Codice di Procedura Penale art. 314 - Presupposti e modalità della decisione 1 2 .1. Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile [648] perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato [530], ha diritto a un'equa riparazione [102-bis att.; 2452g trans.] per la custodia cautelare [284-286, 297, 380, 381, 384] subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave [643]. L'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo34. 2. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa [529-531] o al condannato [533] che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 56. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione [408, 409, 411] ovvero sentenza di non luogo a procedere [425] 7. 4. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena [657] ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo [297, 298]. 5. Quando con la sentenza o con il provvedimento di archiviazione è stato affermato che il fatto non è previsto dalla legge come reato per abrogazione della norma incriminatrice [2 c.p.], il diritto alla riparazione è altresì escluso per quella parte di custodia cautelare sofferta prima della abrogazione medesima.
[1] Ai sensi del comma 1 dell'art. 3 bis del d.l. 22 dicembre 2011. n. 211, conv., con modif., in l. 17 febbraio 2012, n. 9: «le disposizioni dell'articolo 314 del codice di procedura penale si applicano anche ai procedimenti definiti anteriormente alla data di entrata in vigore del medesimo codice, con sentenza passata in giudicato dal 1° luglio 1988». [2] La Corte cost., con sentenza 25 luglio 1996, n. 310, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui «non prevede il diritto all'equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione». Successivamente la stessa Corte, con sentenza 20 giugno 2008, n. 219, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui «nell'ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, secondo quanto precisato in motivazione». [3] Periodo aggiunto dall'articolo 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188. [4] La Corte cost., con sentenza 2 aprile 1999, n. 109, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui «non prevede che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare». [5] La Corte cost., con sentenza 2 aprile 1999, n. 109, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui «non prevede che lo stesso diritto nei medesimi limiti spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insufficienti le condizioni per la convalida». [6] La Corte cost., con sentenza 16 luglio 2004, n. 231, nel dichiarare non fondata una questione di legittimità costituzionale dell'art. 394 nella parte in cui, in tema di estradizione passiva, non prevede la riparazione per ingiusta detenzione nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda dello Stato estero che si accerti carente di giurisdizione, ha precisato che l'ipotesi rientra nell'art. 314, comma 2, nella misura in cui risulti ex post accertata l'insussistenza delle specifiche condizioni di applicabilità delle misure coercitive che per i soggetti in discorso vanno individuate, ex art. 714 comma 3, nelle «condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione». [7] La Corte cost., con sentenza 23 dicembre 2004, n. 413, nel dichiarare non fondata nei sensi di cui in motivazione una questione di costituzionalità, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24 Cost., ha affermato che il presente comma «va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell'indagato la cui posizione sia stata archiviata per "morte del reo", qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l'insussistenza del fatto al lui addebitato». InquadramentoL'art. 314 riconosce il diritto ad ottenere una equa riparazione per la custodia cautelare ingiustamente subita, in adeguamento a quanto previsto dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo che all'art. 5, paragrafo 5 prescrive che «ogni persona vittima di un arresto o di una detenzione, eseguiti in violazione alle disposizioni di questo articolo, ha diritto ad un indennizzo». Il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione, si colloca nel genus dell'errore giudiziario, la cui riparazione è prevista dall'art. 24 Cost., ma è stato introdotto nella legislazione vigente solo con gli artt. 314 e 315, anche in adeguamento all'art. 5 paragrafo 5 della C.E.D.U. e a quanto previsto nell'art. 9, paragrafo 5 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881). Il comma 1 prevede le ipotesi di carattere sostanziale e il comma 2 prevede le ipotesi di carattere formale. L'art. 3-bis d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, conv., con modif., in l. 17 febbraio 2012, n. 9, ha esteso l'applicazione delle disposizioni dell'art. 314 ai procedimenti definiti anteriormente alla data di entrata in vigore del codice di procedura penale, con sentenza passata in giudicato dal 1° luglio 1988. Natura giuridica della riparazioneL'art. 314 detta una norma che, in quanto ricognitiva di un diritto ha natura sicuramente sostanziale e, riconoscendo il diritto all'equa riparazione pone lo Stato in una condizione di soggezione, che la pronuncia del giudice, sollecitata dalla parte privata, può trasformare in una situazione giuridica nuova connotata dalla nascita di un obbligo concreto e specifico. Obbligo che non preesiste, quindi, alla richiesta di riparazione; esso è creato dal giudice previo accertamento dei presupposti — come recita il titolo dell'articolo citato — per una decisione favorevole. In altri termini, il privato cittadino, che sia stato detenuto ingiustamente, diviene titolare del potere di determinare un effetto giuridico a proprio vantaggio e a carico della pubblica amministrazione, servendosi di un provvedimento giurisdizionale che rappresenta l'atto generatore del suo credito (Cass. S.U., n. 24287/2001). La riparazione per ingiusta detenzione costituisce uno strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli (patrimoniali e non) procurate dalla privazione della libertà, attraverso un sistema di chiusura con il quale l'ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente, ma senza colpe, compressa, correlando, perciò, la quantificazione dell'indennizzo alla sola durata ed intensità della privazione della libertà, salvo gli aggiustamenti resi necessari dall'evidenziazione di profili di pregiudizio più vasti ed esuberanti rispetto al «fisiologico» danno da privazione della libertà (Cass. IV, n. 21077/2014). In altri termini, è stato affermato che la posizione del cittadino, ingiustamente detenuto, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo, cui corrisponde l'obbligo dello Stato, correlati ad una prestazione corrispondente al pagamento di una somma di denaro. Trattasi di un rapporto di tipo obbligatorio definibile come «obbligazione pubblica» o di «diritto pubblico», perché la sua fonte non è una di quelle previste dal diritto privato, la cui fattispecie costitutiva non può essere ricondotta ad un'ipotesi di fatto illecito; un atto del pubblico potere, quale quello che ha determinato la sottoposizione dell'imputato alla custodia cautelare, non può, infatti, essere qualificato come illecito, né sotto il profilo della clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., né sub specie di illecito tipico, stante il suo carattere autoritativo, il quale non viene eliminato a seguito della sentenza di proscioglimento (Cass. II, n. 2823/1991). Presupposti della riparazione
In genere L'art. 314 prevede il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione nelle ipotesi specificamente individuate nei primi tre commi e ulteriormente precisate dalla giurisprudenza della Corte Suprema di cassazione. Sentenza di proscioglimento Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è riconosciuto dal comma 1, che definisce i presupposti di carattere sostanziale, nel caso in cui il soggetto sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Il diritto all'equa riparazione per la custodia cautelare subita spetta a chi è stato prosciolto con una delle formule specificamente indicate e a tal riguardo non ha rilievo se a tale formula il giudice penale sia pervenuto per la accertata prova positiva di non colpevolezza, ovvero per la insufficienza o contraddittorietà della prova, se cioè l'assoluzione sia stata pronunziata ai sensi del primo o del secondo comma dell'art.530 (Cass. IV, n. 1295/1995; Cass. IV, n. 2365/2000; Cass. IV, n. 22924/2004). La Corte costituzionale, con sentenza n. 109/1999, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 comma 1, nella parte in cui non prevede che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziati di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare, quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida. La Corte stessa, oltre a rilevare che la diversità della situazione di chi abbia subito detenzione a causa di una misura cautelare, rispetto a quelle di chi sia stato colpito da un provvedimento di arresto o fermo, non è tale da giustificare un trattamento così discriminatorio, ha anche posto in luce il fondamento squisitamente solidaristico della riparazione per l'ingiusta detenzione, di modo che, in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, in ragione della qualità del bene offeso si deve avere riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa. Mancanza delle condizioni di applicabilità della misura cautelare Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è riconosciuto dal comma 2, che definisce presupposti di carattere