Codice di Procedura Penale art. 476 - Reati commessi in udienza.

Sergio Beltrani

Reati commessi in udienza.

1. Quando viene commesso un reato in udienza, il pubblico ministero procede a norma di legge [11 3], disponendo l'arresto [380, 381] dell'autore nei casi consentiti.

2. Non è consentito l'arresto del testimone in udienza per reati concernenti il contenuto della deposizione [207; 245 2h trans.].

Inquadramento

Nell'ambito della disciplina dell'udienza, un ruolo di spicco assumono le disposizioni relative ai reati in quella sede commessi; in proposito, l'art. 476, nel primo comma, attribuisce al p.m. il potere di procedere, a norma di legge e nei casi consentiti (cfr. artt. 379 ss.), all'arresto dei soggetti che commettano reati in udienza.

La previsione che il potere di arresto può essere esercitato solo nei « casi consentiti » viene interpretata dalla dottrina « non come un mero rinvio all'area “edittalmente” coercibile, ma come un riferimento anche a quelle condizioni che, pure in presenza di un reato in ordine al quale l'arresto è preveduto come obbligatorio o facoltativo, ne impediscono l'adozione: così, ad esempio, se il reato commesso in udienza è perseguibile a querela, bisogna che questa venga proposta perché il p.m. possa procedere all'arresto » (Fassone, 743 ss.).

La disposizione, nel secondo comma, vieta (nel rispetto del principio sancito dall'art. 2 dir. 74 l. delega n. 81/1987) l'arresto del testimone in udienza per reati concernenti il contenuto della deposizione. Diversamente da quanto previsto nel codice di rito del 1930 (art. 435), l'attuale sistema processuale penale italiano non prevede, pertanto, la possibilità di una celebrazione contestuale del giudizio principale e di quello relativo ai reati consumati in udienza, poiché si rimette alla valutazione discrezionale del p.m. di procedere « a norma di legge » e, quindi, successivamente e separatamente, con richiesta di convalida ex art. 390

In proposito, la Corte costituzionale, nel ritenere l'incostituzionalità dell'art. 11, comma 3 (che stabiliva una deroga al criterio di determinazione della competenza per territorio nei procedimenti aventi come parte offesa o persona danneggiata dal reato un magistrato, nell'ipotesi in cui il reato stesso fosse commesso in udienza), e dopo aver messo in risalto la diversità della disciplina dettata dall'art. 476 rispetto a quella dettata dall'art. 435 c.p.p. abr., ha osservato che « alla base della nuova scelta del legislatore vi è una opportuna considerazione di valori costituzionali primari quali la garanzia della serenità ed obiettività dei giudizi, l'imparzialità e la terzietà del giudice, la salvaguardia del diritto di difesa e del principio di uguaglianza dei cittadini (cfr. artt. 3, 24, 101 e 107 Cost.), destinati a prevalere, proprio perché di rango costituzionale primario, sulla concorrente esigenza della celerità del dibattimento per i reati commessi in udienza » (Corte cost. n. 390/1991).

Parte della dottrina (Plotino, 61) ha identificato un'ulteriore ratio della nuova disciplina « nella contraria esigenza di non gravare la celebrazione del dibattimento della necessità di celebrazione di un altro contestuale dibattimento per reati commessi in udienza, che finirebbe inevitabilmente per “appesantire” la trattazione del processo principale, impedendone la rapida definizione ».

La dottrina ha anche ritenuto che la disciplina dettata dall'art. 476, comma 1, sia analogicamente estensibile, in bonam partem, per evidente identità di ratio, anche ai reati commessi in udienza dall'imputato e dall'imputato in procedimento connesso o collegato (Beltrani, 143).

La competenza

Soltanto il pubblico ministero, e non anche il giudice, ha il potere (eccezionale) di ordinare l'arresto (obbligatorio o facoltativo) in flagranza di reato commesso in udienza (detto potere dovrà necessariamente essere esercitato curando di non turbare il regolare svolgimento di essa); egli dovrà, successivamente, procedere « a norma di legge », alla richiesta di convalida dell'arresto e, successivamente, chiedere la fissazione dell'udienza preliminare (ovvero emettere il decreto di citazione diretta a giudizio ex art. 550).

La disarmonia rispetto alla competenza in tema di arresto in flagranza, che non rientra tra i poteri ordinari del p.m., è evidenziata da qualche autore (Mercone, 1862 ss.; in tema, cfr. anche, in giurisprudenza, Cass. VI, n. 1332/1994, in motivazione; in dottrina, Marandola, 1867 s.; in senso contrario, Cass. VI, n. 2095/1994, per la quale « nel caso di reati per i quali è previsto l'arresto in flagranza, il pubblico ministero ha il potere di disporre l'arresto dell'autore dei medesimi. Ciò si deve ritenere in base all'interpretazione sistematica degli artt. 55, comma 2, e 56, comma 1, che riconoscono al pubblico ministero un potere di sovraordinazione, di indirizzo e di direttiva della polizia giudiziaria anche in materia coercitiva; d'altro canto, la concezione che verrebbe riservato alla polizia giudiziaria ed interdetto al pubblico ministero il potere di arresto in flagranza in virtù di una interpretazione restrittiva della direttiva n. 32 l. delega n. 81/1987, trova smentita significativa nell'art. 476, comma 1, che prevede appunto una legittimazione in tal senso del pubblico ministero per i reati commessi in udienza »).

