Codice di Procedura Penale art. 530 - Sentenza di assoluzione.

Donatella Perna

Sentenza di assoluzione.

1. Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile [85 s. c.p.] o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo [254 trans.].

2. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile.

3. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione [50-54 c.p.] o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1.

4. Con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza [222 c.p.; 300 2, 579].

Inquadramento

L'art. 530 comma  1 contiene l’elenco delle formule assolutorie che costituiscono un numero chiuso (ILLUMINATI), ordinato gerarchicamente, a partire da quelle più favorevoli all’imputato. Secondo qualche autore, la scelta legislativa di offrire più formule assolutorie è criticabile in quanto in contrasto con il principio della presunzione di innocenza, che impone all’organo accusatorio di eliminare ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato, sicchè sarebbe stata preferibile l’alternativa secca <<colpevole-non colpevole>>, in modo che nel dispositivo non rifluissero le ragioni poste alla base dell’assoluzione, con pregiudizio per l’imputato nei casi di formule non ampiamente liberatorie (TONINI, in Manuale ).

L’art. 530 comma  2 è una diretta conseguenza della abolizione della formula dubitativa o di assoluzione per insufficienza di prove, già contenuta nel codice del 1930, e introduce la regola di giudizio secondo cui il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione non solo quando vi è la prova positiva che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, che il fatto non costituisce reato o che il fatto è stato commesso da persona non imputabile, o manca  del tutto la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il fatto è stato commesso da persona imputabile, ma anche quando detta prova è insufficiente o contraddittoria (CORDERO).

L’art. 530, comma 3 contiene una disposizione ad hoc dedicata alle esimenti e alle cause personali di non punibilità, e prevede che il giudice pronunci sentenza di assoluzione se vi è prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità, ovvero sussiste dubbio sulla loro esistenza.

L’ultimo comma della norma in commento, infine, riguarda un contenuto eventuale della sentenza di assoluzione, relativo alla applicazione delle misure di sicurezza personali e patrimoniali,quando ne ricorrano i presupposti di legge.

Le formule assolutorie

La Corte cost. n. 175/1971 ha chiarito che esiste una gerarchia delle formule di proscioglimento, da determinare in considerazione dell'interesse dell'imputato a venire assolto con l'impiego di quella fra esse che risulti produttiva degli effetti per lui meno pregiudizievoli. Essa ha anche specificato la sostanziale diversità esistente tra le formule "perché il fatto non sussiste" e "perché l'imputato non l'ha commesso" (che indicano, rispettivamente, l'insussistenza materiale del fatto storico e la totale estraneità dell'imputato) e la formula "perché il fatto non costituisce reato", la quale invece si caratterizza perché riconosce la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua riferibilità all'imputato, ma nega la punibilità per la mancanza dell'elemento soggettivo oppure per la presenza a di una causa di esclusione dell'antigiuridicità o anche (secondo la norma all'epoca vigente) di una causa di esclusione della punibilità. Secondo la Corte, soltanto le prime due formule hanno un contenuto ampiamente liberatorio ed escludono ogni pregiudizio (attuale o potenziale) per il prosciolto, mentre nel caso di formula "perché il fatto non costituisce reato" , non può negarsi il diritto dell'imputato di impugnare per ottenere una formula più favorevole, che escluda la sussistenza materiale del fatto storico o la sua riferibilità all'imputato stesso (Cass. V, n. 29377/2019;Cass. IV, n. 1229/2018; nello stesso senso anche Cass. S.U. n. 40049 /2008).

Ai fini dell'applicazione della esatta formula di assoluzione, il giudice deve innanzitutto stabilire se il "fatto" sussiste nei suoi elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di accertamento affermativo, può scendere all'esame degli altri elementi (imputabilità, dolo, colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è condizionata la sussistenza del reato (Cass. III, n. 28351/2013).

L'assoluzione perché il fatto non sussiste è la più favorevole per l'imputato, perchè  nega che un fatto penalmente rilevante si sia verificato, con riferimento all'elemento materiale costituito da azione od omissione, evento, nesso di causalità (CORDERO).

Pertanto, nel caso in cui sia ritenuto carente un elemento oggettivo del reato, la formula assolutoria corretta è per insussistenza del fatto, e non già quella che dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato (Cass. S.U., n. 37954/2011).