formale, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280. Stante la tassativa formulazione del suddetto comma 2, non sono idonee a fondare il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione, né la violazione dell'art. 274, relativo alle esigenze cautelari, né l'inosservanza dei principi di adeguatezza e proporzionalità delle misure, enunciati nell' art. 275, mentre, invece, tale diritto si configura ove sussista una causa di illegittimità enucleabile dall'art. 273 o dall'art. 280. Peraltro, fra le ipotesi di illegittimità elencate nell'art. 273 rilevano soltanto l'assenza, all'epoca dell'applicazione o della conferma della misura, di gravi indizi di colpevolezza, ovvero la presenza, in quelle stesse date, di cause di non punibilità, di estinzione del reato o di estinzione della pena che si ritenga irrogabile, e non anche la sussistenza di cause di giustificazione, posto che questa, implicando l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato, rientra nella diversa previsione di cui al comma 1 dell'art. 314 (Cass. S.U. , n. 20/1993). È ammissibile la domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione sofferta per l'applicazione di una misura di custodia cautelare disposta in relazione ad un reato per il quale non si sarebbe potuto procedere per litispendenza di altro procedimento, anche se non definito con sentenza irrevocabile, per il medesimo fatto (Cass. III, n. 19385/2016). Ai fini della configurabilità dell'ingiustizia formale ex art. 314, comma 2, è necessario che l'illegittimità del provvedimento che ha disposto la misura cautelare, in quanto adottato o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280, risulti accertata con decisione irrevocabile che non può provenire dal giudice della riparazione, il quale non è investito della questione, ma solo dal giudice cautelare, sollecitato tramite impugnazione, o dallo stesso giudice del merito (Cass. IV, n. 5455/2019). Ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione sofferta a seguito dell'emissione di un mandato di arresto europeo, non è necessario che sia stata pronunziata, nello Stato di emissione, una sentenza irrevocabile di proscioglimento dell'arrestato, né è richiesta al giudice della riparazione la verifica dell'esistenza delle condizioni per la pronunzia di una sentenza favorevole alla consegna, essendo sufficiente che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di rifiuto della stessa (Cass. IV, n. 20255/2023). L'illegittimità della misura cautelare, ai sensi del comma 2 dell' art. 314, può risultare, anche in modo implicito, dalla stessa sentenza definitiva di merito (Cass. IV, n. 38192/2009). Provvedimento di archiviazione Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è riconosciuto dal comma 3 anche quando è stato pronunciato provvedimento di archiviazione. Se l'archiviazione è stata disposta in uno dei casi previsti dall'art. 314, comma 1, (perché il fatto non sussiste, perché l'imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) e quindi per manifesta infondatezza della notizia di reato, (giusta la previsione dell'art. 125 delle disposizioni attuazione al codice di rito) non è richiesta l'ulteriore condizione della «decisione irrevocabile» sulla ingiustizia della detenzione, posta dall'art. 314 per gli altri casi di archiviazione per motivi diversi da quelli di merito (Cass. IV, n. 2692/1999; Cass. IV, n. 4492/2006; Cass. IV, n. 38167/2013: fattispecie nella quale la Corte ha negato la riparazione in presenza di un decreto di archiviazione per prescrizione del reato). La Corte cost. n. 413/2004 ha affermato che è infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24, comma 4, Cost., dell'art. 314, comma 3, nella parte in cui non prevedrebbe che la riparazione per l'ingiusta detenzione venga riconosciuta anche in caso di archiviazione per morte del reo, qualora successivamente sia stata pronunciata nei confronti dei coimputati, sulla base del medesimo materiale probatorio, sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste. Ove si consideri, infatti, alla luce dei principi posti dagli artt. 2, 3, 13 e 24, comma 4, Cost., che ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione rileva unicamente una privazione della libertà personale rivelatasi a posteriori comunque ingiusta, gli effetti dell'assoluzione con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, pronunciata nei confronti dei coimputati della persona la cui posizione era stata archiviata per morte, non possono non essere estesi agli eredi di tale soggetto qualora emerga incontrovertibilmente che anch'egli sarebbe stato assolto con la medesima formula adottata per i concorrenti nel reato, se non fosse deceduto prima della conclusione del procedimento Sentenza di non luogo a procedere Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è riconosciuto dal comma 3 anche quando è stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, la cui pronuncia si sostanzia nell'adozione di formule tipiche e dà luogo ad una situazione assimilabile a quella prevista dal comma 1 dell'art. 314, quando sia stata adottata una delle formule ivi indicate, ed a quella contemplata dal comma 2 dell'art. 314, quando si tratti di una causa diversa. In quest'ultima ipotesi, pertanto, occorre la decisione irrevocabile con la quale sia rimasta accertata la illegittimità della sofferta custodia cautelare per difetto di una o più tra le condizioni di cui agli artt. 273 e 280 (Cass. IV, n. 1345/1996). Il diritto alla riparazione sorge solo in presenza di una delle formule di proscioglimento previste dal comma 1 e detto principio di tassatività opera anche nel caso previsto dal comma 3 che ha esteso il diritto alla riparazione anche per le sentenze di non luogo a procedere. Pertanto, deve escludersi il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione qualora sia stata emessa una sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità del minore, in quanto non espressamente prevista e tenuto conto che tale delibazione postula il necessario accertamento di responsabilità dell'imputato (Cass. IV, n. 12784/2003; Cass. IV, n. 15237/2018). Difetto di condizioni di applicabilità per diversa qualificazione giuridica Si registra un contrasto giurisprudenziale con riferimento alla sussistenza del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione anche nell'ipotesi di misura cautelare applicata in difetto di una condizione di procedibilità, la cui necessità sia stata accertata soltanto all'esito del giudizio di merito in ragione di diversa qualificazione attribuita ai fatti rispetto a quella ritenuta nel corso del procedimento cautelare. Secondo un primo orientamento, il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione sorge anche a seguito dell'accertamento nel giudizio di merito della mancanza delle condizioni originarie di applicabilità della misura cautelare a seguito della diversa qualificazione del fatto contestato nell'imputazione rispetto a quella ritenuta nel corso del procedimento cautelare (Cass. VI, n. 42022/2006; Cass. IV, n. 36907/2007; Cass. IV, n. 23896/2008; Cass. IV, n. 44596/2009; Cass. IV, n. 43458/2013; Cass. IV, n. 39535/2014; Cass. IV, n. 29340/2018). Si osserva che la formula assolutoria utilizzata rende incompatibile la fattispecie con le ipotesi di ingiusta detenzione descritte nel primo comma dell'art. 314, ma non con quelle di ingiustizia formale prese in considerazione nel secondo comma dello stesso articolo. Si afferma, infatti, che l'ingiustizia formale non deve essere accertata esclusivamente attraverso il giudicato cautelare, giacché quest'ultimo non esaurisce la nozione di «decisione irrevocabile» necessaria alla certificazione dell'ingiustizia della detenzione secondo quanto disposto dalla norma da ultima menzionata. Dunque, secondo tale orientamento, la ridefinizione dell'imputazione avvenuta in sede di merito che evidenzi l'originario difetto di una condizione di procedibilità (da annoverare tra le cause di non punibilità ostative all'applicazione delle misure cautelari personali ai sensi dell'art. 273, comma 2) deve considerarsi idonea — come l'analoga decisione assunta nell'incidente cautelare — a far sorgere il diritto all'indennizzo. Ancora di recente si è affermato che sussiste il diritto alla riparazione ai sensi dell'art. 314,, comma 2, nel caso in cui l'ingiustizia della detenzione consegua alla derubricazione del reato contestato in ipotesi non costituente reato, tale da rendere illegale "ex post" il provvedimento restrittivo assunto in difetto delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 (Cass. IV, n. 10529/2021: fattispecie in tema di derubricazione del reato di corruzione nell'ipotesi di cui all'art. 115, ultimo comma, c.p.). Secondo un orientamento più risalente, invece, deve ritenersi escluso il diritto alla riparazione nella suddetta ipotesi, poiché non è intervenuta una sentenza di proscioglimento nel merito, né una decisione irrevocabile che abbia accertato la violazione originaria degli artt. 273 e 280 (Cass. IV, n. 36/1999; Cass. IV, n. 40126/2002; Cass. IV, n. 26368/2007). Si osserva che in tal caso l'applicazione della misura è originariamente legittima e manca il titolo del diritto alla riparazione, che sorge esclusivamente se, in seguito alla derubricazione, la custodia cautelare sia illegittimamente mantenuta, come si ricava dalla seconda previsione contenuta nell'art. 314. Applicazione provvisoria di misura di sicurezza È ammissibile la richiesta di riparazione per la ingiusta detenzione in relazione alla