Il giudice ha il potere-dovere (desumibile dall'interpretazione combinata degli artt. 481 comma 1 e 470 comma 1) di dare atto, a verbale, della commissione del reato in udienza.

Il divieto di arresto in udienza per reati concernenti il contenuto della testimonianza

Il secondo comma dell'art. 476 vieta l'arresto del testimone in udienza per reati concernenti il contenuto della deposizione (il principio è stato recepito anche dall'art. 381, comma 4-bis — introdotto dalla l. 8 agosto 1995, n. 332 — con riguardo alla fase delle indagini preliminari); il riferimento alla generica nozione di « udienza » viene interpretato dalla dottrina come comprensivo anche dell'udienza camerale (Voena, 513).

Il divieto di arresto del teste in udienza per i reati concernenti il contenuto della sua deposizione si estende a qualunque reato commesso dal teste durante la sua testimonianza, e quindi non soltanto alle ipotesi di falsità o reticenza, ma anche a tutti gli altri reati (calunnia, autocalunnia, ingiuria, diffamazione, etc.) che siano ravvisabili nel contenuto della dichiarazione testimoniale (Cass. VI, 29 maggio 1990, P.m. in proc. C., in R. Guariniello, 311).

La ratio dell'estensione del divieto suddetto a tutti i reati concernenti il contenuto delle deposizioni testimoniali viene individuata nell'esigenza di non condizionare in alcun modo i testimoni, e di non alterare la parità tra le parti contrapposte (la difesa non potrebbe, infatti, esercitare il potere di arresto, e si troverebbe in posizione minorata ove, del suddetto potere, possa avvalersi il rappresentante del pubblico ministero), in nome delle quali si è ritenuto di poter sacrificare l'efficace prevenzione del mendacio (derivante, innegabilmente, dalla possibilità di arresto in udienza).

Pur nel silenzio della disposizione, sembra doversi ritenere che anch'essa, come quella di cui al primo comma, si applichi anche all'imputato ed all'imputato in procedimento connesso o collegato, con la conseguenza che deve ritenersi vietato l'arresto di questi ultimi per i reati concernenti il contenuto della deposizione (si pensi, ad esempio, al reato di cui all'art. 368 c.p.).

È opportuno ricordare che l'art. 207, comma 1, prevede la possibilità di invio immediato al p.m., perché proceda nei modi di legge, degli atti inerenti al testimone che, fuori dai casi previsti dalla legge (cfr. art. 197), rifiuti di rendere testimonianza; al contrario, il secondo comma della norma stabilisce che soltanto con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio (e, cioè, per quanto riguarda il dibattimento, con la sentenza), il giudice che ravvisi nella testimonianza indizi del reato di cui all'art. 372 c.p. possa informarne il p.m., trasmettendogli i relativi atti. Nel sistema processuale vigente, infatti, la valutazione della testimonianza resa in un processo ai fini della decisione viene nettamente separata dalla persecuzione penale del teste che abbia deposto il falso: il giudice può soltanto, all'esito della valutazione complessiva di tutto il materiale istruttorio, ed ove egli ritenga sussistenti indizi della commissione del reato di falsa testimonianza, informare il p.m. della notitia criminis relativa e, peraltro, la deposizione del teste falso resta parte integrante del processo in cui la stessa è stata resa ed è prova, in questo, utilizzabile e valutabile in relazione all'altro materiale probatorio acquisito). Se, pertanto, nel corso della deposizione testimoniale dibattimentale, il giudice ravvisi indizi di reità inerenti al reato di falsa testimonianza, non trova applicazione la generale disciplina di cui all'art. 63, ma, al contrario, il giudice, ai sensi degli artt. 476, comma 2, e 207, comma 2, fermo restando il dovere di valutare la testimonianza unitamente agli altri elementi probatori raccolti, avrà soltanto il potere di ordinare, all'esito del giudizio, la trasmissione degli atti al p.m.

Bibliografia

Aprile- Silvestri, Il giudizio dibattimentale, Milano, 2006; Beltrani, Il dibattimento penale monocratico, Torino, 2003; D'Andria, Sub art. 476, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi- Lupo, VI, Agg. 2003-2007, (artt. 465-567), a cura di D'Andria- Fidelbo- Gallucci, Milano, 2008, 39; Fassone, Il dibattimento, in Fortuna- Dragone- Fassone- Giustozzi- Pignatelli, Nuovo manuale pratico di procedura penale, Padova, 2002, 743; Fidelbo, Sub art. 476, in Conso- Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, 1709; Guariniello, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Torino, 1994; Marandola, False dichiarazioni al pubblico ministero e arresto in flagranza, in Cass. pen. 1995, 1867; Mercone, L'estromissione del pubblico ministero dal potere di arresto in flagranza, in Cass. pen. 1995, 1862; Plotino, Il dibattimento nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1996; Rivello, Il dibattimento nel processo penale, Torino, 1997; Voena, voce Udienza penale, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 495.

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