Codice di Procedura Penale art. 606 - Casi di ricorso.Casi di ricorso. 1. Il ricorso per cassazione [169 att.] può essere proposto per i seguenti motivi: a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri [620 1c]; b) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale; c) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità [177 s.], di inutilizzabilità [191], di inammissibilità o di decadenza [173]; d) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'articolo 495, comma 2 1; e) mancanza [547], contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione [125 3, 192 1], quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame2. 2. Il ricorso, oltre che nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni, può essere proposto contro le sentenze pronunciate in grado di appello [605] o inappellabili [593]. 2-bis. Contro le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto per i motivi di cui al comma 1, lettere a), b) e c) 3. 3. Il ricorso è inammissibile [591] se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli articoli 569 e 609, comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello.
[1] Lettera così sostituita dall'art. 81 lett. a)l. 20 febbraio 2006, n. 46. Il testo della lettera era il seguente: «d) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell'articolo 495, comma 2». [2] Lettera così sostituita dall'art. 8 1 lett. b) l. n. 46, cit. Il testo della lettera era il seguente: «e) mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato». [3] Comma inserito dall'art. 5, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11. InquadramentoLa Corte di cassazione è custode della nomofilachia, non è giudice del fatto. È l'organo di “revisione”, che certifica la qualità del prodotto e la regolarità del “ciclo produttivo”, eliminando quelli difettosi o facendo in modo che siano corretti. Segna i confini tra le giurisdizioni, mette ordine tra le competenze pretese o negate. Non dispensa logica, ma garantisce che il processo resti atto di ragione, dal suo esordio fino alla sua conclusione. È però giudice dell'impugnazione, non si impone d'ufficio, ma solo se richiesto e soltanto nei “casi” che la norma consente. La Corte di cassazione nell'ordinamento giudiziarioSul piano ordinamentale, la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge. La Corte Suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio (art. 65, r.d. n. 12/1941, Ord. giud.). È costituita in sezioni, e composta da un primo presidente (che presiede le udienze a sezioni unite e le adunanze solenni), da presidenti di sezione e da consiglieri (art. 64. r.d. n. 12/1941, cit.). La corte di cassazione in ciascuna sezione giudica con il numero invariabile di cinque votanti. Giudica a sezioni unite con il numero invariabile di nove votanti. Il collegio a sezioni unite in materia civile è composto da magistrati appartenenti alle sezioni civili; in materia penale è composto da magistrati appartenenti alle sezioni penali (art. 67, r.d. n. 12/1941, cit.). La Corte di cassazione quale giudice di legittimitàLa norma in commento definisce i confini della cognizione della Corte di cassazione che è giudice di legittimità e non del merito. Anche nei casi in cui tale affermazione può sembrare in contrasto con i casi in cui alla Corte di cassazione è espressamente consentito assumere informazioni e acquisire atti ai fini della decisione (art. 32, in tema di risoluzione di conflitti di giurisdizione e di competenza, e art. 48, in tema di rimessione) in realtà, anche in quei casi, il fatto non è mai quello attribuito all'imputato. Al grado di legittimità è completamente estraneo il giudizio di verificazione dell'accusa che caratterizza la fase di merito: in quest'ultima il giudice è chiamato a decidere se è vero che il fatto ascritto all'imputato è accaduto ed è stato da lui commesso; in sede di legittimità oggetto di scrutinio è il modo con cui il giudice ha deciso. Più in generale (poiché oggetto di impugnazione non sono solo sentenze di assoluzione o di condanna, ma anche altri provvedimenti di natura eterogenea) si può affermare che oggetto del giudizio di legittimità sono il governo fatto dal giudice delle norme procedurali e sostanziali applicate e utilizzate per adottare il provvedimento e la logica che presiede alla valutazione e all'ordinazione sistematica dei fatti. Solo quando sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un "error in procedendo" ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c)- cod. proc. pen., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e)- del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (Cass. S.U., n. 42792/2001) I singoli motivi di ricorso
Lett. a) L'art. 606, comma 1, lett. a), considera, quale motivo di ricorso per cassazione (anche per saltum; cfr. art. 569, commi 1 e 3), che giustifica l'annullamento senza rinvio della sentenza (art. 620), l'esercizio da parte del giudice di merito di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri (carenza di potere). L'esercizio di una potestà riservata agli organi della amministrazione si realizza quando il giudice con il provvedimento impugnato abbia usurpato poteri amministrativi (ad esempio, annullando o revocando un atto amministrativo) e cioè abbia esercitato una potestà tipica spettante all'amministrazione. Il giudice penale infatti deve risolvere, incidentalmente, ogni questione da cui dipende la decisione, e può conoscere della legittimità degli atti amministrativi quando ciò sia necessario (artt. 2 e 479). Non sussiste pertanto l'esercizio di una potestà tipica dell'amministrazione allorché il giudice non annulli, ma disapplichi l'atto amministrativo ritenuto illegittimo o decida sul comportamento tenuto dagli organi della pubblica amministrazione o dai dipendenti di essa in relazione al caso concreto e detto comportamento costituisca violazione di una norma penale, posta a tutela di interessi che il legislatore ha ritenuto meritevoli di tutela (così Cass. I, n. 2653/1990, in un caso in cui è stata ritenuta la penale responsabilità di taluni dipendenti dell'Anas per aver omesso di collocare i prescritti segnali di pericolo a seguito della intervenuta avaria di uno dei due semafori posti ai due capi di una galleria). Coerentemente, invece, Cass. V, n. 7576/2004 ha affermato, in tema di processo penale a carico di imputati minorenni, che l'ordinanza con la quale il giudice dispone, ai sensi dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988, la sospensione del processo e la messa alla prova, senza la preventiva audizione delle parti e in mancanza della predisposizione del progetto di intervento, è affetta da una nullità di ordine generale per violazione del contraddittorio, nonché dal vizio di «eccesso di potere» di cui alla lett. a) dell'art. 606, avendo il giudice esercitato un potere — quello relativo alla predisposizione della relazione sull'imputato — riservato all'amministrazione. Nello stesso senso, Cass. V, n. 4640/1999, sulla premessa che la rinuncia al diritto di priorità nell'esercizio della giurisdizione di cui all'art. VII del trattato Nato è una facoltà discrezionale, che può essere esercitata solo dal competente organo politico amministrativo (Ministro per la Grazia e la Giustizia su richiesta o previo parere del Ministro per gli Esteri) e non spetta al giudice italiano, la cui sentenza si pone come atto meramente dichiarativo della rinuncia, poiché al giudice compete solamente di verificare "l'esistenza delle condizioni previste dalla legge per l'ammissibilità e la validità della rinuncia”, ha affermato che la sentenza, che dichiara la rinuncia in assenza della determinazione del competente organo politico amministrativo, è un provvedimento radicalmente nullo, viziato di eccesso di potere e ricorribile per cassazione ex art. 606 comma 1 lett. a) risolvendosi nell'esercizio di una potestà riservata dalla legge a un organo amministrativo. In un caso in cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale avanzata da un «collaboratore di giustizia» sull'assunto che la suddetta misura alternativa avrebbe potuto vanificare le esigenze di riservatezza e di incolumità personale del richiedente, alla cui salvaguardia il programma di protezione era finalizzato, la Corte di cassazione ha annullato il provvedimento avendo ravvisato l'esercizio, da parte del tribunale, di competenze valutative demandate, per legge, alla sola autorità amministrativa (Cass. I, n. 1960/1998; Cass. I, n. 2266/1995). Anche il provvedimento di ammissione e revoca al lavoro esterno del detenuto è espressione di un potere rimesso dall'ordinamento all'Amministrazione penitenziaria, essendo l'intervento del Magistrato di sorveglianza previsto solo in funzione di mera approvazione dell'iniziativa della stessa; ne consegue che il provvedimento di revoca del lavoro esterno adottato direttamente dal Magistrato di sorveglianza si pone al di fuori delle attribuzioni del medesimo e, se impugnato in sede di legittimità, deve essere annullato senza rinvio (Cass. I, n. 16379/2015). In questi casi il provvedimento impugnato deve essere annullato senza rinvio (art. 620, lett. c e d). Non ricorre l'ipotesi di cui alla lettera a), nel caso in cui il giudice prenda conoscenza di un reato che appartiene comunque alla giurisdizione di un giudice, ancorché speciale. In tal caso la corte di cassazione annulla senza rinvio il provvedimento ma dispone che gli atti siano trasmessi al giudice competente. Lett. b) L'errata applicazione della legge penale (sostanziale o processuale) o di norme giuridiche extrapenali di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale è motivo di annullamento del provvedimento impugnato. L'errore di diritto (“error in iudicando”) (che può essere eccepito anche per saltum; cfr. art. 569, commi 1 e 3) deve risultare dal testo del provvedimento impugnato: dato il fatto così come ricostruito dal giudice, è errata la norma giuridica che ad esso è stata applicata o l'interpretazione che ne è stata fatta. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che le lett. b) e c) dell'art. 606, si riferiscono all'inosservanza ed all'erronea applicazione della legge e non fanno alcun riferimento al percorso logico-argomentativo del giudice, a differenza della successiva lett. e), che si riferisce, peraltro, ai profili in fatto della motivazione (Cass. V, n. 47575/2016; Cass. III, n. 6174/2015), e ne ha tratto l'ulteriore conseguenza che il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento a questioni di diritto, posto che il giudice di merito non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che il risultato finale sia corretto. In questo senso, già Cass. S.U., n. 17/1996 aveva affermato che l'obbligo della motivazione deve ritenersi assolto allorché il giudice indichi il principio di diritto applicato ed esprima la propria adesione ad esso, ritenendo, anche per implicito, che non esistano ragioni che giustifichino una deviazione da indirizzi giurisprudenziali costituenti «ius receptum». L'eccezione di error in iudicando non si può fondare su elementi di fatto diversi da quelli specificamente descritti dal giudice. La tardività della querela, per esempio, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, trattandosi di eccezione che comporta accertamenti di fatto che sono devoluti al giudice di merito e che, quando non sono stati richiesti tempestivamente, sono preclusi nei successivi gradi di giudizio (Cass. V, n. 19241/2015). Nemmeno l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare (ferma la necessaria decisività dell'eccezione), può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione avverso il provvedimento confermativo della predetta ordinanza, emesso in sede di riesame, qualora l'eccezione si fondi su questioni di fatto, mai dedotte in precedenza, relative all'assenza dei presupposti per la proroga dell'efficacia dei decreti originari (Cass. III, n. 32699/2015). Allo stesso modo, la violazione del divieto del «bis in idem» non è deducibile mediante la produzione di documenti relativi ad elementi fattuali, in quanto la cognizione del giudice di legittimità non può essere estesa dando ingresso, in funzione di prova, a documenti che, pur qualificabili in altri procedimenti come atti processuali, costituiscono elementi esterni rispetto al processo nel quale è invocata la preclusione (Cass. III, n. 20885/2015; Cass. III, n. 20887/2015, secondo cui non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di cassazione la violazione del divieto del «bis in idem» sostanziale, in quanto l'accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito, né è consentito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali. Nello stesso senso Cass. VII, n. 41572/2016, nonché, più recentemente, Cass. III, n. 18898/2018. Si veda, in senso contrario, la giurisprudenza citata sub lett. c). Costituisce, invece, vizio deducibile ai sensi della lett. b), l’erronea qualificazione giuridica del fatto (Cass. S.U., n. 5/2000, secondo cui a tal fine può essere impugnata anche la sentenza di patteggiamento in quanto la qualificazione giuridica del fatto è materia sottratta alla disponibilità delle parti; nello stesso senso, Cass. V, n. 14314/2010, nonché Cass. III, n. 38854/2001, che, in un caso in cui la difesa aveva prospettato al giudice, in alternativa alla qualificazione giuridica del fatto posta a fondamento dell'accordo, e cioè il reato previsto dall'art. 609-octies c.p., la diversa ipotesi di reato prevista dall'art. 609-bis c.p. o quella prevista dall'art. 317 c.p. ha precisato che qualora sussistano indicazioni non univoche circa la qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell'accordo fra le parti, il giudice è tenuto a fornire sul punto una espressa motivazione e, nel caso ciò non avvenga e l'imputato formuli espressa doglianza, la sentenza dev'essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al giudice a quo perché metta le parti in condizione di formulare una nuova eventuale proposta di applicazione della pena, considerato che le differenze anche in punto di pena fra i diversi reati avrebbero imposto al giudice di specificamente motivare circa le ragioni della soluzione adottata in sentenza). Se, però, l'assegnazione della nuova qualifica richiede l'effettuazione di valutazioni di merito, le stesse non possono essere proposte per la prima volta in cassazione dovendo essere sottoposto al vaglio dei giudici competenti per lo scrutinio del fatto, residuando alla Corte di legittimità solo il controllo della tenuta logica della motivazione offerta al riguardo (Cass. II, n. 7462/2018). Cass. II, n. 17235/2018, ha affermato che la questione relativa alla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 c.p.p. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità purché l'impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto. L'inammissibilità del ricorso, dunque, preclude l'esame dell'eccezione perché, secondo quanto già affermato da Cass. S.U. n. 12602/2016, << il sistema delle impugnazioni (...) è contraddistinto comunque dal principio dispositivo, nel senso che è nella facoltà delle parti dare ingresso, attraverso un atto conforme ai requisiti di legge richiesti, al procedimento di impugnazione e delimitare i punti del provvedimento da sottoporre al controllo dell'organo giurisdizionale del grado successivo. Ne consegue che il momento di operatività dell'effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l'organo giudicante della cognizione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d'ufficio, si affiancano per legge ai primi. Laddove l'impugnazione è inammissibile, non può il giudice ex officio dichiarare l'esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell'impugnazione, come si è detto, ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito>>. La diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato può essere rilevata d'ufficio dal giudice d'appello ogni qual volta è investito, con l'atto di impugnazione, della richiesta di verificare la sussistenza dell'addebito, di talché, la mancata pronuncia sulla domanda, ancorché proveniente da una parte non impugnante, di accertare la correlazione tra i fatti provati e quelli oggetto di contestazione determina una nullità ex art. 606, comma 1, lett. c), per inosservanza di norme processuali (Cass. VI, n. 43336/2016 che, in applicazione di tale principio ha annullato con rinvio la sentenza con la quale era stata dichiarata inammissibile, per difetto di appello sul punto, la richiesta del pubblico ministero di rilevare il difetto di corrispondenza tra i fatti accertati e quelli contestati ; si veda al riguardo Cass. S.U. n. 2477/1992, che aveva già affermato il principio secondo il quale la mancanza di correlazione tra fatto enunciato nell'ordinanza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione e fatto risultato nel dibattimento deve essere rilevata dal giudice di appello sia quando tale diversità non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando la diversità del fatto risulti nel giudizio di appello. In questa ipotesi in cui il giudice di appello accerta che la regiudicanda è diversa da quella dedotta in accusa e che perciò esula dai suoi poteri di cognizione, in virtù degli artt. 477 e 519, e in applicazione analogica dell'art. 522, comma 1, deve annullare la sentenza di primo grado e ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero con sentenza. Tale sentenza, che è meramente processuale perché non si pronuncia ne' sul fatto contestato ne' su quello accertato, è soggetta a ricorso per cassazione secondo la regola posta dagli artt. 111 Cost. e 190, comma 2, che non distingue tra sentenze di merito e sentenze processuali ). L'erronea applicazione della legge penale o extra-penale può essere anche conseguenza di una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma sopravvenuta alla decisione impugnata che, comporti, per esempio, l'illegalità della pena applicata, rilevabile d'ufficio anche in caso di ricorso inammissibile (Cass. S.U., n. 33040/2015, secondo cui l'illegalità sopraggiunta della pena — concordata sulla base dei parametri edittali dettati per le cosiddette "droghe leggere" dall'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 come modificato dalla l. n. 49/2006, in vigore al momento del fatto ma dichiarato successivamente incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 — determina la nullità dell'accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo), purché tempestivo (Cass. S.U., n. 47766/2015, secondo cui l'illegalità della pena non è rilevabile d'ufficio in presenza di un ricorso inammissibile perché presentato fuori termine; nello stesso senso Cass. V, n. 51726/2016). È però inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca l'effetto abrogativo di una norma incriminatrice determinato da una pronuncia delle Sezioni Unite, atteso che il mutamento giurisprudenziale intervenuto con tale decisione non è idoneo a determinare né una modifica normativa né "un'abolitio criminis” (Cass. II, n. 3000/2016). È ammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) (Cass. S.U. n. 12602/2016). Lett. c) Non ogni violazione delle norme processuali può essere motivo di ricorso (proponibile, in questo caso, anche per saltum; cfr. art. 569, commi 1 e 3). È necessario che l'osservanza della norma processuale sia imposta a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza. Ne consegue che è inammissibile il motivo con cui si assume, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. c), la violazione dell'art. 533 con riferimento al principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, in assenza di censure specifiche rivolte alla motivazione dell'impugnata sentenza, in quanto i limiti dell'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (Cass. III, n. 24574/2015). Allo stesso modo, non è ammissibile il motivo di ricorso con cui si deduca la violazione dell'art. 192 , con riferimento ai criteri utilizzati dal giudice nel valutare la prova (Cass. III, n. 44091/2012; cfr. altresì Cass. VI, n. 13442/2016, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l'erronea applicazione