 dell'art. 309 in quelli presentati a norma dell'art. 291, comma 1, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini. Il riferimento è, dunque, solo agli atti trasmessi dal P.M. al G.i.p. al momento della richiesta della misura e non quegli atti (o parti di essi) che il P.M. abbia ritenuto di tenere «coperti» ai fini delle ulteriori indagini, essendo il P.M. legittimato a selezionare il materiale indiziario da sottoporre al vaglio del giudice, così che l'inefficacia della ordinanza cautelare per mancato invio al tribunale degli atti trasmessi al G.i.p. al momento della richiesta non si verifica se non risulta che l'atto, asseritamente non inviato, fosse stato trasmesso unitamente alla richiesta della misura al G.i.p. (Cass. VI, n. 3529/1999; Cass. I, n. 4567/2009; Cass. IV, 18807/2017: nella specie la videoregistrazione integrale delle riprese effettuate dalla polizia giudiziaria; Cass. I, n. 29036/2018). Peraltro, il P.M. può produrre dinanzi al tribunale del riesame anche elementi e documenti, a carico dell'indagato, acquisiti precedentemente alla richiesta di misura cautelare e non presentati con la stessa (Cass. V, n. 1276/2003; Cass. VI, n.15899/2004; Cass. III, n. 15108/2010; contra: Cass. III, n. 2500/1999). La parte che eccepisca la mancata trasmissione al Tribunale del riesame di tutti gli atti posti a fondamento dell'ordinanza applicativa di misura cautelare, non può limitarsi ad una dichiarazione di mera incompletezza dei detti atti ma deve documentare, concretamente, di quali atti si lamenti la mancata trasmissione (Cass. VI, n. 24145/2001; Cass. II, n. 13503/2008; Cass. II, n. 30701/2013; Cass. II, n. 32988/2013). Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno operato una distinzione tra atti di natura processuale che, quando siano poste specifiche questioni di validità del provvedimento impugnato, possono essere prodotti o acquisiti indipendentemente dall'osservanza del termine perentorio indicato dall'art. 309 comma 5, e atti a contenuto sostanziale con valore probatorio, che hanno diretto rilievo ai fini del merito della questione cautelare, ricollegando la sanzione prevista dal comma 10 del citato articolo alla omessa trasmissione dei soli atti appartenenti alla seconda categoria che siano stati effettivamente utilizzati dal giudice a fondamento del provvedimento coercitivo. Nel caso specifico, hanno ritenuto che l'omessa o tardiva trasmissione al tribunale del riesame della richiesta di misura cautelare personale non determina la perdita di efficacia del provvedimento coercitivo, in quanto si riferisce ad un atto di natura meramente processuale, funzionale all'attivazione del procedimento cautelare, che nulla aggiunge al quadro indiziario risultante dagli elementi presentati a sostegno di essa (Cass. S.U., n. 19853/2002). In applicazione di tale principio, si è ritenuto che fossero atti di natura meramente processuale: il decreto di riapertura delle indagini (Cass. VI, n. 32365/2003); la nota di iscrizione dell'indagato nell'apposito registro e del decreto di proroga dei termini per le indagini preliminari, ferma restando la possibilità per la difesa di richiedere alla cancelleria una specifica attestazione (Cass. II, n. 3285/2001; Cass. VI, n. 45055/2005; Cass. Fer., n. 34858/2015); i documenti comprovanti l'estradizione, essendo questa destinata ad incidere non sulla validità ma sull'esecuzione della ordinanza cautelare (Cass. I, n. 914/2000). Mentre costituiscono atti di natura sostanziale, essenziali per delineare il quadro indiziario risultante dagli elementi presentati a sostegno di essa i verbali di sommarie informazioni testimoniali, espressamente menzionati nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.i.p. (Cass. II, n. 7614/2006). Con riferimento ai decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche, la giurisprudenza ha ritenuto che, allorché siano poste specifiche questioni circa la validità dei suddetti decreti autorizzativi, essi possono essere richiesti o allegati anche fuori dal termine stabilito dall'art. 309 commi 5 e 10 (Cass. IV, n. 4207/2005); inoltre, se i suddetti decreti autorizzativi non siano allegati alla richiesta del P.M., la successiva omessa trasmissione degli stessi al Tribunale del riesame a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo non determina l'inutilizzabilità, né la nullità assoluta ed insanabile delle intercettazioni, salvo che la difesa dell'indagato abbia presentato specifica e tempestiva richiesta di acquisizione, e la stessa o il giudice non siano stati in condizione di effettuare un efficace controllo di legittimità (Cass. VI, n. 6/2004; Cass. VI, n. 7521/2013; Cass. IV, n. 18802/2017). In tema di intercettazioni telefoniche, il pubblico ministero può depositare, a supporto della richiesta di misura restrittiva della libertà personale, non le registrazioni ma solo i «brogliacci», ossia i verbali nei quali la polizia giudiziaria ha trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate. Inoltre, poiché il P.M. non ha l'obbligo di mettere a disposizione del G.i.p., prima, e del Tribunale del riesame, dopo, gli atti di indagine nella loro integralità, è utilizzabile il testo di una conversazione intercettata il cui contenuto sia riportato per stralci in una informativa redatta dalla polizia giudiziaria (Cass. VI, n. 18448/2016). La Corte cost. n. 336/2008 è intervenuta dichiarando costituzionalmente illegittimo l'art. 26 nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l'esecuzione dell'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. In applicazione di tale pronuncia le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la richiesta del difensore volta ad accedere, prima del loro deposito ai sensi del comma 4 dell'art. 268, alle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate e sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei c.d. brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell'adozione di un'ordinanza di custodia cautelare, determina l'obbligo per il pubblico ministero di provvedere in tempo utile a consentire l'esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale de libertate, dovendosi escludere che la difesa abbia l'onere di chiedere un rinvio dell'udienza ai sensi dell'art. 309, comma 9-bis (Cass. VI, n. 50760/2017). La Corte ha altresì precisato che peraltro, al fine di porre il pubblico ministero in grado di adempiere tale obbligo, è del pari necessario che la richiesta del difensore venga tempestivamente proposta rispetto alle cadenze temporali indicate dalle norme processuali. L'illegittima compressione del diritto di difesa, derivante dal rifiuto o dall'ingiustificato ritardo del pubblico ministero nel consentire al difensore l'accesso alle registrazioni di conversazioni intercettate, dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio, ai sensi dell'art. 178, lett. c), in quanto determina un vizio nel procedimento di acquisizione della prova, che non inficia l'attività di ricerca della stessa ed il risultato probatorio, in sé considerati. Ne consegue che, qualora tale vizio sia stato ritualmente dedotto in sede di riesame ed il Tribunale non abbia potuto acquisire il relativo supporto fonico entro il termine perentorio di cui all'art. 309, comma 9, le suddette trascrizioni non possono essere utilizzate come prova nel giudizio de libertate. La Corte ha altresì precisato che l'eventuale annullamento del provvedimento cautelare, per le ragioni testé indicate, non preclude al G.i.p. di accogliere una nuova richiesta cautelare, se corredata dal relativo supporto fonico (Cass. S.U., n. 20300/2010). La successiva giurisprudenza ha precisato che la richiesta del difensore volta ad accedere alle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cosiddetti «brogliacci» di ascolto, utilizzati ai fini dell'adozione di un'ordinanza di custodia cautelare, determina l'obbligo per il pubblico ministero di provvedere tempestivamente solo quando il difensore specifica che l'accesso è finalizzato alla presentazione di un'istanza di riesame (Cass. II, n. 35692/2013; Cass. IV, n. 24866/2015; Cass. IV, n. 29645/2016). L'apprezzamento della tempestività del rilascio da parte del pubblico ministero di copia delle registrazioni di conversazioni o "video-riprese" utilizzate a fini cautelari è riservato al giudice di merito, che deve fornire idonea motivazione (Cass. IV, n. 43869/2017). E' stato affermato che quando la difesa ha assolto l'onere di dimostrare che la richiesta di rilascio di copia dei supporti magnetici o informatici delle registrazioni di conversazioni telefoniche o di riprese audiovisive, utilizzate per l'adozione dell'ordinanza cautelare, è stata effettivamente e tempestivamente presentata al P.M., sulla stessa non può ritenersi incombente l'ulteriore onere di documentare il fatto negativo rappresentato dal mancato riscontro alla richiesta da parte del P.M. Il Tribunale - ove lo ritenga necessario - può effettuare il riscontro presso l'ufficio competente sul mancato adempimento della richiesta e sulle sue eventuali ragioni, valutando altresì la tempestività della richiesta di cui si assume la mancata evasione (Cass. VI, n. 45984/2011; Cass. VI, n. 28156/2014). Un diverso orientamento giurisprudenziale, invece, si è espresso nel senso che la difesa che deduca la nullità di ordine generale a regime intermedio per non aver ottenuto l'accesso ai supporti magnetici o informatici contenenti le registrazioni di conversazioni telefoniche o di riprese audiovisive, utilizzate per l'emissione di una misura cautelare personale, è gravata dal duplice onere di provare sia la tempestiva richiesta rivolta al pubblico ministero, esplicitamente finalizzata all'utilizzo dei supporti in vista del giudizio di riesame, sia l'omesso o il ritardato rilascio della documentazione richiesta (Cass. II, n. 43772/2013; Cass. II, n. 51935/2018). La giurisprudenza ha precisato che, l'omessa o tardiva trasmissione di atti al tribunale del riesame non determina, di per sé, l'automatica caducazione della misura, dovendosi in ogni caso valutare il grado di rilevanza degli elementi che difettano, ponendoli a confronto con quelli già legittimamente acquisiti, i quali potrebbero essere da soli sufficienti a giustificare il mantenimento del vincolo (Cass. S.U., n. 25932/2008); pertanto, l'inefficacia si verifica solo per la mancata trasmissione di tutti gli atti o anche di un solo atto che sia tuttavia stato ritenuto dal giudice effettivamente determinante ai fini dell'applicazione della misura (Cass. III, n. 37009/2011; Cass. VI, n. 8657/2014; Cass. II, n. 20191/2015); spetta all'indagato l'onere di indicare le ragioni per le quali gli atti di cui lamenta la mancata trasmissione siano stati determinanti ai fini dell'applicazione della misura cautelare (Cass. V, n. 21205/2017 ; Cass. III, n. 25632/2018 ). Inoltre, la trasmissione parziale al tribunale del riesame degli atti già trasmessi al giudice per le indagini preliminari non vale a configurare inottemperanza al disposto di cui all'art. 309, comma 5, qualora il medesimo tribunale sia già in possesso degli atti del procedimento per la ragione, nota alla difesa, che essi siano stati già trasmessi dal pubblico ministero a seguito della proposizione di altro ricorso relativo al medesimo procedimento (Cass. II, n. 38566/03/2019). Così come nel richiedere al tribunale l'emissione di misura cautelare dopo la pronuncia della sentenza di condanna, il P.M. non ha l'obbligo di allegazione degli atti posti a base della richiesta, essendo acquisiti alla conoscenza del giudice, dell'imputato e dei difensori gli elementi dell'accusa venuti in rilievo nel dibattimento ed offerti in valutazione già con la sentenza di condanna, così l'obbligo di trasmissione al tribunale del riesame degli atti posti a base del provvedimento è adempiuto con l'invio della sentenza di condanna (Cass. V, n. 4305/1997; Cass. III, n. 41766/2010). L'obbligo di una trasmissione completa ed integrale sussiste solo per gli elementi a favore dell'imputato e dunque per ogni atto dal quale tali elementi possano trarsi (Cass. V, n. 39950/2004; Cass. II, n. 12080/2008). Elementi sopravvenuti favorevoli all'indagato, per i quali sussiste l'obbligo di trasmissione al Tribunale del riesame, sono quelli che, entrati nella disponibilità del Pubblico Ministero in tempo utile rispetto alla data di proposizione dell'impugnazione, costituiscono elementi fattuali di natura oggettiva che sono idonei a contrastare concretamente, cioè a vanificare o ad attenuare, gli indizi di colpevolezza o le esigenze cautelari poste a base della misura restrittiva e si presentano anche solo «astrattamente» favorevoli, essendo, invece, rimessa al Tribunale la successiva valutazione, in concreto, della qualificazione del dato e della incidenza dello stesso sul quadro valutativo, dovendo il Tribunale stesso dare conto con adeguata motivazione della valutazione compiuta (Cass. II, n. 20692/2001; Cass. IV, n. 31402/2005; Cass. I, n. 25991/2010; Cass. III, n. 8790/2011; Cass. I, n. 24406/2015). D'altro canto, qualora l'indagato si dolga della mancata trasmissione da parte del pubblico ministero di atti o documenti per sé favorevoli, egli ha l'onere di indicare compiutamente gli elementi di qualificazione in senso a lui favorevole presenti negli atti non trasmessi, non potendo sostenerne apoditticamente la rilevanza ai fini della perdita di efficacia della misura cautelare ai sensi dell'art. 309, comma 10 c.p.p. (Cass. VI, n. 25058/2016). Con particolare riferimento all'interrogatorio di garanzia previsto dall'art. 294 e all'interrogatorio dei coindagati si è affermato che essi non sono sic et simpliciter annoverabili fra gli elementi favorevoli sopravvenuti per i quali l'art. 309, comma 5, impone l'obbligo di trasmissione da parte dell'autorità giudiziaria procedente al tribunale del riesame. Detta valenza può essere loro riconosciuta solo quando essi abbiano un contenuto che non si limiti alla mera contestazione delle accuse, ma sia oggettivamente favorevole all'indagato; pertanto tale valenza deve essere specificamente indicata nel ricorso al tribunale del riesame, quando si vuole sostenere che dalla mancata trasmissione dei verbali di interrogatorio sia derivata la caducazione della misura cautelare, e pertanto l'indagato ha l'onere di indicare compiutamente gli elementi di qualificazione in senso a lui favorevole presenti, negli atti non trasmessi, non potendo sostenere apoditticamente la rilevanza per lui favorevole dei verbali dei suddetti interrogatori (Cass. S.U. , n. 25/2001;Cass. VI, n. 20527/2003; Cass. VI, n. 12257/2004; Cass. IV, n. 31402/2005; Cass. V, n. 51789/2013; Cass. IV, n. 12896/2019). È stato anche sottolineato che l'interrogatorio di garanzia è già a conoscenza della difesa, la quale, quindi, può rendere edotto il tribunale, producendolo nella fase