Codice di Procedura Penale art. 559 - Dibattimento 1 .

Sergio Beltrani

 Dibattimento1.

1. Il dibattimento si svolge secondo le norme stabilite per il procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, in quanto applicabili [162 att.].

2. Anche fuori dei casi previsti dall'articolo 140, il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva se le parti vi consentono e il giudice non ritiene necessaria la redazione in forma integrale.

3. L'esame diretto e il controesame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate nell'articolo 210 e delle parti private sono svolti dal pubblico ministero e dai difensori. Su concorde richiesta delle parti, l'esame può essere condotto direttamente dal giudice sulla base delle domande e contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori.

4. In caso di impedimento del giudice, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale previa menzione della causa della sostituzione [546 2].

 

[1] Il libro VIII del codice, comprendente gli articoli da 549 a 567, è stato interamente sostituito dall'art. 44 l. 16 dicembre 1999, n. 479

Inquadramento

Con riguardo ai reati di competenza del tribunale in composizione monocratica, l'art. 559, comma 1, richiama, per l'ennesima volta (cfr. art. 549 c.p.p.), le disposizioni che regolano il procedimento dinanzi al tribunale in composizione collegiale, in quanto applicabili.

I requisiti di legittimazione soggettiva del giudice nel giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica

L'art. 7-bis, comma 2-quater, ord. giudiz. (R.d. n. 12/1941), introdotto dall'art. 57 l. n. 479/1999 (« Il tribunale in composizione monocratica è costituito da un magistrato che abbia esercitato la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni ») è stato abrogato dall'art. 4, comma 20,  l. n. 111/2007; il successivo comma 2-quinquies, inserito contestualmente, e successivamente non abrogato, precisa, tuttavia, che la suddetta previsione (come — attualmente — quelle di cui ai commi 2-bis e 2-ter) poteva essere derogata per imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio.

Nessuna conseguenza era, comunque, ricollegata, secondo la dottrina, all'esercizio delle funzioni di giudice monocratico da parte di magistrato con meno di tre anni di esercizio di funzioni giurisdizionali, « peraltro espressamente consentito in presenza di “imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio”, il che sarebbe, al contrario, impossibile ove la questione riguardasse la corretta costituzione del giudice: tale valutazione, riservata esclusivamente al presidente del tribunale, riguarda mere questioni tabellari inerenti all'organizzazione interna dell'ufficio, ed è, quindi, priva di riflessi esterni sulla validità dei singoli processi, ed insindacabile dalle parti » (Beltrani, 46).

Ed infatti la giurisprudenza era ferma nel ritenere che « la destinazione a funzioni monocratiche dibattimentali di magistrato che non abbia esercitato — come prescritto dall'art. 7-bis R.d. n. 12/1941, inserito dall'art. 57, comma 1, l. n. 479/1999 — per almeno tre anni funzioni collegiali non integra un vizio attinente alla capacità del giudice e, pertanto, non dà luogo alla nullità prevista dall'art. 178, comma 1, lett. a), c.p.p., atteso che la violazione di disposizioni riguardanti l'assegnazione di giudici a determinate funzioni o uffici ricade nella disciplina di cui all'art. 33 comma 2 dello stesso codice, per il quale non si considerano attinenti alla capacità le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari ed alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sull'assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici, la cui inosservanza, da assimilare a quella delle disposizioni in materia tabellare, comporta mera irregolarità » (Cass. VI, n. 27862/2001 e Cass. III, n. 13982/2001).