dell'art. 192, comma 3 quando è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall'art. 606, comma 1, lett. e, riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto. Nello stesso senso Cass. VI, n. 45249/2012, che ha dichiarato inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell'art. 192, anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e, per censurare l'omessa o erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e, non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. c, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità). Tale principio è stato ribadito da Cass. S.U. n. 29541/2020 che hanno affermato che « n on è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell'art. 192, anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità» Quando sia dedotto un «error in procedendo» ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (Cass. S.U., n. 42792/2001; Cass. I, n. 8521/2013). Si è così affermato, per esempio, che essendo l'inutilizzabilità dell'intercettazione telefonica un'invalidità processuale, i suoi presupposti di fatto possono essere accertati direttamente dalla Corte di cassazione, che è giudice anche del fatto rispetto alle questioni sulla validità degli atti del procedimento (Cass. V, n. 26358/2006, che ha affermato che l'insufficienza o l'inidoneità degli impianti installati presso la Procura, con il conseguente uso di impianti diversi, e le eccezionali ragioni di urgenza sono condizioni la cui effettiva esistenza rileva indipendentemente dalla motivazione del decreto autorizzativo emesso dal P.M., e possono essere autonomamente accertate ex post, nei limiti in cui siano desumibili da dati di fatto). Il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, più violazioni della legge processuale, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), ha l'onere (a pena di aspecificità e quindi di inammissibilità del ricorso) di indicare per ciascuna norma che si assume violata in cosa si sia concretizzata la presunta violazione costituente oggetto di doglianza (Cass. S.U. n. 29541/2020; Cass. II, n. 25741/2015). È inoltre onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l'inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì l'incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato. Non compete, infatti, alla Corte di cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente (principio affermato, in relazione ad atti asseritamente compiuti dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, da Cass. S.U., n. 23868/2009; nello stesso senso, Cass. V, n. 19553/2014, che ha ribadito il principio in caso di eccepita inutilizzabilità delle informative di polizia giudiziaria, per decorrenza del termine di durata delle indagini preliminari, senza che fosse individuato con precisione l'atto specifico, in esse contenuto, asseritamente inutilizzabile). Si tratta della cd. “prova di resistenza” per cui la sentenza, pur se formalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in tanto va annullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul «dictum» del giudice di merito, nel senso che la scelta di una determinata soluzione, nella struttura argomentativa della motivazione, non sarebbe stata la stessa senza l'utilizzazione di quella prova, nonostante la presenza di altri elementi probatori di per sé ritenuti non sufficienti a giustificare identico convincimento (Cass. S.U., n. 16/2000; per un'applicazione del principio alle misure cautelari cfr. anche Cass. S.U., n. 25932/2008). Sicché è inammissibile l'impugnazione nella quale sia stato eccepito un error in procedend o, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), senza peraltro indicare lo specifico atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (Nella fattispecie il ricorrente aveva contestato la competenza del giudice delle indagini preliminari, asserendo di aver tempestivamente eccepito la questione all'udienza preliminare e di averla riproposta nelle successive fasi di merito, senza tuttavia indicare nel ricorso la data dei relativi verbali) (Cass. VI, n. 10373/2002; nello stesso senso, più recentemente, Cass. II, n. 14316/2022, secondo cui il potere-dovere della Corte di cassazione di esaminare gli atti processuali è esercitabile in sede di legittimità soltanto quanto il ricorrente abbia compiutamente indicato i tratti essenziali del fatto processuale che, secondo quanto previsto dall'art. 187, comma 2, cod. proc. pen., necessita di verifica, poiché esso presuppone pur sempre che nel ricorso venga quanto meno specificamente indicato l'atto (dal quale si ritiene derivino le conseguenze giuridiche di volta in volta evocate) da ricercare, e che detto atto, del quale si invochi l'esistenza, sia contenuto nel fascicolo processuale medesimo o, comunque, sia prodotto nel giudizio di legittimità). Si discute, in giurisprudenza, se la violazione del divieto del bis in idem, costituisca error in iudicando (secondo le sentenze riportate sub lett. b) ovvero error in procedendo che, in quanto tale, consente al giudice di legittimità l'accertamento di fatto dei relativi presupposti (così, da ultimo, Cass. II, n. 33720/2014). Secondo un ulteriore indirizzo, la violazione del divieto, pur costituendo error in procedendo, preclude accertamenti di fatto in sede di legittimità, nel qual caso la stessa deve essere proposta davanti al giudice dell'esecuzione (Cass. VI, n. 35394/2016, Cass. V, n. 44854/2014; Cass. V, n. 2807/2015). L'error in procedendo non può essere eccepito da chi ha patteggiato la pena. Prestando il proprio consenso all'applicazione della pena, l'imputato (ma anche il pubblico ministero) rinuncia implicitamente a far valere tutte le nullità degli atti, anche assolute, diverse da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato (Cass. III, n. 39193/2014). Il vizio di motivazione di un'ordinanza dibattimentale diversa da quella dichiarativa della contumacia non può mai tradursi in una ragione di nullità del giudizio, specie quando il giudice abbia ribadito la decisione dibattimentale con la sentenza conclusiva, rielaborandone l'apparato giustificativo (Cass. S.U., n. 17/2000). È deducibile con atto di appello, e non con ricorso immediato in cassazione, la violazione del diritto di difesa derivante dal mutamento della qualificazione giuridica del fatto operata dal giudice di primo grado (Cass. VI, n. 47164/2016). Lett. d) La mancata assunzione di una (contro)prova decisiva costituisce autonomo “error in procedendo” ma è vizio diverso dalla mancata valutazione di una (contro)prova ritenuta decisiva, che presuppone l'assunzione della prova e costituisce vizio di mancanza di motivazione deducibile ai sensi della lettera e) (Cass. S.U., n. 45276/2003, infra). Il motivo di ricorso per cassazione consistente nella deduzione della mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposto solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'assunzione a norma dell'art. 495, comma 2, ma non in relazione a quello di cui sia stata sollecitata l'ammissione ai sensi dell'art. 507 dello stesso codice, né, tanto meno, con riferimento ad attività di indagine che — ad avviso del ricorrente — il P.M. avrebbe dovuto svolgere, ma che non è stata espletata (Cass. II, n. 41744/2015), né alla perizia che, per il suo carattere “neutro", è mezzo di prova sottratto alla disponibilità delle parti, rimesso alla discrezionalità del giudice e perciò non decisivo (Cass. IV, n. 7444/2013). Si deve trattare inoltre di prova che, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito diverso del processo e non si limiti ad incidere su aspetti secondari della motivazione (Cass. II, n. 21884/2013), dovendosi applicare anche in questo caso il principio della “prova di resistenza”. Lett. e) - Il vizio di motivazione in generale Soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), esercizio della funzione giurisdizionale da parte di magistrati autonomi e indipendenti (artt. 102,104 e 106 Cost.), attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo regolato per legge (art. 111, comma 1, Cost.), obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, comma 6, Cost.), controllo esercitabile dalla Corte di cassazione su tutte le sentenze e su tutti i provvedimenti che incidono sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali (art. 111, comma 7, Cost.), sono valori che qualificano, sul piano processuale, il quomodo della giurisdizione, e che sono posti, sul piano sostanziale, a presidio e garanzia del principio di legalità e, con specifico riferimento alla materia penale, del principio di riserva assoluta di legge (art. 25, comma 2, Cost.), nonché dell'inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.), del domicilio (art. 14 Cost.), della libertà e segretezza della corrispondenza (art. 16 Cost.), del diritto di difesa (art. 24 Cost.). In questo contesto, la motivazione assolve all'onere di chiarire se, e come, la regola generale e astratta (la legge, in senso lato) sia stata esattamente applicata al caso concreto e di evitare, attraverso il controllo di merito e, infine, di legittimità, che affondi le sue radici in una volontà diversa da quella della legge cui il giudice è soggetto; la motivazione assolve all'onere di spiegare perché il diritto inviolabile ha potuto esser compresso, se ed in che modo sia stato rispettato il diritto di difesa, se ed in che modo l'esercizio di tale diritto abbia potuto contribuire a confezionare la regola del caso concreto. L'obbligo della motivazione costituisce presidio di legalità che impone al giudice di non abdicare al suo dovere principale, connaturale alla sua indispensabile terzietà e funzione di garanzia, di consentire in ogni momento di ripercorrere la via che collega la regola astratta a quella applicata al caso concreto da lui deciso o regolato. Se però la motivazione può essere imposta, la logica che la sorregge non può essere oggetto di codificazione, né il suo esercizio può essere motivo di censura quando il ragionamento, che da essa deve esser sorretto, non devii macroscopicamente dai canoni della coerenza intrinseca e di quella estrinseca con i dati di fatto utilizzati per la decisione (si veda anche il §1 del commento all'art. 34). Il codice di rito impone al giudice di dar conto nella motivazione, in modo conciso (art. 546, lett. e) ma non per questo insufficiente, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati nella valutazione della prova (art. 192, comma 1), pone un limite al ragionamento deduttivo quando voglia trarre la certezza del noto dall'ignoto (art. 192, comma 2), impone cautela nella valutazione della prova dichiarativa proveniente da complici o autori di reati in relazione qualificata con quello oggetto della regiudicanda (art. 192, comma 3), pretende che spieghi i motivi di fatto (e di diritto) della decisione assunta (anche sotto il profilo del trattamento sanzionatorio), indichi gli elementi di conoscenza in base ai quali ha ricostruito il fatto e spieghi perché ha scartato gli elementi di segno contrario (art. 546, lett. e), sì che non residui alcun ragionevole dubbio sulla verità dell’assunto. Se la logica, come detto, non può essere oggetto di codificazione, ciò nondimeno non sfugge alla definizione del suo contenuto essenziale. Come affermato da Cass. II, n. 50728/2019, «la "motivazione" per esser logica non deve esser "narrativa", ma "dimostrativa" : non deve cioè risolversi nella descrizione della convinzione del giudicante senza il puntuale riferimento alle prove che ne sostengono i passaggi logici. La sentenza non è infatti un "racconto", ma piuttosto la "giustificazione logico razionale" delle valutazioni poste a sostegno dell'accertamento di responsabilità, deve essere fondata sullo scrutinio della legittimità di prove specifiche, ed offrire un percorso logico argomentativo controllabile attraverso l'esercizio dei poteri di impugnazione. Le prove poste a fondamento dell'accertamento giudiziale devono essere non solo specifiche, ma anche legittime e la Corte di legittimità deve verificare se il compendio motivazionale integrato emergente dalle sentenze di merito consenta di verificare: (a) se le prove sono state legittimamente acquisite, (b) se le stesse sono state apprezzate in coerenza con i parametri che governano l'esercizio della discrezionalità giudiziale, tra i quali primeggia la regola di valutazione de" l'oltre ogni ragionevole dubbio" codificata dall'art. 533 che impone il confronto con gli argomenti decisivi offerti dalla difesa» (per l'implicazione di tali principi anche in sede rescissoria, si rinvia al commento dell'art. 627). Il processo penale, al di là di infeconde dispute classificatorie, è «strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità» (Corte cost. n. 361/1998; Corte cost., ord. n. 263/2001; Corte cost., ord. n. 428/2001) e poiché la privazione della libertà personale (diritto inviolabile) è pur sempre eccezione che informa di sé la presunzione di innocenza, la regola del dubbio, purché ragionevole, presiede all'intero processo di verifica della tenuta della motivazione. Nella fase di merito un risultato può dirsi acquisito aldilà di ogni ragionevole dubbio quando le prove oggetto di valutazione siano tali da poter costruire il percorso che conduce dal fatto contestato a quello accertato senza che possano intravedersi, lungo la via, deviazioni verso approdi diversi, non meramente ipotetici o congetturali, dotati di razionalità e plausibilità, desunti dai dati acquisiti al processo ed altrettanto ragionevolmente accettabili (Cass. IV, n. 22257/2014; Cass. V, n. 18999/2014). In sede di legittimità, invece, il giudizio di coerenza e non manifesta illogicità della motivazione non può mai fondarsi su un inammissibile e rinnovato esame del compendio probatorio già utilizzato dal giudice di merito per giungere alle sue conclusioni; a meno che tale compendio non sia frutto del travisamento di specifici atti del processo (infra), la Corte di cassazione non può sovrapporre la propria logica a quella dei giudici di merito (nel che sta il requisito della manifesta illogicità quale limite al sindacato di legittimità), dovendosi limitare a verificare che il ragionamento seguito nelle precedenti fasi di giudizio sia intrinsecamente coerente e non manifestamente illogico. Alla Corte di cassazione, infatti, è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno; avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è «geneticamente» informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Cass. S.U., n. 12/2000). Ne consegue che la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, per cui dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Cass. S.U., n. 16/1996). Ne consegue, per esempio, che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. S.U., n. 930/1996). L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha dunque — come già ricordato — un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato — per espressa volontà del legislatore — a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una «rilettura» degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U., n. 6402/1997). E così, anche quando venga proposto, ai sensi dell'art. 311, comma secondo, ricorso diretto per cassazione avverso ordinanze che dispongono misure cautelari, è proponibile la censura prospettata sulla base dell'asserita violazione, da parte del G.i.p., dell'obbligo di esporre gli indizi che giustificano, in concreto, la misura disposta e, quindi, di indicare la loro genesi, il loro contenuto e la loro rilevanza. Improponibile, invece, è ogni rilievo che, travalicando i limiti del sindacato consentito sulla motivazione del provvedimento impugnato, sconfini nella verifica della fondatezza degli elementi acquisiti ed utilizzati dal giudice che ha adottato il provvedimento impugnato (Cass. S.U., n. 14/1994). Il vizio di motivazione della sentenza è configurabile soltanto con riguardo ad elementi di fatto che il giudice abbia trascurato o di cui abbia dato una valutazione illogica o contraddittoria, e non con riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime, infatti, o sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all'art. 619, comma 1, che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (Cass. I, n. 4931/1991; cfr. anche le già citate Cass. III, n. 6174/2015 e Cass. S.U., n. 17/1996). Il sindacato demandato alla Corte di Cassazione, per espressa disposizione normativa, deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza alcuna possibilità di spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice del merito si è servito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Il vizio logico della motivazione, nelle sue varie concrete espressioni — contraddittorietà, illogicità, omessa considerazione di circostanze decisive e, pur anche, travisamento di fatto — deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali. Non vi è spazio, cioè, per quell'operazione interpretativa, che, sotto l'egida delle precedenti norme regolatrici del processo penale, aveva reso possibile di scivolare dalla contraddittorietà, intesa come contrasto analitico tra varie proposizioni alla illogicità, concepita come contrasto tra le argomentazioni del contesto motivazionale e la realtà processuale, od, addirittura, la comune esperienza, od il comune modo di «sentire» un fatto. I due unici vizi di legittimità inerenti alla motivazione dei provvedimenti di merito, sono ora la mancanza — che vuol dire difetto assoluto — di argomentazioni su uno qualsiasi dei momenti applicativi della decisione e la illogicità evidente, risultante dallo stesso testo della motivazione (Cass. I, n. 411/1991; Cass. V, n. 805/1991; cfr. altresì Cass. I, n. 5939/1991 che parla di indagine squisitamente documentale). tuttavia, il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema contenuto nell'atto di impugnazione può essere utilmente dedotto in Cassazione soltanto quando gli elementi tr ascurati o disattesi abbiano carattere di decisività (Cass. VI, n. 3724/2016). È dunque precluso al giudice di legittimità, in tema di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, una disamina degli atti di causa, anche quando venga prospettato il vizio di travisamento del fatto: il legislatore ha voluto restringere ed individuare con precisione i poteri del giudice nei singoli gradi del giudizio. A tal fine è però indispensabile che il giudice di merito indichi con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione, per consentire all'interessato di formulare le più appropriate censure ed alla Corte di Cassazione di esercitare la funzione di controllo, che le è propria (Cass. III, n. 1875/1991). In conclusione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Cass. VI, n. 47204/2015; Cass. I, n. 2555/1991). In tema di ingiusta detenzione, per esempio, si è affermato che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione é sottratto al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell'indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta (Cass. IV, n. 24225/2015). Tuttavia il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Cass. V, n. 14022/2016) . Costituisce vizio di motivazione la diversa valutazione di attendibilità di una prova decisiva ai fini della condanna effettuata dal giudice dell'impugnazione senza rinnovare l 'assunzione della prova stessa (v. infra). Segue. La mancanza di motivazione La nozione di «mancanza di motivazione» di cui all'art. 606 lett. e) non si riferisce alla carenza sotto il profilo grafico, disciplinato dall'art. 125 stesso codice, ma nemmeno alla mera insufficienza della motivazione stessa (Cass. VI, n. 46308/2012, che ha ritenuto inammissibile il ricorso con cui si deduce soltanto il vizio di insufficienza della motivazione del provvedimento impugnato), bensì all'assenza dei necessari passaggi e delle argomentazioni indispensabili al fine di rendere l'intero iter logico comprensibile, verificabile da parte del giudice sovraordinato e completo — sotto l'aspetto minimo — anche in ordine alle risposte da dare alle istanze rilevanti e pertinenti avanzate dall'interessato. Ne deriva che, ai fini dell'esercizio