È interessante notare che, nonostante l'apparente lampante chiarezza del concetto, possono darsi situazioni in cui non è affatto scontata la formula assolutoria applicabile al caso concreto.

Prova ne sia il contrasto che si sta verificando in senso alla S.C. sulla formula adottabile all'esito del giudizio per il reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. n. 74/ 2000, allorchè non sia superato il tasso soglia di duecentocinquantamila euro, oltre il quale l'omesso versamento delle ritenute assume rilevanza penale.

Infatti, per alcune pronunce la soglia di punibilità configura un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l'assoluzione con la formula "il fatto non sussiste" (Cass. III, n. 35611/2016); per altre, l'assoluzione va disposta con la formula assolutoria "perchè il fatto non è previsto come reato", e non con quella "perchè il fatto non sussiste", che presuppone l'esclusione del verificarsi di un fatto storico suscettibile, tuttavia, di essere ipoteticamente attratto in una fattispecie incriminatrice (Cass. III, n. 28934/2016). 

Anche la formula assolutoria per non aver commesso il fatto è ampiamente liberatoria per l'imputato, perché – pur presupponendo che un fatto nella sua materialità sia stato commesso – ne nega la riferibilità all'imputato, sicchè va utilizzata quando manchi, sul piano puramente materiale, ogni rapporto tra l'attività dell'imputato e l'evento dannoso (Tonini, 743).

La formula assolutoria perché il fatto non costituisce reato è applicabile quando, accertata la verità storica del fatto e la sua dipendenza causale dalla condotta dell'imputato, difetti l'elemento psicologico del reato (dolo o colpa); tale formula va adottata anche quando l'imputato abbia agito in presenza di una causa di giustificazione, anche putativa (Cass. S.U., n. 40049/2008), o comunque manchino elementi della fattispecie tipica diversi dalla condotta (ILLUMINATI, Il Giudizio).

Con l'adozione di tale formula assolutoria, è preclusa la condanna del querelante alle spese processuali (Cass. II, n. 7034/2013).

La formula assolutoria perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, introdotta per la sentenza dibattimentale dal codice del 1988, trova applicazione nei casi in cui il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione di un'assenza di previsione normativa, o di una successiva abrogazione della norma, o di un'intervenuta dichiarazione integrale d'incostituzionalità; talvolta i giudici aggiungono esplicativamente la particella “più”, pronunziando assoluzione perché il fatto non è “più” previsto dalla legge come reato, onde specificare fin dal dispositivo che il fatto era incriminato all'epoca della sua commissione.

Tale formula presuppone la possibile rilevanza del fatto in sede civile, laddove la formula il fatto non sussiste, esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale (Cass. S.U.,  n. 37954/2011; Cass. III, n. 36859/2014).

A tal proposito, rientra tra le competenze del giudice dell'esecuzione la revoca, ai sensi dell'art. 673 c.p.p.,  delle statuizioni civili contenute in una sentenza definitiva di assoluzione dell'imputato dal delitto ascrittogli per intervenuta abrogazione dello stesso , e sua trasformazione in illecito civile ai sensi dell'art. 1 d.lgs. n. 7/2016, essendo tali statuizioni state adottate in totale assenza di potere giurisdizionale (Cass. I, n. 21102/2018 , in fattispecie in cui l'imputato era stato assolto dalla contestazione di cui all'articolo 485  c.p. perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e contestualmente condannato al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita).

La formula assolutoria perché il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione, presuppone l'accertamento di un fatto costituente reato, attribuibile all'imputato.

Nel caso di persona non imputabile, l'assoluzione consegue per l'esclusione della capacità naturale dell'agente al momento del fatto (trattasi delle situazioni disciplinate negli artt. 85-98 c.p.: incapacità di intendere e di volere, vizio di mente, ubriachezza o stupefazione occasionali o croniche, sordomutismo, minore età). In caso di assoluzione per vizio totale di mente, al giudice è preclusa ogni statuizione civile (Cass. I, n. 45228/2013).

L'assoluzione per la presenza di una causa di non punibilità, presuppone invece l'esistenza di specifiche situazioni, che vanno sotto il nome di condizioni obbiettive di punibilità (ad es.,il pubblico scandalo nell'incesto); e di cause di non punibilità in senso stretto (ad es., la ritrattazione della falsa testimonianza; la non punibilità del partecipe del delitto di banda armata che determina lo scioglimento della banda e impedisce la realizzazione dell'azione).