Le funzioni di giudice monocratico possono essere ricoperte anche dai giudici onorari addetti al tribunale (cfr. art. 43-bis ord. giudiz., introdotto dall'art. 10 d.lgs. n. 51/1998); tuttavia:

a ) essi non possono tenere udienza se non nei casi di impedimento o di mancanza dei giudici ordinari: in proposito, attraverso la soppressione dell'inciso « di regola », che accompagnava originariamente, nello schema di decreto, la previsione suddetta, si è inteso (cfr. la Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 51/1998, § 1.3.2) « evitare abusi nell'utilizzazione dei magistrati onorari quando le funzioni possano essere svolte da quelli ordinari »; la dottrina (Riviezzo, Giudice unico, 3495) ha, peraltro, acutamente osservato che « se si riterrà, come è stato finora, che l'impedimento per motivi di servizio giustifica il ricorso all'utilizzazione del giudice onorario, si tratterà di una disposizione destinata a rimanere sulla carta »;

b ) non può essere loro assegnata (nella materia penale) la funzione di giudice per le indagini preliminari (e di giudice dell'udienza preliminare), nonché, per quanto riguarda il dibattimento, la trattazione di procedimenti diversi da quelli previsti dall'art. 550 c.p.p., ovvero di quelli per i quali deve procedersi con citazione diretta a giudizio del p.m.

Per quanto riguarda le conseguenze processuali delle violazioni dei criteri dettati dalla legge per la designazione di un giudice onorario ai fini dell'esercizio della funzione di giudice monocratico, la formulazione adottata dell'art. 43-bis comma 3 ord. giudiz., relativa ai criteri di assegnazione degli affari penali ai giudici onorari di tribunale, secondo la già citata Relazione ministeriale al d.lgs. n. 51/1998, « rende palese che la disposizione è destinata ad operare come regola di organizzazione dell'ufficio, senza ampliare l'ambito delle questioni inerenti alla capacità del giudice, in guisa da evitare — conformemente allo spirito della legge delega (v. l'art. 1, comma 1, lett. i) — che eventuali inosservanze possano avere perniciosi riflessi sul piano processuale quali cause di nullità assoluta ed insanabile », ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. a), e 179.

La giurisprudenza, in proposito, è ferma nel ritenere che:

a ) nei casi in cui si faccia ricorso ad un giudice onorario senza che vi sia mancanza od impedimento del giudice togato, non vi sono conseguenze processuali, poiché la violazione riguarda unicamente l'organizzazione interna dell'ufficio, e non assume rilevanza esterna sui singoli processi: il principio è più volte stato affermato, anche dalla giurisprudenza civile (Cass. IV, 12 maggio 1992 ; conforme, Cass. civ. III, n. 7745/1993,  per la quale il provvedimento con il quale il presidente del tribunale designa un v.p.o. in supplenza attiene esclusivamente al processo interno di formazione del collegio, essendo diretto a disciplinare il funzionamento diretto degli organi giudiziari per una sollecita e corretta amministrazione della giustizia, e non incide né sulla capacità né sulla costituzione del giudice, ed anche la mancanza di un formale provvedimento di designazione del v.p.o. in supplenza è irrilevante);

b ) la trattazione, da parte del giudice onorario, di un procedimento penale diverso da quelli indicati dall'art. 43-bis, comma 3, lett. b), dell'ordinamento giudiziario, e cioè riferito a reati non previsti nell'art. 550 c.p.p., non è causa di nullità, in quanto la disposizione ordinamentale introduce un mero criterio organizzativo di ripartizione dei procedimenti tra i giudici ordinari e quelli onorari (Cass. I, n. 13573/2009: fattispecie relativa a convalida d'arresto ed emissione di misura cautelare della custodia in carcere disposte da tribunale in composizione monocratica; Cass. IV, n. 41988/2006 che, in applicazione del principio, ha rigettato il ricorso che deduceva la nullità della sentenza per essere stato tenuto, il giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado emessa da un giudice di pace, da un giudice onorario, pur trattandosi di procedimento non ricompreso tra quelli previsti dall'art. 550 c.p.p.; Cass. VI, n. 20517/2003, in fattispecie nella quale il giudice onorario si era, peraltro, limitato a disporre un mero rinvio dell'udienza).

Si è, inoltre, precisato che, in caso di assenza o mancanza del giudice professionale, i giudici onorari, in base all'art. 43-bis ord. giud.,possono trattare tutti i processi di cui all'art. 550 c.p.p., senza alcuna distinzione tra fase di cognizione e fase di esecuzione (Cass. I, n. 22716/2013).