del potere di controllo da parte del giudice di legittimità — è necessario da un lato che la motivazione presenti i suddetti requisiti e dall'altro che la prospettazione delle ragioni di censura sia estremamente puntuale, essendo consentito in questa S sede di legittimità dedurre il vizio motivazionale soltanto quando esso risulti dal testo del provvedimento impugnato (Cass. III, n. 1448/1990; la necessaria rilevanza e pertinenza delle istanze non esaminate dal giudice ha indotto la S.C. a sostenere che l'omessa valutazione della memoria depositata dopo che sia terminata la discussione e siano state rassegnate le conclusioni non determina la nullità della sentenza, né rileva ai fini della correttezza della motivazione della decisione se con essa si introducano temi in precedenza non sviluppati , Cass. VI, n. 38757/2016; cfr. altresì Cass. V, n. 4031/2016, che ha affermato il principio che l'omessa valutazione di memorie difensive non può essere fatta valere in sede di gravame come causa di nullità del provvedimento impugnato, ma può influire sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione che definisce la fase o il grado nel cui ambito siano state espresse le ragioni difensive. ). Nello stesso senso Cass. II, n. 14975/2018 ha escluso che il semplice deposito di una memoria difensiva nel corso del procedimento, il cui contenuto non sia oggetto di specifica confutazione da parte del giudice, determini una nullità, ciò sul rilievo che tale particolare sanzione, sempre prevista a pena di tassatività, non è in alcun modo sancita dall'art. 121 che pure attribuisce alle parti la facoltà di depositare tali atti nel corso del giudizio né da altre disposizioni del codice di rito. Ne consegue che, potendo dare luogo a vizio di motivazione nella misura in cui sia dimostrato che argomenti difensivi rilevanti e decisivi siano stati pretermessi dal giudice del merito, è onere della parte che deduca l'omessa valutazione indicare in fase di impugnazione quale argomento decisivo per la ricostruzione del fatto le memorie contenevano, altrimenti peccando di genericità il motivo di gravame proposto sul punto. La sentenza si pone in consapevole contrasto con l'opposto indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, invece, l'omessa valutazione di una memoria difensiva determina la nullità di ordine generale prevista dall'art. 178, comma 1, lett. c), in quanto impedisce all'imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato, comportando la lesione dei diritti di intervento o assistenza difensiva dell'imputato stesso (Cass. VI, n. 13085/2014; Cass. I, n. 37531/2010). La mancanza di motivazione può consistere solo in una mancanza (o in una manifesta illogicità) della motivazione stessa, ma esclusivamente se «il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato», il che significa che deve «mancare» del tutto la presa in considerazione del punto sottoposto all'analisi del giudice, quando, per esempio, le argomentazioni addotte a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività (Cass. II, n. 10758/2015; Cass. V, n. 2916/2014), ma non può costituire vizio che comporti la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. VI, n. 6596/1991). In questo senso, il vizio di mancanza di motivazione deducibile ai sensi dell'art. 606, lett. e), è diverso dal vizio di mancanza totale della motivazione che integra autonoma violazione di legge e legittima sia il ricorso per cassazione per saltum sia il ricorso avverso i provvedimenti cautelari reali. È stato infatti dichiarato ammissibile il ricorso per saltum del P.M. avverso una sentenza assolutoria totalmente priva, anche graficamente, di motivazione, pur nell'obiettiva impossibilità di articolare specifici motivi di doglianza, essendo configurabile un concreto interesse a rimuovere un provvedimento decisorio idoneo a passare in giudicato, se non impugnato — qual è il dispositivo letto in udienza — che ha negato la pretesa punitiva dal medesimo azionata (Cass. I, n. 48655/2015; Cass. V, n. 43035/2015). Nel caso in cui sia stata eccepita nel giudizio di merito una pretesa violazione di legge, in ispecie di norme processuali, tale da determinare una delle nullità previste dall'art. 179, il giudice non deve far luogo ad alcuna motivazione se la violazione denunciata non sussiste. Ne consegue che non può invocarsi in sede di legittimità il difetto di motivazione se, stante la infondatezza della eccezione, il giudice «a quo» non si sia soffermato sulla stessa nel discorso argomentativo a supporto della decisione adottata (Cass. V, n. 10646/1991). Sulla mancanza di motivazione, oltre ai due paragrafi che seguono, s i rimanda anche al paragrafo 6 relativo alla “violazione di legge”. Segue. La motivazione per relationem L'uso di strumenti informatici agevola la redazione dei provvedimenti giudiziari ma aumenta il rischio che il giudice attinga “aliunde” gli argomenti del suo decidere, abdicando al dovere di apportare il suo ineliminabile ed insostituibile momento valutativo e facendo venir meno l'in sé del suo essere terzo ed imparziale. La motivazione “per relationem” (o la tecnica del “copia-incolla”) è indiscutibilmente utile nella ricostruzione del fatto, nel richiamo al contenuto di prove complesse (testimonianze, interrogatori, confronti, intercettazioni); la tecnica del “copia-incolla”, in particolare, ha l'indubbio pregio di rendere particolarmente incisivo e diretto il rapporto tra la fonte di prova e il fatto storico, restituendo al lettore squarci vividi di realtà (le parole usate in una conversazione intercettata, le pause, le incertezze o le certezze di un testimone, il pathos di un confronto, di un contro-esame). Tutto ciò contribuisce a dare ingresso alla realtà vera sul palcoscenico processuale e a fissarla, senza filtri né mediazioni, in un provvedimento con cui viene scritta la storia del fatto oggetto della regiudicanda. È una tecnica utile all'analisi (indicazione delle prove), molto meno alla sintesi (la ricostruzione del fatto e la sua valutazione). Il legislatore ha inteso ribadire espressamente l'obbligo per il giudice (giurisprudenzialmente già affermato da Cass. S.U., n. 17/2000, infra; cfr., sullo specifico punto, Cass. I, n. 8323/2016) di procedere alla autonoma valutazione delle ragioni che legittimano l'adozione di una misura cautelare personale (art. 292, come modificato dall'art. 8, l. n. 47/2015), codificando un principio che, in quanto connaturale alla terzietà del giudice, ha portata generale e non limitata ai soli provvedimenti de libertate (si veda, per i provvedimenti del questore impositivi del divieto di accesso al luogo di svolgimento delle manifestazioni sportive, Cass. III, n. 3645/2014, secondo cui è legittima la motivazione «per relationem» dell'ordinanza di convalida del provvedimento assunto dal questore a norma dell'art. 6 l. n. 401/1989, con il quale si vieta all'interessato l'accesso a luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, allorché in essa si effettui il richiamo all'atto impugnato ed alla richiesta del pubblico ministero, con indicazione della positiva revisione del percorso logico che ha indotto ad emettere il provvedimento convalidato). Cass. VI, n. 26050/2016, ha evidenziato, in tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, che la violazione della prescrizione della necessaria autonoma valutazione, da parte del giudice, delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell'art. 292, comma 1, lett. c), come modificato dalla l. n. 47/2015, determina un vizio di violazione di legge del provvedimento avverso il quale può essere proposto ricorso "per saltum" in cassazione (sulla necessità che anche i decreti di sequestro preventivo e probatorio contengano una autonoma valutazione degli elementi che ne costituiscono il necessario fondamento, nonché di quelli forniti dalla difesa, cfr. Cass. S.U. n. 18954/2016). L'obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari può dunque ritenersi assolto per relationem , mediante il mero rinvio ad altri atti del procedimento, quando questi abbiano un contenuto essenzialmente descrittivo o ricostruttivo della realtà oggetto di condivisione, ma non anche quando si faccia rinvio a documenti complessi e contenenti aspetti valutativi , soprattutto se la decisione riformi o modifichi precedenti decisioni assunte dallo stesso organo o da altro organo giudiziario (così Cass. VI, n. 46080/2015 che ha annullato l'ordinanza del tribunale della libertà che, in accoglimento dell'appello proposto dal pubblico ministero, aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza facendo rinvio al contenuto dello stesso atto di appello, limitandosi a definire «inequivocabile» il significato contenuto delle conversazioni intercettate; nello stesso senso, Cass. III, n. 12464/2010). La motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3)- l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione (Cass. S.U., n. 17/2000). Costituisce inoltre principio coerente con la funzione dell'appello e la necessaria specificità dei motivi di impugnazione, quello per il quale è possibile motivare la sentenza di secondo grado «per relationem» facendo riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate contro quest'ultima non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi; il giudice di appello non è infatti tenuto a riesaminare dettagliatamente questioni riferite solo sommariamente dall'appellante nei motivi di gravame, questioni sulle quali si sia già soffermato il primo giudice con argomentazioni (non specificamente e criticamente censurate dall'appellante) ritenute esatte ed esenti da vizi logici dal giudice di appello (Cass. V, n. 7572/1999; Cass. II, n. 30838/2013; Cass. II, n. 19619/2014 che ha ulteriormente precisato che è legittima la motivazione «per relationem» della sentenza di secondo grado, che recepisce in modo critico e valutativo quella impugnata, limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa, ed omettendo di esaminare quelle doglianze dell'atto di appello, che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice). Coerentemente, è stata ritenuta illegittima la motivazione del giudice di appello che si fondi sulla pedissequa riproduzione — realizzata mediante l'applicazione informatica del “copia-incolla” — di intere pagine dell'ordinanza custodiale e che trascuri pressoché interamente le motivazioni della sentenza di primo grado, risolvendosi in abnorme contemplatio dell'attività di indagine preliminare e tradendo la sua precipua fisionomia di revisio prioris istantiae, pur se nel circoscritto ambito del devolutum; d'altro canto, detto inusuale sistema motivazionale non è nemmeno riconducibile al paradigma della motivazione per relationem, considerato che in nessun caso la motivazione del provvedimento genetico della custodia cautelare può ritenersi congrua rispetto alle esigenze di giustificazione di una sentenza di appello (Cass. V, n. 8343/2013). Sulla premessa che è nullo per difetto di motivazione il provvedimento del giudice che riproduca alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra pronuncia, a meno che detta tecnica di redazione manifesti una autonoma rielaborazione da parte del decidente e dia adeguata risposta alle doglianze proposte dal ricorrente, è stata dichiarata la nullità dell'ordinanza del giudice del riesame che aveva confermato la decisione del gip limitandosi a riprodurre, attraverso la tecnica informatica del copia — incolla, circa venti pagine della motivazione impugnata (Cass. IV, n. 7031/2013), o quella con la quale il tribunale dell'appello cautelare rigetti l'istanza di revoca della misura cautelare dell'obbligo di dimora richiamando — con la tecnica del copia-incolla informatico — argomentazioni e valutazioni contenute in decisioni conclusive di precedenti procedure «de libertate», ritenendo apoditticamente gli argomenti difensivi inidonei ad inficiare il quadro cautelare già valutato e omettendo di valutare e dar conto, con congrua motivazione, di fatti sopravvenuti e, pertanto, nuovi indicati dalla difesa, quali la revoca di analoga misura nei confronti di altri coindagati unitamente all'ulteriore decorso del tempo, tali da rilevare in sede di attualità delle esigenze cautelari (Cass. V, n. 2926/2013). Altrettanto coerentemente, è stato dichiarato legittimo il decreto del giudice che, richiamando per relationem la richiesta del P.M. con riferimento alla ricostruzione dei fatti, contenga, sia pure in forma sintetica, un'autonoma e personalizzata valutazione delle posizioni di ciascun imputato con riferimento ad ogni fattispecie delittuosa contestata (Cass. II, n. 8951/2016). Segue. La motivazione apparente È ravvisabile la motivazione apparente quando, pur graficamente esistente, sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Cass.V, n. 9677/2015), come quando, per esempio, il provvedimento si limiti ad indicare le fonti di prova della colpevolezza dell'imputato, senza contenere la valutazione critica ed argomentata compiuta dal giudice in merito agli elementi probatori acquisiti al processo (Cass. III, n. 49168/2015), o non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. I, n. 4787/1993), o come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Cass. III, n. 20843/2011) o di ricorso a clausole di stile (Cass. VI, n. 25361/2012) e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Cass. S.U., n. 25932/2008). La giurisprudenza di legittimità riconduce il vizio di motivazione apparente sotto il profilo della violazione di legge (infra), affermando che qualora il ricorso per cassazione sia ammesso esclusivamente per violazione di legge, è comunque deducibile la mancanza o la mera apparenza della motivazione, atteso che in tal caso si prospetta la violazione della norma che impone l'obbligo della motivazione nei provvedimenti giurisdizionali (Cass. S.U., n. 25080/2003). Segue. La contraddittorietà della motivazione La motivazione è contraddittoria quando le ragioni logico-giuridiche di uno stesso fatto o su un complesso di fatti, aventi influenza sul thema decidendum, si escludono o si rendono vicendevolmente inconciliabili (Cass. IV, n. 5068/1989). La motivazione è contraddittoria (o perplessa) perciò quando si manifestano dubbi che non consentono di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice — conducenti ad esiti diversi — siano state poste a base del suo convincimento (Cass. II, n. 12329/2010). Non è perciò ravvisabile il vizio di contraddittorietà della motivazione nel caso in cui il giudice, in sede di giudizio di bilanciamento, pur ritenendo le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, non operi la riduzione di pena nella massima misura possibile in ragione della sussistenza delle aggravanti che continuano a costituire elementi di qualificazione della gravità della condotta (Cass. IV, n. 48391/2015; Cass. III, n. 13210/2010; si veda Cass. S.U., n. 10713/2010, secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto). Segue. La motivazione illogica S'è già detto che la logica non è, né potrebbe essere, oggetto di codificazione. Proprio per questo plurime sono le pronunce con cui la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett e), è solo quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass. S.U., n. 47289/2003). L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. S.U., n. 24/1999; nello stesso senso già Cass. S.U., n. 30/1995, che aveva affermato il principio per il quale il vizio di manifesta illogicità che, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), legittima il ricorso per cassazione, deve risultare dal testo stesso del provvedimento impugnato, il che vuol dire, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare, in tale sede, che l'«iter» argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro «iter», in tesi egualmente corretti sul piano logico. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità). La natura manifesta della illogicità, dunque, costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sovrapporre la propria logica a quella del giudice di merito o di preferire la versione più plausibile dei fatti proposta dal ricorrente. Quel che conta, in ultima analisi, è la ragionevolezza della decisione. In tema di ricorso per cassazione, può essere censurata la mancata assunzione in appello, in sede di giudizio abbreviato non condizionato, di prove richieste dalla parte solo qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Cass. II, n. 48630/2015). Segue. La valutazione delle prove Si è già detto che il giudice deve valutare la prova dando conto in motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (art. 192) e si è ricordato (v. supra) che la violazione dell'art. 192 non può essere eccepita ai sensi della lett. c). Il modo con cui il giudice valuta la prova, espressione autentica del principio del suo libero convincimento e del divieto della prova legale, può essere scrutinato solo nell'ambito del vizio di motivazione e nei limiti in cui esso è consentito, purché siano rispettati i criteri di valutazione imposti dall'art. 192. Sicché resta esclusa la possibilità di sindacare, nel merito, le scelte compiute dal giudice in ordine alla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova, a meno che le stesse non siano il frutto di affermazioni apodittiche o illogiche (Cass. III, n. 40542/2007). In tema di valutazione delle chiamate di correo, il sindacato di legittimità non consente il controllo sul significato concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, potendosi solo verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sé stessi e nel loro reciproco collegamento (Cass. VI, n. 33875/2015). Non diversamente, in tema di prova scientifica, la Corte di cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. V, n. 6754/2014 ; cfr. sul punto Cass. IV, n. 15493/2016 che, in tema di omicidio imputabile a colpa medica, ha affermato il principio che non è censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, all'esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, ne privilegi una, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri e essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di non dover seguire ). Cass. III, n. 15891/2016, ha affermato che la parte che intenda contestare , in sede di ricorso per cassazione, il risultato di un metodo scientifico, sul quale si basa la decisione, ha l'onere di criticare specificamente l'esito della prova, non già per sostituire alla tecnica adoperata dal perito e convalidata dal giudice di merito un'altra e diversa metodologia reputata di maggiore autorevolezza ed elevata persuasività, ma esclusivamente per invalidarla, dimostrando l'insufficienza di essa a poter essere posta, nel caso specifico, a fondamento del ragionamento probatorio (il principio è stato affermato in un caso di testimonianza resa da minore vittima di abusi sessuali, ritenuta rispondente ai criteri di validazione richiesti dal cd. Statement Validity Analysis, attraverso il metodo denominato CBCA) Si è detto dei criteri di giudizio imposti dall'art. 192, il cui rispetto condiziona la coerenza e logicità della motivazione. Orbene, fermo restando che la prova testimoniale, da chiunque provenga, anche dalla parte civile, salva la valutazione di attendibilità (più pregante quando provenga da persona interessata agli esiti del processo), non necessita di riscontri estrinseci per essere utilizzata a fini ricostruttivi del fatto (Cass. S.U., n. 41461/2012), in tema di valutazione della prova indiziaria, invece, la giurisprudenza interpreta l'art. 192, comma 2, nel senso che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. S.U., n. 33748/2005) (per gli ulteriori approfondimenti sul tema, anche relativo alla valutazione delle dichiarazioni rese dal coimputato o da persona imputata in procedimento connesso o collegato, si rimanda al commento dell'art. 192). In tema di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali , le dichiarazioni -acquisite in violazione delle linee guida della cosiddetta "Carta di Noto ", -nella parte in cui queste ultime non risultano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con