Codice Penale art. 40 - Rapporto di causalità.

Sergio Beltrani

Rapporto di causalità.

[I]. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

[II]. Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Inquadramento

L'art. 40, comma 1, sancisce il principio (generale, poiché « riguarda così i delitti che le contravvenzioni, così i delitti dolosi che i colposi, i preterintenzionali e persino quelli fondati sulla responsabilità obbiettiva ») che primo elemento costitutivo del reato è « l'elemento fisico o materiale, il quale ricorre quando c'è un'azione od omissione e si verifichi un evento ad esso legato da rapporto di causalità » (Relazione del Guardasigilli sul Libro I del Progetto definitivo del Codice penale, 1929, 83).

La rilevanza del rapporto di causalità trova decisiva conferma a livello costituzionale, in quanto i tratti essenziali del concetto di causalità «vanno misurati sul terreno dei principi costituzionali di responsabilità penale per fatto proprio o personale (art. 27 comma 1 Cost.) e di legalità o tipicità oggettiva degli elementi costitutivi del fatto-reato (art. 25 comma 2 Cost.), intesa, quest'ultima, nel senso sia di tassatività, precisione e determinatezza delle fonti di responsabilità, che di obbligo di una puntuale descrizione da parte del legislatore, secondo una dimensione empiricamente apprezzabile, del fatto criminoso, che risulti perciò suscettibile di essere concretamente accertato e provato nel processo, sulla base del sapere esperienziale e scientifico» (Canzio, 2230 ss.).

Le modalità di accertamento del rapporto di causalità vanno, quindi, valutate in riferimento ad una serie di garanzie costituzionali, in quanto:

a) ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost., che esprime il principio di materialità, un soggetto può essere chiamato a rispondere solo dell'evento lesivo che si sia verificato come effetto di una sua condotta attiva od omissiva materializzatasi nel mondo esterno;

b) ai sensi dell'art. 27, comma 1, Cost., che esprime il principio di personalità, non sarebbe consentito imputare ad un soggetto un evento che non sia stato prodotto da una sua condotta;

c) ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., che esprime il principio di rieducatività, non avrebbe alcun senso voler rieducare — attraverso l'irrogazione della sanzione penale — il soggetto che non abbia in alcun modo contribuito a produrre l'evento che la norma incriminatrice mirava ad evitare (Beltrani 15).

Il capoverso dell'art. 40 « prevede e regola un caso particolare d'omissione: quello in cui l'omissione consista nel non impedire un evento, che direttamente è legato ad altra causa »; il codice penale ha, peraltro, limitato il valore agli effetti penali del riconoscimento di tale figura di causalità indiretta, « dichiarando giuridicamente rilevante la sola ipotesi di non impedimento, che sia legata alla inosservanza di un obbligo giuridico. Questa specifica limitazione può giustificare la denominazione di causalità giuridica, con cui suole essere designato il rapporto, che intercede fra questa specie particolare di omissione e l'evento: ma la denominazione non va intesa nel senso che al rapporto fisico o materiale di causalità, scolpito nella prima parte dell'articolo [40], venga a sostituirsi una finzione di causalità ex lege » (Relazione del Guardasigilli, 84).

Principio di materialità, condotta ed evento

Il principio di materialità

Il principio di materialità è stato costituzionalizzato dall'art. 25, comma 2, Cost. (Corte cost., n. 236/1975), che ricollega espressamente l'assoggettabilità alla sanzione penale (punibilità) alla “commissione di un fatto”, e comporta che possono essere previsti e puniti dalla legge come reato unicamente comportamenti umani che si siano materialmente manifestati nella realtà esterna, divenendo sensorialmente percepibili, quanto meno a partire dalla misura di un minimum che viene ravvisato (nei delitti tentati ed in quelli di attentato) nell'inizio della condotta, e fino alla realizzazione dell'intera condotta tipica (nei reati di pura condotta: v. infra), o del verificarsi del conclusivo evento naturalistico (nei reati di evento: v. infra).

La condotta

La condotta (c.d. azione in senso lato) è il comportamento umano tipicamente descritto dalla norma incriminatrice, e costituisce elemento necessario, ma non sufficiente, del reato.