restrizione della libertà indebitamente sofferta per l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza poiché essa è equiparata alla custodia cautelare come enunciato dall'art. 313, comma 3 che richiama l'art. 314 Tra le misure di sicurezza suddette sono comprese il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (Cass. IV, n. 5001/2009) e il ricovero in una casa di cura (Cass. IV, n, 11086/2013). Plurime imputazioni Quando il provvedimento restrittivo della libertà sia fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di queste — sempreché autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà — impedisce il sorgere del diritto, irrilevante risultando il pieno proscioglimento dalle altre imputazioni (Cass. IV, n. 5621/2014 ; Cass. IV, n. 29623/2020). Interventi della Corte costituzionaleLa Corte Costituzionale, con varie altre (oltre quelle sopra citate) pronunce sia di illegittimità costituzionale che interpretative ha riconosciuto che il diritto all'ingiusta detenzione, spetta anche in ulteriori casi rispetto a quelli espressamente previsti dall'art. 314. Erroneo ordine di esecuzione La Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione deve essere riconosciuto anche nel caso di detenzione patita ingiustamente a causa di erroneo ordine di esecuzione. La stessa Corte, infatti, con la sentenza Corte cost. n. 310/1996 ha affermato che è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, comma primo, e 24, comma quarto, Cost., l'art. 314, nella parte in cui non prevede il diritto all'equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, sia perché la diversità di trattamento della situazione sofferta da chi abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare (che in prosieguo sia risultata iniqua) e chi sia rimasto vittima di un ordine di carcerazione arbitrario non è tale da giustificare un trattamento così discriminatorio, al punto che la prima situazione venga qualificata ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda venga invece dal legislatore completamente ignorata, tenuto conto che l'ordine di carcerazione illegittimo offende la dignità della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta; sia perché l'omissione del legislatore risulta ingiustificata laddove è prefigurata (art. 2, comma primo, n. 100, l. n. 81 del 1987), accanto alla riparazione dell'errore giudiziario, anche la riparazione per l'«ingiusta detenzione», nonché laddove (art. 2, comma primo, stessa legge) si prevede l'adeguamento del nuovo codice alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, in considerazione del fatto che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (resa esecutiva con l. n. 848 del 1955) prevede espressamente, all'art. 5, il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta. In caso di condanna Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 314, censurato nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta, la Corte cost, (Corte cost. n. 219/2008) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 314, nella parte in cui, nell'ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni. L'istituto della riparazione abbraccia i casi di oggettiva lesione della libertà personale, che sia comunque ingiusta alla luce di una valutazione ex post, e si pone come strumento indennitario per l'ipotesi in cui il provvedimento cautelare, anche se sorto e mantenuto in vigore legittimamente, si sia rivelato successivamente ingiusto. Tuttavia, la norma condiziona espressamente il rimedio alla circostanza che, all'esito del giudizio, l'imputato sia stato prosciolto nel merito: tale scelta appare manifestamente irragionevole, e pertanto lesiva dell'art. 3 Cost., poiché non è costituzionalmente ammissibile che l'incidenza che la custodia cautelare ha esercitato sul bene inviolabile della libertà, nella fase anteriore alla sentenza definitiva, possa essere apprezzata con esclusivo riferimento al caso di assoluzione nel merito: se un sacrificio della libertà vi è stato, il meccanismo solidaristico della riparazione non può che attivarsi a prescindere dall'esito del giudizio. Solo in apparenza la posizione di chi sia stato prosciolto nel merito si distingue da quella di chi sia stato condannato (ovviamente, quanto al solo giudizio circa l'ingiustizia della custodia cautelare che soverchi la pena inflitta), poiché in entrambi i casi l'imputato ha subito una restrizione del proprio diritto inviolabile, ed in entrambi i casi ricorre l'obbligo costituzionale di indennizzare tale pregiudizio. Sono assorbite le ulteriori censure, svolte con riguardo agli artt. 2, 13 e 24 Cost. La Corte ha, poi, precisato, che una volta dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 314 in parte qua spetterà ai giudici comuni quantificare l’indennizzo, posto che la distinzione tra prosciolto e condannato, irrilevante ai fini dell’an debeatur, torna ad avere rilievo in sede di determinazione del quantum debeatur. Proscioglimento per precedente giudicato Per rispondere alla questione di costituzionalità sollevata con riferimento all'art. 314, censurato nella parte in cui non consente il riconoscimento di un'equa riparazione anche a chi abbia subito un periodo di custodia cautelare per un fatto dal quale sia stato poi prosciolto ai sensi dell'art. 649, la Corte costituzionale (n. 230/2004) ha dichiarato non fondata la questione stessa sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 76 della Costituzione, ma ha precisato che l'art. 314 va interpretato in senso conforme al fondamento solidaristico della riparazione per l'ingiusta detenzione, per cui può affermarsi che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si ricollega alla presenza di una oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ex post. Di conseguenza, se può convenirsi con il remittente allorquando esclude che l'ipotesi sottoposta alla sua cognizione possa essere ricondotta alla previsione di cui all'art. 314, comma 1, stante la tassatività delle ipotesi di proscioglimento nel merito in quella disposizione considerate quale presupposto per il diritto all'equa riparazione, non è invece condivisibile la conclusione del giudice a quo per quanto riguarda l'affermata impossibilità di ricondurre la fattispecie al suo esame tra quelle per le quali l'art. 314, comma 2, configura la possibilità della riparazione per l'ingiusta detenzione, posto che tale disposizione — che prevede che il diritto all'equa riparazione spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile sia accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 — non esclude che l'accertamento negativo circa la sussistenza di dette condizioni consegua in modo implicito ad una sentenza irrevocabile che accerti che l'azione penale non poteva essere esercitata perché preclusa da precedente giudicato, visto che non può non concludersi che anche la misura cautelare disposta per il medesimo fatto per il quale l'imputato era già stato giudicato risulta priva dei requisiti che ne legittimano l'adozione, stante l'evidente nesso di strumentalità dell'azione cautelare rispetto all'azione penale. Estradizione passiva La Corte costituzionale (n. 231/2004) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 314, censurato nella parte in cui, in tema di estradizione passiva, non prevede la riparazione per ingiusta detenzione nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda dello Stato estero che si accerti carente di giurisdizione e sollevata in riferimento agli artt. 2,3,13 e 24 della Costituzione, ma ha affermato che il suddetto art. 314 va interpretato in senso conforme al fondamento solidaristico della riparazione per l'ingiusta detenzione, per cui può affermarsi che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si ricollega alla presenza di una oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ex post. Tale interpretazione, oltre a consentire una lettura della disciplina censurata conforme a Costituzione, è avvalorata da significative indicazioni normative, anche di natura sovranazionale, quali l'art. 2, n. 100, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, dove si enuncia la direttiva della riparazione dell'ingiusta detenzione, senza alcuna distinzione o limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le "ragioni" dell'ingiustizia; ovvero come l'alinea dell'art. 2 della citata legge delega, il quale stabilisce che il nuovo codice deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia relative ai diritti della persona e al processo penale, tra le quali la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, che prevedono rispettivamente, nell'art. 5, § 5, e nell'art. 9, § 5, il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione. La giurisprudenza della Corte di cassazione ha precisato che, in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, la privazione della libertà personale sofferta nell'ambito di una procedura di estradizione passiva può essere ritenuta ingiusta anche nel caso in cui tale procedimento si concluda, non con una decisione sfavorevole all'estradizione, ma con una pronuncia di natura strettamente processuale, quale il non luogo a provvedere in ragione dell'allontanamento dell'estradando (Cass. IV, n. 14088/2024). D'altro canto, invece, la privazione della libertà personale, patita in via provvisoria ex artt. 715 e 716 cod. proc. pen. nell'ambito di una procedura di estradizione passiva conclusasi senza l'adozione di una sentenza irrevocabile favorevole all'estradizione, non determina, "ex se", l'ingiustizia della detenzione, posto che al giudice nazionale è riconosciuta una base di giudizio ridotta e, ove la domanda di estradizione non sia stata presentata dallo Stato estero, la verifica delle condizioni legittimanti la restrizione della libertà attiene al solo presupposto del pericolo di fuga (Cass. IV, n. 36945/2024). Esclusione del diritto alla riparazione