conseguente disciplina degli effetti derivanti dallo loro inosservanza non sono inutilizzabili, ma in relazione ad esse il giudice ha l'obbligo di motivare perché egli ritiene attendibile la prova assunta con modalità non rispettosa delle cautele e metodologie previste nell'indicato documento (Cass. III, n. 648/2017). L'omessa valutazione della prova vizia la motivazione quando la decisione impugnata non supera la prova di resistenza. Nell'ipotesi di omesso esame, da parte del giudice, di risultanze probatorie acquisite e decisive, la condanna in secondo grado dell'imputato già prosciolto con formula ampiamente liberatoria nel precedente grado di giudizio non si sottrae al sindacato della Corte di cassazione per lo specifico profilo del vizio di mancanza della motivazione «ex» art. 606, comma 1, lett. e), purché l'imputato medesimo, per quanto carente di interesse all'appello, abbia comunque prospettato al giudice di tale grado, mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria. In detta evenienza al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di accesso agli atti, ma attraverso il raffronto tra la richiesta di valutazione della prova e il provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad essa risposta, se la prova, in tesi risolutiva, assunta sia effettivamente tale e se quindi la denunciata omissione sia idonea a inficiare la decisione di merito (Cass. S.U., n. 45276/2003; Cass. VI, n. 39911/2014). Segue. Il travisamento della prova Prima delle modifiche introdotte all'art. 606, lett. e) dalla l. n. 46/2006, il vizio di motivazione censurabile in cassazione doveva risultare esclusivamente dal testo del provvedimento impugnato. Il “travisamento del fatto” era tradizionalmente inteso quale vizio logico che aveva ad oggetto la ricostruzione dei fatti insanabilmente in contrasto con la realtà indiscussa od almeno manifesta nel processo (Cass. II, n. 1195/1967), quando cioè la pronuncia fosse emanata sul presupposto dell'esistenza o inesistenza di fatti, che invece dagli atti risultino, di certo, inesistenti o esistenti, con esclusione del momento valutativo della prova (Cass. I, n. 86/1966). Il nuovo codice di rito ha voluto mantenere «il sindacato sul piano della legittimità, evitando gli eccessi (...) che hanno talvolta dato luogo a invasioni da parte del giudice di legittimità dell'area in giudizio riservata al giudice di merito» (Relazione al progetto del codice di procedura penale). L'iniziale formulazione dell'art. 606, lett. e), era perciò chiaramente finalizzata a evitare che il giudizio di legittimità si trasformasse, di fatto, in un'ulteriore grado di giudizio di merito, vietando qualsiasi incursione nel materiale raccolto nelle precedenti fasi di merito ed imponendo come oggetto di valutazione della logicità, congruità e coerenza della sentenza esclusivamente il testo della motivazione. Coerentemente, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio per il quale il travisamento del fatto intanto poteva essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto risultasse inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 606, lett. e); l'accertamento di esso richiedeva, pertanto, la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell'avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicché la Corte di cassazione potesse, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi fossero stati valutati (Cass. S.U., n. 6402/1997; nello stesso anche Cass. IV, n. 31064/2002). L'art. 8, comma 1, l. n. 46/2006, cit., ha allargato l'ambito della deducibilità del vizio di motivazione anche ad “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Il legislatore ha così introdotto il “travisamento della prova” (e non del fatto) quale ulteriore criterio di giudizio della contraddittorietà estrinseca della motivazione. Il travisamento della prova consiste in un errore percettivo (e non valutativo) della prova tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell'affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti (per un'applicazione in tema di intercettazioni telefoniche, cfr. Cass. V, n. 7465/2013, che ha ribadito il consolidato principio per il quale è possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile. Altrimenti, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità — Cass. S.U., n. 22471/2015). La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente spiegato il concetto affermando che il travisamento è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo, ma anche quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Cass. II, n. 47035/2013) ed è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Cass. VI, n. 5146/2014). Il travisamento della prova rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse di fatto del ragionamento così come indicate dal giudice nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all'urto del contro-giudizio logico della tenuta del sillogismo. Il travisamento è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne è stata tratta è irreparabile. Poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata con il concorso della prova travisata, la Corte di cassazione ha precisato che se l'errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell'appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Cass. V, n. 48703/2014; Cass. VI, n. 5146/2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Cass. IV, n. 4060/2013). In caso di riforma della sentenza di assoluzione, il vizio può essere eccepito per la prima volta in sede di legittimità (Cass. S.U., n. 32/2000. Si veda al riguardo infra). Gli atti del processo travisati devono essere specificamente indicati nel ricorso, secondo il principio, mutuato dalla giurisprudenza civilistica, dell'autosufficienza del ricorso (Cass. fer., n. 37368/2007). La giurisprudenza di legittimità ritiene inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Cass. IV, n. 46979/2015). Più specificamente si sostiene che il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l'inammissibilità, ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l'atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale «incompatibilità» all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Cass. VI, n. 45036/2010). E' importante sottolineare che l'art. 7, d.lgs. n. 11/2018, ha inserito l'art. 165-bis, disp. att. il cui comma 2 dispone che “nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l'impugnazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e); della loro mancanza è fatta attestazione”. Segue. La motivazione della sentenza di appello In termini generali, nei limiti del presente commento, che riguarda solo i possibili vizi di motivazione della sentenza, valgano le considerazioni già ampiamente svolte in ordine ai requisiti di coerenza, completezza e congruità, non manifesta illogicità che devono contraddistinguere ogni sentenza. Il giudice di appello è giudice del fatto e non della legittimità ed è dunque tenuto a esaminare tutte le questioni proposte e a rivalutare, nel merito, le prove assunte in primo grado, nei limiti ovviamente di quanto devoluto e dell'oggetto della sua cognizione (sul punto, cfr. Cass. VI, n. 1253/2014). La motivazione della sentenza di appello non può perciò considerarsi apparente, apodittica o tautologica quando consente di individuare, con chiarezza e senza defatiganti ricerche di testuali corrispondenti espressioni, l'avvenuto, concreto, essenziale e puntuale vaglio autonomo dei punti specifici devoluti dall'impugnazione ed il percorso argomentativo che l'ha accompagnata (Cass. VI, n. 17912/2013). Ne consegue che l'omesso esame anche di un solo motivo di appello vizia la sentenza per mancanza di motivazione, sempre che non si tratti di motivo inammissibile ab origine per manifesta infondatezza, nel qual caso viene meno l'interesse stesso a coltivare il ricorso per cassazione perché il suo eventuale accoglimento non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass. VI, n. 47722/2015). L'omesso esame del motivo di appello deve essere escluso in caso di motivazione implicita ma occorre che, valorizzando il complesso della motivazione del provvedimento impugnato, la Corte di appello abbia concretamente mostrato di avere consapevolezza dell'esistenza del motivo che si assume implicitamente disatteso (ad esempio, riportandolo in premessa tra i motivi di gravame proposti dall'appellante) (Cass. II, n. 39176/2022). La motivazione della sentenza di appello che confermi quella di primo grado può rimandare per relationem a quest'ultima. Quel che va ribadito è che il giudice dell'appello non può utilizzare la motivazione per relationem per abdicare al suo dovere di indicare, ancorché in modo conciso, le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la decisione (art. 546, lett. e). Per cui il giudice del gravame non può limitarsi a richiamare puramente e semplicemente le conclusioni della sentenza di primo grado, in quanto stimate «logicamente e giuridicamente ineccepibili» (Cass. VI, n. 53420/2014; Cass. VI, n. 43972/2013, che definisce “apparente” la la motivazione del giudice di appello che, a fronte di una specifica contestazione contenuta nei motivi, si limiti ad affermare che le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado sono condivisibili, senza nemmeno indicare i passaggi motivazionali della medesima sentenza che possano confutare le censure proposte. Si veda altresì Cass. VI, n. 20023/2014, cit.), a meno che l'impugnazione si limiti a reiterare questioni già ampiamente affrontate e risolte in primo grado senza apportare questioni di sostanziali novità (cfr. Cass. VI, n. 17912/2013) poiché in tal caso l'impugnazione avverso la sentenza di primo sarebbe inammissibile. Qui preme affrontare la questione della riforma in pejus della sentenza assolutoria. La sentenza di primo grado che assolve l'imputato è di per sé idonea a insinuare quantomeno il ragionevole dubbio della fondatezza dell'accusa. Sicché il giudice di appello che la riformi totalmente ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Cass. S.U., n. 33748/2005, che ha altresì affermato il principio per il quale l'appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all'esito del dibattimento, salva l'esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice ad quem gli ampi poteri decisori previsti dall'art. 597 comma 2 lett. b). Ne consegue che, da un lato, l'imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall'altro, il giudice dell'appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all'onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell'imputato) (nello stesso senso, Cass. 10130/2015). L'obbligo della cd. “motivazione rafforzata” sussiste, è bene precisare, quando la riforma in pejus della sentenza assolutoria costituisce l'approdo di un ragionamento probatorio alternativo, quando, cioè, la riforma della decisione di primo grado si fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite ma non quando essa sia legittimata da una diversa valutazione in diritto, operata sul presupposto dell'erroneità di quella formulata del primo giudice; in tale ipotesi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall'uno o dall'altro, ed il vizio a tal fine denunciabile è solo quello di violazione di legge, penale o processuale (Cass. II, n. 38277/2019; Cass. VI, n. 10584/2018; Cass. IV, n. 6514/2018).È unanime l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale il giudice dell'appello che riformi la sentenza di assoluzione esclusivamente in base ad una diversa valutazione di attendibilità della medesima prova dichiarativa è obbligato, in base all'art. 6 Cedu— così come interpretato dalla sentenza della Corte Edu 5 luglio 2011 resa nel caso Dan c/Moldavia — alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per escutere, nel contraddittorio con l'imputato, i testimoni allorché avverte la necessità di rivalutarne l'attendibilità (Cass. II, n. 34843/2015). Il giudice dell'appello, pertanto, non è tenuto ad assumere direttamente la deposizione del testimone solo quando la sua attendibilità/inattendibilità non sia in discussione o quando deve limitarsi a fornire una lettura coerente e logica del compendio probatorio palesemente travisato nella decisione impugnata (Cass. II, n. 41736/2015; Cass. III, n. 45453/2014 ; Cass. III, n. 42443/2016, secondo cui, invece, l'obbligo di rinnovare l'istruzione e di escutere nuovamente i dichiaranti, non trova applicazione nell'ipotesi di riforma, in senso assolutorio, di sentenza di condanna, non venendo in rilievo - in tal cas o - il principio del superamento del "ragionevole dubbio" . Occorre tuttavia considerare quanto affermato da Cass. S.U., n. 27620/2016 – infra – in caso di costituzione di parte civile ) . Era invece controverso se la Corte di cassazione possa rilevare d'ufficio, quando non eccepita, la violazione dell'art. 6, Cedu(in senso favorevole Cass. III, n. 19322/2015; in senso contrario Cass. I, n. 26860/2015). La questione è stata risolta da Cass. S.U., n. 27620/2016 che ha affermato i seguenti principi di diritto: a) i principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come definiti nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU , pur non traducendosi in norme direttamente applicabili nell'ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione - convenzionalmente orientata - ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell'applicazione delle norme interne. b) la previsione contenuta nell'art. 6, § 3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali , relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea val utazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado . c) è affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma 1, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma 3; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata; d) costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna . d) anche il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio. Tale principio è stato esplicitamente esteso anche alla sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all'esito di un giudizio abbreviato non condizionato (Cass. S.U. n. 18620/2017). Cass. S.U., n. 14800/2018 ha infine precisato che “Nell'ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice d'appello non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice d'appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell'art. 603) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado” (per un commento alla sentenza e, più, in generale per un panorama sulle problematiche relative agli “oneri istruttori” del giudice dell'appello che riforma la sentenza di primo grado anche in senso assolutorio, cfr. LORENZETTO. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al commento dell'art. 603-bis). Segue. La motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta. Rinvio Facendo richiesta di applicazione della pena, l'imputato rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa, o, in altri termini, non nega la sua responsabilità ed esonera l'accusa dall'onere della prova; la sentenza che accoglie la detta richiesta contiene, quindi, un accertamento ed un'affermazione impliciti della responsabilità dell'imputato, e pertanto l'accertamento della responsabilità non va espressamente motivato, così come l'affermazione di responsabilità non va espressamente dichiarata. Pertanto, contro la sentenza di patteggiamento il ricorso per cassazione può essere proposto per i soli motivi previsti dall'art. 448, comma 2-bis (inserito dall'art. 1, comma 50, l. n. 103/2017) al cui commento si rinvia. Cass. S.U., 21368/2020 e Cass. S.U., n. 21369/2020, hanno affermato che è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo delle parti» (Cass. S.U., 21368/2020) e alla applicazione di sanzioni amministrative accessorie (Cass. S.U., 21369/2020). La motivazione nei provvedimenti cautelari personali Anche in relazione ai provvedimenti riguardanti l'applicazione di misure cautelari il vizio di motivazione, per poter essere rilevato, deve assumere i connotati indicati nell'art. 606 lett. e), e cioè riferirsi alla mancanza della motivazione o alla sua manifesta illogicità (Cass. S.U., n. 19/1994). In particolare, il controllo di legittimità è diretto a verificare, da un lato, la congruenza logica e la completezza dell'apparato argomentativo che collega la premessa costituita dall'indizio o dagli indizi e la conclusione nella quale si sostanzia il giudizio di probabile colpevolezza del prevenuto, e, dall'altro, la valenza sintomatica degli indizi stessi, quale garanzia del provvedimento, ma non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l'attendibilità delle fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio quando la motivazione sia adeguata ed esente da errori logici o giuridici (Cass. fer. n. 2522/1990; Cass. V, n. 811/1991). Secondo alcune pronunce, detto controllo deve essere proporzionato ai caratteri di sommarietà e provvisorietà che sono propri del provvedimento applicativo della misura, ed è meno penetrante di quello che può esercitarsi sulla motivazione della sentenza definitiva, pur essendo esteso alla congruità e logicità degli argomenti adottati dal giudice di merito e posti a base della decisione criticata (Cass. I, n. 2336/1991; Cass. V, n. 811/1991). Sicché la motivazione del provvedimento che dispone una misura coercitiva è censurabile in sede di legittimità solo quando sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito o talmente priva di coordinazione e carente dei necessari passaggi logici da far risultare incomprensibili le ragioni che hanno giustificato l'applicazione della misura (Cass. VI, n. 49153/2015). Allorché sia denunciato vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie. Poiché la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell'ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell'art. 292 c.p.p. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo, la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all'art. 546 c.p.p., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all'accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza (Cass. S.U., n. 11/2000; Cass. IV, n. 26992/2013). Se viene esperito direttamente il ricorso per Cassazione avverso ordinanze che dispongono misure cautelari ai sensi dell'art. 311, le doglianze attinenti il difetto di taluna delle condizioni previste dall'art. 273 comma 1, c.p.p. (sussistenza di gravi indizi di colpevolezza) o dall'art. 274 (esigenze cautelari) possono assumere rilievo solo se si traducano in un motivo di annullamento; quest'ultimo può essere individuato solo nella eventuale violazione dell'obbligo di motivazione previsto dall'art. 292 comma 2 lett. c), che per essere rilevabile in sede di legittimità deve tuttavia rientrare nelle previsioni di cui all'art. 606 comma primo lett. e) del predetto codice. Esula, infatti, dalle funzioni della corte di legittimità la valutazione della sussistenza, in concreto, tanto degli indizi quanto delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito e, in particolare, prima del giudice al quale è richiesta l'applicazione della misura e poi, eventualmente del giudice del riesame (Cass. I, n. 1518/1991; Cass. IV, n. 20575/2016, ha precisato che la denunzi a dell'omessa o inadeguata valutazione, nell'ordinanza di rigetto della richiesta di riesame cautelare, di elementi di prova presenti in atti, ovvero della carente verifica delle fonti, richiamate solo succintamente dal tribunale del riesame è compatibile con il ricorso per cassazione ex art. 311. solo quando i suddetti vizi emergono in maniera evidente dalla mera lettura del provvedimento impugnato o dal suo confronto con specifiche deduzioni scritte presentate precedentemente al la sua adozione, non essendo invece sufficiente, in assenza dell'illustrata condizione, l'allegazione al ricorso degli atti o dei documenti probatori di cui si lamenta la mancata considerazione. ) Cass. III, n. 13744/2016 ha affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento del tribunale del riesame i cui motivi rinviino genericamente alle censure articolate nel precedente atto di gravame senza indicarne il contenuto, in quanto anche nella materia cautelare è necessario che il ricorso rispetti i necessari requisiti di specificità stabiliti dall'art. 581, lett. c), al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità (sulla genericità del gravame che viola il principio di autosufficienza si veda anche il paragrafo relativo alla genericità del ricorso) La motivazione nei provvedimenti cautelari reali Il vizio di motivazione dei provvedimenti cautelari reali non è censurabile in cassazione, essendo consentito il ricorso solo per “violazione di legge” (art. 325). Come però spiegato dalla giurisprudenza di legittimità, nella nozione di «violazione di legge” rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice (Cass. S.U., n. 5876/2004; Cass. S.U., n. 25080/2003; Cass. S.U., n. 5/1991). Dunque il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Cass. S.U., n. 25932/2008). La motivazione della quantificazione della pena e sul trattamento sanzionatorio In caso di sentenza di condanna, la applicazione della pena costituisce lo scopo (il prodotto) dell'intero processo (volto ad accertare la effettiva sussistenza della pretesa punitiva) e la sua concreta quantificazione risponde all'esigenza di renderne effettiva la finalità rieducativa (art. 546, comma 1, lett. e, n. 2). La prassi giudiziaria dimostra, invece, che alle ragioni che presiedono alla quantificazione della pena (e più in generale del complessivo trattamento sanzionatorio) non è riservato lo spazio che tale argomento merita, una prassi forse “incoraggiata” dalla stessa giurisprudenza di legittimità che pretende il giusto rigore motivazionale solo quando la condanna si avvicini ai limiti massimi edittali. È pressoché costante, infatti, l'affermazione che nel caso in cui venga irrogata una pena detentiva al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Cass. IV, n. 46412/2015). Allo stesso modo, quando per la violazione ascritta all'imputato sia prevista alternativamente la pena dell'arresto e quella dell'ammenda, si afferma che il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l'imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all'altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell'accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente (Cass. III, n. 37867/2015). Con ciò però non considerando che la pena pecuniaria non pagata per insolvenza del condannato si converte in libertà controllata e dunque pur sempre in una forma di privazione della libertà. Quando invece l'entità della pena costituisca motivo di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, il vizio di motivazione della sentenza di appello che dovesse essere eccepito in sede di legittimità dovrebbe essere scrutinato alla luce dei principi sin qui illustrati e, dunque, confrontando le ragioni addotte a sostegno della definitiva quantificazione della pena con i motivi di gravame (e la loro specificità). Una motivazione che superi tali motivi facendo puramente e semplicemente riferimento ai criteri di giudizio forniti dall'art. 133, c.p., si limiterebbe a descrivere gli strumenti utilizzati per il mestiere, non il modo dell'utilizzo. La risalente affermazione di principio per la quale è da ritenere adempiuto l'obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena purché sia indicato l'elemento, tra quelli di cui all'art 133, c.p. ritenuto prevalente e di dominante rilievo (Cass. S.U., n. 5519/1979) non può essere utilizzata come uno strumento per trasformare il delicatissimo esercizio della discrezionalità tecnica in una sostanziale via di fuga dalla motivazione. L'indicazione dell'elemento prevalente esige la spiegazione della sua rilevanza e preminenza rispetto ad altri elementi di giudizio, soprattutto se proposti dall'imputato a sostegno della richiesta di attenuazione della pena. Per questo trattamenti sanzionatori differenziati non sono affatto impediti dalla identità del fatto attribuito ai correi, ma correttamente la Corte di cassazione ricorda che se da un lato non può essere considerato come indice del vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, dall'altro il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso, che si prospetta come identico, non deve essere sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali (Cass. III, n. 27115/2015). Ed invece anche le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando — come si afferma — una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass. S.U., n. 10713/2010). Si è correttamente affermato che incorre nel vizio di motivazione e nella violazione degli artt. 53 e 58 l. n. 689/1981 il giudice di secondo grado che, investito di motivi d'appello nei quali si chiede la conversione della pena detentiva breve in pena pecuniaria ex art. 53 della stessa legge, non fornisca adeguata motivazione del diniego (Cass. III, n. 37814/2013). È condivisibile, alla luce del testo vigente dell'art. 62-bis c.p., come modificato dall'art. 1 l. n. 251/2005, l'orientamento interpretativo secondo il quale il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo (Cass. III, n. 44071/2014), posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, sicché la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Cass. V, n. 7562/2013; cfr. altresì, Cass. V, n. 37569/2015, che ha ribadito il principio per il quale il giudice d'appello può legittimamente riconoscere le attenuanti generiche anche «ex officio», ma il mancato esercizio di tale potere, eccezionalmente riconosciuto dall'art. 597, comma 5, non è censurabile in cassazione, né è configurabile in proposito un obbligo di motivazione, in assenza di specifica richiesta nei motivi di appello, o nel corso del giudizio di secondo grado. È perciò illegittima la motivazione della sentenza d'appello che, nel confermare il giudizio di insussistenza delle circostanze attenuanti generiche, si limiti a condividere il presupposto dell'adeguatezza della pena in concreto inflitta, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti specificatamente indicati nei motivi di impugnazione. In questo senso, Cass. VI, n. 20023/2014). È costante l'insegnamento che nel caso in cui il giudice d'appello, su impugnazione del pubblico ministero, riformi la sentenza assolutoria di primo grado pronunciando condanna dell'imputato, deve motivare, pur in assenza di specifiche deduzioni di parte, circa l'eventuale, mancata, concessione della sospensione condizionale della pena o di altri analoghi benefici (Cass. V, n. 5581/2015). In tal caso, però, la ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato (art. 274, comma 1, lett. c) esime il giudice dal dovere di motivare sulla prognosi relativa alla concessione della sospensione condizionale della pena (Cass. S.U., n. 1235/2010; Cass. VI, n. 50132/2013). Occorre però precisare che, in caso di riforma parziale della sentenza di condanna il giudice di appello non è tenuto a motivare in ordine al mancato esercizio del potere discrezionale di concedere d'ufficio la sospensione condizionale della pena, ai sensi dell'art. 597, comma 3, quando l'interessato non abbia formulato al riguardo alcuna richiesta , né con l'atto di appello, né in sede di conclusioni ; ne deriva che il mancato riconoscimento del beneficio non costituisce violazione di legge e non configura mancanza di motivazione suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 606, comma 1, lett. e) (Cass. II, n. 15930/2016) La motivazione delle statuizioni civili La condanna generica al risarcimento del danno di cui all'art. 539, comma 1, c.p.p. non esige, per sua natura, alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, essendo sufficiente, a tal fine, l'accertamento del fatto-reato (cd. “danno evento”) potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (Cass. V, n. 45118/2013). Tale statuizione, ai sensi dell'art. 651, non ha normalmente efficacia di giudicato in ordine alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato (Cass. IV, n. 1045/1998). Tuttavia la condanna generica al risarcimento del danno non esclude la possibilità che il giudice penale affermi la concreta sussistenza del danno-conseguenza (l'an del danno risarcibile), demandandone al giudice civile la sola liquidazione (il quantum). La giurisprudenza delle Sezioni civili della Suprema Corte ha autorevolmente affermato che la sentenza penale di condanna passata in giudicato, la quale fa stato, ai sensi dell'art. 651, in ordine all'accertamento del fatto, alla sua rilevanza penale ed alla sua commissione, può non essere sufficiente ai fini del riconoscimento dell'esistenza del diritto al risarcimento del danno quando il fatto, avente rilevanza penale, non si configuri come «reato di danno»; al contrario, nel caso in cui il giudicato penale di condanna riguardi un reato appartenente a tale categoria (nella specie una truffa a danno di un ente regionale), l'esistenza del danno è implicita e, conseguentemente, non può formare oggetto di ulteriore accertamento, negativo o positivo, in sede civile, se non con riferimento al soggetto od ai soggetti che lo abbiano subito o alla misura di esso (Cass. civ. S.U., n. 4549/2010). È stato ancor meglio precisato che in caso di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, se il giudice penale non si sia limitato a statuire solo sulla potenzialità dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull'esistenza in concreto di detto danno e del relativo nesso causale con il comportamento del soggetto danneggiato, valgono sul punto i principi del giudicato (Cass. civ. III, n. 16113/2009), ma non sono vincolanti, per il giudice civile, le valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all'individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile (Cass. civ. VI-3, n. 14648/2011; cfr. inoltre secondo cui « la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito, emessa ai sensi dell'art. 278 c.p.c., integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto, e non anche l'accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione. Tale accertamento di lesività potenziale prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che nel giudizio instaurato per la liquidazione venga negato il fondamento concreto della domanda risarcitoria, previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato»; nello stesso senso, da ultimo, Cass. civ. II, n. 15335/2012, e, meno recentemente, Cass. civ. III, n. 9709/2003. In precedenza Cass. civ. S.U., n. 8545/1993, aveva affermato che «la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito (extracontrattuale) integra un accertamento di potenziale idoneità di tale fatto a produrre conseguenze pregiudizievoli, a prescindere dalla misura, ma anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che, nel giudizio instauratosi per la liquidazione, venga negato il fondamento della domanda risarcitoria, alla stregua della constatazione che il danno non si sia in effetti verificato»). Da tempo, del resto, la Corte di cassazione ha autorevolmente affermato il principio secondo il quale il “danno-conseguenza” risarcibile (da non confondere con il “danno-evento”) non può mai essere ritenuto in re ipsa, ma deve essere oggetto di prova, anche mediante il ricorso, se necessario, alle presunzioni (cfr., sul punto, Cass. civ. S.U., n. 26972/2008, secondo cui «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla sent. Corte cost. n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza Corte cost. n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo»). A tale principio non si sottrae il danno non patrimoniale derivante da reato (Cass. civ. III, n. 8421/2011). Il danno, patrimoniale e non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 185, comma 2, c.p. costituisce conseguenza (eventuale) del reato e non si identifica con esso; il chiaro tenore letterale della norma (in tutto e per tutto sovrapponibile al testo dell'art. 20143, c.c.) non lascia dubbi di sorta. Ne consegue che il giudice penale, quando afferma la effettiva sussistenza del danno risarcibile da reato (cd. “danno-conseguenza”), non può limitarsi, anche se ai soli fini della condanna generica, ad identificare il danno risarcibile con il reato stesso (cd. “danno-evento”), né, conseguentemente, può motivare le ragioni della condanna al risarcimento con affermazioni sostanzialmente apodittiche, se non proprio tautologiche, che di fatto depongono per la sussistenza in re ipsa del danno-conseguenza. Cass. IV, n. 27162/2015 , ha precisato che l'avvenuta applicazione, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, di criteri diversi rispetto a quelli risultanti dalla tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere dedotta in sede di legittimità soltanto se in grado di appello il ricorrente si sia specificamente doluto di ciò, provvedendo, altresì, a produrre in giudizio dette tabelle. A non diversi rilievi si sottrae la condanna al pagamento della provvisionale, posto che il vigente codice di procedura penale, innovato profondamente rispetto a quello precedente, ha attribuito al giudice penale il potere di condannare l'imputato al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva «nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova» (art. 539, comma 2), coerentemente a quanto già prevedeva (e prevede), per il giudice civile, l'art. 278, comma 2, c.p.c. Sicché poiché la decisione di concedere una provvisionale immediatamente esecutiva sulla condanna generica al risarcimento del danno presuppone necessariamente un accertamento positivo in ordine all'esistenza del cd. “danno-conseguenza”, limitatamente, ovviamente, al quantum immediatamente liquidabile, il giudice deve darne conto in motivazione (Cass. III, n. 42684/2015, che ha altresì affermato il principio per cui quando è stata pronunciata in primo grado condanna generica al risarcimento del danno, non costituisce domanda nuova la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale effettuata per la prima volta in appello dalla parte civile, con la conseguenza che il giudice del gravame ha il dovere di pronunciarsi sulla domanda, utilizzando gli stessi criteri di giudizio previsti dall'art. 539, comma secondo, per il giudice di prime cure). Tuttavia, non viola il principio devolutivo né il divieto di "reformatio in peiu s" la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante (Cass. S.U., n. 53153/2016). Non è ricorribile per cassazione, sotto il profilo del vizio di motivazione, il capo della sentenza di condanna relativo alla rifusione delle spese in favore della parte civile, se non vengono indicate, anche in modo sommario, le ragioni di illegittimità della liquidazione e la violazione dei limiti tariffari relativi alle attività difensive. Ciò sul rilievo che, qualora la liquidazione operata dal giudice copra le voci di spesa sostenute dalla parte civile e sia contenuta nei valori medi di cui alla tabella allegata al d.m.. n. 55/2014, la mancanza della motivazione non determina quel pregiudizio che costituisce la ragione della ricorribilità in Cassazione (Cass. VI, n. 42543/2016) . La rilevabilità del vizio di motivazione in presenza di una causa di estinzione del reatoSecondo l'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo, ai sensi dell'art. 129, di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, anche in presenza di una nullità di ordine generale (Cass. S.U., n. 35490/2009; Cass. II, n. 2545/2015). Un diverso, minoritario indirizzo precisa, però, che quando la Corte d'appello, in riforma della sentenza di condanna in primo grado, abbia dichiarato «de plano» l'estinzione del reato per prescrizione prima del dibattimento, sussiste l'interesse dell'imputato alla declaratoria di nullità della sentenza perché solo il giudice del merito può valutare la sussistenza delle condizioni per il proscioglimento ai sensi dell'art. 129, comma 2, con riferimento al contenuto di tutti gli atti del processo (Cass. VI, n. 10960/2015; Cass. 50013/2015). Occorre piuttosto considerare che l'assolutezza del principio pur autorevolmente sostenuto dalla Corte di legittimità può obiettivamente porsi in contrasto con il diritto dell'imputato a veder riconosciuta la propria innocenza, quando risulti evidente ai sensi dell'art. 129, comma 2, e con il correlativo dovere del giudice di dar conto, in motivazione, della mancanza delle condizioni di applicabilità della norma. Sicché, soprattutto nei casi di riforma, in appello, della sentenza di assoluzione decisa in primo grado, ma anche nei casi di sentenze inappellabili, l'affermazione per cui i vizi di motivazione non sono mai deducibili in sede di legittimità non può non confrontarsi con la possibilità che il vizio, ove sussistente, sia astrattamente idoneo a modificare radicalmente la decisione impugnata. La Cass. IV, n. 23178/2016, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal P.m. avverso una sentenza del giudice di appello di assoluzione con formula «perché il fatto non sussiste» quando, successivamente a tale pronuncia, il reato si estingue per decorso del termine di prescrizione. E' necessario segnalare che, in conseguenza dell'introduzione dell'art. 578-bis, ad opera dell'art. 6, comma 4, d.lgs. n. 21/2018, la Corte di cassazione ritiene possibile l'annullamento con rinvio della sentenza del giudice di merito che dispone la confisca dei terreni lottizzati anche in caso di estinzione del reato per prescrizione purché la prescrizione sia maturata dopo la sentenza di primo grado (Cass. S.U., n. 13539/2020). La violazione di leggeContro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale (...) è sempre ammesso ricorso per cassazione per “violazione di legge” (art. 111, comma 7, Cost.). Per “violazione di legge” può essere proposto ricorso per cassazione anche avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322-bis e 324 c.p.p.. La “violazione di legge” non costituisce autonomo “caso di ricorso”, diverso ed ulteriore rispetto a quelli codificati dalla norma in commento (che del resto ne fa espressa menzione nel terzo comma). Nella nozione di «violazione di legge» rientrano gli «errores in iudicando» e/o "in procedendo” di cui alle lettere b) e c) dell'art. 606 e, tra gli errori procedurali, secondo consolidata giurisprudenza, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente (Cass. S.U., n. 5876/2004; Cass. S.U., n. 25080/2003) che viola il precetto imposto a pena di nullità dall'art. 125, comma 3; violazione che, secondo Cass. S.U., n. 25932/2008, sussiste anche quando la motivazione sia affetta da vizi così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Cass. III, n. 36388/2016 che ha escluso la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 125, nel caso di sentenza di primo grado mancante di una pagina, nella quale la S.C. ha ritenuto che la lacuna non avesse inficiato l'apparato motivazionale, tanto da consentire la compiuta articolazione della impugnazione in grado d'appello ) . Un'ipotesi particolare di totale mancanza della motivazione è quella scrutinata da Cass. V, n. 17112/2015 che ha affermato il principio per il quale il deposito del decreto di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno eseguito sette anni dopo la relativa decisione, assunta all'esito della celebrazione dell'udienza in camera di consiglio, comporta l'inesistenza della motivazione, tale da integrare il vizio di violazione di legge. Secondo parte della giurisprudenza è ammissibile il ricorso per Cassazione con il quale si riproponga esclusivamente una questione di legittimità costituzionale della quale il giudice di merito abbia ritenuto la non rilevanza o la manifesta infondatezza, perché, in tal caso, l'impugnazione investe sostanzialmente il capo ovvero il punto della sentenza regolati dalla norma giuridica sospettata di incostituzionalità (Cass. S.U., n. 2958/1984; Cass. I, n. 45511/2009). In senso contrario si è affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione avente come unico motivo la riproposizione di una questione di legittimità costituzionale ritenuta manifestamente infondata dal giudice di merito, in quanto, assumendo la questione di