La prova insufficiente o contraddittoria

La scelta di politica legislativa adottata dal codice di procedura penale vigente, consistente nell'escludere la pronunzia di sentenza di assoluzione per insufficienza di prove, si riflette nel secondo e terzo comma dell'art. 530, laddove è affermata la regola di giudizio della  equivalenza tra la carenza, l'insufficienza e la contraddittorietà della prova e la prova positiva della sussistenza dei richiamati motivi di assoluzione. Ne consegue che il giudice deve pronunciare assoluzione – indicandone la formula nel dispositivo – non solo quando vi è la prova positiva (o manca del tutto la prova che il fatto sussista; che l'imputato lo abbia commesso…ecc.: le due situazioni sono equiparate) che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso, che il fatto non costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile, ma anche quando detta prova è insufficiente o contraddittoria (Cordero).

L'insufficienza della prova ricorre nel caso in cui le prove utilizzabili consentano una ricostruzione dei fatti alternativa a quella d'accusa, ma fornita di equivalente efficacia persuasiva, sicché nessuna delle due ipotesi può essere ragionevolmente esclusa. In tal caso, la prova è insufficiente a superare la diversa ed incompatibile prospettazione favorevole al reo, sicché deve pronunziarsi sentenza di assoluzione. La contraddittorietà della prova va intesa, diversamente, come ipotesi che ricorre nel caso in cui le prove utilizzabili rappresentino il fatto storico indagato in maniera insanabilmente contrastante, nei casi in cui non sia possibile giudicare l'una prova prevalente sull'altra per ragioni fisiche, tecniche, logiche o psicologiche.

Ne consegue che laddove il giudice ritenga raggiunta una prova insufficiente o contraddittoria circa, ad esempio, la sussistenza del dolo in un delitto doloso, dovrà pronunziare sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, e così pure dovrà provvedere nel caso in cui ritenga raggiunta prova insufficiente o contraddittoria circa l'erronea supposizione da parte dell'imputato della sussistenza di una causa scriminante, astenendosi dal citare siffatte valutazioni nel dispositivo della sentenza, e dandone invece conto in motivazione.

La mera indicazione di una situazione astrattamente riconducibile all'applicazione di un'esimente, non accompagnata dall'allegazione di precisi elementi idonei ad orientare l'accertamento del giudice, non può legittimare la pronuncia assolutoria ex art. 530, comma 2, risolvendosi il dubbio sull'esistenza dell'esimente nell'assoluta mancanza di prova al riguardo (Cass. V, n. 22040/2020).

Nel caso, poi, di dibattimento incardinatosi a seguito di dissenso del P.M. alla applicazione della pena (art. 448 comma 1 c.p.p.), il giudice – avendo acquisito una " piena cognitio" degli elementi di prova nel corso del processo – dovrà necessariamente tenerne conto nella motivazione, e non potrà limitarsi ad una ricognizione sommaria di quelli che giustificano la condanna, e ad affermare che non ve ne sono a favore del proscioglimento. In forza della presunzione di innocenza, dovrà assolvere l'imputato ai sensi dell'art. 530 comma 2, ove sussista un ragionevole dubbio in ordine alla sua colpevolezza (Cass. III, n. 7951/2017).

Nell'esperienza giudiziaria si nota frequentemente il richiamo, nel dispositivo della sentenza di assoluzione pronunziata per insufficienza o contraddittorietà della prova, al secondo comma dell'art. 530 (raramente al comma 3), ma si tratta di una prassi priva di efficacia concreta e non perfettamente coerente con il principio della rinunzia legislativa alla previsione della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove, non compatibile con il principio costituzionale di non colpevolezza.

Quanto alla prevalenza delle formule assolutorie, secondo l'orientamento prevalente, in presenza di una causa estintiva del reato, non è applicabile la regola probatoria, prevista dall'art. 530, comma 2, c.p.p., da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che la prova dell'innocenza emerga «positivamente» dagli atti, senza necessità di ulteriori accertamenti; altrimenti, dovrà procedersi alla immediata declaratoria di estinzione del reato (Cass. IV, n. 55519/2018).

Pertanto, la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato, ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova, che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Cass. VI, n. 10284/2014).