È stata ritenuta abnorme l'ordinanza con la quale un giudice onorario, dopo aver rilevato che il processo era stato originariamente assegnato ad un giudice togato, aveva disposto la restituzione degli atti al p.m. previa declaratoria di nullità dell'attività dibattimentale compiuta, ma senza rilevare alcuna nullità del decreto di citazione a giudizio, in quanto la restituzione all'ufficio del p.m. provoca un'indebita regressione del processo già pendente in fase dibattimentale (Cass. III, n. 8333/2008).

I requisiti di legittimazione soggettiva del pubblico ministero nel giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica

Le funzioni del pubblico ministero, ai sensi dell'art. 72 ord. giud., (r.d. n. 12/1941) possono essere svolte, in materia penale, previa delega nominativa del procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario:

a) nell'udienza dibattimentale, da uditori giudiziari, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio, da personale in quiescenza da non più di due anni, che nei cinque anni precedenti abbia svolto funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria, da laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali di cui all'art. 16 d.lgs. n. 398/1997: va seguito il criterio di non delegare le funzioni di p.m. in relazione a procedimenti riguardanti reati diversi da quelli per i quali si procede con citazione diretta a giudizio secondo quanto previsto dall'art. 550 c.p.p.;

b) nell'udienza di convalida dell'arresto o del fermo, da uditori giudiziari con almeno sei mesi di tirocinio (a differenza da quanto si prevede per l'esercizio delle funzioni di p.m. in udienza dibattimentale) nonché, limitatamente alla convalida dell'arresto nel giudizio direttissimo, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio in servizio da almeno sei mesi (anche in questo caso, a differenza di quanto si prevede per l'esercizio delle funzioni di p.m. in udienza dibattimentale). La giurisprudenza ha ritenuto che « la delega conferita dal procuratore della Repubblica al vice procuratore onorario e al magistrato ordinario in tirocinio da almeno sei mesi per lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero nell'udienza di convalida dell'arresto o del fermo, nei rispettivi ambiti stabiliti dall'art. 72 comma 2 lett. b) ord. giud., comprende la facoltà di richiedere l'applicazione di una misura cautelare personale » (Cass., S.U., n. 13716/2011);

c) per la richiesta di emissione del decreto penale di condanna ai sensi degli artt. 459, comma 1, e 565 (ora 557.) ì da vice procuratori onorari addetti all'ufficio; d) nei procedimenti in camera di consiglio, ex art. 127 c.p.p., salvo quanto previsto dalla lett. b), e nei procedimenti di esecuzione ai fini dell'intervento di cui all'art. 655, comma 2.

Ai sensi dell'art. 162 disp. att. c.p.p., la delega:

a) va conferita con atto scritto;

b) va annotata in un apposito registro;

c) va esibita in dibattimento.

Un consolidato orientamento giurisprudenziale (inizialmente riferito al procedimento pretorile) ritiene che la mancata esibizione della delega in dibattimento non dia luogo a nullità del giudizio, poiché l'art. 162 disp. att. c.p.p. dispone l'esibizione dell'atto, ma non la sua allegazione agli atti del processo, né, in proposito, risulta prevista la sanzione di nullità, e, d'altro canto, non ricorre alcuna delle ipotesi di nullità di ordine generale; si osserva, inoltre, che il sistema processuale vigente risulta ispirato al principio della presunzione di legittimità degli atti processuali, con la conseguenza che « l'atto delegativo deve presumersi fino a prova contraria, e non può escludersi in base alla semplice sua mancata esibizione » (Cass. I, n. 19220/2003; Cass. VI, n. 29728/2003; Cass. IV, n. 24043/2004; Cass. V, n. 32728/2010).

Ai sensi dell'art. 162 disp. att. c.p.p., nel caso in cui si presenti la necessità di prestare il consenso all'applicazione della pena su richiesta della parte oppure al rito abbreviato, ovvero si debba procedere a nuove contestazioni, il p.m. delegato può consultare il procuratore della Repubblica, ed il giudice può, conseguentemente, sospendere l'udienza per il tempo strettamente necessario.