legittimità costituzionale di una norma la caratteristica di pregiudizialità rispetto al procedimento in cui deve essere applicata, per sottintendere un rapporto di strumentalità tra la sua soluzione e quella relativa alla dipendente questione di merito, la medesima diventa irrilevante, nel giudizio di cassazione, in mancanza di contemporanea impugnativa del capo e del punto della sentenza di merito regolato dalla norma di riferimento, sui quali il giudice di legittimità non è chiamato a giudicare (Cass. I, n. 5485/1996; Cass. I, n. 45311/2008; Cass. I, n. 8434/2008). Questione diversa è quella relativa alla ammissibilità del ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme costituzionali, poiché l'inosservanza di disposizioni della Costituzione non è prevista tra i casi di ricorso dall'art. 606 e può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale (Cass. II, n. 677/2014). In tema di trattamento penitenziario differenziato, costituisce violazione di legge - unico vizio legittimante il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di applicazione o di proroga del regime previsto dall'art. 41 bis della legge n. 354 del 1975 - l'omessa considerazione da parte del giudice della incidenza dello stato patologico, eventualmente insorto a carico del detenuto, sulla valutazione della pericolosità del medesimo (Cass. I, n. 16019/2016) La violazione di legge non può essere eccepita in cassazione se non dedotta con i motivi di appello (si veda il paragrafo relativo alla inammissibilità e il commento all'art. 609 c.p.p.). Provvedimenti impugnabiliOltre le sentenze pronunciate in appello e quelle inappellabili (di cui agli artt. 443, comma 3, e 593, comma 3, c.p.p.), le ordinanze ed i provvedimenti che il codice di rito e la legge dichiarano espressamente ricorribili per cassazione, sono impugnabili anche i provvedimenti abnormi, dovendosi intendere per tali non solo i provvedimenti che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risultino avulsi dall'intero ordinamento processuale, ma anche quelli che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichino al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l'atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (Cass. S.U., n. 17/1998; sul concetto di abnormità, cfr. altresì Cass. S.U., n. 26/2000;Cass. IV, n. 2484/2015). In tal caso il ricorso deve essere presentato, a pena di inammissibilità, nei termini di cui all'art. 585, i quali operano anche con riferimento al ricorso per cassazione avverso gli atti abnormi, con la sola eccezione dei gravami proposti avverso provvedimenti affetti da un'anomalia genetica così radicale che, determinandone l'inesistenza materiale o giuridica e rendendoli inidonei a passare in giudicato, può essere denunciata in qualsiasi momento (Cass. IV, n. 22740/2015). La giurisprudenza di legittimità ha affermato che: - Non è ammissibile il ricorso immediato per cassazione avverso l'ordinanza con cui il giudice del dibattimento rigetta la richiesta di ammissione al procedimento con messa alla prova, trattandosi di provvedimento che può essere impugnato solo insieme con la sentenza (Cass. S.U., n. 33216/2016). - Non è abnorme il decreto con il quale il pubblico ministero revochi il proprio precedente provvedimento di dissequestro non ancora eseguito, purchè ne siano succintamente indicate le ragioni, in quanto, rientrando nella sfera dei poteri dell'organo che lo ha emesso, esso non si colloca al di fuori del sistema ordinamentale vigente (Cass. II, n. 28793/2016). - È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 568, comma secondo, c.p.p. in relazione all'art. 111, comma settimo, Cost. nella parte in cui esclude la impugnabilità per cassazione della sentenza con la quale il giudice di pace, ritenuta la competenza del Tribunale, dichiara la propria incompetenza per materia e dispone la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, in quanto l'art. 111, comma settimo, presuppone, quanto alla ricorribilità in Cassazione, un provvedimento giurisdizionale caratterizzato da decisorietà e definitività, mentre, invece, la decisione sulla competenza ha un contenuto processuale non definitivo, sindacabile attraverso il conflitto di competenza che il giudice successivamente investito del processo può sollevare, ove si ritenga a propria volta incompetente, ovvero dalla stessa Corte di cassazione, quale giudice dell'impugnazione, nel caso in cui, al contrario, il secondo giudice si ritenga competente (Cass. V, n. 33545/2015). - Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell'art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall'art. 3-ter, comma 2, l. n. 575/1965; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606, lett. e), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dal nono comma del predetto art. 4 l.n.1423/1956, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente. (In motivazione la Corte ha ribadito che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato) (Cass. S.U., n. 33451/2014; Cass. I, n. 6636/2016; Cass. I, n. 42817/2016 ha precisato che nel giudizio di legittimità instaurato a seguito di ricorso per cassazione contro i provvedimenti in materia di misure di prevenzione, ammesso soltanto per violazione di legge, possono essere introdotti solo documenti, non attinenti al merito, che l'interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi e dai quali possa derivare l'applicazione dello "ius superveniens" di cause estintive e di disposizioni più favorevoli ). - Avverso il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione delibera su una richiesta di ammissione al pagamento del credito in favore del terzo titolare di una garanzia reale su un bene oggetto di confisca di prevenzione, può essere proposto ricorso per cassazione non solo per violazione di legge, ma anche per tutti i motivi previsti dall'art. 606, comma primo, compresi quelli relativi alla motivazione del provvedimento impugnato (Cass. VI, n. 44784/2015); - I provvedimenti negativi di competenza non possono essere impugnati per cassazione ai sensi dell'art. 568, comma secondo, c.p.p. ovvero per abnormità, in quanto, non essendo attributivi di competenza, comportano — qualora anche il secondo giudice si dichiari incompetente — l'elevazione del conflitto ai sensi dell'art. 28 c.p.p. (Cass. VI, n. 9729/2014); - È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui il giudice ordina la trasmissione degli atti al Pubblico ministero per la riduzione dell'indulto di cui alla legge n. 241 del 2006, concesso con più provvedimenti in misura complessivamente superiore al limite di legge, trattandosi di un atto di mero impulso processuale dal quale non deriva alcuna lesione del diritto di difesa (Cass. V, n. 42850/2014); - In tema di incidente probatorio, tutti i provvedimenti che intervengono nella fase di ammissione sono inoppugnabili, stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (Cass. I, n. 37212/2014); - In tema di misure di prevenzione, è inammissibile il ricorso «per saltum» in cassazione contro le decisioni del tribunale (Cass. II, n. 31075/2013); - La sentenza di patteggiamento, che abbia omesso di statuire in ordine all'applicazione di una misura di sicurezza, non è appellabile al tribunale di sorveglianza ex art. 680, ma è ricorribile per cassazione (Cass. III, n. 7641/2010); - Non è impugnabile per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione — e non è ricorribile in cassazione, in quanto non è abnorme — l'ordinanza di inammissibilità, emessa dal G.i.p., della richiesta di incidente probatorio (Cass. IV, n. 42520/2009); - È inoppugnabile, per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta del pubblico ministero di riaprire le indagini a seguito della disposta archiviazione (Cass. V, n. 30620/2008); - L'ordinanza del G.i.p., che a norma dell'art. 263, comma quinto, provvede sull'opposizione degli interessati avverso il decreto del P.M. di rigetto della richiesta di restituzione delle «cose» in sequestro o di rilascio di copie autentiche di documenti, è ricorribile per cassazione per tutti i motivi indicati dall'art. 606, comma primo (Cass. S.U., n. 9857/2008). - Non è ricorribile per cassazione il decreto con cui il Giudice di pace, ai sensi dell'art. 26, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, dichiara inammissibile il ricorso immediato per la citazione a giudizio, presentato dalla persona offesa ai sensi dell'art. 21 dello stesso d.lgs., poiché tale decreto, per la sua natura interlocutoria, inerente alla mera facoltà di accesso al rito semplificato, non ha contenuto decisorio e non incide in via definitiva su diritti soggettivi delle parti (Cass. S.U., n. 36717/2008). - È ammissibile il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del GIP che non convalida il provvedimento di divieto del questore di accedere a manifestazioni sportive (DASPO), trattandosi di decisione che incide sulla libertà personale (Cass. III, n. 333539/2016) . - È abnorme il provvedimento del giudice che, investito della celebrazione di processo per direttissima a seguito di arresto in flagranza convalidato e di tempestiva presentazione in udienza dell'imputato, ai sensi dell'art. 449, comma 4, c.p.p. disponga la restituzione degli atti al Pubblico Ministero, erroneamente ritenendo che il giudizio è stato irritualmente instaurato perchè l'imputato non è stato sottoposto a misura cautelare nè ha reso confessione in sede di interrogatorio. (La S.C. ha osservato che ai casi di abnormità funzionale va aggiunta anche l'ipotesi, ricorrente nella fattispecie, in cui il PM sia costretto a commettere violazioni di legge derivanti dall'imposizione di un diverso e non consentito modo di esercizio dell'azione penale) (Cass. V, n. 569/2017). - È abnorme, in quanto determinante una indebita regressione del procedimento ad una fase anteriore, il provvedimento con il quale il giudice monocratico dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio sotto il profilo della erronea indicazione del giudice-persona fisica addetto alla trattazione del processo secondo il ruolo di udienza, rispetto a quello indicato nel decreto, e rimette gli atti al pubblico ministero, ciò perché la nullità del decreto di citazione a giudizio si verifica soltanto quando l'atto non reca l'indicazione del giudice competente, inteso come organo giudicante procedente, senza che sia necessaria la specifica indicazione della persona fisica del giudice designato (Cass. III, n. 9848/2016). Secondo parte della giurisprudenza, il provvedimento di archiviazione emesso all'esito dell'udienza camerale è impugnabile dalla persona offesa con ricorso per cassazione nei soli casi di mancato rispetto delle regole poste a garanzia del contraddittorio formale e, pertanto, non possono essere oggetto di censura le valutazioni poste a fondamento dell'ordinanza di archiviazione, essendo al riguardo il giudice del tutto libero di motivare il proprio convincimento anche prescindendo dalle valutazioni dell'organo titolare dell'accusa e da quelle esposte dalla persona offesa in sede di opposizione (Cass. IV, n. 51557/2016). In senso contrario, un indirizzo minoritario della giurisprudenza di legittimità ritiene, invece, che sia affetto da nullità per violazione del principio del contraddittorio, deducibile con ricorso per cassazione, il provvedimento di archiviazione che omette di valutare le ragioni esposte dalla persona offesa nell'atto di opposizione (Cass. III, n. 19132/2014; Cass. V, n. 28663/2016 ha affermato il principio che è affetto da nullità per viziodi motivazione, da ritenersi apparente, il decreto con il quale il G.i.p. dichiari "de plano" l'inammissibilità dell'opposizione alla richiesta di archiviazione proposta dalla persona offesa senza indicare nella motivazione le ragioni per le quali le indagini suppletive richieste sarebbero inutili, limitandosi a mere formule di stile adattabili a qualsiasi caso e del tutto prive di un seppur minimo riferimento allo specifico oggetto dell'indagine). Cass. S.U., n. 10959/2016 ha affermato il principio che l'obbligo dell'avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona, previsto dall'art. 408, comma 3-bis c.p.p., prescinde da ogni eventuale richiesta dell'interessato, con la conseguenza che la sua omissione, determinando la violazione del contraddittorio, è causa di nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione emesso "de plano", impugnabile con ricorso per cassazione. - Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa può dedurre con ricorso per cassazione l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione di misure cautelari coercitive (diverse dal divieto di espatrio e dall'obbligo di presentazione alla p.g.) applicate all'imputato, qualora quest'ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle, ai sensi dell'art. 299, comma 4 bis, c.p.p., l'istanza di revoca, di modifica o anche solo di applicazione della misura con modalità meno gravose (Cass. VI, n. 6864/2016). - Secondo la Cass. VI, n. 34881/2016, sussiste la legittimazione dell'indagato a proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che dispone la formulazione dell'imputazione, ex art. 409, comma 5, c.p.p., in ordine a reati diversi da quelli per i quali il pubblico ministero aveva richiesto l'archiviazione. Egli, tuttavia, non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che non accolga la richiesta di archiviazione e disponga la formulazione dell'imputazione, ex art. 409, comma quinto, in quanto unico soggetto legittimato ad impugnare è, in tal caso, il pubblico ministero (Cass. V, n. 6807/2015). Con riferimento all'ordine europeo di indagine penale, introdotto nell'ordinamento italiano dal d.lgs. n. 108 del 2017, ed in particolare all'impugnazione del decreto di riconoscimento dell'ordine di cui all'art. 4, la Corte di cassazione ha affermato che la disposizione di cui all'art. 13 d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, si riferisce a tutti gli atti previsti dall'art. 4 del medesimo d.lgs., con la conseguenza che l'opposizione al giudice per le indagini preliminari è il rimedio esperibile dall'indagato o dal suo difensore non solo avverso il decreto motivato di riconoscimento dell'ordine richiesto dall'estero, ma anche nei confronti di tutti i provvedimenti attuativi dell'ordine medesimo, incluso il decreto di perquisizione e di sequestro, per il quale, pertanto, è precluso il ricorso al tribunale del riesame (Cass. III, n. 5940/2019; Cass. VI, n. 11491/2019), In senso contrario, Cass. VI, n. 8320/2019, ha affermato che se il decreto di riconoscimento, emesso dal pubblico ministero ai sensi dell'art.4 d.lgs 21 giugno 2017, n. 108, è impugnabile esclusivamente mediante l'opposizione al giudice per le indagini preliminari prevista dall'art.13, d.lgs. n.108 del 2017, avverso il decreto di sequestro, eseguito in adempimento dell'o.i.e., è proponibile l'ordinario ricorso per riesame. Le conseguenze pratiche non sono di poco conto perché secondo il primo indirizzo l'unico atto impugnabile con ricorso per cassazione, anche in caso di perquisizione e sequestro, è solo il provvedimento del giudice (art. 13, comma 7); secondo l'opposto indirizzo, invece, è necessario chiedere il riesame della perquisizione e del sequestro e oggetto di ricorso per cassazione può essere il provvedimento del tribunale che decide sull'istanza. I provvedimenti impugnabili: i reati di competenza del giudice di paceIl d.lgs. n. 11/2018 ("Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 84, lettere f, g, h, i, l. e m, della l. 23 giugno 2017, n. 103"), ha inserito, nell'art. 606, il comma 2-bis che limita la possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace ai soli casi previsti dalle lettere a), b) e c) del comma primo. Per tali sentenze (pronunciate dal tribunale in composizione monocratica; art. 39, d.lgs. n. 274/2000) non è possibile eccepire in sede di legittimità la mancata assunzione di una prova decisiva di cui alla lettera d), né il vizio di motivazione di cui alla lettera e). Tuttavia, è possibile eccepire in sede di legittimità la radicale mancanza di motivazione della sentenza su uno o più motivi di appello, trattandosi di violazione, in tal caso, dell'obbligo di motivazione sanzionato a pena di nullità dall'art. 125, comma 3 (si rimanda sul punto infra). In assenza di norme transitorie, la modifica legislativa si applica ai soli ricorsi presentati successivamente alla sua entrata in vigore anche se riferiti a provvedimenti emessi in data anteriore. Il ricorso inammissibileIl ricorso per cassazione è inammissibile oltre che per tutti i motivi indicati dall'art. 591 c.p.p., e dall'art. 24, comma 6-sexies d.l. n. 137/2020, conv. dalla l. n. 176/2020 (che ha introdotto l'impugnazione telematica) anche se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge, se è manifestamente infondato, se è proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello e non rilevabili di ufficio. L'inammissibilità del ricorso può essere dichiarata con sentenza all'esito della sua ordinaria trattazione e discussione, oppure può essere rilevata in sede di esame preliminare e dichiarata con ordinanza all'esito della speciale procedura di cui all'art. 610 c.p.p., al cui commento si rimanda. Fermo quanto oltre si dirà in merito agli specifici motivi di inammissibilità del ricorso per cassazione, va qui solo segnalato, in tema di rinuncia all'impugnazione, che la rinuncia parziale ai motivi d'appello determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si propongono censure attinenti ai motivi d'appello rinunciati e non possono essere rilevate d'ufficio le questioni relative ai medesimi motivi (Cass. IV, n. 9857/2015) e che è inammissibile, per carenza d'interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile «ab origine» per manifesta infondatezza, in quanto l'eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass. VI, n. 47722/2015), oppure quello con cui il P.M. denunci la nullità della sentenza di condanna per mancanza grafica della motivazione senza l'indicazione dello specifico vantaggio pratico perseguito con l'impugnazione (Cass. II, n. 23029/2013). In ogni caso, l'inammissibilità del ricorso per cassazione non impedisce di rilevare la sopravvenuta "abolitio criminis" del reato per cui vi è stata condanna (Cass. V, n. 48005/2016)o l'illegalità della pena (si veda il commento dell'art. 609). Si è tuttavia affermato, in senso contrario, che la rinuncia al ricorso per cassazione validamente proposta determina l'immediata estinzione del rapporto processuale cui consegue l'immediato passaggio in giudicato della sentenza all'atto della dichiarazione di inammisssibilità dell'impugnazione. Tale declaratoria prevale anche nel caso di "abolitio criminis" sopravvenuta alla sentenza impugnata, la quale dovrà, pertanto, essere rilevata dal giudice dell'esecuzione (Cass. V, n. 42315/2016). È inammissibile, in difetto di nuovi elementi, il ricorso per cassazione avente ad oggetto l'inutilizzabilità di un atto processuale sulla quale la Corte di cassazione si è già pronunciata in sede incidentale nei confronti dello stesso imputato. Ciò sul rilievo che è irragionevole ritenere che, affermata dal giudice di legittimità l'utilizzabilità di una specifica prova, la stessa possa essere successivamente negata nell'ambito del medesimo procedimento e nei confronti della stessa parte, a ciò ostando l'efficienza processuale e il principio di ragionevole durata del processo (Cass. V, n. 26809/2016; in senso contrario, Cass. I, n. 40301/2012). Cass. II , n. 22191/2022, ha affermato che è inammissibile ex art. 24, comma 6-sexies, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in quanto privo di sottoscrizione digitale, l'atto di impugnazione sottoscritto dal difensore e trasmesso, in formato "pdf", a mezzo posta elettronica certificata, posto che esso costituisce mera "scansione di immagini" e, dunque, semplice rappresentazione grafica e non atto generato attraverso la "trasformazione di un documento testuale" (nel caso di specie, il ricorso era stato trasmesso, a mezzo posta elettronica certificata, come allegato alla "mail" accompagnatoria, in