Computo di presofferto Il comma 4 individua le ipotesi in cui il diritto alla riparazione è escluso e cioè per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo. Il comma 4, nell'escludere il diritto alla riparazione nei casi in cui le limitazioni della libertà personale siano state sofferte anche in virtù di altro titolo, fa riferimento solo al «titolo» senza distinguere, in tema di esecuzione, tra l'una o l'altra forma di espiazione, affermando una piena compensazione della ingiusta detenzione subita nella parte in cui essa si sovrapponga temporalmente con quella espiata in virtù di altro legittimo provvedimento definitivo (Cass. IV, n. 10682/2010). Peraltro, è stata ritenuta non indennizzabile la pena espiata in regime di affidamento in prova al servizio sociale, trattandosi di misura alternativa non implicante privazione della libertà personale (Cass. IV, n. 35705/2018; Cass. IV, n. 39766/2019; contra: Cass. III, n. 43550/2016, che ha ritenuto trattarsi di misura alternativa equiparabile alle altre modalità di espiazione della pena detentiva). Ai fini della determinazione della pena da eseguire vanno computati anche i periodi di custodia cautelare relativi ad altri fatti, per i quali il condannato abbia già ottenuto il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, stante la inderogabilità della disciplina dettata dall'art. 314, comma, e dovendosi escludere l'esistenza di una facoltà di scelta, da parte dell'interessato tra il ristoro pecuniario di cui all'art. 314 e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta, fermo restando che, al fine di evitare che l'interessato consegua una indebita locupletazione, il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento, ove gli risulti l'esistenza di una condanna non ancora definitiva a pena dalla quale possa essere scomputato il periodo di custodia cautelare cui la detta richiesta si riferisce, e che, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l'azione di ingiustificato arricchimento di cui all'art. 2041 c.c. (Cass. S.U., n. 31416/2008). Il criterio di fungibilità previsto dall'art. 657, improntato al favor libertatis, configura, in combinato disposto con il comma 4 dell'art. 314, una «riparazione in forma specifica» per l'ingiusta privazione della libertà personale che prevale rispetto alla monetizzazione di cui al medesimo art. 314, introducendo una forma di «compensazione» per il periodo di detenzione ingiustamente subito, secondo un meccanismo che è compatibile con l'art. 5 Cedu, il quale opera soltanto in caso di violazione delle prescrizioni da esso poste ai paragrafi 1, 2, 3 e 4, e che non può essere oggetto di disapplicazione per contrasto con l'art. 6 della Carta di Nizza, in assenza di collegamento tra la materia in oggetto e il diritto dell'Unione Europea. (Cass. III, n. 43453/2014). il diritto alla riparazione è escluso allorquando la custodia sofferta, quand'anche ingiusta, sia ricompresa, in tutto o in parte, in un periodo di «limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia» sofferte anche per altro titolo e per le quali sia già stato corrisposto il relativo indennizzo, posto che, diversamente, si perverrebbe a liquidare due volte un unico danno, in contrasto con le regole generali del diritto ed i principi di cui agli artt. 2041 e 2042 c.c. (Cass. III, n. 18794/2008; Cass. III, n. 18833/2011; Cass. IV, n. 8951/2019). Sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità o abrogazione della norma incriminatrice Il comma 5 della norma prevede che quando è stato affermato che il fatto non è previsto dalla legge come reato per abrogazione della norma incriminatrice, il diritto alla riparazione è altresì escluso per quella parte di custodia cautelare sofferta prima della abrogazione medesima. Pertanto, ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, la condotta dell'interessato deve essere valutata, in applicazione del principio tempus regit actum, con riferimento al quadro normativo esistente al momento in cui si è verificato l'evento-detenzione (Cass. IV, n. 47684/2008; Cass. IV, n. 22647/2017). Nel caso l'assoluzione dell'imputato sia determinata dall'abrogazione della norma incriminatrice in epoca successiva alla sofferta detenzione, lo stesso non vanta alcun diritto ad ottenere una equa riparazione (Cass. IV, n. 30072/2008). Con riferimento a condotte criminose la cui rilevanza penale, precedentemente sanzionata, è stata successivamente abrogata, compito del giudice della riparazione è quello di verificare se le condotte addebitate all'istante, sanzionabili in base alla normativa del tempo, siano state dal giudice di merito ritenute esistenti — e dunque l'assoluzione sia stata pronunziata in ragione della modifica legislativa — oppure se il giudice di merito abbia ritenuto non provati gli addebiti: solo in tale secondo caso la riparazione non potrà essere esclusa, essendo l'assoluzione riconducibile al proscioglimento nel merito dell'istante (Cass. IV, n. 19275/2005; Cass. IV, n. 21524/2007). Il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione va escluso quando il proscioglimento sia intervenuto a seguito della dichiarata illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, che — per l'identità degli effetti e la comune estraneità alla categoria dell'errore giudiziario — è equiparabile all'ipotesi di abrogazione prevista dal quinto comma dell'art. 314 (Cass. IV, n. 2733/1996). Ipotesi particolariÈ ammissibile l'applicazione dell'indulto a pena dichiarata interamente espiata per effetto del principio di fungibilità, purché sussista un concreto interesse del condannato al conseguimento di qualche effetto favorevole (nella specie, la riparazione per ingiusta detenzione, che discende dalla illegittimità del titolo detentivo dopo l'entrata in vigore del provvedimento di clemenza) (Cass. I, n. 43055/2008; Cass. n. 33898/2009). Il diritto alla riparazione dell'ingiusta detenzione non spetta quando sia stata posta in esecuzione una pena per la quale sia stato concesso indulto soggetto a revoca di diritto non ancora disposta, a condizione che essa venga successivamente pronunciata (Cass. IV, n. 18550/2014 ; Cass. IV, n. 47993/2016). I periodi di sospensione condizionata della pena ai sensi della l. n. 207/ 2003 (c.d. «indultino») sono equiparabili ad altre modalità di espiazione della pena per le quali il diritto alla riparazione è escluso (Cass. IV, n. 5080/2010). La tardiva sospensione dell'esecuzione della pena legittimamente disposta non determina l'ingiustizia della detenzione sofferta fino all'adozione del provvedimento di sospensione e pertanto non costituisce titolo per la domanda di riparazione (Cass. IV, n. 7091/2009). L'esecuzione di un ordine di carcerazione originariamente legittimo ma relativo ad una pena risultante estintasi, in ragione del lungo arco temporale intercorso tra l'emissione del titolo e la sua esecuzione, determina l'ingiustizia della detenzione sofferta e, dunque, la configurabilità del diritto all'equa riparazione (Cass. IV, n. 45247/2015). La tardiva esecuzione dell'ordine di scarcerazione disposta per liberazione anticipata determina l'ingiustizia della detenzione sofferta fino alla concreta liberazione del detenuto e, pertanto, costituisce titolo per la domanda di riparazione (Cass. IV, n. 18542/2014). È inammissibile la domanda di riparazione per ingiusta detenzione presentata in relazione all'illegittima applicazione di un trattamento sanitario obbligatorio , atteso che la disciplina dell'istituto è stata dettata esclusivamente in riferimento alla detenzione cautelare ingiustamente sofferta in ambito penale e non è suscettibile di applicazione analogica ad altre ipotesi di ingiusta privazione della libertà personale (Cass. IV, n. 17718/2008). In tema di danni provocati dall'attività giudiziaria, l'ordinamento vigente prevede la riparazione del danno, patrimoniale e non patrimoniale, patito segnatamente a seguito delle situazioni di custodia cautelare ingiusta ex art. 314, di irragionevole durata del processo in ragione della cosiddetta legge Pinto e di condanna ingiusta accertata in sede di revisione a norma dell'art. 643, senza invece contemplare alcun indennizzo per una imputazione «ingiusta», cioè per una imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione (Cass. III, n. 11251/2008). Non sussiste il diritto alla riparazione per il periodo di detenzione subito a seguito di aggravamento di misura non coercitiva disposto in conseguenza della trasgressione alle prescrizioni imposte, difettando, in tal caso, il requisito della ingiustizia della privazione della libertà personale (Cass. IV, n. 30578/2016). Con riferimento all'art. 314, comma 2, non sussiste il diritto alla riparazione quando, nell'ambito del subprocedimento cautelare, la prognosi sulla possibilità di una futura sospensione condizionale della pena sia stata negativa, ma all'esito del giudizio di cognizione detto beneficio sia stato nondimeno concesso (Cass. IV, n. 44830/2015; Cass. IV, n. 1862/2016). Invece, va riconosciuta, sulla base di un'interpretazione sistematica dell'art. 314, comma 2, l'ingiustizia formale della detenzione patita dal soggetto sottoposto a misura custodiale per un reato per il quale sia stato condannato