Sempre in tema di delega conferita dal procuratore della Repubblica al vice procuratore onorario ed al magistrato ordinario in tirocinio per lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero, si è autorevolmente precisato che « devono considerarsi come non apposte le condizioni o restrizioni non previste dalla legge ivi eventualmente inserite, delle quali, quindi, il giudice non deve tenere alcun conto » (Cass. S.U., n. 13716/2011 cit.).

Per quanto riguarda le conseguenze processuali delle violazioni dei criteri dettati dalla legge per la designazione di un pubblico ministero non togato ai fini dell'esercizio delle funzioni dinanzi al giudice monocratico, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che la violazione del divieto della non delegabilità delle funzioni di pubblico ministero a soggetti non togati nei procedimenti diversi da quelli per cui si procede a citazione diretta non determini alcuna nullità degli atti processuali o della sentenza emessa a conclusione del grado di giudizio cui ha partecipato il soggetto non delegabile, costituendo mera irregolarità non sanzionata da alcuna nullità ex art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p. (Cass. VI, n. 2232/2011; Cass. I, n. 21350/2007; Cass. IV, n. 32279/2009 e n. 30439/2005, per la quale, in particolare, « il criterio della non delegabilità delle funzioni di p.m. a soggetti non togati nei procedimenti per reati diversi da quelli per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio, stabilito dall'art. 72  ultimo comma dell'ordinamento giudiziario, costituisce una prescrizione per i dirigenti degli uffici requirenti, relativa all'organizzazione del lavoro nelle procure, ma non ha rilievo esterno all'ufficio e non incide sulla validità delle deleghe conferite e degli atti compiuti. Detta normativa, infatti, detta soltanto un criterio di massima al quale l'organo delegante deve attenersi compatibilmente con le inderogabili esigenze di funzionamento dell'ufficio, senza che l'apprezzamento di tali esigenze possa assumere rilievo esterno all'ufficio e dar luogo ad implicazioni sulla capacità della parte pubblica nel processo »; fatte queste premesse, in un procedimento per omicidio colposo, la Corte ha escluso che potesse farsi discendere, dalla partecipazione al processo di un ufficiale di polizia giudiziaria, in qualità di delegato del procuratore della Repubblica, alcuna nullità degli atti processuali e della sentenza). Si è anche ritenuto che è abnorme l'ordinanza con cui il giudice monocratico, rilevato che la pubblica accusa era rappresentata da un vice procuratore onorario anziché da un magistrato togato quantunque il reato per cui si procedeva fosse punito con pena edittale superiore a quattro anni nel massimo, abbia rinviato l'udienza dibattimentale, poiché il mancato rispetto della regola fissata dall'art. 72 r.d. n. 12/1941 ord. giud. non influisce comunque sulla capacità processuale della parte pubblica (Cass. IV, n. 3986/2000).

Il verbale di udienza

L'art. 559, comma 2, stabilisce che il verbale di udienza deve essere redatto soltanto in forma riassuntiva (e, cioè, senza il supporto della fonoregistrazione), anche fuori dai casi previsti dall'art. 140 c.p.p., purché le parti vi consentano ed il giudice ritenga non necessaria la verbalizzazione integrale; in caso contrario, tale forma di verbalizzazione sarà consentita soltanto ricorrendo uno dei casi di cui al citato art. 140.

La nuova attribuzione al giudice del potere discrezionale di valutare, anche in presenza dell'accordo delle parti, l'opportunità o meno di procedere con verbalizzazione in forma riassuntiva recepisce il precedente orientamento, per il quale, in ogni caso, il giudice non doveva ritenersi vincolato dall'accordo delle parti, ma conservava la discrezionalità di scegliere tra la verbalizzazione in forma riassuntiva e quella integrale. La facoltà di optare per la verbalizzazione in forma riassuntiva si spiega, secondo la dottrina, «sulla base di una sorta di presunzione [peraltro relativa, perché sempre superabile dal giudice] di [maggior] semplicità delle vicende giudiziarie affidate all'organo monocratico, presunzione sempre meno accettabile alla luce dell'attuale estensione delle relative attribuzioni, ed è comunque tuttora collegata (come in precedenza: cfr. il “vecchio” art. 567 comma 4) all'ulteriore deroga apportata con il comma 3 dell'articolo 559 al regime ordinario di conduzione del dibattimento» (Marzaduri, 76).