Il principio subisce una sola deroga, in sede di appello, in presenza di una parte civile costituita: all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito non prevale sulla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, allorchè il giudice, sopravvenuta una causa estintiva del reato, sia chiamato a valutare, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili (Cass. IV, n. 20568/2018).

In caso, poi, di estinzione del reato per  remissione di querela, il giudice, prima di prosciogliere con la corrispondente formula, è tenuto a verificare se sussistano le condizioni per il proscioglimento nel merito, condizioni che, nelle fasi anteriori al dibattimento caratterizzate da un limitato materiale probatorio, si verifica solo se dagli atti già acquisiti risulti "evidente" la innocenza dell'imputato (Cass. V, n. 42260/2004).

Risulta coerente con i principi qui richiamati, la decisione secondo cui l'insufficienza o contraddittorietà della prova non legittima l'emissione della sentenza di proscioglimento ex art. 129 ad opera del giudice chiamato ad applicare la pena su richiesta delle parti (Cass. II, n. 6095/2009).

L’interesse ad impugnare

Ogni gravame deve necessariamente tendere all'eliminazione della lesione di un diritto, non essendo prevista la possibilità di proporre un'impugnazione che miri unicamente ad ottenere un parere pro veritate, senza che ne consegua un vantaggio pratico per il ricorrente o senza che si elimini un danno (Cass. III, n. 23485/2014).

In applicazione di tale, generale principio, deve ritenersi inammissibile l'impugnazione del pubblico ministero per il mutamento della formula "perché il fatto non costituisce reato" in quella "perché il fatto non sussiste", in quanto l'interesse del P.M. ad impugnare sussiste non ogni qualvolta sia ravvisabile la violazione o l'erronea applicazione della legge, ma solo quando risulti concreto ed attuale l'interesse per l'accusa all'impugnazione (Cass. VI, n. 43952/2015).

È inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso per cassazione con il quale il pubblico ministero deduca profili di carenza nell'accertamento dei fatti in ordine a pronuncia assolutoria adottata dal giudice di secondo grado con la formula "perché il fatto non sussiste", quando la causa estintiva della prescrizione del reato era già intervenuta in epoca antecedente all'emissione della sentenza di primo grado, poiché il mezzo di impugnazione deve perseguire un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole; né la mera presenza delle parti civili, che non abbiano impugnato la sentenza d'appello, determina l'operatività dell'art. 578,  atteso il contenuto assolutorio delle sentenze di primo e secondo grado (Cass. IV, n. 1229/2018).

È pure inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal Pubblico Ministero avverso una sentenza di assoluzione, qualora l'imputato nelle more sia deceduto, non potendosi instaurare il contraddittorio tra le parti, con conseguente sopravvenuta carenza di legittimazione al gravame (Cass. VI, n. 6427/2017).

È invece ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione pronunciata sulla base di un'errata applicazione della legge sostanziale, quand'anche all'accoglimento debba seguire la dichiarazione di una causa di estinzione del reato già maturata (nella specie, la prescrizione), atteso l'interesse attuale dell'organo della pubblica accusa all'affermazione della corretta applicazione della legge (Cass. II, n. 6534/2022).

Ancora, nell'ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, non vi è l'interesse del pubblico ministero ad impugnare con ricorso per cassazione la mancata statuizione concernente l'ordine di trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni relative a un illecito depenalizzato, poiché l'impugnazione non sarebbe finalizzata ad eliminare una decisione pregiudizievole sotto il profilo della violazione di norme di diritto sostanziale o processuale (Cass. III, n. 38223/2017).

Con riferimento all'imputato - una volta che sia stata pronunciata, a seguito dell'abolizione della formula dubitativa, assoluzione ai sensi dell'art. 530, comma 2, avendo il giudice ritenuto insufficienti le prove acquisite - viene meno qualunque apprezzabile interesse dell'imputato al conseguimento di una più favorevole sentenza, in quanto la conclusiva statuizione in essa contenuta non può essere modificata, quale che sia il giudizio esprimibile sulla prova della responsabilità dell'accusato, e cioè sia che sia stata acquisita la prova positiva della sua innocenza, sia che la prova della sua responsabilità si sia rivelata soltanto insufficiente: l'interesse all'impugnazione, sebbene non possa essere confinato nell'area dei soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale, neanche può essere concepito come aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute pregiudizievoli, perché esplicative di una perplessità sull'innocenza dell'imputato (Cass. S.U. n. 2110/1996Cass. III, n. 23485/2014 ; Cass. III, n. 51445/2016).