di riesame (Cass. II, n. 25985/2007; Cass. III, n. 50061/2015). Anche l'interrogatorio reso nell'udienza di convalida dell'arresto, in cui il giudice, disposta la convalida, emette ordinanza coercitiva a carico dell'arrestato in accoglimento della richiesta del P.M., è stato escluso che rientri, ai fini di quanto previsto dall'art. 309 comma 5, tra gli atti che devono essere trasmessi al tribunale del riesame (Cass. VI, n. 24387/2005; Cass. IV, n.1581/2008). La sanzione di perdita di efficacia della misura cautelare prevista dall'art. 309 comma 5 si applica esclusivamente nei casi in cui il P.M. abbia omesso di trasmettere al tribunale del riesame atti favorevoli all'indagato da lui non conosciuti né conoscibili e certamente non riguarda quegli atti, documenti o risultanze che si trovano già pacificamente nella disponibilità della difesa e che da questa possono essere utilizzati o prodotti con la stessa richiesta di riesame o nel corso dell'udienza, pertanto, non è applicabile nel caso di mancata trasmissione della documentazione relativa alle investigazioni difensive (Cass. IV, n. 3337/2000; Cass. II, n. 9952/2005). Ugualmente, tra gli atti che devono essere trasmessi al Tribunale non rientrano le memorie difensive, le quali non sono elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini, ma sono documenti provenienti dal difensore e consistono in mere argomentazioni o prospettazioni che la difesa è libera di presentare in ogni tempo all'organo decidente (Cass. IV, n. 1636/1997; Cass. VI, n. 28228/2001; Cass. V, n. 3735/2005; Cass. II, n. 40534/2019). Nello stesso modo, si è ritenuto che tra i documenti favorevoli all'indagato che debbono essere trasmessi dall'autorità procedente al G.i.p. ed al Tribunale del riesame per la decisione non rientri la consulenza tecnica di parte, la quale può, comunque, essere prodotta direttamente dalla parte dinanzi al Tribunale (Cass. V, n. 5795/2013). Non incide sull'efficacia dell'ordinanza cautelare la mancata trasmissione al tribunale del riesame di una sentenza di assoluzione dell'indagato per fatto diverso, data la sua natura di elemento con valenza neutra, utilizzabile, al più, per la valutazione della personalità dell'indagato medesimo, ma privo di rilevanza ai fini del giudizio sulla gravità degli indizi di colpevolezza (Cass. I, n. 5307/2000). Procedimento davanti al Tribunale
In genere Il procedimento introdotto con la richiesta di riesame si svolge in camera di consiglio, con le forme previste dall'art. 127 (art. 309, comma 8), davanti al tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l'ufficio del giudice che ha emesso l'ordinanza (art. 309, comma 7). La competenza del tribunale così determinata è funzionale ed esclusiva, non derogabile neppure ove si tratti di ordinanza custodiale emessa da un giudice incompetente a norma dell'art. 27 (Cass. I, n. 11752/2005). L'omessa o tardiva decisione del giudice per le indagini preliminari sull'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato presentata dall'indagato in vista dell'udienza camerale non determina alcuna automatica nullità dell'udienza stessa e del provvedimento che la definisce, essendo a tal fine necessario che l'omissione o il ritardo si traducano in una effettiva e concreta lesione del diritto di difesa, che va specificamente dedotta mediante adeguate allegazioni (Cass. I, n. 1235/2021). Avviso di fissazione dell'udienza: termine La notificazione dell'avviso alle parti della data di fissazione dell'udienza deve essere effettuata almeno tre giorni prima. Il termine è dilatorio e, quindi, i tre giorni devono essere computati come liberi. È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 309 comma 8, con riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., in quanto la brevità del termine previsto per la notifica degli avvisi, in linea con la rapidità e la snellezza della procedura, non costituisce alcun pregiudizio o nocumento al diritto di difesa, essendo preordinata ad assicurare un controllo immediato del fondamento formale e sostanziale della misura coercitiva e, dunque, ad una rapida definizione dello status libertatis, e atteso che la procedura di riesame non è per l'imputato o per il difensore una procedura a sorpresa e, essendo attivata ad iniziativa di parte, consente un contraddittorio pieno e concretamente efficace (Cass. VI, n. 660/1991; Cass. VI, n. 36005/2002). La prescrizione che nel procedimento di riesame gli avvisi siano comunicati e notificati almeno tre giorni prima della relativa udienza camerale può dirsi osservata anche quando sia festivo l'ultimo dei tre giorni liberi rimasti a disposizione delle parti, in quanto la proroga di diritto del termine stabilito a giorni che scada in un giorno festivo, prevista al comma 3 dell'art. 172,non si applica ai termini dilatori(Cass. II, n. 47835/2003; Cass. VI, n. 15815/2005; Cass. II, n. 8571/2009). Allo stesso modo, atteso che la norma prevede non un termine acceleratorio, quali quelli perentorio o comminatorio, entro il quale deve essere compiuta una determinata attività processuale, bensì un termine dilatorio, durante il decorso del quale è vietato compiere una data attività, la coincidenza con giorni festivi non ha rilevanza processuale (Cass. III, n. 17089/2006). L'inosservanza del termine per la notifica dell'avviso dell'udienza di riesame, integra una nullità di ordine generale a norma dell'art. 178, comma 1, lett. c), che si propaga, ai sensi dell'art. 185, all'ordinanza emessa dal tribunale; all'annullamento della quale, tuttavia, non essendo la predetta nullità equiparabile in alcun modo all'inesistenza del provvedimento, non consegue la perdita di efficacia della misura coercitiva ai sensi dell'art. 309, comma 10 (Cass. S.U., n. 2/1993; Cass. S.U., n. 6/1996). il mancato rispetto del termine di tre giorni «liberi» determina la nullità dell'ordinanza, emessa all'esito dell'udienza, anche se quest'ultima si limiti a dichiarare l'inammissibilità della richiesta di riesame in quanto tardiva, in quanto, qualora il tribunale fissi l'udienza di trattazione, senza dichiarare de plano l'inammissibilità del gravame, la decisione sulla tardività di quest'ultimo deve necessariamente essere adottata con il pieno rispetto del principio del contraddittorio (Cass. I, n. 4746/2014). Trattandosi di nullità di ordine generale, essa è assoggettata ai termini di deducibilità di cui all'art. 182 ed alla sanatoria di cui all'art. 184, e che tale vizio non può essere comunque eccepito da chi vi ha dato causa o ha concorso a darvi causa (Cass. I, n. 1013/1993: fattispecie in cui il ricorrente assumeva che il mancato rispetto del suddetto termine non poteva ritenersi sanato dall'avvenuta concessione di un termine a difesa — nella specie inferiore a cinque giorni; la Cassazione ha respinto il ricorso sulla scorta del principio di cui in massima e rilevando altresì che a suo tempo il difensore nulla aveva eccepito in ordine alla congruità del termine concesso, che aveva quindi ritenuto adeguato; Cass. V, n. 30573/2009: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto sanata la predetta nullità, in quanto la negligenza del difensore consistita nel non consentire la notifica dell'avviso di udienza a mezzo telefono, costantemente occupato, ha concorso a dare causa alla predetta nullità, impedendo che possa essere eccepita dal suddetto difensore; Cass. III, n. 44075/2014: fattispecie in cui la Corte ha escluso che la reiterata assenza presso il domicilio eletto dell'indagata o di altre persone in grado di ricevere l'avviso di fissazione dell'udienza potesse costituire concorso nella causazione della nullità o rappresentare una forma di sanatoria della notifica tardivamente eseguita) L'inosservanza del termine di tre giorni liberi se tempestivamente eccepita, ne impone la rinnovazione, non essendo sufficiente la concessione di un ulteriore termine ad integrazione di quello originario(Cass. S.U., n. 8881/2002; Cass. II, n. 53674/2014). Nel giudizio di rinvio conseguente all'annullamento di un'ordinanza de libertate pronunciata dal Tribunale del riesame non è applicabile la disciplina dei termini prevista dall'art. 309 per il giudizio di riesame bensì quella dettata dall'art. 127, con la conseguenza che la notificazione dell'avviso dell'udienza di rinvio al difensore deve avvenire nel termine di almeno dieci giorni liberi prima dell'udienza (Cass. VI, n. 22310/2006). Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno, inoltre, precisato che la norma che prevede la notifica dell'avvenuta impugnazione alle altre parti (art. 584) non trova applicazione nell'ambito dei procedimenti de libertate, dato che essa è funzionale alla facoltà di proposizione dell'appello incidentale, estraneo al sistema delle impugnazioni in materia cautelare (Cass. S.U. , n. 1235/2011). Avviso di fissazione dell'udienza: destinatari L'avviso della data fissa per l'udienza deve essere comunicato al pubblico ministero presso il tribunale del riesame competente e, se diverso, a quello che ha richiesto l'applicazione della misura, nonché all'imputato e al suo difensore. Al difensore di fiducia dell'imputato, che sia stato nominato in data successiva (o anche lo stesso giorno) a quella di emissione (e notificazione al codifensore) del decreto di fissazione dell'udienza di riesame non spetta l'avviso della data fissata per l'udienza, gravando sull'indagato (o imputato) un onere di attivazione e diligenza per consentire al difensore designato di avanzare tempestivamente all'autorità procedente ogni istanza utile (Cass. II, n. 21142/2007; Cass. I, n. 14699/2008). In esito a contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che, qualora l'imputato sia assistito da due difensori, l'avviso della data dell'udienza camerale deve essere dato ad entrambi e non solo al difensore che abbia sottoscritto la relativa richiesta, con la conseguenza che l'omesso avviso ad uno solo dei due difensori dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio (Cass. S.U., n. 33540/2001). Successivamente, peraltro, si era manifestato un ulteriore contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa i presupposti per la sanabilità della nullità derivante dall'omesso avviso dell'udienza ad uno dei due difensori di fiducia, poiché alcune decisioni avevano ritenuto sufficiente che, all'udienza, l'altro difensore presente non deducesse tempestivamente la nullità, mentre altre avevano, invece, ritenuto necessario che all'udienza, in cui l'altro difensore omette l'eccezione, fosse presente anche l'imputato. Le Sezioni Unite sono nuovamente intervenute affermando, in primo luogo, che la nullità a regime intermedio, derivante dall'omesso avviso dell'udienza a uno dei due difensori dell'imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione a opera dell'altro difensore comparso, pur quando l'imputato non sia presente, in quanto è onere del difensore presente, anche se nominato d'ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, verificare se sia stato avvisato anche l'altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice; in secondo luogo, che l'eccezione deve essere formulata a opera dell'altro difensore al più tardi immediatamente dopo gli atti preliminari, prima delle conclusioni qualora il procedimento non importi altri atti, in quanto il suo svolgersi (in udienza preliminare, riesame cautelare o giudizio) presume la rinuncia all'eccezione (Cass. S.U., n. 39060/2009). Con riferimento alla notifica all'imputato all'estero, nel contrasto tra la normativa generale dell'art. 169, che concede all'imputato un termine di trenta giorni per dichiarare o eleggere il suo domicilio nel territorio dello stato e solo dopo il decorso del medesimo prevede l'eventuale notifica al difensore, e quella speciale per la procedura di riesame di cui all'art. 309, comma 8, che consente la notifica fino a tre giorni prima dell'udienza, da fissarsi in tempo utile per la decisione nei dieci giorni, non può non prevalere quest'ultima, in considerazione delle esigenze di celerità del procedimento di riesame (Cass. VI, n. 3778/1991; Cass. VI, n. 257/1999; Cass. I, n. 5611/1999; Cass. III, n. 26218/2010 ; Cass. I, n. 51351/2018). Sulle modalità della notifica all'imputato all'estero v. paragrafo successivo. La giurisprudenza non è univoca sulla natura della nullità conseguente ad omesso avviso dell'udienza all'indagato. Secondo un primo orientamento, l'omesso avviso della data fissata per l'udienza di riesame, costituendo palese violazione del diritto dell'indagato di partecipazione al procedimento, è sanzionato con la nullità assoluta, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, prevista dagli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179, comma 1, per il caso di omessa citazione dell'imputato. Tale nullità non determina, tuttavia, la perdita di efficacia della misura cautelare, che ha luogo nella sola ipotesi di decisione non intervenuta nel termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione degli atti da parte del giudice del riesame (Cass. I, n. 2020/1996; Cass. II, n. 47841/2003; Cass. V, n. 16224/2017; Cass. III, n. 9756/2022). Altro diverso orientamento, invece, ritiene che l'omesso avviso all'indagato della data fissata per l'udienza camerale di riesame è causa di una nullità che, seppur non definita assoluta dall'art. 127, comma 5, e non attinente ad una ipotesi in cui è obbligatoria la presenza del difensore, soggiace alla disciplina di cui agli artt. 180,181 e 182 c.p.p. Ne consegue che la omessa eccezione da parte del difensore di tale nullità a regime intermedio innanzi al tribunale del riesame impedisce la deducibilità del vizio in sede di legittimità (Cass. I, n. 1930/1993; Cass. II, n. 16781/2015; Cass. II, n. 3694/2016; Cass. II, n. 37615/2019 ). Avviso di fissazione dell'udienza: modalità Il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – c.d. “riforma Cartabia” - ha introdotto nuove norme sul processo penale telematico, in particolare per quanto riguarda comunicazioni e notificazioni, ma, ai sensi dell'art. 87 del citato D.Lgs., le modifiche normative si applicano a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti (da adottarsi entro il 31 dicembre 2023) che dovranno definire le regole tecniche riguardanti il deposito, la comunicazione e la notificazione con modalità telematiche degli atti del procedimento penale per gli uffici giudiziari e per le tipologie di atti in esso indicati oppure dovranno individuare gli uffici giudiziari e le tipologie di atti per cui possano essere adottate anche modalità non telematiche di deposito, comunicazione o notificazione, nonché i termini di transizione al nuovo regime. Pertanto, fino a quel momento continuano ad applicarsi le previgenti disposizioni che di seguito si commentano. La prescritta comunicazione al difensore di fiducia dell'avviso di fissazione