Invero, la verbalizzazione manuale (sia in forma integrale sia in forma riassuntiva) appare assolutamente inadeguata a seguire i tempi e rendere conto delle risultanze della cross examination cui tuttora (nonostante le numerose contaminazioni che il principio di oralità ha subito) sono essenzialmente affidati i destini del processo penale: l'ausiliario dovrebbe, manualmente, verbalizzare, anche sinteticamente, sia le domande (ai sensi dell'art. 136 comma 2) sia le risposte, oltre alle eventuali contestazioni ed alle circostanze accessorie di ciascuna deposizione utili a valutarne l'attendibilità, il tutto a fronte di un contraddittorio che, per essere efficace, deve necessariamente essere serrato. La dottrina più autorevole ha osservato che la verbalizzazione in forma riassuntiva nasce da un lavoro assai complicato: « l'addetto seleziona i materiali, attento ai nuclei: e li coglie “nell'originaria genuina espressione”, fissando le parole tali e quali suonavano, fino all'ultima sillaba (...); indi, variando chiave, passa alle descrizioni, incluso tutto quanto serva a valutarne la credibilità. Operazioni simili richiedono vari talenti, nient'affatto comuni: sensibilità semantica, istinto analitico, discernimento giuridico, abilità tachigrafica, acume percettivo, visione introspettiva, lingua pittorica » (Cordero, 337).

Alla luce di queste considerazioni, non può destare meraviglia che il risultato, nell'esperienza pratica delle aule di giustizia, desti frequentemente molte perplessità, risultando anni luce lontano dal modello previsto (utopisticamente) dall'art. 140 c.p.p.

Va, pertanto, accolta favorevolmente l'introduzione della previsione che, anche a prescindere dal consenso delle parti (non necessariamente interessate ad un'efficace verbalizzazione, od avvedute dei rischi della verbalizzazione riassuntiva), sia comunque il giudice a decidere sulla possibilità o meno (tenuto conto della complessità, in concreto, delle attività istruttorie da svolgere) di procedere con verbalizzazione in forma soltanto riassuntiva, soprattutto se e quando siano disponibili altri strumenti di riproduzione e tecnici ausiliari.

Ormai, dopo le prime incertezze ed inerzie — fisiologiche quando la pubblica amministrazione viene in contatto con possibili miglioramenti tecnologici — tutti gli uffici sono attrezzati per la verbalizzazione stenotipica; è, in proposito, auspicabile che i giudici monocratici, di concerto con i capi degli uffici, ove risulti impossibile la stabile assistenza di tecnici idonei alla verbalizzazione stenotipica, predispongano i ruoli di udienza in modo da concentrare in specifiche udienze (nelle quali il servizio stenotipico sia disponibile) i processi nei quali debba essere svolta l'attività istruttoria più complessa o rilevante.