D'altronde, la formula assolutoria ex art. 530 comma 1, non comporta una maggior pregnanza rispetto a quella di cui al comma secondo dell stessa norma neanche in ordine agli effetti extrapenali (Cass. VI, n. 49554/2018).

È altresì inammissibile per carenza d'interesse il ricorso dell'imputato avverso la sentenza di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato", al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria "perchè il fatto non sussiste", ove la sentenza impugnata sia affetta da una palese incoerenza della decisione assolutoria con la motivazione e, pur escludendo la prova dell'elemento oggettivo del reato, assolva ritenendo carente il profilo psicologico, perché ciò esclude ogni pregiudizio per l'impugnante (Cass. VI, n. 6692/2014; v. però, per un diverso orientamento, Cass. IV, n. 46849/2011).

Analogamente, non vi è interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato" onde ottenere la più ampia formula liberatoria "perché il fatto non sussiste", quando il fatto reato non risulti accertato nella sua materialità, e dunque non vi sia alcun pregiudizio nella prospettiva di un successivo giudizio civile, stante la piena autonomia di cognizione e di valutazione dell'organo investito del relativo giudizio (Cass. IV, n. 22614/2017).

Per un diverso orientamento, vedi Cass. III, n. 35277/2016, secondo cui ricorre l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula "perché il fatto non costituisce reato", al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria "perché il fatto non sussiste", poiché (a parte le conseguenze di natura morale) l'interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti, che gli artt. 652 e 653 connettono al secondo tipo di dispositivo nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare (Cass. VI, n. 49831/2018).

Non sussiste l'interesse dell'imputato assolto per difetto dell'elemento psicologico a proporre impugnazione per contestare la logicità della motivazione deducendo ulteriori elementi a sostegno dell'insussistenza dell'elemento soggettivo, atteso che l'eventuale accoglimento dei motivi dedotti non potrebbe determinare il mutamento della formula assolutoria (Cass. VI, n. 49538/2016).

Quanto, poi, alla parte civile, è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso della stessa diretto esclusivamente alla sostituzione della formula "perché il fatto non sussiste" con quella "perché il fatto non costituisce reato", non potendo avere rilievo, ai fini dell'esercizio dell'azione civile, la circostanza che l'imputato non sia stato assolto con tale ultima formula: la sentenza, contenendo l'accertamento dell'insussistenza del fatto, produrrebbe comunque l'effetto di giudicato nel giudizio civile (Cass. III, n. 497/2022;Cass. IV, n. 1229/2018).

Sussiste invece l'interesse della parte civile ad impugnare la decisione assolutoria pronunciata con la formula "perché il fatto non costituisce reato", in quanto le limitazioni all'efficacia del giudicato previste dall'art. 652 non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione ad essa riconosciuto in termini generali nel processo penale dall'art. 576, imponendosi altrimenti alla stessa di rinunciare agli esiti dell'accertamento compiuto nel processo penale e di riavviare "ab initio" l'accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Cass. IV, n. 14194/2021).

Le cause di giustificazione, di inimputabilità, di non punibilità

Come detto sopra, il legislatore ha previsto un'apposita disposizione per le esimenti e le cause personali di non punibilità, prevedendo che il giudice assolva l'imputato sia nel caso di prova positiva certa, che di prova dubbia circa la loro esistenza.

Non risulta richiamato nella norma il caso in cui la prova della esistenza sia del tutto mancante, ma ciò si giustifica per il fatto che, rispetto alle cause di giustificazione e di non punibilità, per la loro intrinseca natura, non è possibile equiparare la situazione di mancanza di prova positiva alla prova della loro inesistenza (Rel. al Prog. Prel. 1978).

Le cause di giustificazione, o cause scriminanti o esimenti, sono circostanze che escludono l'antigiuridicità del fatto (secondo la teoria tripartita del reato), anche quando ritenute erroneamente presenti per errore scusabile (c.d. scriminanti putative)e sono disciplinate negli artt. 50-55 e 59 c.p.: consenso dell'avente diritto, esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, difesa legittima, uso legittimo delle armi, stato di necessità, con il limite dell'eccesso colposo Le cause personali di non punibilità sono invece situazioni che escludono la punibilità dell'imputato, e sono ispirate a ragioni di convenienza o di pratica opportunità, caratterizzate dalla non estensibilità ai concorrenti del soggetto cui afferiscono (Marzaduri, sub art. 530): ad es. la ritrattazione di cui all'art. 376 c.p.; la non punibilità di cui all'art. 649 c.p.