dell'udienza di discussione della richiesta di riesame del provvedimento cautelare personale — stante l'urgenza conseguente all'estrema ristrettezza ed alla perentorietà dei termini volute del legislatore in ragione della tempestiva tutela dello status libertatis — può essere effettuata anche a mezzo di telefono e telegramma. Occorre tenere presente il nuovo testo dell'art. 149 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (e dell'art. 55 delle disposizioni di attuazione, con la soppressione del riferimento al fonogramma ad opera dell'art. 41, comma 1, lett. d) del citato D.Lgs) come riformulato dall'art. 10, comma 1, lett. b) al cui commento si rinvia . Si richiama di seguito la giurisprudenza che appare ancora compatibile con la nuova disposizione . Nella relazione illustrativa si legge: «Le modifiche all'articolo 149 sono di mero adeguamento al riconoscimento del mezzo telematico per le notificazioni, con legittimazione anche alle comunicazioni di conferma all'indirizzo di posta elettronica indicato dal destinatario. Si è, peraltro, mantenuto il riferimento al pur desueto strumento del telegrafo, in quanto restava indispensabile prevedere uno strumento di chiusura che fosse sempre praticabile.» . Con riferimento alla comunicazione mediante telegramma, la giurisprudenza prevalente non ritiene necessario l'accertamento dell'effettiva ricezione da parte dei destinatari della comunicazione, ed afferma che la prova della avvenuta comunicazione risulti sufficientemente raggiunta attraverso la produzione di copia dell'atto di spedizione rilasciata dall'ufficio postale trasmittente, ai sensi dell'art. 55 disp. att., dalla quale risulti, ai sensi e per gli effetti dell'art. 149, la sussistenza degli elementi necessari a rendere idonea la comunicazione stessa in ordine agli atti giudiziari cui risulti preordinata, spettando d'altro lato al difensore che abbia accettato il mandato fiduciario l'onere di rendere attuabile la ricezione degli atti che lo riguardino nel rispetto del termine previsto dall'art. 309, comma 8 (Cass. II, n. 5617/1995: nella specie la Corte ha ritenuto inidonea ad invalidare l'avviso telegrafico dell'udienza di riesame, ritualmente trasmesso, la circostanza che non fosse stato possibile recapitare tempestivamente il telegramma a causa della chiusura dello studio del difensore di fiducia, sul quale incombeva l'onere di tenere a disposizione presso il proprio recapito persona idonea a ricevere gli avvisi e le notifiche di cui la legge prevede l'urgenza; Cass. VI, n. 18937/2004; Cass. I, n. 37200/2004; Cass. II, n. 15901/2006; Cass. IV, n. 13369/2007; Cass. I, n. 21372/2008). Tali affermazioni sono, del resto, conformi a quanto ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, sia pure con riferimento all'avviso al difensore per l'udienza di convalida e per il contestuale giudizio direttissimo, ha ritenuto che una volta accertata l'adeguatezza del mezzo usato, con riguardo al tempo disponibile e all'insussistenza di strumenti di comunicazione alternativi, è irrilevante la circostanza della mancata conoscenza, da parte del difensore, dell'avviso medesimo (Cass. S.U., n. 39414/2002: nella specie si è ritenuto che la mancata conoscenza del messaggio, registrato nella segreteria telefonica del difensore designato all'atto dell'arresto, a causa di vizi di funzionamento dell'apparecchiatura o del mancato ascolto della registrazione, non incidesse sulla ritualità dell'avviso, gravando sul difensore medesimo l'onere di assicurarsi della perfetta funzionalità degli apparecchi di cui è dotato il proprio studio professionale e di ascoltare le comunicazioni memorizzate). L'avviso al difensore della data fissata per l'udienza davanti al tribunale del riesame può essere notificato anche a mezzo del telefono, purché siano rispettate, a pena di nullità, le modalità previste dall'art. 149, che richiede che la telefonata sia ricevuta dal destinatario e che sia confermata mediante telegramma (Cass. IV, n. 41186/2004). L'avvenuta notificazione al difensore di fiducia può essere provata anche mediante fonogramma spedito dall'ufficiale giudiziario, dal quale risultino gli elementi essenziali della notificazione, quali, oltre l'organo procedente, la data, il luogo, la persona del consegnatario e il rapporto tra costui e il destinatario dell'avviso (Cass. VI, n. 3171/1992; Cass. III, n. 1871/1993; Cass. I, n. 37200/2004). È valido anche l'avviso al difensore tramite l'invio di messaggio lasciato sulla segreteria telefonica dello studio professionale, sia perché l'urgenza di provvedere alla comunicazione esclude l'inidoneità di tale mezzo, sia perché grava sul difensore l'onere di assicurarsi della perfetta funzionalità degli apparecchi di cui è dotato il proprio studio e di ascoltare le comunicazioni memorizzate (Cass. VI, n. 37653/2014). È stato anche affermato che l'avviso ex art. 309, comma 8, non è dovuto se risulta che il difensore abbia già avuto conoscenza, nei termini di legge, della data dell'udienza, non derivando da tale omissione alcun pregiudizio per la difesa dell'imputato (Cass. VI, n. 32006/2003: nel caso di specie, la conoscenza della data di udienza, da parte del difensore, risultava dalla richiesta di rilascio di copia degli atti). La notifica dell'avviso dell'udienza fissata per la trattazione del riesame all'imputato all'estero deve necessariamente essere effettuata nella forma della notifica al difensore, che il codice di procedura penale prescrive nei confronti degli imputati irreperibili (art. 159), latitanti (art. 165), privi di domicilio in italia (art. 169); posizioni tutte che, agli effetti delle notificazioni, risultano assimilate. L'assenza all'udienza di riesame dell'indagato, che si trovi allo estero ed al quale quindi la comunicazione dell'avviso della data dell'udienza fissata per il riesame del provvedimento cautelare personale sia stata effettuata nella forma della notifica al difensore senza il previo invito ad eleggere o dichiarare il domicilio nello stato di cui all'art. 169, non contrasta con i principi posti dagli artt. 5 e 6 della Cedu. Infatti i provvedimenti del tribunale del riesame hanno la natura di «decisione allo stato» e le norme della suddetta convenzione hanno una valenza diversa a seconda che vadano applicate ad una fase processuale facilmente riproponibile, oppure ad una fase processuale che è destinata a chiudersi in via definitiva, anche se può essere seguita da ulteriori stadi processuali. Invero l'indagato che non sia stato notiziato direttamente e non sia presente all'udienza di riesame non soltanto può sempre riproporre il ricorso al tribunale, ai sensi del comma 2 dell'art. 309 allorché sopravvenga l'esecuzione della misura, ma può riproporre la istanza di revoca o sostituzione della stessa al giudice, ed ove costui, entro cinque giorni, ai sensi dell'art. 299, rigetti la richiesta, può ancora rivolgersi al tribunale del riesame (Cass. VI, n. 3778/1991; Cass. VI, n. 257/1999; Cass. I, n. 5611/1999; Cass. III, n. 26218/2010). La notificazione degli atti all'imputato latitante o evaso successivamente arrestato all'estero,deve essere quella prevista dall'art. 165,e cioè la consegna dell'atto al difensore, non essendo applicabile in tal caso, avuto riguardo alle garanzie che devono circondare specificamente le modalità di esecuzione delle notifiche, la forma prevista dall'art. 156 (notificazione all'imputato detenuto), in quanto presuppone che l'imputato sia ristretto in stabilimenti carcerari posti nel territorio italiano (Cass. VI, n.8637/1996; Cass. III, n.44065/2014). Deposito degli atti e richiesta di copia L'ultima parte del comma 8 dell'art. 309 prevede che fino al giorno dell'udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. Peraltro, è stato escluso un diritto ad estrarne copia, stante le esigenze di celerità del procedimento ostative al tempestivo espletamento dell'attività necessaria all'apprestamento di copie degli atti e in quanto i diritti della difesa risultano comunque tutelati adeguatamente dalla possibilità di esaminare gli atti depositati in cancelleria (Cass. II, n. 3591/1994; Cass. S.U., n. 4/1995; Cass. II, n. 342/2007 ; Cass. II, n. 36191/2017; Cass. III, n. 31196/2020). È stato, invece, ritenuto che il tribunale, a pena di nullità, deve mettere gli atti nella disponibilità effettiva e non solo giuridica del difensore, nel senso cioè che non è sufficiente a garantire i diritti della difesa il tempestivo avviso del loro deposito se, per ragioni diverse, tale deposito poi materialmente non avviene e, in applicazione di tale principio, è stata annullata, perché affetta dalla nullità di cui all'art. 178, lett. c, l'ordinanza emessa a seguito del giudizio di riesame celebrato nonostante gli atti fossero stati materialmente posti a disposizione del difensore, perché facenti parte del fascicolo utilizzato per altro procedimento di riesame relativo a coindagati, solo nella mattina dell'udienza camerale, sì da consentirne esclusivamente un rapido esame ed impedirne l'estrazione di copia (Cass. II, n. 4194/1997). Bisogna, d'altro canto, tenere presente che la Corte cost. n. 192/1997, nel ritenere costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 24 Cost., l'art. 293, comma 3, nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all'ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa, ha affermato che la mera conoscenza degli atti depositati dal p.m., non accompagnata dal diritto di estrarne copia, rappresenta una ingiustificata limitazione del diritto di difesa, tenuto conto che la disciplina limitativa non trova ragione né nell'esigenza di riservatezza, superata dall'esecuzione della misura, né nel timore che le operazioni di rilascio delle copie possano interferire con i termini rapidi e vincolanti previsti per l'interrogatorio e, poi, per la presentazione e la decisione del riesame, essendo evidente che né il difensore potrà pretendere, né l'autorità giudiziaria potrà concedere dilazioni di tali termini ove risulti materialmente impossibile procedere alla fotocopia di tutti gli atti richiesti entro le rigide cadenze previste per l'interrogatorio e per l'udienza di riesame. Partecipazione all'udienza camerale Il procedimento del riesame si caratterizza per la partecipazione non necessaria del Pubblico Ministero e del difensore, per cui l'omesso avviso di fissazione dell'udienza al difensore dà luogo ad una nullità d'ordine generale ed a regime intermedio (Cass. I, n. 46982/2013). La competenza funzionale dell'ufficio del rappresentante della pubblica accusa, ex art. 51, comma 3, si uniforma, in via generale, alla regola del suo carattere derivato, normalmente connessa a quella del giudice presso il quale esercita le sue funzioni, ma, in deroga a tale regola, i commi 8 e 8-bis dell'art. 309 prevedono che il P.M. che ha richiesto l'applicazione della misura può partecipare all'udienza in luogo del P.M. presso il Tribunale del riesame. Non essendo necessaria la partecipazione del difensore, è irrilevante la sua assenza, anche se determinata da legittimo impedimento, essendo questo previsto quale causa di rinvio solo per il dibattimento (Cass. VI, n. 8493/1996; Cass. II, n. 12976/2003). Pertanto, è stato affermato che il rinvio dell'udienza ex art. 127. effettuato per consentire al pubblico ministero di essere presente è irrituale, perché la partecipazione dello stesso non è obbligatoria, ma, se disposto, non determina alcuna nullità, non essendo questa prevista dalla legge (Cass. IV, n. 49778/2019 - dep. 09/12/2019). Il giudice, invece, ha l'obbligo di disporre il rinvio dell'udienza se sussiste un legittimo impedimento a comparire dell'imputato, che abbia chiesto di essere sentito personalmente, secondo quanto prescritto dall'art. 127, comma 4, richiamato dall'art. 101 disp. att. La modifica apportata ai commi 6 e 8-bis dell'art. 309 dall'art. 11 l. n. 47/2015, entrata in vigore in data 8 maggio 2015, ha, da un lato, riguardato il comma 6 dell'art. 309, finora dedicato esclusivamente alle modalità di presentazione (contestuale o successiva) dei motivi di gravame, disponendo, in particolare, che, con la richiesta di riesame, oltre a poter essere enunciati anche i motivi, «l'imputato può chiedere di comparire personalmente»; dall'altro lato, ha aggiunto al comma 8-bis dell'art. 309, finora dedicato alla legittimazione del P.M. richiedente la misura a partecipare all'udienza camerale, il seguente ulteriore periodo: «L'imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente». Sul punto la Corte di legittimità ha affermato il principio secondo il quale il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale può esercitare il diritto di comparire personalmente all'udienza camerale solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore (non essendo un atto personale), nell'istanza di riesame, mentre non sono più applicabili le disposizioni di cui agli artt. 127, comma 3, e 101 disp. att., che prevedono il diritto dell'interessato detenuto o internato fuori dal circondario ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza. (Cass. I, n. 49882/2015; Cass. II, n. 13707/2016 Cass. VI, n. 54048/2017). Il D.Lgs. n. 150/2022.ha aggiunto che l'imputato, oltre al diritto di comparire personalmente ha anche, in alternativa, «quando una particolare disposizione di legge lo prevede, di partecipare a distanza (v. artt. 133 bis e 133 ter introdotti dallo stesso D.Lgs. n. 150 cit.). Il presidente può altresì disporre la partecipazione a distanza dell'imputato che vi consenta» . La giurisprudenza non si era espressa in modo concorde sulla possibilità che la richiesta di comparire personalmente fosse presentata non al momento della richiesta di riesame ma successivamente, al momento della notificazione dell'avviso di fissazione di udienza. Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite, (Cass. S.U. n. 11803/2020), le quali hanno deciso che " Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive, la persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all'udienza camerale può esercitare il diritto di comparire personalmente all'udienza stessa solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, con l'istanza di riesame, ferma restando la facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l'istanza di differimento ai sensi dell'art. 309, comma 9-bis, c.p.p.". Con la stessa sentenza le Sezioni Unite hanno ribadito l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale è inapplicabile, in quanto incompatibile, la norma di cui agli artt. 309, comma 8, e 127, comma 3, c.p.p.., nella sola parte relativa alla comparizione dell'interessato all'udienza di riesame, nonché dell'art. 101, comma 2, disp. att. c.p.p.; infatti, tratto essenziale della disciplina introdotta dalla novella del 2015 è il pieno riconoscimento del diritto dell'imputato a comparire dinanzi al giudice del riesame e, con esso, il superamento di qualsiasi differenza nella disciplina della partecipazione all'udienza di riesame correlata al luogo di detenzione. Le Sezioni Unite chiariscono che, con tale interpretazione, “la disciplina codicistica assicura un bilanciamento - non più, dunque, rimesso al giudice, ma definito dalla legge - all'evidenza non irragionevole tra, da un lato, le modalità di esercizio del diritto del detenuto alla partecipazione all'udienza camerale (diritto messo al riparo dalle interferenze riconducibili a determinazioni non "governabili" dal giudice del riesame) e, dall'altro, la celerità del procedimento ex art. 309 c.p.p., che rappresenta essa stessa una fondamentale componente del patrimonio di garanzie dell'imputato. A tutela di tale componente e, dunque, della certezza dei tempi della decisione di riesame e della sua impugnabilità, la disciplina codicistica fa leva su un regime assai rigoroso incentrato sulle varie ipotesi di inefficacia della misura cautelare (oltre che sugli stringenti limiti per la rinnovazione della misura dichiarata inefficace), rispetto al quale le esigenze lato sensu organizzative assicurate dalla nuova disciplina dell'esercizio del diritto di partecipazione dell'imputato all'udienza ex art. 309 c.p.p. si pongono in rapporto servente, fermo restando che detta nuova disciplina, nel collocare la richiesta di comparizione in un segmento della vicenda cautelare in cui la difesa ha ampia contezza degli atti posti a sostegno dell'ordinanza applicativa, ha avuto la possibilità di confrontarsi con le ragioni dell'accusa nell'interrogatorio di garanzia e ha un congruo termine a disposizione per la richiesta di riesame, risulta - anche in virtù della facoltà di chiedere il differimento, nei termini indicati - senz'altro idonea ad assicurare l'effettività di tale diritto”. Per il suo carattere di sotto-sistema normativo speciale, nessuna influenza dalle due disposizioni in commento subisce la disciplina di partecipazione all'udienza mediante collegamento audiovisivo prevista dall'art. 146-bis disp. att. per i detenuti indagati per i reati indicati dagli artt. 51, comma 3-bis e 407, comma 2, lett. a), o sottoposti al regime penitenziario particolare di cui all'art. 41-bis l. n. 354/1975 (ordinamento penitenziario), disciplina che resta, pertanto, invariata. Sul punto si segnala, peraltro, un contrasto di giurisprudenza, poiché da un lato si afferma che l'omessa notifica al difensore dell'avviso concernente le speciali modalità di svolgimento dell'udienza in videoconferenza non integra una nullità, ma una mera irregolarità, sanabile con la rinnovazione di tale avviso e la concessione di un termine idoneo a consentire al difensore di scegliere se raggiungere o meno il luogo ove è ristretto l'assistito, in quanto non trova applicazione la previsione del termine di tre giorni di cui all'art. 309, comma 8 (Cass. I, n. 19511/2010; Cass. V, n. 50394/2016; Cass. VI, n. 51019/2019); mentre secondo un altro orientamento interpretativo l'omessa notifica al difensore dell'avviso concernente la partecipazione dell'indagato all'udienza camerale in videoconferenza integra una nullità di ordine generale a carattere intermedio, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 180, che, ove tempestivamente eccepita, rende invalida l'udienza e tutti gli atti successivi, compresa l'ordinanza "de libertate", in quanto al difensore deve essere garantita la facoltà di essere presente nel luogo in cui ha sede il tribunale o, in alternativa, in quello dove si trova l'indagato; si aggiunge che le norme sulla partecipazione a distanza, applicabili ai procedimenti in camera di consiglio ex artt. 45 bis e 146-bis disp. att. cod. proc. pen., sono compatibili con la previsione di cui all'art. 309, comma 8-bis, trattandosi di una forma di partecipazione personale dell'indagato all'udienza che non viola i principi costituzionali e che trova la sua ragion d'essere in esigenze di sicurezza, organizzazione e contenimento di costi (Cass. I, n. 19872/2005; Cass. II, n. 19181/2019). La mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita, dell'imputato, indagato o condannato che ne abbia fatto richiesta, all'udienza di riesame determina la nullità assoluta e insanabile, a norma dell'art. 179, dell'udienza camerale e della successiva pronuncia del Tribunale sull'istanza di riesame, senza che ne consegua tuttavia l'inefficacia della misura cautelare adottata (Cass. S.U. , n. 40/1996; da ultimo: Cass. VI, n. 21849/2015 ; Cass. V, n. 32156/2016). Differimento della data dell'udienza Con la novella legislativa l. n. 47/2015, è stato introdotto il comma 9-bis all'art. 309, il quale prevede che l'imputato personalmente, entro due giorni dalla notificazione dell'avviso, possa chiedere il differimento della data dell'udienza, che il tribunale concede, se vi sono “giustificati motivi”, da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni; in tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell'ordinanza sono prorogati nella stessa misura. Nonostante la natura prettamente tecnica delle esigenze difensive atte a fondare una richiesta di differimento del termine, il legislatore ha inteso ricollegare quest'ultima ad una manifestazione di volontà espressa direttamente dall'imputato per intuibili ragioni correlate alla delicatezza di un tema quale la privazione della libertà personale anche oltre il termine ordinario previsto dalla legge. Per accertare la sussistenza dei giustificati motivi che, ai sensi dell'art. 309, comma 9-bis, determinano il differimento dell'udienza su richiesta dell'imputato, il tribunale è tenuto a verificare: se nella richiesta di differimento siano stati indicati i motivi, se tali motivi siano attinenti ad esigenze di difesa sostanziale e se gli stessi non siano meramente pretestuosi (Cass. VI, n. 13050/2016; Cass. III, n. 29980/2019: la quale ha precisato che tra i giustificati motivi non rientra l'impedimento del difensore). La decisione con la quale il tribunale del riesame rigetta l'istanza di differimento della data dell'udienza non è impugnabile, fatta eccezione per le ipotesi in cui la stessa sia nulla per carenza assoluta di motivazione o presenti una motivazione solo apparente (Cass. VI, n. 13049/2016: in motivazione la Corte di cassazione ha precisato che il giustificato motivo di differimento dell'udienza connesso all'esigenza difensiva di esaminare il materiale probatorio non può essere circoscritto al deposito di nuovo materiale indiziario; Cass. VI, n. 12556/2016: fattispecie in cui la Corte, annullando con rinvio l'ordinanza che aveva rigettato la richiesta di rinvio limitandosi ad affermare che il differimento non era dovuto in quanto il materiale probatorio era stato regolarmente depositato, ha precisato che il Tribunale non ha un potere di apprezzamento della qualità delle ragioni addotte che vada oltre la verifica della sussistenza dei motivi e del se detti motivi siano attinenti ad esigenze di difesa sostanziale e non siano pretestuosi; Cass. II, n. 22961/2022: la Corte riteneva che il Tribunale non avesse adeguatamente valutato l'assenza o la presenza, a seguito di un'istanza che evidenziava circostanze specifiche, di ragioni integranti giustificati motivi, tesi a rendere possibile un effettivo esercizio del diritto di difesa, a fronte di una oggettivamente rilevante restrizione dei tempi per la trattazione del procedimento). Ha espresso un orientamento contrario quella giurisprudenza la quale ha escluso che il difetto di specifica motivazione possa essere fatto valere come causa di nullità non rientrando il decreto di diniego tra i provvedimenti richiamati dall'art. 125, comma 3 (Cass. II, n. 35659/2018). Elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza Per il combinato disposto dagli artt. 309, comma 5, 291, comma 1, del codice e 100, disp. att., il tribunale del riesame deve fondare il suo giudizio sugli atti trasmessigli dal P.M. La facoltà riconosciutagli, dall'art. 309, comma 9, di utilizzare ulteriori elementi per la decisione è subordinata alla duplice condizione che tali elementi — i quali se documentati assumono essi pure la qualità di atti del procedimento — gli siano offerti dalle parti e che ciò avvenga nel corso dell'udienza, in un momento che consenta l'instaurarsi tra le parti medesime del contraddittorio anche sul loro contenuto (Cass. III, n. 1833/1993; Cass. VI, n. 3529/1999; Cass. I, n. 45246/2003). E' stato, peraltro, precisato che non sussiste alcun divieto per il P.M. di trasmettere al tribunale per il riesame gli atti sopravvenuti all'emissione dell'ordinanza genetica che non abbiano una connotazione di favore nei confronti dell'indagato, posto che l'art. 309, comma 9, prevede espressamente che le parti possono integrare il compendio indiziario in udienza e che nel caso di una trasmissione anticipata di tali atti è assicurata maggior tutela al diritto di difesa dell'indagato, il quale, proprio a seguito della trasmissione prima dell'udienza, è in grado di contraddire gli eventuali nuovi elementi sfavorevoli in modo consapevole (Cass. IV, n. 15082/2010; Cass. II, n. 11033/2016; Cass. III, n. 4647/2016). Il P.M. può introdurre nuovi elementi probatori a carico dell'indagato, ma si pone la questione dei poteri e dei limiti che il pubblico ministero incontra nella presentazione di tali elementi al tribunale del riesame, ai sensi dell'art. 309, comma 9. Secondo la prevalente e più recente giurisprudenza il pubblico ministero può produrre all'udienza nel procedimento di riesame avverso ordinanza applicativa di misura cautelare personale elementi già agli atti del suo fascicolo eppure non allegati alla richiesta (Cass. V, n. 1276/2002; Cass. VI, n. 15899/2004; Cass. III, n. 15108/2010; contra: Cass. III, n. 2500/1999). L'orientamento prevalente argomenta, muovendo dall'obbligatorietà della discovery dei soli elementi sopravvenuti a discarico, riguardo quelli a carico, quand'anche precedenti e nondimeno non allegati alla richiesta, reputa che il comma 9 dell'art. 309, nel legittimare il tribunale del riesame a decidere “anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza”, abiliti in particolare il pubblico ministero alla produzione di alcunché valutato come irrilevante al momento della richiesta della misura cautelare ma divenuto importante e rilevante nel prosieguo delle indagini. Il ragionamento prosegue con l'affermazione che, in tal caso, non ricorre un'ipotesi di perdita di efficacia della misura cautelare ai sensi del comma 10 del medesimo articolo, attesa la tempestività della trasmissione degli atti a suo tempo allegati alla richiesta; né un'ipotesi di inutilizzabilità della produzione tardiva, non prevista e comunque inerente al tema delle prove in giudizio e non a quello delle allegazioni istruttorie in sede cautelare. Alla luce di ciò, dovendosi consentire comunque all'indagato di fronteggiare un elemento a carico che, quantunque già in possesso del pubblico ministero, entra nel compendio indiziario a lui conosciuto solo all'udienza e, quindi, finanche oltre il termine perentorio di cinque giorni di cui al precedente comma 5, si impone la concessione di un congruo termine a difesa, quale mezzo di ristabilimento dell'equilibrio tra le parti in funzione dell'attuazione del contraddittorio, in difetto del quale si configura un'ipotesi di nullità ex art. 178, lett. c), (Cass. VI, n. 53720/2014; Cass. III, n. 22137/2015; Cass. II, n. 36451/2015). Si tratta di una soluzione che, sebbene con riferimento ad una diversa situazione, è stata indicata dalle Sezioni unite di questa Corte che, in materia di appello cautelare, hanno affermato il principio secondo cui è consentito al pubblico ministero produrre documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, siano essi preesistenti o sopravvenuti, purché tali elementi riguardino lo stesso fatto contestato con l'originaria richiesta cautelare e sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti anche mediante la concessione di un congruo termine a difesa (Cass. S.U., n. 18339/2004). La congruità di tale termine va apprezzata in rapporto alla scansione temporale che governa il procedimento di riesame. al fine di consentire il rispetto del termine di dieci giorni per la decisione previsto, dall'art. 309, commi 9 e 10, c.p.p., a pena di inefficacia della misura (Cass. VI, n. 35690/2019). Peraltro, anche sulla concessione di un termine a difesa si registra una diversa giurisprudenza, secondo la quale è manifestamente infondata, in riferimento all'art. 24, comma 2, Cost., la questione di legittimità costituzionale, dell'art. 309, comma 9, nella parte in cui non prevede la concessione alle parti di termini per l'esame degli atti acquisiti in sede di riesame, trattandosi di mancata previsione che risponde a criteri di ragionevolezza nel doveroso contemperamento delle garanzie difensive con le particolari caratteristiche di urgenza della procedura di riesame (Cass. V, n. 13569/2012). All'indagato, d'altro canto, non è consentito dolersi della mancata acquisizione da parte del tribunale del riesame delle prove indicate dalla difesa, poiché è onere dell'interessato quello di produrre direttamente gli elementi a proprio favore nell'udienza camerale, che è caratterizzata da termini ravvicinati — sanzionati dall'inefficacia della misura — incompatibili con qualsiasi obbligo del giudice di dar corso alle acquisizioni istruttorie sollecitate dalle parti. Infatti, il tribunale del riesame è privo di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate e decide esclusivamente tenendo conto degli elementi emergenti dagli atti trasmessegli dal pubblico ministero (nella fase delle indagini preliminari) ed a quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza. (Cass. II, n. 3693/1994; Cass. II, n. 2204/1998; Cass. IV, n. 41151/2004; Cass. II, n. 6816/2008; Cass. III, n. 21633/2011; Cass. I, n. 23869/2016: fattispecie relativa alla richiesta di verifica della data di iscrizione dell'indagato nel registro delle notizie di reato al fine di farne discendere l'inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza di un determinato termine). E' stato ribadito che il tribunale non ha alcun potere di disporre di propria iniziativa accertamenti di tipo probatorio per integrare o screditare il compendio indiziario posto a fondamento del provvedimento impugnato, potendo soltanto acquisire documenti che siano sottoposti alla sua valutazione dalle parti, in quanto, in mancanza di una specifica previsione normativa in tal senso, deve escludersi l'applicabilità di disposizioni che regolano diverse fasi del giudizio di cognizione o procedimenti diversi, come quello di esecuzione penale (Cass. I, n. 44437/2017). In particolare, si è ritenuto che sia irrituale, nel corso dell'udienza davanti al Tribunale del riesame, l'acquisizione agli atti del procedimento di una cassetta audiovisiva prodotta dalle parti. Infatti, l'utilizzo di una cassetta audiovisiva — oltre a richiedere l'apporto di tecnici e strumenti idonei per la visione — presuppone una attività di ascolto e di lettura delle immagini che devono necessariamente essere trasfuse in un verbale il quale descriva i suoni e le immagini provenienti dalla cassetta medesima. Tale operazione costituirebbe una attività istruttoria non consentita in sede di riesame, potendo essa soltanto costituire l'oggetto di questioni da proporre al giudice per le indagini preliminari con eventuali istanze di revoca della misura cautelare (Cass. I, n. 4988/1995; Cass. IV, n. 41151/2004). Decisione sulla richiesta di riesame