formato "pdf" riproducente il testo a stampa del "file", con in calce le sottoscrizioni dei difensori). Segue. Il ricorso generico L'indicazione non specifica dei motivi di ricorso è causa di inammissibilità ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 581, lett. c), e 591, lett. c). La denuncia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1, lett. c), non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (Cass. I, n. 39122/2015). Il ricorso è inammissibile anche quando l'interessato ometta di indicare a quale dei casi tipici disciplinati dall'art. 606 intende ricondursi. Tale mancanza, qualora la specificazione delle ragioni di diritto non sia puntuale e chiara, si traduce in genericità dei motivi (Cass. III, n. 1878/1991). È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso fondato su una caotica esposizione delle doglianze, dal tenore confuso e scarsamente perspicuo, che renda particolarmente disagevole la lettura e che esuli dal percorso di una ragionata censura della motivazione del provvedimento impugnato (Cass. II, n. 7801/2014) o quello i cui motivi si limitino genericamente a lamentare l'omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di condanna impugnata, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito (Cass. II, n. 30918/2015). Sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Cass. IV, n. 46979/2015; cfr. altresì Cass. V, n. 133/2010 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui era stata genericamente eccepita l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per omessa motivazione dei decreti autorizzativi, senza però specificare a quale tra i tanti decreti — di prima autorizzazione, di proroga, di convalida — attenesse la doglianza, non consentendo, in tal modo, alla Corte di verificare la aderenza, in concreto, della singola motivazione ai principi dettati in tale materia). È inoltre affetta da genericità la censura con la quale la parte eccepisce l'inutilizzabilità di un atto, senza dedurne, al tempo stesso, la rilevanza probatoria, nel contesto degli altri elementi di prova (Cass. VI, n. 159/2000). In tema di intercettazioni di comunicazioni, qualora in sede di legittimità venga eccepita l'inutilizzabilità dei relativi risultati, è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, indicare specificamente l'atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato e la rilevanza degli elementi probatori desumibili dalle conversazioni, posto che l'omissione di tali indicazioni incide sula valutazione della concretezza dell'interesse ad impugnare (Cass. VI, n. 13213/2016). Sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell'atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall'indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedono ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Cass. I, n. 23308/2015). È inammissibile il ricorso i cui motivi si limitino a lamentare l'omessa valutazione, da parte del giudice dell'appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica. Ciò, ancor più nel caso in cui la sentenza di appello, al cospetto di motivi che si limitano a riproporre questioni già articolatamente esaminate e risolte dal primo giudice, rinvii per «relationem» alla sentenza di questi, poiché in tal caso l'onere deduttivo del ricorrente non può ritenersi assolto dolendosi di una tale fisiologica evenienza processuale, che diventa patologica solo allorquando la conforme valutazione dissimuli la totale mancanza di motivazione su questioni specifiche all'epoca eccepite in sede di appello e che vanno chiaramente allegate (Cass. III, n. 35964/2015). Sono generici non solo i motivi intrinsecamente indeterminati, ma anche quelli che difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Cass. V, n. 28011/2013; Cass. IV, n. 18826/2012, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione). Sono perciò inammissibili i motivi che si limitano a riprodurre le censure dedotte in appello, anche se con l'aggiunta di frasi incidentali di censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso il provvedimento impugnato impugnato e l'indicazione delle ragioni della loro decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito (Cass. VI, n. 8700/2013; cfr. altresì Cass. VI, n. 5879/2013, secondo cui è inammissibile, per genericità del motivo, il ricorso per cassazione che, denunciando il difetto di motivazione della sentenza di appello per omesso o manifestamente illogico o contraddittorio confronto con le ragioni esposte dal primo giudice a sostegno della decisione integralmente riformata, non proceda ad autonoma critica indicando, specificamente e con illustrazione delle ragioni della decisività, i passaggi della sentenza di primo grado ignorati o confrontati in modo manifestamente illogico o contraddittorio). Analogamente è stato ritenuto inammissibile il ricorso con il quale ci si dolga genericamente dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette dei collaboratori di giustizia per violazione dell'art. 192, commi 2 e 3, senza l'indicazione specifica delle ragioni, riferite ai singoli collaboratori esaminati ed ai relativi punti della motivazione della sentenza impugnata, per le quali detto vizio sarebbe sussistente (Cass. II, n. 19712/2015). Il motivo di impugnazione del ricorso per cassazione con cui si lamenta l'inutilizzabilità di un elemento a carico, deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta «prova di resistenza», in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento. In difetto, il ricorso è inammissibile (Cass. III, n. 3207/2015; Cass. VI, n. 18764/2014). Ne consegue che i motivi di ricorso per cassazione possono riprodurre totalmente o parzialmente quelli di appello solo entro i limiti in cui ciò serva a documentare il vizio enunciato e dedotto con autonoma, specifica ed esaustiva argomentazione che si riferisca al provvedimento impugnato e si confronti con la sua motivazione (Cass. IV, n. 38202/2016). Con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, avuto riguardo ai requisiti della motivazione come sopra illustrati, si ritiene generico il ricorso per cassazione con cui l'imputato, dopo l'intervenuto e ratificato accordo, propone questioni in ordine alla mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p., senza precisare per quali specifiche ragioni detta disposizione avrebbe dovuto essere applicata al momento del giudizio (Cass. IV, n. 41408/2013). È generico il ricorso per cassazione che deduca una eccezione di illegittimità costituzionale senza indicare le disposizioni di legge ritenute illegittime e gli articoli della Costituzione che si assumono violati, poiché, a norma dell'art. 581, lett. c), i motivi di impugnazione debbono contenere l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta (Cass. V, n. 24054/2016) (si veda anche la giurisprudenza riportata supra ). È inammissibile per genericità l'eccezione di incompetenza territoriale, che non contenga l'indicazione del diverso giudice che si prospetta essere competente (Cass. II, n. 12071/2014; Cass. VI, n. 2336/2015 ha affermato che in materia cautelare, l'eccezione sull'incompetenza territoriale dell'autorità giudiziaria procedente può essere sollevata per la prima volta anche con il ricorso per cassazione, purché il ricorrente adempia all'obbligo di specificità nella deduzione dei motivi e non fondi le sue lamentele su elementi di fatto mai introdotti dinanzi al giudice del merito, ovvero sui quali sia necessario procedere a valutazioni o ad accertamenti comunque inammissibili nel giudizio di legittimità.). È stato ritenuto, inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deduca la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello effettuata presso lo studio del difensore di fiducia, anziché nel domicilio dichiarato o eletto dall'imputato, ove il ricorrente non alleghi elementi idonei a dimostrare credibilmente che, nonostante l'esistenza del rapporto fiduciario, l'imputato sia rimasto all'oscuro della vocatio in ius (Cass. VI, n. 30897/2015). È inammissibile per genericità del motivo il ricorso per cassazione che, prospettando la violazione dell'obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità, non indica elementi concreti in forza dei quali il giudice d'appello avrebbe dovuto adottare la pronuncia liberatoria dopo che l'imputato aveva rinunciato ai motivi di appello sul tema della responsabilità (Cass. III, n. 19442/2014). Quanto al trattamento sanzionatorio, Cass. II, n. 28872/2020 ha ribadito che non sussiste alcuna connessione tra il motivo di appello relativo al trattamento sanzionatorio ed il punto della sentenza relativo all'applicazione della recidiva in quanto il primo è volto a sollecitare l'uso del potere discrezionale del giudice alla stregua dei criteri di cui all'art. 133 c.p. in relazione ad una determinata configurazione del reato e delle sue circostanze mentre il secondo riguarda una circostanza aggravante soggettiva. Di conseguenza, risulta inammissibile il motivo di ricorso con cui si censuri l'omessa motivazione in ordine alla mancata esclusione della recidiva da parte del giudice di appello quando questo sia stato investito della sola cognizione relativa a una richiesta riduzione del trattamento sanzionatorio (in senso conforme, Cass. VII, n. 14140/2018). Segue. I motivi diversi da quelli consentiti dalla legge Il testo della norma non lascia adito a dubbi: i “casi di ricorso” di cui al comma 1, sono tassativi nel delineare l'ambito della cognizione della corte di cassazione (si veda anche l'art. 609, comma 1). La Suprema Corte (Cass. II, n. 24576/2018) ha specificato, sul punto, che non è sufficiente, ai fini della qualificazione dell'atto quale "ricorso per cassazione", la mera titolazione dei singoli motivi e la distinzione delle singole doglianze con riferimento ai casi di cui all'art. 606, dovendo le conclusioni formulate dalla difesa porsi in linea con le specificità dei casi di ricorso ivi enumerati e le peculiarità del giudizio demandato alla Corte di cassazione, nonché con le tipologie di decisioni che essa può emettere, puntualmente indicate agli artt. 615 e ss. Il petitum assolve, sul punto, un ruolo fondamentale: quando esso è del tutto estraneo all'ambito decisionale proprio del giudizio di legittimità il ricorso è inammissibile, a prescindere dalla valutazione del suo contenuto. Quando perciò si chiede alla Corte di cassazione l'assoluzione dell'imputato ovvero la riduzione della pena, il ricorso è di per sè inammissibile (la sentenza ricorda che »«la necessaria specificità e chiarezza del ricorso per cassazione e l'osservanza di uno schema di redazione dell'atto che sia funzionale ad un corretta introduzione del giudizio di legittimità è, del resto, un'esigenza che ha trovato un chiaro riferimento nel contenuto del protocollo di intesa stabilito tra la Corte di cassazione ed il Consiglio Nazionale forense in data 17 dicembre 2015 sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale. E', infatti, espressamente previsto che il ricorso contenga l'indicazione "delle richieste relative ai motivi esposti". E' proprio tale precisazione che rende l'atto chiaro e completo e consente di attribuire specificità ai motivi esposti nel ricorso, in quanto funzionali al tipo di intervento che si intende ottenere dalla Suprema Corte. Altrimenti si giungerebbe all'irragionevole conclusione di rendere priva di significato la previsione contenuta nella lettera c) dell'art. 581, che, nel dettare, a pena di inammissibilità, i requisiti formali dell'impugnazione, stabilisce che questa enunci in modo specifico "le richieste, anche istruttorie", quale elemento di necessario raccordo tra i capi e punti della decisione impugnata e l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Trattasi di un ulteriore elemento testuale da cui si ricava la necessità che vi sia piena continenza tra il motivo di censura, l'argomentazione sviluppata a suo sostegno e le conclusioni formulate»). Nella giurisprudenza di legittimità, la maggior parte delle pronunce di inammissibilità dei ricorsi perché proposti per motivi non consentiti dalla legge sono perlopiù dovute al fatto che vengono eccepite, sotto forma di vizio di motivazione o di violazione degli artt. 192 e/o 533, questioni di puro fatto (cfr. Cass. VI, n. 43963/2013, cit.). Si è già ampiamente visto, in sede di analisi del vizio di motivazione (cui si rimanda), che non è possibile, in sede di legittimità, fondare le proprie eccezioni direttamente sul materiale probatorio assunto nel corso del giudizio (men che meno su quello mai acquisito). Il fatto estraneo al testo del provvedimento impugnato non può essere utilizzato come criterio di giudizio della correttezza dell'operato del giudice di merito e ad esso non si può attingere. L'errore nel quale spesso si cade è di sollecitare la Corte di cassazione a valutare essa stessa le prove assunte nel corso del giudizio e a verificare direttamente la correttezza del procedimento decisionale, astraendo completamente dalla motivazione addotta dal giudice. Operazione vietata dal chiaro tenore della norma che ha escluso il travisamento del fatto dall'ambito cognitivo della Corte di legittimità. Come è stato lucidamente affermato, la cognizione propria della Corte di cassazione si caratterizza per l'impossibilità di accedere agli atti e di apprezzarne il merito del contenuto e per l'immediata pacifica evidenza del contesto in fatto (Cass. VI, n. 44744/2015). Ciò che insomma caratterizza la fase di legittimità non è la valutazione in sé della prova, ma il modo con cui essa è stata valutata. Il motivo di ricorso che sottopone al giudice di legittimità atti processuali per verificare l'adeguatezza dell'apprezzamento probatorio ad essi relativo compiuto dal giudice di merito ed ottenerne una diversa valutazione, è inammissibile perché costituisce censura non riconducibile alle tipologie di vizi della motivazione tassativamente indicate dalla legge (Cass. 7, n. 12406/2015; cfr., altresì, Cass. VI, n. 28703/2012, che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale si esibiscono direttamente alla Corte di cassazione elementi di prova che si assumano dimostrativi del vizio di una errata valutazione probatoria, nella specie il PM aveva inserito nel ricorso il testo di conversazioni intercettate). Così se, per fare un esempio, il giudice afferma di non poter ricostruire il fatto esclusivamente in base alla testimonianza della persona offesa perché ritiene necessari, a tal fine, i riscontri non richiesti dall'art. 192, comma 3, applica in modo errato la norma penale ed il vizio può essere eccepito ai sensi dell''art. 606, lett. b) quando abbia portata decisiva. Se, invece, il giudice ritiene intrinsecamente inattendibile la testimonianza della persona offesa o comunque irrimediabilmente in contrasto con altre acquisizioni processuali, il vizio eccepito riguarda la valutazione di merito della prova che può essere dedotto esclusivamente nei termini e modi consentiti dall'art. 606, lett. e), giammai riproducendo nel ricorso il contenuto della testimonianza o trascrivendone brani affinché sia la Corte stessa a valutare l'attendibilità della prova e la correttezza del giudizio. Il contatto tra il fatto (le prove) e la Corte di cassazione è vietato, se non nei ristretti limiti della deducibilità del vizio del travisamento della prova. E così, il vizio di mancanza della motivazione dell'ordinanza del riesame in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza non può essere sindacato dalla Corte di legittimità, quando non risulti «prima facie» dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Cass. II, n. 56/2012; nello stesso senso, Cass. I, n. 1700/1998). Altro terreno elettivo delle pronunce di inammissibilità dei ricorsi per motivi non consentiti dalla legge è quello relativo alla proposizione dell'appello avverso sentenze inappellabili. È noto che a seguito degli arresti di Cass. S.U., n. 45371/2001 e Cass. S.U., n. 45372/2001 allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l'atto deve limitarsi, a norma dell'art. 568, comma 5, a verificare l'oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l'esistenza di una «voluntas impugnationis», consistente nell'intento di sottoporre l'atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente. Alla Corte di cassazione, quale giudice competente a conoscere dell'impugnazione, è però riservata ogni valutazione sull'ammissibilità dell'impugnazione stessa, alla luce dei motivi per i quali il ricorso è tassativamente consentito. Ciò che determina, il più delle volte l'inammissibilità del ricorso stesso quando, dall'esame del contenuto dell'atto, risulta che il ricorrente ha effettivamente voluto sottoporre la sentenza appellata al giudizio della competente Corte di appello, esattamente denominando il mezzo di gravame come “appello” e ponendo questioni di fatto riservate esclusivamente alla cognizione del giudice di merito. Tuttavia è inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza inappellabile, che sia diretto unicamente a far valere la prescrizione del reato maturata dopo la sentenza (Cass. III, n. 35278/2016; in senso contrario, Cass. IV, n. 6977/2012) Sono motivi diversi da quelli consentiti anche quelli il cui scrutinio comporta, per la prima volta, accertamenti di fatto mai richiesti al giudice di merito. La tardività della querela, per esempio, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, trattandosi di eccezione che comporta accertamenti di fatto che sono devoluti al giudice di merito e che, non essendo stati richiesti tempestivamente, sono preclusi nei successivi gradi di giudizio (Cass. V, n. 19241/2015; Cass. IV, n. 49226/2016 ha però ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto al solo fine di introdurre nel processo la remissione della querela, ritualmente accettata, intervenuta dopo la sentenza impugnata e prima della scadenza del termine per la presentazione dell'impugnazione). Allo stesso modo, l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare, non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione avverso il provvedimento confermativo della predetta ordinanza, emesso in sede di riesame, qualora l'eccezione di fondi su questioni di fatto, mai dedotte in precedenza, relative all'assenza dei presupposti per la proroga dell'efficacia dei decreti originari (Cass. III, n. 32699/2015). Anche la questione dell'inutilizzabilità per violazione del divieto di assumere dichiarazioni, senza le necessarie garanzie difensive, da chi sin dall'inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato, non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (Cass. VI, n. 21877/2011). Come è stato ben evidenziato, la regola per cui la inutilizzabilità può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento deve essere raccordata alla norma che limita la cognizione della corte di cassazione, oltre i confini del «devolutum», alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto. Ne consegue che non possono essere proposte per la prima volta, nel giudizio di legittimità, questioni di inutilizzabilità la cui valutazione richieda accertamenti di merito, che come tali devono essere necessariamente sollecitati nel giudizio di appello, salva la possibilità di sindacare i relativi provvedimenti, mediante un successivo ricorso per cassazione, nei limiti segnati dall'art. 606, comma 1 lett. b), (Cass. VI, n. 12175/2005). Non è inoltre deducibile per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione la censura tendente a dimostrare la natura pertinenziale di un intervento edilizio, in quanto la stessa comporta accertamenti di fatto sottratti alla cognizione di legittimità (Cass. III, n. 3445/2008). La possibilità di supportare l'eccezione della violazione del divieto del “bis in idem” con allegazioni fattuali è subordinata, come visto, alla definizione dell'eccezione stessa (si veda al riguardo il commento alle lett. b e c). Segue. I motivi manifestamente infondati Non esiste una definizione di manifesta infondatezza del motivo di ricorso. Appare tuttavia chiaro che, diversamente dagli altri, il motivo manifestamente infondato è