Nel caso di  "abolitio criminis" intervenuta nel giudizio di rinvio successivo ad annullamento in sede di legittimità di una sentenza assolutoria per mancanza di imputabilità per vizio di motivazione attinente la riferibilità materiale del fatto all'imputato, il giudice, prima di dichiarare il non doversi procedere a carico dell'imputato "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato", deve verificare la possibilità di emettere la più favorevole formula assolutoria "per non aver commesso il fatto” (Cass. I, n. 9753/2017).

La giurisprudenza è costante nell'affermare che incombe all'imputato, che deduca una determinata situazione di fatto a sostegno dell'operatività di un'esimente, se non un vero e proprio onere probatorio, inteso in senso civilistico, quanto meno un compiuto onere di allegazione di elementi di indagine, per porre il giudice nella condizione di accertare la sussistenza o quanto meno la probabilità di sussistenza della causa di giustificazione. Pertanto, la mera indicazione di una situazione astrattamente riconducibile all'applicazione di un'esimente, non può legittimare la pronuncia assolutoria ex art. 530 cpv., risolvendosi il dubbio sull'esistenza dell'esimente, nell'assoluta mancanza di prova al riguardo (Cass. VI, n. 28115/2012).

Diversamente, il dubbio sull'esistenza, per prova insufficiente o per un mero principio di prova, e quindi al di fuori di casi in cui la causa di giustificazione sia soltanto allegata dalla parte e non provata, comporta l'assoluzione dell'imputato (Cass. I, n. 20867/2010).

Naturalmente, la dichiarazione dell'imputato non può costituire da sola la prova incompleta o il principio di prova di una causa di giustificazione che, ai sensi dell'art. 530 comma 3 c.p.p., impone la pronuncia di una sentenza assolutoria (Cass. V, n. 3017/2020).

In conclusione, il sistema posto dagli artt. 529, comma 2, 530, comma 3 e 531, comma 2, consente di affermare che il dubbio sull'esistenza di una condizione di procedibilità, di una causa di giustificazione o di estinzione del reato o di "cause personali di non punibilità" comporta il proscioglimento del soggetto. Il favor innocentiae trova applicazione per l'incertezza incidente su elementi fattuali dell'iter criminis, come il tempus commissi delicti, rilevanti ai fini dell'applicazione dell'amnistia, della prescrizione o della tempestività della querela.

Il dubbio non opera, invece, a favore dell'imputato per l'incertezza relativa al post delictum, per le cause estintive dei reati e le condizioni d'improcedibilità a carattere potestativo, legate a prestazioni o attività che, richieste all'imputato o da lui provocate - remissione espressa di querela e relativa accettazione, oblazione, pagamento del tributo per i reali fiscali, sanatoria per i reati edilizi, pagamento di somme in materia di assegni a vuoto - e risultanti da atti formali e processuali o, comunque, in modo positivo e rigoroso, dalla prova penale, sono inconciliabili con il dubbio stesso, e non giustificano un favor innocentiae al di là dell'atto richiesto e non dimostrato.

Le cause potestative di non punibilità, quindi, debbono essere configurate come comportamenti positivi ineludibili, connessi con il potere, attribuito all'imputato, di paralizzare il processo o di estinguere il reato con una prestazione o un atto formale: tale circostanza non tollera una presupposizione di apparenza in bonam partem, ma postula l'effettività e la probatio plena della dazione o dell'atto, nei termini e nelle forme imposte dalla legge, quale imprescindibile condizione per una statuizione favorevole (Cass. V, n. 5182/1998): si pensi ad es. all'art. 641 comma  2 c.p.

In dottrina si è autorevolmente affermato (Cordero, 996), che le cause di giustificazione e di non punibilità non costituiscono elementi negativi della fattispecie criminosa, ma che anche laddove tali volessero ritenersi, non incombe al pubblico ministero l'onere di fornire prova della loro insussistenza (Lozzi, 603).