In genere I commi 9 e 10 dell'art.309 stabiliscono che la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell'ordinanza in cancelleria, con esito di inammissibilità della richiesta medesima ovvero di annullamento, riforma o conferma dell'ordinanza oggetto del riesame, deve intervenire entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, pena la perdita di efficacia dell'ordinanza che ha disposto la misura coercitiva, che non può essere rinnovata, salvo eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate. Termini: natura decorrenza e computo Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, dopo avere rilevato la natura perentoria del termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti entro il quale il Tribunale deve decidere sulla richiesta di riesame secondo il combinato disposto dei commi 9 e 10 dell'art. 309, aveva stabilito che esso inizia a decorrere dal momento in cui si perfeziona l'arrivo in Tribunale di tutti gli atti — e non solo di parte di essi — a suo tempo presentati dal P.M. al G.I.P. a sostegno della misura cautelare a norma dell'art. 291 comma 1, nonché degli altri atti in connessione essenziale con quelli, quali gli atti necessari alla verifica di ammissibilità dell'impugnazione e l'interrogatorio dell'indagato, escludendo che sulla decorrenza del termine predetto possano avere influenza gli atti inerenti allo stesso procedimento di riesame ovvero l'eventuale produzione, nel corso delle udienze di riesame, di ulteriori elementi addotti dalle parti, ai sensi del comma 9 dell'art. 309 (Cass. S.U., n. 14/1993). Tale decisione, però, essendo anteriore all'art. 16, comma 3, l. 8 agosto 1995, n. 332, che ha introdotto nei commi 5 e 10 dell'art. 309 l'ulteriore termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti da parte dell'autorità giudiziaria procedente, deve essere coordinata con tale ulteriore termine. È stato successivamente precisato che il suddetto termine di dieci giorni decorre dalla data di ricezione degli atti e non da quella di emissione del decreto che fissa l'udienza in camera di consiglio per la sua trattazione (Cass. S.U. , n. 26/2000). Le Sezioni Unite, sempre risolvendo un contrasto di giurisprudenza, hanno deciso che nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento di ordinanza che abbia disposto o confermato la misura cautelare personale, il procedimento di riesame si svolge seguendo le stesse cadenze temporali e con le stesse sanzioni processuali previste dall'art. 309, commi 5 e 10,c.p.p. , con inizio di decorrenza dei relativi termini dal momento in cui gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione pervengono alla cancelleria del tribunale e non dalla data in cui il tribunale riceva nuovamente dall'autorità procedente gli atti ad essa richiesti (Cass. S.U., n. 27104/2020). Quando siano in corso indagini con più indagati, raggiunti da provvedimenti applicativi di misure cautelari e da parte degli stessi vengano avanzate richieste di riesame in tempi diversi, l'arrivo degli atti relativi ai primi impugnanti, ancorché questi contengano gli elementi necessari per la decisione anche nei confronti dei successivi richiedenti, non vale a far decorrere il termine di dieci giorni per la decisione, giacché, perché possa ritenersi decorrente il suddetto termine, è necessario che il tribunale riceva o gli atti riguardanti specificamente colui — o coloro — la cui posizione è in discussione, ovvero ottenga espressa notizia che tutti gli elementi di giudizio si trovano negli atti trasmessi in precedenza (Cass. S. U., n. 14/1993; Cass. I, n. 562/1994; Cass. I, n. 2076/1995; Cass. VI, n. 34802/2008; Cass. III, n. 31958/2020). In linea con tale principio, è stato affermato che, per la decorrenza del termine per la decisione, non è sufficiente la materiale esistenza degli atti stessi presso la cancelleria del giudice del riesame, ma la disponibilità di essi ai fini della decisione per effetto dell'acquisizione disposta dall'ufficio decidente a termini del comma 5 dell'art. 309. È irrilevante, pertanto, la presenza degli atti nella cancelleria per ragioni estranee alla discussione dell'istanza di riesame della quale trattasi. Solo col perfezionamento dell'iter acquisitivo degli atti pervenuti nella sfera di materiale conoscenza dell'organo giudicante del riesame inizia la decorrenza del termine entro il quale la decisione deve essere emessa, pena l'inefficacia della misura cautelare (Cass. II, n. 1148/1994). Qualora il giudice attribuisca all'impugnazione, originariamente qualificata dal proponente come appello, l'esatto nomen juris di riesame, il termine stabilito dall'art. 309 comma 10 decorre dal giorno in cui l'errore è stato o avrebbe dovuto essere riconosciuto. poiché non esiste, nelle procedure de libertate, una fase destinata alla previa delibazione della correttezza o meno della qualificazione giuridica attribuita dalla parte al gravame da essa proposto, per cui tale delibazione può e deve avvenire solo al momento in cui sul gravame deve pronunciarsi il giudice che ne e stato formalmente investito, ne deriva che non può assumere rilievo alcuno il fatto che, in quel momento, attribuito dal giudice all'impugnazione il suo corretto nomen juris, emerga l'avvenuto superamento del termine entro il quale, in base a tale attribuzione, la decisione avrebbe dovuto intervenire (Cass. V, n. 16963/2006; Cass. II, n. 42146/2010; Cass. II, n. 30966/2016). Analogamente, nel caso in cui la richiesta di riesame sia presentata dal detenuto al Direttore del carcere, a norma dell'art. 123, e indirizzata ad una autorità giudiziaria diversa da quella competente, il termine per la decisione decorre, non dalla data della presentazione, ma dal giorno in cui la richiesta è effettivamente ricevuta dalla cancelleria del Tribunale competente (Cass. I, n. 11260/2001;Cass. V, n. 24922/2004). Il termine di dieci giorni entro il quale il tribunale del riesame deve emettere la propria decisione ha natura perentoria, tale natura tuttavia non influenza il metodo di calcolo del decorrere del termine, il quale segue la regola generale, fissata nell'art. 172, comma 4, secondo la quale il dies a quo non computatur in termine, non avendo il legislatore esplicitato alcuna eccezione alla regola e non trattandosi di termine direttamente incidente sullo stato di custodia del soggetto. Ne consegue che il giorno di arrivo degli atti in cancelleria non si computa ai fini del calcolo del termine finale anzidetto. Inoltre, la scadenza in giorno festivo del termine di dieci giorni previsto per la decisione del tribunale sulla richiesta di riesame delle misure cautelari ne comporta la proroga di diritto al giorno successivo non festivo (Cass. VI, n. 1795/1998; Cass. V, n. 30248/2003; Cass. fer., n. 29344/2006; Cass. II, n. 17434/2015). Anche nei procedimenti incidentali concernenti l'impugnazione di provvedimenti in materia di misure cautelari reali i termini processuali sono sospesi in periodo feriale e il ricorrente che intende avvalersi della facoltà di rinunziare alla sospensione dei termini deve dichiararlo espressamente (Cass. S.U. , n. 5/1994). È stato precisato che la rinuncia alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, comporta che il dies a quo, ai fini del computo del termine di inefficacia della misura coercitiva per effetto della mancata decisione sul riesame entro 10 giorni, incomincia a decorrere ex novo dalla data di deposito in cancelleria della rinuncia, con la conseguenza che non è dato computare le frazioni temporali eventualmente già trascorse in periodo feriale o preferiale, dalla data di arrivo degli atti presso il Tribunale del riesame (Cass. VI, n. 76/1996). Il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere atti in ufficio giudiziario che, a norma dell'art. 172, comma 6, si considera scaduto nel momento in cui, secondo i regolamenti, l'ufficio viene chiuso al pubblico, non vale anche per il deposito dei provvedimenti del giudice. Ne consegue che il termine per il deposito dell'ordinanza assunta dal tribunale del riesame all'esito del relativo procedimento scade, perentoriamente, non nel momento in cui gli uffici vengono chiusi al pubblico, bensì nell'ultima ora, e cioè nella ventiquattresima ora, del decimo giorno dalla ricezione degli atti necessari per la decisione (Cass. S.U. , n. 30/1995). In caso di proposizione di una questione di legittimità costituzionale, parte della giurisprudenza ritiene che la sospensione del procedimento di riesame, disposta ai sensi dell'art. 23 l. n. 87/1953 per effetto della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, non implica la sospensione del termine di dieci giorni, previsto dall'art. 309, comma 9, per l'adozione del provvedimento decisorio sulla richiesta di riesame, avendo tale termine natura perentoria e potendo essere prorogato o sospeso unicamente nei casi espressamente previsti dall'art. 101 disp. att., non suscettibili di interpretazione estensiva (Cass. I, n. 4221/1993; Cass. II, n. 793/1996; Cass. I, n. 2226/1996; Cass. Fer., n. 34889/2015). Altra parte della giurisprudenza, invece, afferma che il giudice che, nell'esercizio del suo potere, dubiti della legittimità di una disposizione legislativa, nell'investire della questione la Corte Costituzionale, deve sospendere nel contempo il procedimento ai sensi del citato art. 23. Ciò determina inevitabilmente uno stato di quiescenza dello stesso procedimento con la conseguente inevitabile paralisi dell'operatività di ogni disposizione processuale che detti regole in ordine anche ai tempi entro i quali debba intervenire la decisione, con la conseguenza che resta sospeso anche il termine entro il quale deve intervenire, a pena di inefficacia della misura cautelare, la decisione del Tribunale della libertà (Cass. I, n. 2594/1992; Cass. VI, n. 2090/1992; Cass. I, n. 4211/1993; Cass. I, n. 2317/1994). Plurime pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito quali siano le modalità di deposito e i requisiti del provvedimento che impedisce la declaratoria di inefficacia di cui al comma 10 dell'art. 309 per decorso del termine perentorio di dieci giorni. In primo luogo, è stato precisato che il disposto del suddetto comma 10 deve essere inteso nel senso che è necessario e sufficiente, perché non si produca l'automatico effetto caducatorio, che entro il decimo giorno dalla ricezione degli atti il tribunale abbia deliberato in merito alla richiesta medesima ed abbia, inoltre, provveduto al deposito del dispositivo: mediante tale deposito, infatti, si rende certo, per gli interessati, che la decisione - con quel determinato, irreversibile contenuto — è intervenuta nel termine e si rende altresì possibile l'adozione degli eventuali conseguenti provvedimenti (Cass. S.U., n. 7/1996). D'altro canto, deve ritenersi manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 13, comma secondo e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 309, comma 10, interpretato nel senso che è sufficiente ad evitare l'effetto caducatorio ivi previsto il deposito tempestivo del solo dispositivo dell'ordinanza di riesame; e ciò perché: 1)- quanto al principio di eguaglianza, la norma citata non è caratterizzata da incertezza alcuna circa il termine di deposito dell'ordinanza (la cui eventuale elusione rappresenta una patologia giudiziaria sanzionabile civilmente, disciplinarmente e, all'occorrenza, anche penalmente), sicché non è ravvisabile in essa alcuna ingiustificata disparità di trattamento; 2)- quanto al diritto alla libertà personale, non è ravvisabile alcuna violazione di esso, in quanto il legislatore, con una scelta discrezionale incensurabile, ha optato, nel procedimento di riesame, per una garanzia sostanziale del diritto di libertà, da ritenersi realizzata mediante il controllo giurisdizionale nel contraddittorio delle parti, da eseguire in un termine caducatorio correlato alla decisione del tribunale conclusiva del procedimento con carattere di assoluta certezza, così com'è certo anche il termine legale di deposito del provvedimento; 3)- quanto al diritto di difesa, non solo non risulta dalla norma in discussione incertezza alcuna sul termine di deposito, fissato in cinque giorni, ma risulta anche ragionevolmente garantito il tempestivo esercizio del diritto di impugnazione dell'ordinanza del tribunale del riesame, con il predetto dies ad quem (Cass. S.U., n. 11/1998). La perdita di efficacia dell'ordinanza cautelare a norma dell'art. 309, comma 10, si verifica nel solo caso in cui il Tribunale non abbia adottato alcuna decisione nel termine stabilito, con esclusione, quindi, dell'ipotesi in cui il provvedimento del Tribunale, emesso tempestivamente, sia per qualche ragione annullabile (Cass. S.U., n. 2/1993; Cass. S.U. , n. 20/1993; Cass. S.U., n. 6/1996: nella specie: nullità per 'inosservanza del termine per la notifica dell'avviso dell'udienza di riesame, di cui al comma 8 dell'art. 309; Cass. S.U. , n. 40/1996: nel caso di specie: nullità per omesso avviso dell'udienza all'interessato che abbia proposto la relativa istanza; Cass. S.U., n. 33540/2001: nella specie, nullità dell'ordinanza di riesame dovuta all'omesso avviso della data dell'udienza camerale ad uno dei due difensori). A seguito della novella legislativa di cui all'art. 11 l. n. 47/2015, è stato introdotto un termine perentorio anche per il deposito dell'ordinanza completa di tutti i suoi elementi, e quindi anche della motivazione, stabilendo che il deposito dell'ordinanza medesima deve avvenire “in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione”. Il termine più lungo deve essere indicato nel dispositivo senza necessità di particolari formule (Cass. I, n. 11166/2016). Sul punto, una parte della giurisprudenza di legittimità si è espressa nel senso che la motivazione del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta o quarantacinque giorni «dalla decisione» per tale dovendosi intendere la data in cui il tribunale attesti, nel dispositivo, essere avvenuta la deliberazione in camera di consiglio. Di conseguenza, è da questo momento che incominciano a decorrere i termini per il deposito della motivazione (sempre che non sia contestuale), e non dalla diversa data del deposito del dispositivo che, quindi, serve solo a verificare che il primo termine previsto a pena d'inefficacia (decisione assunta entro dieci giorni dalla ricezione degli atti), sia stato rispettato e a consentire, in caso di mancato rispetto, alla parte interessata di proporre immediatamente istanza per la declaratoria di inefficacia della misura cautelare senza attendere il deposito della motivazione. Si argomenta che non può essere consentito al Tribunale «prolungare» in modo surrettizio i tempi processuali, ritardando, pur nell'ambito dei tempi massimi previsti, il deposito del dispositivo rispetto al momento, da esso stesso attestato, di assunzione della decisione. Di conseguenza, se è lo stesso tribunale che attesta, nel dispositivo, che la data della decisione è avvenuta in una certa data ed è esso stesso che stabilisce che si «riserva il deposito dei motivi in quarantacinque giorni a decorrere dalla decisione», è da questo momento che incominciano a decorrere i termini per il deposito della motivazione, e non dalla diversa data del deposito del dispositivo (Cass. II, n. 4961/2016 ; Cass. V, n. 54261/2016; Cass. V, n. 38408/2017: solo nel caso in cui il tribunale dia espressamente atto di avere adottato la decisione in una data antecedente rispetto a quella del deposito del dispositivo). Avviso contrario è stato espresso dalla prevalente giurisprudenza, la quale ha affermato che il termine entro il quale deve intervenire la decisione sulla richiesta di riesame e quello per il deposito della successiva ordinanza del tribunale devono essere intesi nel senso che il dispositivo contenente la decisione sulla richiesta di riesame deve essere depositato entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, mentre l'ordinanza del tribunale recante la motivazione deve essere depositata entro trenta giorni dal deposito del dispositivo, poiché in assenza del formale deposito non esiste alcuna decisione, la quale deve uscire dalla disponibilità del giudice ed essere esteriorizzata con modalità tali da conferirle certezza legale (Cass. VI, n. 22818/2016; Cass. II, n. 46887/2016; Cass. II n. 31409/2016; Cass. V, n. 7653/2017; Cass. II n. 19313/2017; Cass. I, n. 26399/2018; Cass. II, n. 48618/2019: quest'ultima osserva che “la ricaduta di tali generali affermazioni nel procedimento incidentale de libertate, regolato dall'art. 309, non reca alcun vulnus alla celerità del medesimo, stabilita a tutela del bene costituzionale protetto dall'art. 13 Cost., in quanto essa non altera la serrata scansione temporale, rigidamente predeterminata, che contraddistingue il procedimento stesso. Il dispositivo, contenente la decisione, deve essere depositato entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, e tale termine potrà dirsi rispettato da una pubblicazione (e non da una mera deliberazione) che intervenga nel lasso temporale stabilito; l'ordinanza del Tribunale, completa di motivazione, deve essere a sua volta depositata entro trenta giorni (o entro il maggior termine in dispositivo fissato, comunque non superiore a quarantacinque giorni) dal deposito come sopra documentato. Il mancato rispetto dei termini determina la perenzione della misura cautelare, e l'intervento fidefacente della cancelleria non fa altro che rafforzare in materia le esigenze di certezza e garanzia”). E' insindacabile la decisione da parte del tribunale di disporre di un termine superiore a quello di trenta giorni e non eccedente quello di quarantacinque per il deposito della motivazione in caso di particolare complessità di quest'ultima (Cass. II, n. 22463/2016; Cass. n. 51073/2016). Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno stabilito che nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva, il tribunale del riesame deve depositare il provvedimento nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 311, comma 5-bis, a pena di perdita di efficacia della misura, e non nel più lungo termine, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno, previsto dall'art. 309, comma 10 (Cass. S.U., n. 47970/2017). Nel giudizio di riesame, per effetto del rinvio operato dall'art. 309, comma 8, cod. proc. pen. alle forme del procedimento in camera di consiglio previste dall'art. 127 cod. proc. pen., l'avviso di deposito del provvedimento decisorio deve essere notificato al solo difensore destinatario dell'avviso di udienza e non anche a quelli nominati successivamente che, se intendono intervenire nella fase impugnatoria dell'ordinanza di riesame, hanno l'onere di adoperarsi per acquisire le necessarie informazioni dall'assistito o dal primo difensore (Cass. Sez. VI, n. 20734/2021). Termini a pena di inefficacia e esigenze cautelari eccezionaliLe "eccezionali esigenze cautelari" che - ai sensi dell'art. 309, comma 10, per come modificato dalla l. 16 aprile 2015, n. 47 - consentono di procedere alla rinnovazione della misura nel caso di perdita di efficacia dell'ordinanza applicativa dovuta all'impossibilità del Tribunale di addivenire, per ragioni formali, ad una decisione nel merito sulla richiesta di riesame, sono state identificate nella "imminenza del pericolo", inteso come elevata probabilità non soltanto della commissione delle condotte (reiterazione di ulteriori reati, fuga, inquinamento probatorio) che si intende prevenire, ma altresì delle concrete occasioni per la commissione di tali condotte. E' stato, inoltre, precisato che il grado di intensità cautelare preteso dalla disposizione citata deve ritenersi intermedio rispetto ai due estremi individuati nelle "ordinarie" esigenze cautelari di cui all'art. 274 e nelle "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza" che fondano, ai sensi dell'art. 275 e dell'art. 89 d.P.R. n. 309 del 1990, l'esclusiva necessità della custodia in carcere (Cass. III, n. 28957/2016). Altre pronunce parlano di un “pericolo straordinario, che impone una reazione cautelare eccezionale” (Cass. II, n. 47617/2016) oppure della impossibilità di “fronteggiare la ravvisata pericolosità sociale con misure diverse, atteso che il grado di tali esigenze determina la sostanziale certezza che l'indagato, ove sottoposto a misure differenti, continuerebbe nella commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede” (Cass. II, n. 24005/2016). Altre pronunce ancora sembrano esprimere un orientamento meno rigoroso, affermando che le eccezionali esigenze cautelari non richiedono un quid pluris rispetto alla situazione precedente, né la necessità di elementi nuovi sopravvenuti; tuttavia, non coincidono con una normale situazione di pericolosità, identificandosi piuttosto in una esposizione al pericolo per la collettività di tale consistenza da non risultare compensabile se non con l'imposizione di una misura coercitiva; inoltre, il grado di pericolo deve superare la concretezza e l'attualità richiesta dall'art. 274 per raggiungere la soglia della sostanziale certezza che l'indagato, ove non sottoposto a misure coercitiva, continui nella commissione di delitti della specie di quello per cui si procede (Cass. I, n. 28002/2016; Cass. II, n. 51098/2016; Cass. II, n. 16187/2017; Cass. VI, n. 53124/2017). Il rinnovo della misura cautelare deve essere specificamente motivato in ordine alla ricorrenza di eccezionali esigenze cautelari e il vizio motivazionale del provvedimento impugnato non può essere sanato dal Tribunale del riesame i cui poteri integrativi, previsti dal comma 9 dell'art. 309, possono operare esclusivamente allorquando la motivazione non sia totalmente mancante (Cass. II, n. 24798/2016 ; Cass. V, n. 23229/2018). E' stato, peraltro, precisato che non impedisce la nuova emissione di una ordinanza cautelare l'annullamento di un precedente provvedimento per motivi formali, quali la mancanza di un'autonoma valutazione da parte del G.i.p. dei requisiti normativi previsti per l'adozione della misura coercitiva, atteso che il divieto di rinnovazione, di cui all'art. 309, comma 10, non si riferisce ai casi di annullamento ex art. 309, comma 9, e che l'annullamento per motivi solo formali, non determinando alcun effetto preclusivo da "giudicato cautelare", esclude che la rinnovazione integri una violazione del principio del ne bis in idem (Cass. II, n. 18131/2016 ; Cass. VI, n. 8695/2018). La norma del comma 10 dell'art. 309 è stata sottoposta all'esame della Corte costituzionale nella parte in cui prevede che l'ordinanza che dispone una misura coercitiva – diversa dalla custodia in carcere – che abbia perso efficacia non possa essere reiterata salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate (nel caso di specie si trattava della misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa), in quanto, ad avviso del giudice a quo, la scelta applicativa di una misura coercitiva meno afflittiva di quella carceraria sarebbe sintomatica dell'assenza di esigenze cautelari eccezionali, con la conseguenza che la norma introdotta dalla citata novella finirebbe per neutralizzare o comunque per restringere eccessivamente la possibilità di reiterare i titoli cautelari nei confronti di persone già destinatarie di ordinanze applicative di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, poi caducate, sacrificando in modo irragionevole le esigenze di tutela della collettività in favore di quelle di garanzia individuale. La Corte costituzionale (sent. n. 233/2016) ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale in tal modo proposta, affermando che la norma impugnata intende impedire che «l'ordinanza che dispone la misura coercitiva» sia «rinnovata», cioè che l'ordinanza sia riemessa con la stessa motivazione, nonostante la perdita di efficacia, e che non è condivisibile la tesi del giudice rimettente secondo cui le esigenze cautelari eccezionali si possano ravvisare solo quando viene applicata la custodia in carcere, poiché “è ipotizzabile l'esistenza di un'eccezionale situazione di pericolo, che, se non fosse contrastata, determinerebbe con elevata probabilità l'evento da prevenire, e tuttavia potrebbe (e dunque dovrebbe) essere efficacemente contrastata con misure diverse dalla custodia cautelare in carcere”. (Su una questione di costituzionalità v. anche Cass. II, n. 48583/2018). Ambito del giudizio di riesameNel procedimento di riesame vale il principio della devoluzione piena, non essendo applicabile la particolare disposizione dell'art. 581 lett. c) che impone, a pena di inammissibilità, l'indicazione dei motivi di impugnazione contestualmente alla presentazione del gravame, stante la facoltatività della indicazione dei motivi a sostegno e, quindi, dell'inapplicabilità del principio tantum devolutum quantum appellatum (Cass. S.U., n. 16/1994; Cass. VI, n. 41131/2014 ; Cass. V, n. 40061/2019). Il Tribunale, inoltre, ha la stessa piena cognizione del giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo e può decidere non solo per ragioni differenti da quelle proposte a sostegno della richiesta, ma anche sulla base di elementi emersi successivamente ad essa. Ciò si desume, in primo luogo, dal disposto del comma 6 dell'art. 309, il quale prevede che con la richiesta di riesame “possono essere enunciati anche i motivi”, questi, quindi, non sono necessari; in secondo luogo, dalla previsione del comma 9 dello stesso art. 309 della possibilità di pronunciarsi anche “sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza”, annullando o riformando il provvedimento impugnato anche per “motivi diversi” da quelli enunciati ovvero confermandolo “anche per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso”. La richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell'ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell'art. 292 e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo; la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all'art. 546, con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all'accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza (Cass. S.U., n. 11/2000). Proprio perché la richiesta di riesame della misura cautelare è interamente devolutiva dei presupposti della misura, il richiedente non può limitare il potere di cognizione del Tribunale ad uno solo dei presupposti della misura, quali ad esempio le esigenze cautelari, precludendo con una rinunzia ai motivi l'esame dei gravi indizi (Cass. VI, n. 20530/2003; Cass. VI, n. 4294/2013 ; Cass. II, n. 27865/2019). Tale rinuncia, pertanto, potrà avere solo l'effetto di attenuare l'onere motivazionale del Tribunale del riesame, non dovendo, questi, rispondere a specifiche censure difensive. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano ritenuto che il rinvio a giudizio dell'imputato disposto a conclusione dell'udienza preliminare, implicando un accertamento positivo della sussistenza di elementi tali da integrare quella qualificata probabilità di affermazione della responsabilità la possibilità, in sede di riesame, di rimettere in discussione il requisito della gravità indiziaria (Cass. S.U., n. 38/1995). Successivamente, però, la Corte cost. n. 71/1996, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3, comma primo, e 24, comma secondo, Cost., gli artt. 309 e 310, nella parte in cui non consentono di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso codice, in quanto — postoché il rispetto del «principio di assorbimento» (che rappresenta il punto di equilibrio circa l'autonomia del provvedimento incidentale di libertà rispetto a quello di merito) implica che, soltanto ove intervenga una decisione che in ogni caso contenga in sé una valutazione del merito di incisività tale da assorbire l'apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, può dirsi ragionevolmente precluso il riesame di tale punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di impugnazione proposta attraverso i provvedimenti de libertate - il decreto che dispone il giudizio, comportando in presenza di prova insufficiente o contraddittoria, una deliberazione del merito orientata soltanto alla necessità del dibattimento, non può ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a fondamento dell'adozione e del mantenimento delle misure cautelari personali e, quindi, preclusivo del relativo esame in sede di impugnazione de libertate, avente ad oggetto la tutela del bene primario della libertà personale. La giurisprudenza della Corte di cassazione, tenendo presente tale dictum della Corte costituzionale, ha affermato che, anche dopo le modificazioni alla disciplina dell'udienza preliminare introdotte dalla l. n. 479/1999, al giudice investito della richiesta di riesame di una misura cautelare personale la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza non è preclusa dalla sopravvenienza del rinvio a giudizio dell'imputato per il reato in ordine al quale tale misura è stata applicata, non