a pena condizionalmente sospesa, in relazione all'intera durata della misura, se eseguita successivamente alla detta sentenza di condanna, ovvero al periodo di mantenimento in regime custodiale successivo alla sentenza stessa (Cass. IV, n. 17192/2017). Secondo un orientamento giurisprudenziale i l diritto alla riparazione non è configurabile ove la mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita sia determinata da vicende successive alla condanna, connesse all'esecuzione della pena (Cass. IV, n. 40949/2015; Cass. IV, n. 50453/2019); in senso contrario si è, invece, ritenuto il diritto alla riparazione sia configurabile anche ove l'ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all'esecuzione della pena, purché sussista un errore dell'autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell'interessato che sia stato concausa dell'errore o del ritardo nell'emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del fine dell'espiazione della pena (Cass. IV, n. 18452/2014; Cass. IV, n. 47993/2016; Cass. IV, n. 57203/2017; Cass. IV, n. 18358/2019: nella fattispecie è stato ritenuto configurabile il diritto alla riparazione in favore del condannato all'ergastolo senza isolamento che, per errore nella predisposizione dell'ordine di esecuzione, abbia patito ingiustamente l'isolamento diurno; Cass. IV, n. 9721/2022: fattispecie relativa al periodo di detenzione ingiustamente sofferto da un soggetto condannato per il delitto di peculato a seguito della ritenuta inammissibilità dell'istanza di affidamento in prova ai servizi sociali fondata sull'erronea applicazione retroattiva della disciplina ostativa alle misure alternative alla detenzione introdotta dall'art. 1, comma 6, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3). Condotta dolosa o colposa
In genere Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280, pur precisando che tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l'indicata condizione ostativa, nei casi in cui l'accertamento dell'insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione (Cass. S.U., n. 32383/2010 da ultimo: Cass. IV, n. 8021/2014; Cass. IV, n. 26269/2017: fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio l'ordinanza che aveva accolto la richiesta di riparazione omettendo di considerare che la valutazione del Tribunale del riesame circa la insussistenza di gravi indizi di colpevolezza aveva trovato fondamento anche sulle spontanee dichiarazioni rese in sede di riesame dall'indagato che, di fronte al G.i.p., si era invece avvalso della facoltà di non rispondere). La Corte osserva che il diritto in esame è definito, in via diretta ed espressa, solo nel primo comma dell'art. 314, che parla di diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora [il soggetto] non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave», mentre nel secondo comma si dice che "lo stesso diritto spetta". Se, dunque, il diritto in questione è definito, nelle sue componenti positiva (riparazione per la custodia cautelare subita) e negativa (non aver dato o concorso a dare causa alla custodia per dolo o colpa grave), nel primo comma dell'articolo, è interpretazione del tutto fedele alla lettera della legge quella secondo cui il diritto oggetto del richiamo operato dal secondo comma sia inclusivo di entrambe le dette componenti. Ma è anche la ratio dell'istituto della riparazione, quale si è espressa e consolidata nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che convalida la soluzione interpretativa adottata dalle Sezioni Unite, in quanto alla natura eminentemente solidaristica dell'istituto regolato dall'art. 314, fa da naturale pendant il contemperamento rappresentato dalla esclusione del diritto alla riparazione in tutti i casi in cui l'interessato, per dolo o colpa grave, abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare sofferta (c.d. causa sinergica). Nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione, ai fini dell'accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, senza che rilevi che quest'ultimo si sia definito con l'assoluzione dell'imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un'evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest'ultima il criterio dell' aldilà ogni ragionevole dubbio (Cass. Sez. IV , n. 2145/2021: in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure il provvedimento di rigetto dell'istanza di riparazione per l'ingiusta detenzione subita per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che aveva ravvisato la colpa grave dell'istante nella condotta consistita nell'intrattenere consapevolmente rapporti economici con società collegate a una cosca mafiosa, ritenuta dalla Corte - sebbene penalmente irrilevante in quanto tenuta per subordinazione e paura rispetto al sodalizio piuttosto che con l'intenzione di avvantaggiarlo - contraria alle regole di diligenza dell'operatore economico, tenuto ad agire in modo lecito e a non favorire soggetti che operano in modo illecito, esponendo, altrimenti, a rischi legali l'intera impresa; Cass. IV, n. 34438 del 02/07/2019: in applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto immune da censure il provvedimento di rigetto dell'istanza di riparazione per l'ingiusta detenzione subita per il reato di associazione di tipo mafioso, che aveva ravvisato la colpa grave dell'istante nella sua presenza a colloqui tra gli associati e nella coabitazione con colui che deteneva denaro, assegni e documentazione dell'associazione, rilevando che tali elementi, pur non essendo stati sufficienti nel giudizio penale a fornire la prova, al di là del ragionevole dubbio, della consapevolezza dell'istante dell'illiceità dell'attività della cosca, erano tuttavia atti, nel giudizio di riparazione, a dimostrare la sua generica cognizione delle caratteristiche delinquenziali degli affari gestiti da affini e parenti). In generale, la giurisprudenza ha chiarito che il giudice, per valutare la sussistenza del dolo o della colpa grave, è legittimato a tener conto degli elementi fattuali ritenuti provati nel giudizio di cognizione, essendogli precluso l'esame delle sole prove espressamente dichiarate inutilizzabili dal giudice di merito, ma non di quelle ritenute implicitamente tali o irrilevanti (Cass. IV, n. 7225/2024). È configurabile il diritto alla riparazione nel caso in cui l'ingiustizia della detenzione sia correlata alla riqualificazione del fatto in sede di merito, con relativa derubricazione del reato contestato nell'incidente cautelare in altro meno grave, i cui limiti edittali di pena non avrebbero consentito l'applicazione della misura custodiale ovvero con applicazione di una pena inferiore alla custodia cautelare sofferta; tuttavia, anche in tal caso, rileva quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione, la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave, ma la sua operatività non può concretamente esplicarsi nel caso in cui l'accertamento dell'insussistenza "ab origine" delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha adottato il provvedimento cautelare, in quanto in tal caso è preclusa la possibilità di valutare l'incidenza della condotta dolosa o colposa dell'imputato, essendo il giudice oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura, sicché nessuna efficienza causale in ordine alla sua determinazione può attribuirsi al soggetto passivo (Cass. IV, n. 13559/2012; Cass. IV, n. 26261/2017). Ai fini del riconoscimento dell'indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un «errore giudiziario», venendo in considerazione soltanto l'antinomia «strutturale» tra custodia e assoluzione, o quella «funzionale» tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi «ingiusta», in quanto l'incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l'indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell'istituto (Cass. S.U., n. 51779/2013). La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'indennizzo, rappresentata dall'avere il richiedente dato causa all'ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all'imputazione) o processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull'esistenza di un alibi), in ordine alla cui attribuzione all'interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il giudice è tenuto a motivare specificamente (Cass. IV, n. 4372/2015). Il giudice di merito, per valutare se chi ha patita l'ingiusta detenzione vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Il giudice, inoltre, deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall'eventuale conoscenza, che quest'ultimo abbia avuto, dell'inizio dell'attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell'autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (Cass. S.U, n. 34559/2002; nello stesso senso, da ultimo, Cass. IV, n. 22642/2017). Deve intendersi dolosa — e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all'indennizzo, ai sensi del comma 1 dell'art. 314. — non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell' id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell'autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall'art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto comma 1 dell'art. 314, quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell'autorità giudiziaria che si sostanzi nell'adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Cass. S.U. , n. 43/1996). Ancora più specificamente, è stato osservato che la «colpa grave», di cui all'art. 314 comma 1, è configurabile in relazione a quei comportamenti che, successivamente