Le misure di sicurezza conseguenti a sentenza di assoluzione

Come rilevato in giurisprudenza, il nostro sistema, basato sugli artt. 205 comma  1 c.p., 236 comma  2 c.p., 530 comma  4  c.p.p. e. 533 comma  1 c.p.p., attribuisce al giudice della cognizione il potere, nel pronunciare sentenza di assoluzione o di condanna dell'imputato, di applicare le eventuali misure di sicurezza, personali o patrimoniali.

Nessuna nullità è ricollegata ad un'eventuale applicazione successiva di misura di sicurezza personale, con separato provvedimento, ai sensi degli artt. 312 e 313; diversamente, la confisca, qualora non disposta in sentenza, può essere ordinata solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di merito, dal giudice dell'esecuzione, su domanda di parte e secondo le regole e le garanzie stabilite per il relativo procedimento dall'art. 676 comma 1. Ne consegue che il rimedio predisposto per l'omessa decisione sul punto, è solo ed esclusivamente l'impugnazione e non certo una separata decisione, assunta dal tribunale dopo l'emissione della sentenza di condanna; non a caso, l'art. 676 attribuisce al giudice dell'esecuzione la decisione in ordine alla confisca, quando la sentenza sia passata in giudicato ed il giudice della cognizione non abbia provveduto alla confisca obbligatoria: non risulta quindi previsto che il giudice della cognizione possa provvedere con separata ordinanza, una volta che il processo sia stato definito con la lettura del dispositivo (Cass. VI, 10623/2014).

E' quindi abnorme il provvedimento con cui il giudice della cognizione disponga la confisca mediante il procedimento di correzione degli errori materiali dopo il passaggio in giudicato della sentenza, poiché all'omessa pronunzia ablatoria è possibile porre rimedio solo con lo strumento previsto dall'art. 676 c.p.p., specificamente dettato per l'ipotesi di beni oggetto di confisca obbligatoria (Cass., VI, n. 25602/2020).

Casistica

Quando il fatto contestato non corrisponda ad alcuna norma incriminatrice, l'assoluzione deve essere pronunziata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, dal momento che l'insussistenza del fatto deve derivare da un positivo accertamento sul fatto storico, stante il rilievo riflesso della sentenza penale su altri affari, penali, civili ed amministrativi (Cass. III, n. 36859/2014).

In caso di assoluzione, l'applicazione di misure di sicurezza non consente di provvedere alle statuizioni civili (Cass. I, n. 45228/2013), ed altrettanto dicasi in caso di assoluzione per causa scriminante putativa (Cass. IV, n. 33178/2012).

La mera indicazione di disagio abitativo non giustifica l'invasione di edifici (Cass. VI, n. 28115/2012); al contrario, un principio di prova circa la sussistenza, sia pure dubbia, di una causa di giustificazione, impone l'assoluzione (Cass. I, n. 20867/2010).

In caso di esecuzione di una pluralità di provvedimenti emessi da giudici diversi, la competenza appartiene al giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, anche quando questo è costituito da una sentenza di proscioglimento, a condizione che tale sentenza comporti effetti esecutivi per effetto dei quali deve essere inserita nel casellario giudiziale oppure, pur non dovendo essere inserita nel casellario giudiziale, contenga statuizioni geneticamente idonee ad investire il giudice dell'esecuzione (Cass. I, n. 9547/2018).

In tema di responsabilità amministrativa dell'ente, l'imputato del reato presupposto dichiarato prescritto, ove pure rivesta nell'ente un ruolo apicale, non ha un interesse giuridicamente qualificato ad ottenere una valutazione nel merito del compendio probatorio, al fine di ottenere una pronuncia di proscioglimento ex art. 530, che indirettamente produca effetti in favore dell'ente, poiché la responsabilità amministrativa grava su un soggetto diverso ed è retta dal principio di autonomia rispetto a quella penale (Cass. VI, n. 11626/2020).

In caso di sentenza di assoluzione di due coimputati per il medesimo reato, contestato nell'ambito del medesimo procedimento, la scelta insindacabile del pubblico ministero di non proporre impugnazione contro il proscioglimento nel merito di uno degli stessi (nella specie, deceduto), non determina alcun effetto preclusivo ai fini dell'impugnazione della sentenza assolutoria nei confronti dell'altro coimputato (Cass. II, n. 32033/2019).

Bibliografia

Lozzi, Lezioni di procedura penale, Milano, 2013; Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2013.

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