risultando alterata la portata della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 309 intervenuta con sentenza 15 marzo 1996 n. 71 della Corte costituzionale (Cass. S.U., n. 39915/2002). Analogamente, la disposta citazione dell'imputato a giudizio immediato, ai sensi dell'art. 453, siccome basata sulla valutazione operata dal solo pubblico ministero in ordine alla evidenza della prova, non può in alcun modo pregiudicare la diversa ed autonoma valutazione che il giudice de libertate sia chiamato ad operare circa la sussistenza o meno dei «gravi indizi di colpevolezza», richiesti dall'art. 273 per l'applicazione ed il mantenimento delle misure cautelari personali (Cass. IV, n. 31205/2003). Soltanto la sopravvenuta pronuncia di una sentenza di condanna, ancorché non definitiva, fa venir meno l'interesse dell'imputato alla procedura di riesame finalizzata alla verifica della originaria sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, salvo che risultino dedotti elementi di prova nuovi, suscettibili di dare ingresso ad una possibile diversa lettura degli indizi al momento dell'adozione della misura cautelare, restando, altrimenti, preclusa la rivalutabilità del profilo meramente indiziario di un quadro di risultanze già apprezzato, nella sua più ampia e rigorosa estensione, propria delle prove, da parte del giudice che le ha acquisite nella sede, massimamente garantita, del dibattimento (Cass. I, n. 8926/2001; Cass. I, n. 38036/2004; Cass. VI, n. 41104/2008; Cass. II, n. 5988/2014; Cass. I, n. 55459/2017). Peraltro, il giudice del riesame, quantunque non possa più valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza se il ricorrente ha già subito, in ordine ai fatti, condanna di primo grado, deve comunque motivare in ordine alle esigenze cautelari di cui alla lett. c) dell'art. 274 (concreto pericolo di commissione di gravi delitti), specialmente quando il fatto considerato risale addietro nel tempo e nel periodo precedente al giudizio il prevenuto non ha commesso ulteriori crimini (Cass. II, n. 4879/2000). Sulla base del riconoscimento della cognizione piena del tribunale del riesame, la giurisprudenza ha affermato che sia possibile confermare una misura cautelare per esigenze diverse da quelle poste alla base della sua applicazione, in quanto le esigenze cautelari rappresentano un tutto unico che rientra nella previsione dell'art. 309, comma 9 laddove consente al Tribunale di annullare o riformare in senso favorevole all'imputato il provvedimento impugnato anche per motivi diversi da quelli enunciati nell'atto di impugnazione ovvero di confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento (Cass. VI, n. 2056/1999; Cass. I, n. 43104/2005; Cass. V, n. 4446/2007; Cass. VI, n. 26317/2007; Cass. VI, n. 26458/2014 ; Cass. I, n. 55459/2017). Anche in sede di rinvio, a seguito di annullamento da parte della Cassazione di un provvedimento cautelare coercitivo, il giudice del riesame, mentre è tenuto ad applicare il principio di diritto per quanto concerne il devoluto, tuttavia, qualora sia mutata la situazione di fatto, può confermare la misura per esigenze cautelari diverse da quelle già ritenute (Cass. V, n. 929/1997). Contenuto della decisione di riesameL'art. 309 comma 9 stabilisce che il tribunale del riesame, se non deve dichiarare l'inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l'ordinanza oggetto del riesame. Il tribunale del riesame può dichiarare inammissibile la relativa istanza pur dopo l'emissione del decreto di fissazione dell'udienza camerale, in quanto le cause di inammissibilità sono sempre rilevabili anche di ufficio e il loro esame è preliminare e assorbente rispetto a ogni altra questione di ordine processuale (Cass. I, n. 4225/1998: nella specie, l'istanza è stata considerata proposta fuori termine e la relativa declaratoria è stata ritenuta preclusiva dell'esame dell'eccepita illegittimità del provvedimento di fissazione dell'udienza per omesso avviso al secondo difensore). Nei procedimenti de libertate, in caso di annullamento del provvedimento impugnato, è escluso l'effetto estensivo dell'impugnazione proposta dal coindagato diligente ai coindagati rimasti estranei al procedimento, ferma restando la possibilità, sulla base dei principi propri dell'ordinamento processuale, di estendere, ove ne ricorrano i presupposti, gli effetti favorevoli della decisione, purché non fondata su motivi personali di uno degli impugnanti, ad altro coindagato nello stesso procedimento. È stato, inoltre, precisato che l'effetto estensivo della decisione cautelare può prodursi solo nell'ipotesi di procedimento incidentale che sorga e si svolga in modo unitario e cumulativo, giacché la frammentazione e l'autonomia dei procedimenti incidentali permettono, per il margine di discrezionalità del giudice nella valutazione delle singole posizioni, una diversità di valutazioni e di decisioni, che, avendo natura provvisoria e strumentale, impedisce l'applicabilità dell'art. 587 (Cass. S.U., n. 41/1996; Cass. IV, n. 2116/1996; Cass. V, n. 334/1997; Cass. II, n.6273/2000; Cass. VI, n. 35331/2003; Cass. VI, n. 24695/2007). Alla stregua del principio fissato dall'art. 309 comma 9, secondo cui il tribunale del riesame può confermare l'ordinanza applicativa di misura cautelare anche per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione di detta ordinanza, deve riconoscersi la possibilità, per il summenzionato tribunale, di eliminare esso stesso, fissando direttamente la durata della misura, il vizio costituito dalla mancata indicazione di detta durata, in violazione del disposto di cui all'art. 292 comma 1 lett. d), nel provvedimento oggetto di riesame (Cass. I, n. 3119/1991; Cass. I, n. 554/1992; Cass. I, n. 1736/1992; Cass. III, n. 3577/1995). Rientrano nei poteri del giudice del riesame, non vincolato al principio devolutivo, non solo l'annullamento e la conferma del provvedimento impugnato, ma anche la riforma in senso favorevole all'imputato; per tale deve intendersi sia la modifica della durata e delle altre condizioni della misura imposta, sia la sua sostituzione con altra coercitiva o interdittiva (Cass. V, n. 952/1993); mentre il divieto della reformatio in pejus, quando impugnante è il solo imputato o indagato, è principio di portata generale e si applica anche in materia di riesame delle ordinanze applicative di misure coercitive (Cass. I, n. 1805/1993); in tal senso, si è ritenuto che sia illegittima la modifica ex officio della misura degli arresti domiciliari in senso maggiormente afflittivo disposta dal giudice in assenza di richiesta del P.M. (Cass. V, n. 13271/2011; Cass. VI, n. 17950/2013; Cass. II, n. 53671/2014; Cass. VI, n. 44701/2015). In applicazione del principio di legalità, al giudice è consentito sempre attribuire la corretta qualificazione giuridica al fatto descritto nell'imputazione, senza che ciò incida sull'autonomo potere di iniziativa del pubblico ministero, che rileva esclusivamente sotto il diverso profilo dell'immutabilità della formulazione del fatto inteso come accadimento materiale; è stato, peraltro, precisato che il tribunale del riesame che modifica la qualificazione giuridica del fatto deve accertarsi dell'esistenza dei presupposti di procedibilità dell'azione penale (Cass. V, n. 1936/2018: nella specie la Corte ha annullato l'ordinanza del tribunale del riesame che aveva riqualificato la condotta dal reato di maltrattamenti in famiglia in quello di cui all'art. 612-bis, comma secondo, c.p., senza verificare se vi fosse la querela). Tale facoltà spetta anche al tribunale in sede di riesame o di appello avverso le misure cautelari adottate, successivamente al rinvio a giudizio, dagli organi competenti a provvedere de libertate ai sensi degli artt. 279 e 91 disp. att., fermo restando che in tali ipotesi l'eventuale correzione del nomen iuris non può avere effetti oltre il procedimento incidentale (Cass. S.U., n. 16/1996; Cass. II, n. 4638/2000; Cass. VI, n. 18219/2003; Cass. IV, n. 20160/2004; Cass. V, n. 7468/2014; Cass. II, n. 9948/2020). Resta fermo, pertanto, che il giudice del riesame cautelare, pur avendo il potere di confermare il provvedimento applicativo della misura anche per ragioni diverse da quelle ivi indicate, trova un limite alla sua cognizione e conseguente decisione nella necessaria correlazione ai fatti posti a fondamento della misura cautelare, che non possono essere sostituiti o integrati da ipotesi accusatorie autonomamente formulate in base a dati di fatto diversi, spettando, invece, al P.m. il potere di procedere nella fase delle indagini preliminari, in qualsiasi momento ed anche nel corso dell'udienza per il riesame delle misure cautelari, alle modificazioni fattuali della contestazione (Cass. II, n. 443/2014; Cass. II, n. 24602/2015 ; Cass. II, n. 10255/2019). In dottrina (Epidendio, 2678) è stato posto in rilievo che tali affermazioni giurisprudenziali devono ormai fare i conti con il fatto che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che la portata dell'art. 6 § 3 lett. a) e b) Cedu impone un concetto ampio del principio del contraddittorio, che non si limita solo alla formazione della prova, ma che proietta i suoi effetti anche alla valutazione giuridica del fatto sicché, se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all'imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva: ciò presuppone che egli sia informato, in tempo utile, sia dell'accusa, sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico (Corte Europea, 11 dicembre 2007, depDrassich c. Italia). Tali principi, recepiti, ormai, nel nostro ordinamento processuale, risultano suscettibili di ripercuotersi anche in relazione al giudizio di riesame, ove si ritenga che anche in tale sede vi sia un “accusa" dalla quale l'imputato debba difendersi nel senso della Cedu. E seppure la cassazione abbia anche riconosciuto che la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice e` assicurata pure quando l'imputato abbia comunque avuto modo di interloquire, sul tema, in una delle fasi del procedimento e, in particolare, anche nell'ipotesi in cui la diversa qualificazione giuridica abbia formato oggetto di discussione nel corso del procedimento incidentale de libertate (Cass. I, n. 9091/2010), ciò nondimeno, questa posizione sembra implicare che tale contraddittorio debba essere assicurato anche in sede di procedimento incidentale in materia di libertà. Il tribunale del riesame non può statuire circa la configurabilità o meno di una circostanza aggravante, salvo che da quest'ultima dipenda in modo specifico la legittimità della disposta misura (come, ad esempio, qualora si faccia questione sul computo della pena edittale, in relazione alla disciplina dettata dagli artt. 278 e 280) (Cass. I, n. 6226/1997; Cass. VI, n. 50980/2013 ; Cass. VI, n. 5213/2019: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile per carenza d'interesse il ricorso con cui era stata contestata la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa senza che fossero impugnate le valutazioni in punto di pericolo di reiterazione non fondate su tale presunzione). Risolvendo un contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che l'incompetenza per territorio del giudice che ha disposto una misura cautelare è sindacabile in sede di impugnazione. La S.C. ha osservato che il potere di disporre una misura cautelare da parte di giudice incompetente, per qualsiasi causa, è del tutto eccezionale, in quanto legittimo solo se sussiste l'improrogabile necessità di salvaguardare le esigenze cautelari e che il sindacato sul corretto esercizio di tale eccezionale potere non può che essere comprensivo della valutazione dei presupposti che lo hanno attivato, e cioè sia dell'incompetenza del giudice, sia dell'urgenza del provvedimento assunto) (Cass. S.U. , n. 19/1994). E' stato precisato che l'eccezione di incompetenza territoriale sollevata dinanzi al tribunale del riesame è inammissibile per genericità se il ricorrente, nel formularla, non indichi chi debba essere, secondo la sua prospettazione, il giudice competente. (Cass. II, n. 12071/2015; Cass. III, n. 37141/2021). Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto su quale debba essere il provvedimento del Tribunale che rilevi l'incompetenza territoriale del giudice che ha disposto la misura cautelare hanno affermato il seguente principio di diritto: in tema di misure cautelari personali, il giudice dell'impugnazione che rilevi l'incompetenza di quello che ha applicato la misura ha l'onere di verificare, ai sensi dell'art. 291, comma 2, la sussistenza delle condizioni per l'adozione del provvedimento genetico, conservando il potere, nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo, di annullare lo stesso, ovvero, nel caso contrario, di provvedere ai sensi dell'art. 27, laddove ravvisi l'urgenza di anche solo una delle esigenze cautelari riscontrate. (Cass. S.U., n. 19214/2020). Peraltro, la sindacabilità, da parte del tribunale del riesame, della competenza territoriale del giudice che ha emesso il provvedimento, si esaurisce nella fase delle indagini preliminari, sicché, una volta chiusa tale fase, ogni questione concernente detta competenza resta preclusa dal sopravvenuto radicarsi della competenza del giudice che procede (Cass. I, n. 39250/2014 ; Cass. III, n. 17840/2019). In sede di riesame di misura cautelare è parimenti deducibile la violazione delle regole inerenti alla competenza funzionale riguardante i reati indicati nell'art. 51, comma 3-bis, con la conseguenza che, una volta dichiarata l'incompetenza funzionale del G.I.P. ad emettere ordinanza custodiale, a quest'ultima vada riconosciuta efficacia, nei limiti previsti dall'art. 27, a nulla rilevando la circostanza che quell'incompetenza sia dichiarata in sede di impugnazione e non direttamente dal giudice che ha emesso il provvedimento (Cass. S.U. , n. 14/1994; Cass. I, n. 4679/1994; Cass. I, n. 1655/1995). Sulla cognizione del giudice del riesame in merito alla c.d. contestazione a catena, si rinvia all'art. 297, § 4. L'omissione, da parte del giudice del riesame, della pronuncia, anche d'ufficio, della sopravvenuta perdita di efficacia della misura cautelare ai sensi dell'art. 309, comma 10, costituisce un vizio della decisione che, come tale, può essere fatto valere esclusivamente con il ricorso per cassazione nell'ambito del procedimento de libertate e non anche con la richiesta di declaratoria dell'inefficacia della misura rivolta al giudice del procedimento principale. Peraltro, nel giudizio di legittimità la predetta omissione, in quanto vizio della decisione, non può essere rilevata d'ufficio ma solo se denunciata con uno specifico, ancorché unico, motivo di impugnazione (Cass. S.U. , n. 14/2000). La natura ed il carattere totalmente devolutivo del mezzo di impugnazione costituito dal riesame contro