Va, in argomento, ricordato il non recente, ma sempre attuale, orientamento della giurisprudenza costituzionale, a parere della quale la disposizione dell'art. 2, dir. 8, della l. delega n. 81/1987 (che prevede la possibilità di una verbalizzazione del dibattimento in forma riassuntiva), non è lesiva né del principio di ragionevolezza, né del diritto di difesa, e neppure può dirsi incompatibile con le altre direttive della medesima legge (art. 2 nn. 2, 66 e  art. 73) che impongono l'oralità, l'immediatezza e la concentrazione del dibattimento, l'esame diretto dell'imputato e dei testimoni e la realizzazione del sistema accusatorio: « nella norma in questione, infatti, la verbalizzazione in forma riassuntiva è meramente alternativa rispetto a quella integrale che il legislatore delegante ha mostrato di preferire e, d'altra parte, è ragionevole prevedere che, in alcune ipotesi, non sia essenziale, per garantire il contraddittorio, assicurare la pedissequa corrispondenza della documentazione agli atti che essa riproduce. Inoltre, quanto ai principi della legge di delega, essi non possono essere intesi in senso assoluto ma vanno invece considerati nel complessivo ambito generale della disciplina concreta nella quale si traducono, con le deroghe e le eccezioni, cioè, che il legislatore, senza svuotarli di contenuto, ha ritenuto di porre »; inoltre, si era evidenziato che la previsione dell'art. 567, comma 3 (oggi sostituito dalla disposizione in commento), secondo il quale, anche al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 140, il verbale di udienza può essere redatto solo in forma riassuntiva, se le parti vi consentono, « non viola né la direttiva n. 8 della legge di delega, che affida esclusivamente al giudice, senza alcun condizionamento, la scelta di una documentazione degli atti processuali diversa da quella normalmente prevista, né il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, in quanto il giudice, pur in presenza di un eventuale accordo delle parti, è comunque libero di applicare la norma che prevede l'alternativa fra la redazione integrale e la redazione riassuntiva (art. 134 c.p.p.), nonché la norma che, in presenza di determinati presupposti, lo facultizza ad adottare la seconda, anche a prescindere dalla riproduzione fonografica (art. 140 c.p.p.) » (Corte cost. n. 284/1992).

In seguito, la stessa giurisprudenza costituzionale aveva anche osservato che « la scelta circa il metodo di verbalizzazione non è rimessa all'arbitrio del giudice, che è invece responsabile del buon andamento del processo affinché si svolga nel modo più rispondente alle sue finalità, anche se gli aspetti meramente ordinatori, come quello de quo, sono solitamente insuscettibili di riesame, e d'altra parte il ricorso alla forma riassuntiva, o comunque alla scrittura normale, quando sono indisponibili i mezzi di riproduzione come la stenotipia o altro strumento meccanico, è imposto dal principio di indefettibilità della funzione giurisdizionale che non potrebbe certamente essere impedita o sospesa a causa della materiale indisponibilità di tali strumenti » (Corte cost., n. 23/1993).

Per il caso in cui il giudice monocratico abbia proceduto alla verbalizzazione riassuntiva in difetto del consenso delle parti, sebbene non ricorressero le condizioni di cui all'art. 140 c.p.p., la S.C. ha affermato che non sussiste alcuna nullità o inutilizzabilità del verbale di udienza dibattimentale, perché si tratta di inosservanza che non rientra tra le ipotesi tassativamente previste dall'art. 142, c.p.p. o da altre disposizioni presidiate da sanzione processuale (Cass. III, n. 5892/2015).

La dottrina, conformemente, ritiene che, « in assenza di specifiche disposizioni che prevedano per tale situazione sanzioni di nullità o inutilizzabilità del relativo verbale, è giocoforza concludere che tale situazione si risolva in una mera irregolarità, suscettibile di sole sanzioni disciplinari ai sensi dell'art. 124,  salvo ritenere che la verbalizzazione in via riassuntiva, non autorizzata dalle parti, sia lesiva del diritto di difesa dell'imputato — in quanto non idonea a riprodurre fedelmente tutto ciò che accade in dibattimento — e quindi affetta da nullità intermedia ai sensi degli artt. 178, c.p.p. comma 1, lett. c), e  180 c.p.p. » (Fidelbo- Gallucci, 376; nel medesimo senso, Garuti, 232 s.).

Esame e controesame

L'art. 559, comma 3, stabilisce che esami e controesami dibattimentali sono condotti, secondo quanto ordinariamente stabilito, dalle parti, a meno che le stesse non concordino di delegarne la conduzione al giudice, sulla base delle loro domande e contestazioni: quest'ultimo, anche in presenza del consenso della parti, potrà, peraltro, ritenere più opportuno, tenuto conto delle esigenze concrete poste dall'accertamento dei fatti in contestazione, che all'esame procedano le parti.

Si ammette, generalmente, la legittimità di un consenso parziale, ovvero riguardante soltanto alcuni degli esami.