alla formulazione dell'accusa e, comunque, alla acquisita cognizione dell'esistenza di un procedimento penale a proprio carico e degli elementi sui quali esso si fonda, siano caratterizzati da ingiustificabile e macroscopica trascuratezza nella rappresentazione alla autorità procedente, degli altri elementi di fatto, noti all'inquisito, sulla base dei quali egli avrebbe potuto essere scagionato o, comunque, restituito allo stato di libertà. Una tale trascuratezza è in contrasto con l'ordinaria diligenza di chi, ingiustamente accusato, porta con ogni sollecitudine a conoscenza dell'autorità procedente ogni possibile elemento a proprio favore. L'esclusione del diritto alla riparazione in caso di colpa grave è una applicazione del più generale principio enunciato nell'art. 1227 comma 2 c.c., secondo cui «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza»: principio che evidentemente postula la conoscenza, da parte del creditore danneggiato, del fatto altrui del quale egli possa ragionevolmente attendersi i danni medesimi (Cass. I, n. 4927/1992). Secondo un orientamento giurisprudenziale , la condotta gravemente colposa, per essere ostativa al riconoscimento dell'indennizzo, deve essere potenzialmente idonea ad indurre in errore l'autorità giudiziaria in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di reità con specifico riguardo al reato che ha fondato il vincolo cautelare (Cass. IV, n. 33830/2015;Cass. IV, n. 10195/2020: la colpa grave, ostativa alla riparazione, non è integrata dalla disponibilità, manifestata dall'indagato, alla commissione di illeciti diversi da quelli per cui sia stata subita la detenzione, non sussistendo il nesso eziologico fra il comportamento dell'interessato e la sua privazione della libertà, conseguente a un provvedimento del giudice determinato da un errore cui quel comportamento abbia dato causa); mentre, secondo un diverso orientamento, la colpa grave, ostativa alla riparazione della detenzione subita, non deve consistere necessariamente in una condotta che, gravemente imprudente o negligente, sia idonea ad indurre in errore l'autorità giudiziaria in relazione al reato per il quale si è patita la detenzione, sempre che la trasgressione sia stata giuridicamente idonea a sostenere una misura cautelare detentiva (Cass. IV, n. 37041/2014; Cass. IV, n. 48311/2017: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure il provvedimento di rigetto dell'istanza di riparazione sulla scorta dell'intercettazione di conversazioni dalle quali emergeva il coinvolgimento dell'istante in episodi delittuosi, seppure diversi, della stessa specie di quelli per cui era stato emesso il titolo cautelare). In ogni caso, la condotta medesima deve avere un ruolo eziologico nell'adozione della cautela o nella protrazione della restrizione della libertà (Cass. IV, n. 32136/2017; Cass. IV, n. 43457/2015); in particolare, è stato affermato che la condotta dolosa o gravemente colposa di cui all'art. 314 costituisce una condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione solo qualora sussista un apprezzabile collegamento causale tra la condotta stessa e la custodia cautelare, in relazione sia al suo momento genetico sia al suo mantenimento, e non può essere desunta da semplici elementi di sospetto, posto che gli stessi non possono fondare la misura cautelare, che esige la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (Cass. IV, n. 43457/2015; Cass. III, n. 45593/2017; Cass. IV, n. 10793/2020: fattispecie in cui la Corte ha annullato l'ordinanza che aveva rigettato la domanda di riparazione basandosi sulla sola considerazione secondo cui, avendo il richiedente ammesso di conoscere il rapinatore solo di vista, nonostante fosse stato in altra occasione fermato e identificato con quest'ultimo nello stesso luogo della rapina, con le proprie false dichiarazioni aveva dato causa per colpa grave all'ingiusta detenzione, avendo ingenerato il sospetto della sua connivenza con il rapinatore). Può costituire condotta colposa ostativa al riconoscimento dell'indennizzo anche quella che, pur non sufficiente da sola a determinare la decisione cautelare, abbia comunque concorso a dar causa all'instaurazione dello stato privativo della libertà (Cass. IV, n. 1921/2014; Cass. III, n. 39362/2021). Condotta processuale e difesa tecnica Secondo un orientamento, integra il profilo di colpa grave ostativo al diritto alla riparazione dell'errore giudiziario l'aver tenuto nel corso del processo una condotta caratterizzata da incuria o indifferenza, senza fornire tempestivamente all'autorità giudiziaria elementi a sua disposizione utili per evitare l'errore (Cass. III, n. 15725/2009: fattispecie di ritenuta ravvisabilità della predetta colpa per non avere l'interessato sottoposto, ai giudici dei vari gradi del processo, gli argomenti difensivi poi risultati idonei a determinare la sua assoluzione nel giudizio di revisione). Secondo un orientamento contrastante, invece, non sono riconducibili alla nozione di colpa grave causativa dell'errore giudiziario, e pertanto impeditiva del correlato diritto alla riparazione, le inefficienze e gli errori della difesa tecnica, che non siano riconducibili direttamente alla condotta dell'imputato (Cass. III, n. 13739/2011: nella specie, la mancata richiesta, nel giudizio d'appello, di prova poi risultata determinante ai fini della revisione). Condotta di silenzio dell'indagato Un consolidato orientamento giurisprudenziale affermava che la condotta dell'indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave solo qualora l'interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare (Cass. III, n. 29967/2014; Cass. IV, n. 25252/2016; Cass. III, n. 51084/2017 ). Tale orientamento è stato rivisitato alla luce della integrazione del comma 1 del presente articolo, introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. b) d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali), secondo la quale « L'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo ». La novella normativa dà attuazione all'art. 7, comma 5. della direttiva 2016/343/UE, la quale dispone che « l'esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro ». I primi interventi giurisprudenziali hanno considerato del tutto superati i predetti orientamenti e si è affermato che il silenzio serbato dall'indagato su elementi di indagine significativi, nell'esercizio della facoltà difensiva prevista dall'art. 64, comma 3, lett. b), non rileva quale comportamento ostativo alla insorgenza del diritto alla riparazione (Cass. IV, n. 8615/2022; Cass. IV, n. 19621/2022); più in generale, è stato affermato che non integra ipotesi di dichiarazione mendace o menzognera dell'indagato, ostativa al riconoscimento del beneficio perché sintomatica di colpa grave, la mera negazione, in sede di interrogatorio, della veridicità degli elementi di accusa o l'affermazione di estraneità agli addebiti, costituendo esse espressione del legittimo esercizio del diritto di difesa (Cass. IV, n. 6321/2024). E’ stato, peraltro, chiarito che il comportamento reticente tenuto dall'indagato in sede di interrogatorio, ove causalmente rilevante sulla determinazione cautelare, incide sull'accertamento dell'eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, in quanto condotta equivoca ed ambigua non equiparabile al silenzio serbato nell'esercizio delle facoltà difensive (Cass. IV, n. 30056/2022). Dichiarazioni mendaci Le dichiarazioni mendaci rese in sede di interrogatorio dal soggetto sottoposto a custodia cautelare possono assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave solo qualora l'interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti che, se conosciute tempestivamente, non avrebbero consentito il determinarsi od il protrarsi della privazione della libertà (Cass. IV, n. 46423/2015). E' stato successivamente chiarito che il mendacio dell'indagato in sede di interrogatorio, ove causalmente rilevante sulla determinazione cautelare, incide sull'accertamento dell'eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione anche a seguito della modifica dell'art. 314 ad opera dell'art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. n. 188 del 2021, posto che la falsa prospettazione di situazioni, fatti o comportamenti non è condotta assimilabile al silenzio serbato nell'esercizio della facoltà difensiva prevista dall'art. 64, comma 3, lett. b) (Cass. IV, n. 3755/2022). Comportamenti deontologicamente scorretti La colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione può essere integrata anche da comportamenti deontologicamente scorretti, quando questi, uniti ad altri elementi, configurino una situazione obiettiva idonea ad evocare, secondo un canone di normalità, una fattispecie di reato. Infatti, la violazione di regole deontologiche, proprie ad una data professione, qualificano di colpa la condotta dell'agente, secondo la nozione estraibile dall'art. 43, comma primo, codice penale, risolvendosi nella inosservanza di una data disciplina (Cass. IV, n. 18152/2010; Cass. IV, n. 52871/2016; Cass. IV, n. 4242/2017; Cass. IV, n. 26925/2019:fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto integrativa della colpa grave la condotta dell'imputato, pubblico amministratore, che aveva esercitato pressioni, finalizzate all'assunzione della figlia, su un gruppo imprenditoriale che aveva contratti in corso con la propria amministrazione). Connivenza passiva La colpa grave, ostativa al riconoscimento dell'indennità, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva quando, alternativamente, detto atteggiamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi non già in un mero comportamento passivo dell'agente riguardo alla consumazione del reato ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l'agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell'attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell'agente, benché il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova positiva che egli fosse a conoscenza dell'attività criminosa dell'agente (Cass. IV, n. 15745/2015; Cass. III, n. 22060/2019). Indagato irreperibile Il comportamento dell'indagato che si sia reso irreperibile, non può escludere la riparazione quando risulti che esso non abbia in alcun modo condizionato la decisione del giudice in ordine alla privazione della libertà personale; peraltro, ove anche risultasse un'incidenza di tale comportamento sulla predetta decisione, la riparazione potrebbe essere esclusa solo se il comportamento de quo fosse caratterizzato, sotto il profilo soggettivo-psicologico, dall'intento di indurre in errore l'autorità mediante la rappresentazione di una situazione nella quale la stessa debba necessariamente ritenere l'esistenza di elementi tali da giustificare la privazione della libertà, e non anche quando, invece, il suddetto comportamento sia stato, come nella specie, determinato dall'intento di sottrarsi ad una ingiusta incriminazione ed alle sue possibili conseguenze (Cass. IV, n. 17647/2010). Elementi originariamente indizianti La «colpa grave», di cui all'art. 314, comma1, non può essere ravvisata con riguardo a quei comportamenti dei quali l'autorità procedente abbia a suo tempo, più o meno fondatamente, ritenuto di poter trarre elementi indizianti a carico del soggetto inquisito. Tali comportamenti possono rilevare soltanto sotto il diverso profilo del dolo, qualora risulti che il soggetto li ha posti in essere proprio al fine di indurre in errore l'autorità, mediante rappresentazione di una situazione nella quale la stessa autorità dovesse necessariamente ritenere l'esistenza di elementi tali da giustificare la privazione della libertà. Ma quando tale finalità sia assente, gli stessi comportamenti, ancorché obiettivamente idonei a dar luogo al medesimo errore, non possono essere qualificati come colposi (Cass. I, n. 4927/1992). Connivenza e concorso nel reato Costituisce causa impeditiva all'affermazione del diritto alla riparazione l'avere l'interessato dato causa all'istaurazione della custodia cautelare per colpa grave, consistita nell'aver tenuto comportamenti improntati a macroscopica leggerezza e imprudenza, idonei ad essere interpretati, nella fase iniziale delle indagini, non come semplice connivenza, ma come concorso nel reato (Cass. IV, n. 37567/2004: nel caso di specie, nei confronti della ricorrente era stata disposta la custodia cautelare in carcere per concorso nei reati di detenzione di sostanza stupefacente, in seguito ad una perquisizione del piccolo appartamento dove viveva, assieme ai due iniziali coimputati, in cui era stata rinvenuta una notevole quantità di cocaina, già collocata in buste e sacchetti — peraltro non tutti occultati —, nonché una somma di denaro compatibile con l'attività di spaccio). Vizio di mente La colpa grave ostativa al diritto può essere ravvisata anche in soggetto affetto da infermità di mente, atteso che il giudice non ha il compito di stabilire se una determinata condotta costituisca reato, ma se essa si sia posta come fattore condizionante nell'applicazione della restrizione cautelare (Cass. IV, n. 45324/2009; Cass. IV, n. 18847/2012: fattispecie relativa a detenzione cautelare sofferta da alcolista cronico in relazione ai reati di maltrattamenti e lesioni a danno dei familiari, assolto nel merito in quanto non imputabile; Cass. IV, n. 15221/2018: nella specie infermità parziale di mente). Conversazioni telefoniche Costituisce colpa grave, idonea a impedire il riconoscimento dell'equo indennizzo, l'utilizzo, nel corso di conversazioni telefoniche, da parte dell'indagato di frasi in «codice», effettivamente destinate a occultare un'attività illecita, anche se diversa da quella oggetto dell'accusa e per la quale fu disposta la custodia cautelare (Cass. IV, n. 48029/2009: nella specie, l'interessato aveva documentato che le frasi in codice utilizzate in conversazioni telefoniche erano riferibili al commercio di monili e aveva giustificato l'utilizzo del linguaggio criptico con la natura fiscalmente irregolare della sua attività; Cass. IV, n. 3374/2017). Frequentazioni ambigue Le frequentazioni ambigue — ossia quelle che si prestano oggettivamente ad essere interpretate come indizi di complicità — quando non sono giustificate da rapporti di parentela e sono poste in essere con la consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti, possono dare luogo ad un comportamento gravemente colposo idoneo ad escludere la riparazione stessa (Cass. IV, n. 1235/2014); purchè il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità ad essere interpretate come indizi di complicità, in rapporto al tipo e alla qualità dei collegamenti con tali persone, così da essere poste quanto meno in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (Cass. IV, n. 53361/2018). Condizione di tossicodipendenza La colpa grave che osta alla riparazione non è integrata dalla mera condizione di tossicodipendenza, ma può essere ravvisata nel comportamento del tossicodipendente che, attivandosi per reperire le sostanze stupefacenti, lasci ragionevolmente ritenere, in presenza di elementi ulteriori, che si tratti di attività finalizzata non solo al consumo personale, ma anche allo spaccio (Cass. IV, n. 29648/2016: fattispecie nella quale il ricorrente aveva utilizzato un linguaggio criptico nelle conversazioni telefoniche con soggetti gravitanti nel mondo degli stupefacenti). Poteri del giudiceNel procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l'operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all'accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell'imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un «iter» logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell'altrui errore) alla produzione dell'evento «detenzione»; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell'azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l'eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (Cass. S.U., n. 43/1995). È stato, peraltro, precisato che il giudice del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione può rivalutare fatti emersi nel processo penale, ivi accertati o non esclusi, ma ciò al solo fine di decidere sulla sussistenza del diritto alla riparazione (Cass. IV, n. 27397/2010; Cass. IV, n. 3895/2018). Certamente, invece, il giudice del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione non ha il potere di rivalutazione dell'esito del giudizio di merito (Cass. IV, n. 13096/2010: fattispecie nella quale la riparazione per ingiusta detenzione era stata negata affermando che in sede di cognizione le intercettazioni eseguite avevano confermato il verificarsi della condotta contestata all'imputato, e quest'ultimo era stato assolto unicamente a causa dell'impossibilità di ascoltare le cassette contenenti le conversazioni più significative, perché usurate); allo stesso modo non può ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest'ultimo ha valutato dimostrate (Cass. IV, n. 11150/2015; Cass. IV, n. 46469/2018). Il giudice, nell'accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell'incidenza causale del dolo o della colpa grave dell'interessato rispetto all'applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Cass. S.U., n. 32383/2010; Cass. IV, n. 3895/2018: fattispecie nella quale la Corte di cassazione ha ritenuto immune da vizi l'ordinanza che aveva ritenuto gravemente colposo il comportamento del ricorrente, accertato nel giudizio di merito, che, negando la propria responsabilità, aveva fornito una giustificazione poco credibile circa l'utilizzo da parte sua dell'auto della fidanzata, mezzo impiegato per l'esecuzione del reato). Nel procedimento di equa riparazione per l'ingiusta detenzione il giudice deve valutare anche la condotta colposa lieve, rilevante non quale causa ostativa per il riconoscimento dell'indennizzo bensì per l'eventuale riduzione della sua entità (Cass. IV, n. 21575/2014; Cass. IV, n. 34541/2016). Peraltro, l'aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l'accertamento della insussistenza “ab origine” delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare; in tale ipotesi, il giudice della riparazione non può valutare – neppure al diverso fine della eventuale riduzione dell'entità dell'indennizzo – la condotta colposa lieve (Cass. IV, n. 22103/2019: fattispecie in cui, in una ipotesi di ingiustizia “formale” del provvedimento cautelare, la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza che aveva ridotto l'indennizzo ritenendo la sussistenza della colpa lieve dell'interessato per non avere risposto all'interrogatorio di garanzia, serbando il silenzio per i successivi sette mesi). Il giudice può conoscere soltanto del diritto all'indennizzo e non anche di quello ad ottenere un risarcimento del danno collegato alla restrizione della libertà ma conseguente ad un fatto ingiusto, essendo l'istituto della riparazione regolamentato dalle norme processuali penali e restando ad esso estranee le disposizioni civilistiche di cui agli artt. 2043 ss. c.c. che disciplinano il risarcimento del danno da fatto illecito (Cass. III, n. 43453/2014; Cass. III, n. 35834/2020). Il principio dispositivo – per cui la ricerca del materiale probatorio necessario per la decisione è riservata alle parti tra le quali si distribuisce in base all'onere della prova – è temperato dai poteri istruttori del giudice del merito, il quale, ove la documentazione prodotta si rilevi insufficiente, ben può procedere ad integrarla anche di ufficio, senza tuttavia surrogarsi all'inerzia ed agli oneri di prospettazione, di allegazione o di impulso probatorio del richiedente (Cass. IV, n. 4070/2014; Cass. IV, n. 21307/2022). In particolare, si è osservato che, pur essendo onere dell'interessato, secondo i principi civilistici, dimostrare i fatti posti a base della domanda, e cioè la sofferta custodia cautelare e la sopravvenuta assoluzione, deve tuttavia ritenersi, avuto anche riguardo al fondamento solidaristico dell'istituto in questione, che il giudice sia tenuto ad avvalersi, se necessario, della possibilità, prevista dagli artt. 213 e 738, comma 3 c.p.c., di chiedere anche d'ufficio alla P.A. (ivi compresa, quindi, quella della giustizia) informazioni scritte su atti e documenti di cui essa sia in possesso (Cass. IV, n. 27431/2011; Cass. IV, n. 18172/2017). Secondo un orientamento giurisprudenziale, l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione (Cass. S.U., n. 1153/2009). La conforme giurisprudenza successiva ha affermato che ai fini della valutazione del dolo o della colpa grave, il giudice non può utilizzare gli esiti di intercettazioni che nel giudizio di cognizione siano risultati, anche solo “fisiologicamente”, inutilizzabili. (Cass. IV, n. 6893/2021; Cass. IV, n. 486/2022) e che, in particolare il giudice non può attribuire rilievo a dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non acquisite al dibattimento e perciò inutilizzabili (Cass. IV, n. 3620/2009). Un diverso orientamento è espresso da quella giurisprudenza, la quale afferma che, nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, che presenta chiare connotazioni civilistiche, non operano automaticamente i divieti di utilizzabilità probatori previsti dal codice di procedura penale per la fase predibattimentale, salvo che si tratti di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ed a condizione che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini e da impiegare nel procedimento riparatorio non siano stati smentiti dalle acquisizioni dibattimentali (Cass. IV, n. 11428/2012). Si è anche ritenuto che nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione siano utilizzabili, per dimostrare la sussistenza del dolo o della colpa dell'istante ostativi alla riparazione, le intercettazioni telefoniche acquisite nel corso delle indagini e successivamente non trascritte, potendo desumersi la prova del colloquio intercettato e del suo contenuto dalla lettura del brogliaccio di cui all'art. 268, comma 2 (Cass. IV, n. 15132/2014); ovvero anche le intercettazioni ambientali riportate nell'ordinanza coercitiva, anche se successivamente non utilizzate in dibattimento in quanto non sottoposte a perizia (Cass. IV, n. 33683/2016); ovvero ancora le intercettazioni telefoniche in caso di successiva irreperibilità del relativo supporto memorizzatore, a condizione che il giudice eserciti la massima prudenza, cautela e oculatezza nella valutazione dei mezzi di prova da assumere per la ricostruzione del contenuto delle registrazioni delle intercettazioni, alla luce del principio del libero convincimento ed escluso ogni automatismo surrogatorio sul piano della valenza probatoria (Cass. IV, n. 46473/2011). Inoltre, la prova dei comportamenti extraprocessuali gravemente colposi – quali le frequentazioni ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti – integranti la condizione ostativa al riconoscimento dell'indennizzo può essere tratta da conversazioni intercorse tra terze persone, legittimamente intercettate, purché la portata del loro significato in senso sfavorevole al ricorrente sia stato univocamente accertato dalla sentenza di assoluzione (Cass. IV, n. 8914/2015: nella fattispecie, nella sentenza di assoluzione del ricorrente dall'accusa di partecipazione ad associazione di stampo mafioso era comunque riconosciuta, sulla base di conversazioni intercettate tra terze persone, la sua contiguità a tale associazione). Ancora si è ritenuto che siano utilizzabili, per dimostrare la sussistenza del dolo o della colpa dell'istante ostativi alla riparazione: le dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di sommarie informazioni testimoniali, anche nel caso in cui la stessa si sia successivamente sottratta all'esame dibattimentale, con conseguente inutilizzabilità ai sensi dell'art. 526, comma 2, dovendo la condotta dell'indagato essere vagliata, ai fini della riparazione, tenendo conto degli elementi legittimamente considerati dal giudice della cautela (Cass. IV, n. 40281/2019); le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da coimputati che in dibattimento o non si erano sottoposti all'esame, o avevano ritrattato (Cass. IV, n. 49771/2013); le dichiarazioni accusatorie contenute nella denuncia-querela della persona offesa anche se siano state ritenute non utilizzabili nel giudizio sulla responsabilità, ai fini dell'accertamento della colpevolezza dell'imputato, per essersi la stessa sottratta all'esame in contraddittorio nel dibattimento. (Cass. IV, n. 17845/2014); le trascrizioni delle conversazioni intercettate, ritenute inutilizzabili nel processo di cognizione perché disposte da giudice incompetente (Cass. IV, n. 48978/2017). Il giudice di merito, per valutare se l'imputato vi abbia dato causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare tutti gli elementi probatori disponibili, tenendo conto di quei comportamenti che denotino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di norme o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. IV, n. 14000/2014). Estinzione del reato per prescrizioneIl diritto alla riparazione per ingiusta detenzione spetta anche quando la durata della custodia cautelare risulti superiore alla misura della pena inflitta con la sentenza di primo grado, alla quale abbia fatto seguito una sentenza di appello dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione, ma, ai fini della quantificazione dell'indennizzo, non si deve tenere conto della parte di detenzione cautelare patita che corrisponda alla condanna inflitta in primo grado (Cass. S.U., n. 4187/2009 ; Cass. IV, n. 22058/2018). Non è configurabile il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione in caso di estinzione del reato per prescrizione del reato, a meno che la durata della custodia cautelare sofferta risulti superiore alla misura della pena astrattamente irrogabile, o a quella in concreto inflitta nei precedenti gradi di giudizio, ma solo per la parte di detenzione subita in eccedenza, ovvero quando risulti accertata in astratto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'ingiustizia formale della privazione della libertà personale (Cass. III, n. 2451/2015; Cass. IV, n. 22058/2018). Sussiste il diritto alla riparazione nel caso in cui l'imputato sia stato prosciolto perché il reato estinto per prescrizione, previa riqualificazione del fatto all'esito del dibattimento, con conseguente derubricazione del reato contestato nell'incidente cautelare in altro meno grave, i cui limiti edittali di pena non avrebbero consentito ab origine l'applicazione della misura custodiale (Cass. IV, n. 12875/2010; Cass. IV, n. 13559/2012; Cass. IV, n. 26261/2017). Reintegrazione nel posto di lavoroL'art. 102-bis disp. att., nel prevedere che chi sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero a quella degli arresti domiciliari ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione, presuppone che il licenziamento sia stato determinato dallo stretto rapporto di causalità con la detenzione, e cioè che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello status custodiae del prestatore d'opera. Ne consegue che la domanda fondata sulla citata disposizione ha ad oggetto fatti costitutivi diversi rispetto all'impugnativa del licenziamento per fatti disciplinari o per impossibilità sopravvenuta ed è inammissibile se proposta per la prima volta in appello, né può dare titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro ove il licenziamento risulti in via autonoma giustificato sulla base di elementi ulteriori rispetto alla mera assenza del lavoratore determinata da provvedimento cautelare (Cass. civ. sez. lav., n. 15070/2008). BibliografiaAA.VV., La carcerazione preventiva, Milano; Aprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2006 2012; Dalia, La riparazione per l'ingiusta detenzione, in Dalia-Troisi, Risarcimento del danno da processo, Torino, 2007; De Robbio, Le misure cautelari personali, Milano, 2016; Grevi, Misure cautelari, in Conso-Grevi, Compendio di procedura penale, Torino, 2010; Scarcella, Codice di procedura penale, a cura di Canzio-Tranchina, Milano, 2012; Troisi, L'errore giudiziario tra garanzie costituzionali e sistema processuale, Torino, 2011; Turco, L'equa riparazione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione, Milano, 2007; Vancheri, in Codice di procedura penale, a cura di Tranchina, Milano, 2008, 2350; Zanetti, La riparazione dell'ingiusta custodia cautelare. Aspetti sistematici e questioni applicative, Torino, 2002; Zappalà, Le misure cautelari, in Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Diritto processuale penale, I, Milano, 2011. |