il provvedimento coercitivo genetico riverbera particolari effetti anche in ordine all'apparato motivazionale della decisione. Allorquando tale decisione sia di conferma del provvedimento impugnato, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che in tema di motivazione dei provvedimenti sulla libertà personale, l'ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e complementari, sicché la motivazione del tribunale del riesame integra e completa l'eventuale carenza di motivazione del provvedimento del primo giudice, e viceversa (Cass. S.U., n. 7/1996). Il tribunale del riesame, pertanto, a fronte di un difetto di motivazione del provvedimento applicativo della misura coercitiva, deve porvi rimedio con le necessarie integrazioni e non annullare il provvedimento, perché solo al giudice di legittimità è dato il potere di pronunciare l'annullamento per difetto di motivazione (Cass. III, n. 15416/2011), salvo che la motivazione del provvedimento genetico sia radicalmente assente o meramente apparente, dovendo, in tali ipotesi, essere rilevata la nullità del provvedimento impugnato per violazione di legge (Cass. II, n. 12537/2014); in particolare, si è affermato che il tribunale del riesame ha il potere-dovere di integrare le insufficienze motivazionali dell'ordinanza di custodia cautelare relative alla valutazione di inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari con l'uso del braccialetto elettronico atteso che l'art. 309 comma 9 non prevede quale causa di annullamento dell'ordinanza cautelare la mancanza di indicazioni sull'adeguatezza della misura (Cass. II, n. 10150/2016). Trattasi di principi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, mantengono la loro attualità anche a seguito della novella del 2015, essendosi infatti affermato che la normativa introdotta con la l. n. 47/2015, nella parte in cui modifica le disposizioni in tema di motivazione delle ordinanze cautelari, di cui agli artt. 292 e 309, prevedendo che “il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l'autonoma valutazione, a norma dell'art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa” non ha carattere innovativo, ma adegua la formulazione delle norme alla preesistente giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto necessario che la ordinanza di custodia cautelare abbia comunque un chiaro contenuto indicativo della concreta valutazione della vicenda da parte del giudicante (Cass. VI, n. 44605/2015; Cass. II, n. 49175/2015; Cass. VI, n. 40978/2015; Cass. III, n. 48962/2015; Cass. V, n. 3581/2016; Cass. I, n. 8323/2016); ne consegue che, al di fuori di tali ipotesi, resta fermo che la motivazione dell'ordinanza che decide sulla richiesta di riesame, atteso lo stretto collegamento e la complementarietà esistente con quella genetica, integra e completa l'eventuale carenza o insufficienza della motivazione del provvedimento del primo giudice, laddove, ovviamente, si tratti di integrazione propriamente detta e non di colmare una lacuna motivazionale qualificata dalla stessa novella del 2015 in termini di assenza di motivazione o di assenza dell'autonoma valutazione delle esigenze cautelari. È stato altresì, precisato che la norma che impone al giudice l'obbligo del vaglio critico delle risultanze investigative tramite un'attività ricostruttiva ed esplicativa, non implica, con riferimento all'esposizione della parte narrativa del provvedimento, la necessità di una riscrittura originale del testo della richiesta del P.m. (Cass. III, n. 48962/2015; Cass. VI, n. 13864/2017). In definitiva, anche a seguito delle modifiche apportate dalla l. 16 aprile 2015, n. 47all'art. 309, comma 9, il potere-dovere del tribunale del riesame di integrare le insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera nelle ipotesi di motivazione mancante o apparente, quale quella in cui il primo giudice si sia limitato ad una sterile rassegna delle fonti di prova a carico dell'indagato, in assenza di qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli specifici elementi reputati indizianti, limitandosi il G.i.p. a riportare nell'ordinanza la richiesta del pubblico ministero, ratificandone la valutazione con formule di stile (Cass. II, n. 46136/2015; Cass. V, n. 643/2018). Ancora è stato affermato che il tribunale del riesame non può confermare l'ordinanza genetica integrandone la motivazione solo nel caso in cui tale motivazione sia assente (oltre che nei casi di mancanza della autonoma motivazione sulle esigenze cautelari, sugli indizi e sugli elementi forniti dalla difesa), ma non nel caso di motivazione insufficiente, con la conseguenza che, in particolare, il tribunale può integrare la motivazione dell'ordinanza impugnata nel caso in cui questa motivi solo sulle esigenze cautelari ex art. 274, ma non anche su quelle di eccezionale rilevanza di cui all'art. 275, comma 4, che sono di grado superiore rispetto a quelle oggetto della motivazione ex art. 274, trattandosi di una ipotesi di insufficienza di motivazione non incidente sull'"an" ma solo sulla scelta della misura, non rientrante nel divieto di cui all'art. 309, comma 9 (Cass. III, n. 19700/2018 ). Il c.d. giudicato cautelareLa necessità, in un sistema di impugnazioni di provvedimenti cautelari, di definire i rapporti tra le decisioni assunte nei diversi procedimenti incidentali dello stesso procedimento principale ovvero i rapporti tra impugnazione e istanze di revoca o ulteriori richiesta di misura cautelare, ha condotto la giurisprudenza di legittimità alla creazione di una specifica figura di preclusione denominata “giudicato cautelare” (per l'efficacia preclusiva del giudicato cautelare sul potere di iniziativa del pubblico ministero v. sub art. 291, § 3). È stato, pertanto, affermato il principio secondo il quale, anche alle ordinanze, non impugnate, adottate dal tribunale exartt. 309 e 310 in sede di riesame o di appello avverso provvedimenti de libertate, nonché alle pronunzie emesse dalla cassazione a seguito di ricorso contro tali ordinanze, o in sede di ricorso per saltum contro il provvedimento applicativo della misura, va riconosciuta una sia pur limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale, fondata sul principio del ne bis in idem, di cui all'art. 649. Pertanto soltanto un successivo, apprezzabile mutamento del fatto consente sia la reiterazione di un'ordinanza applicativa di misure cautelari, annullata dal tribunale del riesame per ragioni di merito, con pronunzia non più soggetta a gravame, sia la revoca, per inidoneità degli indizi, della medesima ordinanza, la quale sia stata, invece, confermata in sede di gravame o sia, comunque, divenuta definitiva, sia, infine, la reiterazione di una richiesta di revoca, qualora un'ordinanza di rigetto di una precedente istanza sia stata confermata in sede di impugnazione (Cass. S.U. , n. 11/1992;Cass. S.U. , n. 20/1993). Avendo carattere “endoprocessuale” non può invocarsi l'effetto preclusivo del giudicato cautelare nell'ambito di un diverso procedimento cautelare (Cass. VI, n. 54045/2017). La preclusione processuale è suscettibile di formarsi a seguito delle pronunzie emesse, all'esito del procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal Tribunale in sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure cautelari; ma essa ha una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata, sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di misure cautelari personali, intendendosi queste ultime come le questioni che quantunque non enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di quelle espressamente dedotte. Ne consegue che le pronunzie in esame — se non impugnabili o, a loro volta, non impugnate — spiegano un'efficacia preclusiva sulle suindicate questioni e che, pertanto, come non è consentita l'adozione di una nuova ordinanza cautelare sulla base degli stessi elementi ritenuti insussistenti o irrilevanti in sede di gravame, allo stesso modo le questioni in discorso restano precluse in sede di adozione di ogni successivo provvedimento relativo alla stessa misura e allo stesso soggetto. Pertanto, il giudice competente a pronunciarsi sulla revoca della misura cautelare non incontra alcuna preclusione — quanto all'accertamento della carenza originaria (oltre che persistente) di indizi o di esigenze cautelari — nella mancata impugnazione dell'ordinanza cautelare nei termini (Cass. S.U. , n. 11/1994 da ultimo: Cass. I, n. 47482/2015; Cass. V, n. 12745/2024), neanche in assenza di fatti sopravvenuti. (Cass. S.U., n. 29952/2004); d'altro canto, invece, il giudice richiesto della revoca di una misura cautelare personale, rispetto alla quale sia già stata proposta istanza di riesame a suo tempo disattesa, qualora escluda l'intervento di fatti nuovi atti a modificare l'originario quadro, non ha alcuno specifico onere di motivazione né in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, né in ordine alle esigenze cautelari come in precedenza ritenuti e fatti oggetto di valutazione (Cass. VI, n. 1497/1995; Cass. VI, n. 35647/2003). È stato, in particolare affermato che le ordinanze in materia cautelare, quando siano esaurite le impugnazioni previste dalla legge, hanno efficacia preclusiva endoprocessuale riguardo alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte, con la conseguenza che una stessa questione, di fatto o di diritto, una volta decisa, non può essere riproposta, neppure adducendo argomenti diversi da quelli già presi in esame e che, pertanto, non possa valere a rimuovere l'effetto preclusivo il mero sopravvenire di una sentenza della Corte di cassazione che esprima un indirizzo giurisprudenziale diverso da quello seguito dall'ordinanza che ha deciso la questione controversa (Cass. S.U. , n. 14535/2007). Tale affermazione di principio, peraltro, può essere oggetto di ulteriore riflessione alla luce della successiva sentenza delle Sezioni Unite che, con riferimento al c.d. giudicato esecutivo, hanno affermato che Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata, in quanto tale soluzione sarebbe imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale (Cass. S.U., n. 18288/2010). Infatti, è stato successivamente ritenuto che il mutamento giurisprudenziale intervenuto con decisione delle Sezioni Unite o anche di una delle Sezioni della Corte di cassazione nel normale esercizio della funzione nomofilattica, purché connotato da caratteristiche di stabilità ed univocità, integra un "nuovo elemento" di diritto, idoneo a legittimare la riproposizione di richiesta di revoca o modifica di misura cautelare personale non più suscettibile di gravame (Cass. III, n. 47042/2015 ; Cass. VI, n. 14433/2020: in motivazione, la Corte ha precisato che il regime di stabilità delle sentenze delle Sezioni Unite, conseguente alla novella dell'art.618 cod.proc.pen., non consente di assimilare il mutamento giurisprudenziale alla successione di leggi processuali nel tempo applicabili anche nel giudizio di rinvio disposto a seguito di annullamento, in base al principio "tempus regit actum" ) . Per converso, non può costituire "elemento nuovo", idoneo a rimuovere l'effetto preclusivo provocato dal cd. giudicato cautelare, il mero sopravvenire di una sentenza della Corte di cassazione che ha espresso un indirizzo giurisprudenziale minoritario, diverso da quello seguito dal provvedimento che ha già deciso la questione controversa, né la successiva riunione nella fase delle indagini preliminari del procedimento in cui è stata adottata la misura con quello in cui è intervenuta la predetta decisione della Suprema Corte, poiché il provvedimento di riunione ha natura meramente organizzativa, essendo privo di qualsiasi stabilità e significatività ai fini del mutamento del quadro accusatorio. ( Cass. III, n. 43193/2018). Le spese del procedimentoIn mancanza di una disposizione espressa sulla condanna alle spese del procedimento incidentale, la giurisprudenza ha ritenuto che, avendo il riesame natura di mezzo di impugnazione, deve trovare applicazione, anche con riguardo ad esso, il principio generale fissato in materia di spese dall'art. 592, comma 1; pertanto, atteso che l'ordinanza di rigetto o di inammissibilità del gravame, pronunziata dal tribunale, esaurisce in via definitiva il procedimento incidentale e determina la soccombenza dell'istante, legittimamente viene disposta, in tale provvedimento, la condanna al pagamento delle spese processuali (Cass. S.U., n. 26/1995). La condanna al pagamento delle spese processuali può essere disposta dal giudice anche se l'impugnazione sia dichiarata inammissibile per sopravvenuta rinuncia al ricorso di fronte al tribunale del riesame, motivata dalla volontà di evitare un effetto pregiudizievole conseguente alla decisione e ciò in forza del principio della soccombenza virtuale, in quanto il comportamento dell'impugnante abbia evidenziato non la carenza di interesse ma un suo interesse rafforzato rispetto alla decisione che si è voluto evitare (Cass. II, n. 31446/2003). Peraltro, la disposizione che esonera dal pagamento delle spese processuali la persona minore d'età al momento del fatto contestato, pur testualmente dettata per il caso di «sentenza di condanna» (art. 29 d.lgs. n. 272/1989), si applica analogicamente al procedimento incidentale di riesame, ove la condanna al pagamento delle spese processuali non può essere deliberata neppure in caso di rigetto del ricorso (Cass. IV, n. 44481/2004) BibliografiaAprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2006; Bassi-Epidendio, Guida alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, III, Milano, 2008; Ceresa Gastaldo, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993; De Robbio, Le misure cautelari personali, Milano, 2016; Epidendio, Codice di procedura penale, a cura di Canzio - Tranchina, artt. 309-311, Milano, 2012; Ferraioli, Il riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, Milano, 1989; Guido, Il giudicato cautelare, Torino, 2000; La Rocca, Il riesame delle misure cautelari personali, Milano, 2012; Marzaduri, voce Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. d. pen., VIII, Torino, 1994, 59; Marzaduri, Giusto processo e misure cautelari, in AA.VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris, Torino, 2002, 254; Monti, Il giudizio dinanzi al Tribunale del riesame, Milano, 2006; Polvani, Le impugnazioni ‘‘de libertatè', Padova, 1999; Sbrana, Le impugnazioni avverso i provvedimenti cautelari personali. Riesame, appello, ricorso in Cassazione, Padova, 2009; Spagnolo, Il Tribunale della libertà. Tra normativa nazionale e normativa internazionale, Milano, 2008; Spangher, Le misure cautelari personali, in Procedura penale teoria e pratica del processo, Torino, 2015; Terrusi, Le misure personali di coercizione, Torino, 2000; Virgilio, Il riesame delle misure cautelari personali, Napoli, 2005. |