Con riguardo alle eventuali conseguenze delle violazioni dell'illustrata disciplina, la dottrina ritiene che « quando il giudice non rispetti i limiti consentiti, rivolgendo domande e contestazioni non solo in violazione delle regole previste dagli artt. 499, 500 e  503 c.p.p., ma anche al di fuori degli argomenti proposti dalle parti, verrebbe integrata un'ipotesi di inutilizzabilità delle relative dichiarazioni, ai sensi degli artt. 191 e 526 c.p.p. » (Fidelbo-Gallucci, 378; nel medesimo senso, Garuti, 225 s.).

In difetto di pronunzie più recenti in argomento, appare, peraltro, tuttora valido l'orientamento giurisprudenziale per il quale, nel caso in cui il giudice monocratico ponga direttamente le domande al teste, sostituendosi al p.m. (ma anche alla difesa), in difetto del consenso delle parti, non è prevista la sanzione della nullità: « il comportamento del giudicante il quale si arroghi poteri inquisitori, anziché lasciare alle parti di condurre l'assunzione della prova, è certamente censurabile, ma non integra i requisiti della nullità della sentenza ove non si risolva in una violazione del diritto di difesa, ad esempio impedendo al difensore di porre domande » (Cass. V, n. 19801/2003).  

La redazione e sottoscrizione della sentenza

Con riguardo ai tempi ed alle modalità di redazione, oltre che al contenuto della sentenza, in difetto di disposizioni speciali, trovano applicazione gli artt. 544 ss. c.p.p.

L'art. 559, comma 4, stabilisce che, in caso di impedimento del giudice monocratico, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale, dando menzione delle ragioni della sostituzione; non è necessario specificare dettagliatamente la natura dell'impedimento che legittima la sostituzione, poiché la disposizione, come anche l'art. 546, comma 2, c.p.p., richiede solo la previa menzione della causa della sostituzione, peraltro non a pena di nullità (Cass. III, n. 10093/2020).

Si è posto il problema se la previsione potesse riguardare anche la redazione della stessa sentenza (e non soltanto la sua sottoscrizione): ponendo fine ai contrasti insorti, la giurisprudenza (Cass. S.U., n. 3287/2009), con riguardo ad una fattispecie nella quale il giudice (nella specie, g.u.p.), nelle more della redazione di una sentenza resa all'esito del giudizio abbreviato, aveva accusato gravi problemi di salute che ne avevano comportato il ricovero ospedaliero di durata non preventivabile, ha affermato che « il potere sostitutivo attribuito al presidente del tribunale, in caso di impedimento del giudice monocratico, non è circoscritto alla sola sottoscrizione della sentenza, ma si estende anche alla stesura dei motivi della decisione ». Nel medesimo senso, successivamente, Cass. fer., n. 39182/2013 e Cass. II, n. 41437/2019 hanno ritenuto che il Presidente del Tribunale può, in tal caso, delegare alla stesura della motivazione anche altro giudice del Tribunale.

Più in generale, si ritiene valido « il provvedimento sottoscritto dal presidente del tribunale nel caso in cui il giudice monocratico che l'abbia deliberato sia deceduto prima del relativo deposito, poiché anche la morte è riconducibile alla situazione di impedimento che — a norma dell'art. 559, comma 4,— legittima ai fini indicati la sostituzione del giudice responsabile della decisione » (Cass. II, n. 49395/2003: fattispecie nella quale era stata eccepita la nullità della sentenza in quanto, a differenza della norma corrispondente per il giudice collegiale — art. 546, comma 2— il citato art. 559 menziona l'impedimento, ma non la morte del giudice; la S.C. ha anche precisato che proprio il tenore del comma 2 dell'art. 546, ove si disciplina il caso della « morte o altro impedimento » del giudice, evidenzia che la legge considera equivalenti le due situazioni quando si debba perfezionare il deposito di una sentenza già deliberata e pubblicata in udienza).

Si è anche ritenuto che non costituiscano causa di nullità la redazione e la sottoscrizione della sentenza da parte del magistrato onorario dopo la cessazione dell'incarico di giudice del tribunale in composizione monocratica, attesa la prorogatio implicita della funzione relativamente all'esaurimento del lavoro processuale introitato prima della scadenza dell'incarico (Cass. III, n. 21163/2006).  

Bibliografia

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