quello astrattamente consentito dalla legge, specifico, tempestivo, proposto da chi vi ha interesse ma palesemente infondato nel merito (cfr., sul punto, Cass. S.U., n. 32/2000 secondo cui “il vizio [di manifesta infondatezza] — nello schema del procedimento in cassazione — va, ancora una volta, correlato ai «Casi» di ricorso”). Si tratta, però, di un'ipotesi di inammissibilità che, sia pur peculiare (perché diversamente dalle altre comporta una preliminare delibazione sulla fondatezza della censura), è accomunata alle altre quanto all'effetto: precludere le vie di accesso alla Corte Suprema, allo scopo di ridefinire funzione e limiti del giudizio di legittimità e impedire la formazione del rapporto processuale. Pertanto, per essere “manifesta” e assolvere alla funzione meramente dichiarativa della pronuncia che la rileva, l'infondatezza “deve emergere ictu oculi, senza un particolare sfoggio di dialettica per rilevarla, altrimenti verrebbe meno ogni possibilità di distinguerla dalla «semplice infondatezza», e deve essere delibata secondo canoni valutativi equilibrati ma di massimo rigore, orientati ad evidenziare la pretestuosità della questione dedotta, vale a dire una situazione simile a quella prevista per il giudizio incidentale di costituzionalità, secondo cui, come sottolineato da autorevole dottrina, «manifestamente infondate sono quelle eccezioni che non possono essere proposte nisi tergiversatione aliqua». L'inammissibilità per manifesta infondatezza, al pari degli altri casi, mira a reprimere l'abuso processuale, integrato dalla proposizione di una impugnativa non conforme al modello normativo, priva di ogni base giuridica e contraria ad ogni postulato di razionalità (...) i criteri rivelatori della [manifesta infondatezza] sono le censure palesemente inconsistenti, «caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento» o ancora contrassegnate da evidente pretestuosità” (Cass. S.U., n. 12602/2016; cfr. anche Cass. S.U., n. 32/2000). Non è semplice individuare il discrimine tra la infondatezza e la manifesta infondatezza del ricorso; si tratta di un confine incerto che pone il giudice di fronte ad una scelta opinabile (Cass. S.U., n. 21/1995). Recentemente, Cass. II, n. 9486/2018, ha fornito una sorta di decalogo dei casi in cui la infondatezza del ricorso può essere definita manifesta, individuandoli: A) con riferimento ai motivi che deducano inosservanza od erronea applicazione di leggi, la circostanza che essi risultino, o meno, caratterizzati da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso. Ciò accade, ad esempio, nei casi in cui: - si invochi una norma inesistente nell'ordinamento - si pretenda di disconoscere l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge; - si riproponga una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi; B) con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione [se consentiti e dotati della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. c),: in difetto, opererebbe una diversa e tassativa causa d'inammissibilità del ricorso], valorizzando la circostanza che essi muovano, o meno, sul fatto, sullo svolgimento del processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali. Ciò accade, ad esempio, nel caso in cui il motivo di ricorso attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale (per un commento adesivo alla sentenza, si veda Marandola, 2018). Tali principi sono stati ribaditi da Cass II, n. 19411/2019 . Segue. La violazione di legge non dedotta in appello. Rinvio Non può costituire motivo (nuovo) di ricorso per cassazione la violazione di legge non dedotta (e non deducibile) in appello, salvi i casi del ricorso “per saltum” e della violazione di legge rilevabile d'ufficio. “Il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609, comma 1, il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleabile dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi — contrassegnati dall'inderogabile «indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto» che sorreggono ogni atto d'impugnazione (artt. 581, comma 1, lett. e, e art. 591, comma 1 lett. c) — sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione. La disposizione in esame deve infatti essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e, come rileva la più recente dottrina, costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello. In questo caso, infatti è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale” (Cass. S.U., n. 24/1999). Coerentemente la violazione di legge può essere eccepita per la prima volta anche dall'imputato prosciolto in primo grado con la formula ampiamente liberatoria «per non aver commesso il fatto» che ricorra avverso la sentenza di condanna in appello, se di tratta di violazioni di legge non dedotte, perché non deducibili per carenza di interesse all'impugnazione, in appello (Cass. S.U., n. 32/2000, in ipotesi di omessa assunzione di prova decisiva). Spiega a tal fine la Suprema Corte che «l'imputato assolto con la formula pienamente liberatoria «per non aver commesso il fatto», anche se per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell'art. 530, comma 2 non è legittimato — di regola — a proporre appello, anche incidentale (Cass. IV, 29 maggio 1996, Passeri), avverso la relativa sentenza, per carenza di un apprezzabile interesse all'impugnazione: interesse che potrebbe invero — solo eccezionalmente — ravvisarsi allorché l'imputato deduca che l'accertamento di un fatto materiale, oggetto del giudizio penale conclusosi con sentenza dibattimentale e irrevocabile di assoluzione, possa, a norma e nei limiti segnati dall'art. 654, pregiudicare con efficacia di giudicato le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo, in «altri giudizi civili o amministrativi», diversi da quelli di danno e disciplinari regolati dagli artt. 652 e 653. Il principio, già affermato da questa Corte nel vigore del nuovo codice di rito (Cass. S.U., 23 novembre 1995, P.G. in proc. Fachini; conf. Cass. II, 24 febbraio 1998, Ariata; Cass. I, 24 novembre 1999, P.G. e Musolino; Cass. III, 21 marzo 2002, Rebizz), va condiviso e ribadito, in quanto, alla stregua di una lettura sistematica degli artt. 568.4, 593.2 e 607.1 (sulla portata di quest'ultima disposizione, v. la Relazione al testo definitivo, p. 200), la conclusiva statuizione contenuta nel dispositivo non può essere comunque modificata, quale che sia il contenuto della motivazione, anche se essa sia ritenuta dall'imputato per talune parti pregiudizievole, per apprezzamenti negativi sulla sua personalità e per perplessità sulla sua innocenza, ovvero insoddisfacente per non avere tenuto conto di elementi di prova favorevoli e decisivi, essendo stati selezionati soltanto quelli sufficienti a giustificare il proscioglimento. Il che comporta, per il combinato disposto degli artt. 606.3 e 609.2, l'inoperatività della preclusione del 'novum' nel giudizio di cassazione, con riferimento alle violazioni di legge non dedotte con i motivi d'appello ma che —come si è detto- neppure sarebbe stato possibile dedurre da parte dell'imputato prosciolto in prime cure. Ed infatti, l'art. 14.5 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e l'art. 2.2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo la prevalente dottrina e l'ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale delle Corti sopranazionali (Comm. eur. dir. uomo, 17 gennaio 1994, Botten c. Norvegia; Corte eur. dir. uomo, 13 febbraio 2001, Krombach c. Francia; Corte eur. dir. uomo, 27 giugno 2002, Dè pients c. Francia; Ccpr, Human Rights Committee, 20 luglio 1994, v. Jamaica; Ccpr, Human Rights Committee, 11 agosto 2000, v. Spain) e della Corte costituzionale (Corte cost. n. 62/1981, Corte cost. n. 433/1990 e Corte cost. n. 288/1997), nell'ipotesi di declaratoria di colpevolezza e di condanna in appello seguite al proscioglimento in prime cure, non esigono un ulteriore grado di giudizio di merito ('a full appeal'), essendo consentita la previsione legislativa del solo ricorso per cassazione per eventuali errori in procedendo o in iudicando, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori siano accertati. Tali disposizioni di diritto internazionale pattizio, segnalando l'esigenza che la garanzia apprestata dall'ordinamento processuale interno, per la verifica di legittimità della condanna dell'imputato intervenuta in appello dopo l'assoluzione in primo grado, non sia apparente ed elusiva del principio, bensì abbia carattere «sostanziale», orientano peraltro l'interprete in direzione di una lettura costituzionalmente corretta dell'art. 606, comma 1 lett. e) in termini di effettività del sindacato di legittimità a fronte della mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna, a causa dell'omessa valutazione di prove decisive per il proscioglimento dell'imputato da parte del giudice d'appello e, ancor prima, del giudice di primo grado che pure aveva assolto l'imputato (...) ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione [può e deve] fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d'appello dell'imputato, carente d'interesse all'impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice d'appello l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria. La mancata risposta dei giudici d'appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficerebbe la completezza e la coerenza logica della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la renderebbe suscettibile di annullamento. La Corte di cassazione, dunque, senza necessità di accedere agli atti d'istruzione probatoria, prendendo in esame ancora una volta il testo della sentenza impugnata e confrontandola con quella di primo grado e con gli apporti difensivi nel giudizio d'appello, è chiamata a saggiarne la tenuta, sia «informativa» che “logico-argomentativa”». Quanto alla ratio della disposizione, va ricordato che già sotto la vigenza del precedente codice di rito si era consolidato il principio per cui fuori del caso di ricorsi diretti contro provvedimenti inappellabili (rispetto ai quali qualsiasi violazione di legge compiuta dal giudice di primo grado, purché compresa tra quelle indicate nell'art 524 abr., poteva essere addotta come motivo di ricorso dalla parte legittimata e interessata), costituisce un limite ai poteri di cognizione del supremo collegio il principio della natura limitatamente devolutiva dell'appello e della progressione per gradi del procedimento e consistente nella impossibilità di far valere, come motivi di Cassazione, vizi del provvedimento di primo grado che avrebbero dovuto previamente essere dedotti con i motivi di appello (Cass. V, n. 680/1967), sempre che non si tratti di eccezione che richieda accertamenti di fatto di cui non sia stato provocato ritualmente l'esame o il riesame nel giudizio di appello (Cass. VI, n. 592/1968). La giurisprudenza di legittimità ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 111, comma 7, Cost., dell'art. 606, comma 3 che detta una disciplina ragionevole di regolazione del diritto di ricorrere per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, limitandolo, per ragioni di funzionalità complessiva del sistema, soltanto per il caso in cui la parte abbia inteso adire tutti i tre gradi di giudizio (Cass. II, n. 40240/2006). La giurisprudenza di legittimità ritiene perciò inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l'atto di appello, non avendo l'intervenuta trattazione della questione da parte del giudice di secondo grado efficacia sanante ex post (Cass. III, n. 21290/2012). La Cass. V, n. 4184/2015 ha ulteriormente precisato che i motivi nuovi proposti a sostegno dell'impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata enunciati nell'originario atto di impugnazione a norma dell'art. 581, comma 1, lett. a), nel senso di statuizioni suscettibili di autonoma considerazione. A tal fine costituiscono distinte statuizioni la questione relativa all'affermazione di responsabilità dell'imputato, investita dall'appello originario e quella inerente la configurabilità dell'aggravante del danno di speciale gravità, ex art. 219 l. fall., oggetto di motivo nuovo proposto in sede di legittimità. Sicché, poiché la richiesta di assoluzione dell'imputato proposta con l'atto di appello ricomprendeva implicitamente anche la contestazione dell'aggravante del danno di speciale gravità, ritenuta dal giudice di primo grado, è stata affermata la diversità della statuizione sulla predetta aggravante rispetto a quella relativa all'affermazione di responsabilità, ritenendo la prima oggetto di motivo di ricorso proposto per la prima volta in sede di legittimità e, pertanto, inammissibile). Nemmeno la generica negazione, formulata nei motivi di appello, della responsabilità per reato aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152/1991, oggetto degli scopi della concorrente associazione per delinquere di stampo mafioso, può ritenersi comprensiva anche della contestazione in ordine alla compatibilità della citata circostanza aggravante con l'imputazione di partecipazione all'associazione, sicché la deduzione di detta incompatibilità nei motivi di ricorso per cassazione, in quanto si configura come «novum», rende il ricorso medesimo inammissibile a norma dell'art. 606, comma 3 (Cass. S.U., n. 24/1999). Tuttavia l'imputato può eccepire per la prima volta in cassazione la diversa qualificazione giuridica data al fatto dalla corte di appello ai sensi dell'art. 597, comma 3, c.p.p. e, più in generale, la violazione di legge correlata all'esercizio delle prerogative di cui all'art. 597, comma 5, c.p.p. (cfr., sul punto, anche Cass. V, n. 48416/2014, v. infra). Quanto alla rilevabilità d'ufficio delle violazioni di legge non dedotte nemmeno in appello, e alle conseguenze della inammissibilità del ricorso si rinvia al commento dell'art. 609. Segue. I motivi nuovi, una casisticaIn tema di ricorso per cassazione, la proposizione di questioni nuove è possibile nei soli limiti della cognizione propria della Corte di Cassazione, che si caratterizza per l'impossibilità di accedere agli atti e di apprezzarne il merito del contenuto e per l'immediata pacifica evidenza del contesto in fatto, atteso che, diversamente, sussiste l'onere specifico del ricorrente di porre a disposizione tutti gli elementi indispensabili per la ricostruzione fattuale che costituisce il presupposto della eccezione proposta (Fattispecie in tema di truffa, in cui la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale era stata eccepita la mancanza di una specifica volontà punitiva nella querela, che, tuttavia, non era stata acquisita al processo, né prodotta dalla parte) (Cass. VI, n. 44774/2015). In tema di ricorso per cassazione, la proposizione di questioni nuove è possibile nei soli limiti della cognizione propria della Corte di cassazione, che si caratterizza per l'impossibilità di accedere agli atti e di apprezzarne il merito del contenuto e per l'immediata pacifica evidenza del contesto in fatto, atteso che, diversamente, sussiste l'onere specifico del ricorrente di porre a disposizione tutti gli elementi indispensabili per la ricostruzione fattuale che costituisce il presupposto della eccezione proposta (Cass. VI, n. 44774/2015, che ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale era stata eccepita la mancanza di una specifica volontà punitiva nella querela, che, tuttavia, non era stata acquisita al processo, nè prodotta dalla parte) L'eccezione di incompetenza del Tribunale per i minorenni, con cui venga dedotta una diversa età dell'imputato rispetto a quella apparente, non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità, non potendosi in tale sede disporre accertamenti di tipo radiologico ed antropometrico. La suprema Corte ha anche escluso la necessità di demandare tali accertamenti al giudice di merito, considerati i vantaggi derivanti all'imputato - per le maggiori garanzie procedimentali, il regime cautelare meno gravoso, l'applicazione della diminuente della minore età - dall'essere stato tratto a giudizio dinanzi al giudice minorile (Cass. I, n. 27983/2016). Qualora il giudice di merito abbia esaminato appositamente la condotta del minore in relazione all'imputazione mossagli, al fine di accertare se, al momento del fatto, la sua maturazione fisio-psichica gli faceva comprendere ed apprezzare il valore e l'illecito di quel comportamento, poiché il conseguente giudizio trae necessariamente origine da valutazioni e scelte di elementi di fatto, esso concreta un apprezzamento di merito che, se compiutamente e correttamente motivato, sfugge al sindacato di mera legittimità istituzionalmente attribuito a questa Suprema Corte (Cass. I, n. 10002/1991). In tema di misure cautelari personali, non è possibile prospettare in sede di legittimità motivi di censura non sollevati innanzi al tribunale del riesame, ove essi non siano rilevabili d'ufficio (Cass. II, n. 11027/2016) E' perciò inammissibile il ricorso per cassazione proposto per mancanza di motivazione sui gravi indizi di colpevolezza successivamente alla presentazione di richiesta di riesame per motivi attinenti alle sole esigenze cautelari, in quanto trattasi di motivo nuovo, non dedotto nel precedente giudizio di impugnazione (Cass. V, n. 42838/2014). Non può essere nemmeno dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione la questione relativa alla qualificazione giuridica del fatto, in precedenza non sottoposta alla cognizione del giudice dell'appello (Cass. V, n. 48416/2014). Non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perché non devolute alla sua cognizione. (Fattispecie relativa a omessa pronuncia da parte della Corte di appello sulla sussistenza della scriminante della legittima difesa, mai richiesta con i motivi di appello) (Cass. II, n. 22362/2013; Cass. V, n. 28514/2013; Cass. II, n. 6131/2016, ha ribadito il principio rilevando che non può contestarsi la sussistenza della condotta sotto il profilo oggettivo qualora in appello sia stata dedotta l'insussistenza dell'elemento psicologico. In particolare, in tema di ricettazione, in appello, era stata dedotta la buona fede nell'utilizzo dell'apparecchio cellulare di provenienza illecita ed in sede di ricorso la mancata utilizzazione del bene oggetto di furto e, quindi, l'assenza dell'elemento materiale). È inammissibile a norma dell'art. 606, comma 3, ultima parte, il ricorso per cassazione nel quale venga riproposta una questione che abbia già formato oggetto di uno dei motivi di appello sui quali la Corte si è pronunciata in maniera esaustiva, senza errori logico — giuridici (Cass. II, n. 22123/2013). In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, è inammissibile il ricorso per cassazione con cui venga dedotta per la prima volta in sede di legittimità la violazione del principio di proporzionalità tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non potendo il giudice del riesame verificare d'ufficio che l'oggetto del sequestro non travalichi i limiti della futura confisca (Cass. V, n. 28515/2014). È inammissibile il ricorso avverso il provvedimento del tribunale del riesame con il quale si deducono per la prima volta violazioni di legge inerenti l'ordinanza applicativa della misura cautelare, che non avevano costituito oggetto di doglianza dinanzi allo stesso tribunale, non risultandone traccia né dal testo dell'ordinanza impugnata, né da eventuali motivi o memorie scritte, né dalla verbalizzazione delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell'udienza camerale (Cass. V, n. 24693/2014). In tema di intercettazioni telefoniche, il presupposto — previsto dall'art. 270, comma 1, — dell'indispensabilità del risultato delle intercettazioni telefoniche per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza implica una valutazione affidata all'esclusiva competenza del giudice di merito, che in sede di Cassazione può essere contestato solo sotto il profilo della manifesta illogicità (Cass. V, n. 788/1991). Sugli aspetti procedurali relativi alle modalità di presentazione dei motivi nuovi, si veda anche il commento all'art. 611. 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