In relazione alle possibili forme di estrinsecazione della condotta, si distinguono:

a) reati a forma libera o reati causali puri (nei quali manca una tipizzazione normativa delle specifiche modalità attraverso le quali deve verificarsi l'evento lesivo, e rileva soltanto il verificarsi di esso, quali che siano le modalità della condotta che lo determina: ad es., l'omicidio, ex art. 575) oppure a forma vincolata (la cui materialità è descritta in dettaglio dalla norma incriminatrice: ad es., la truffa, ex art. 640, che richiede il compimento di raggiri ed artifizi);

b) reati senza condotta, ovvero di mero sospetto, nei quali sembrerebbe difettare una condotta. Nell'ambito della categoria, a seguito delle dichiarazioni di incostituzionalità degli artt. 708 c.p. (Corte cost., n. 370/1996) e 12-quinquies, comma 2, d.l. n. 306/1992, conv., con modif., in l. n. 356/1992 (Corte cost., n. 48/1994), si fa abitualmente rientrare, ormai, il solo reato di cui all'art. 707(possesso ingiustificato di chiavi e di grimaldelli).

Costituiscono presupposti della condotta gli “antecedenti logico-giuridici della condotta, inseriti nella fattispecie incriminatrice, e tali da condizionarne la tipicità: così ad es., il precedente matrimonio nel delitto di bigamia (art. 556, comma 1, c.p.), lo stato di gravidanza nei vari delitti di aborto (art. 19, l. n. 194/1978), la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio nei delitti contro la P.A. (artt. 314 ss. c.p.) e così via dicendo. Si tratta di antecedenti della condotta, perché debbono preesistere ad essa, e non sono peraltro da essa dipendenti (...). I presupposti possono riferirsi al soggetto attivo o al soggetto passivo, individuandone la qualità, le caratteristiche personali etc., ovvero all'oggetto materiale della condotta, specificandone peculiarità spazio-temporali, attribuzioni giuridiche e così via. La categoria dei presupposti acquista una particolare importanza rispetto al contenuto del dolo” (Padovani, Codice, 115).

L'azione può esser definita come “movimento del corpo idoneo ad offendere l'interesse protetto dalla norma o l'interesse statuale perseguito dal legislatore attraverso l'incriminazione” (Mantovani, 133).

Per la sua configurabilità, occorre, nel rispetto del principio di materialità, che essa si sia esteriormente manifestata, anche attraverso un singolo atto insuscettibile di essere frazionato, ovvero più atti concatenati, indirizzati verso il medesimo fine, posti in essere contestualmente, dal medesimo soggetto e nel medesimo spaziale e temporale (in caso contrario, in presenza di una pluralità di atti, dovrebbe ritenersi posta in essere una pluralità di azioni).

Si distinguono, conseguentemente, reati unisussistenti (che si perfezionano con il compimento di un solo atto) e plurisussistenti (caratterizzati da una azione complessivamente valutata, frazionabile in più atti).

L'evento

Con riguardo alla nozione di evento, esistono notevoli contrasti nell'ambito della dottrina:

a) secondo la concezione naturalistica, l'evento consiste “in una modificazione fisica della realtà esterna” (Fiandaca-Musco, PG, 200), causalmente conseguente alla condotta umana penalmente rilevante, e tipizzata dalla norma incriminatrice ai fini della sussistenza del reato (ad es., l'evento morte nel reato di omicidio, ex art. 575 c.p.; si pensi anche alla truffa, ex art. 640 c.p., nella quale è individuabile una pluralità di eventi tipici, quali l'errore del deceptus, l'atto di disposizione patrimoniale da parte di quest'ultimo, il profitto dell'agente o dei terzi, e l'altrui danno).

In relazione al tempo ed al luogo del verificarsi di un siffatto evento, si distinguono anche reati ad evento differito (nei quali l'evento può verificarsi anche ben dopo il verificarsi della condotta: ad es., si pensi all'evento morte nell'omicidio) e reati a distanza (nei quali l'evento può verificarsi in luogo diverso da quello del verificarsi della condotta: ad es., si pensi ad una estorsione commessa attraverso una telefonata interurbana minatoria). L'esistenza di un evento inteso in senso naturalistico costituisce presupposto indispensabile per la configurabilità del rapporto di causalità materiale tra condotta ed evento (altrimenti privo di senso logico);

b) secondo la concezione giuridica, l'evento consiste nella lesione del bene-interesse tutelato dalla norma incriminatrice, collegata alla condotta tipica da un nesso causale di derivazione logica; un tale evento esisterebbe sempre, e renderebbe sempre configurabile il rapporto di causalità, anche in difetto di un evento in senso naturalistico.

Il codice penale vigente offre spunti in favore sia dell'una che dell'altra concezione: «a favore dell'evento naturale vengono invocate le innumerevoli norme che contrappongono l'evento alla condotta o lo indicano, comunque, come "conseguenza dell'azione od omissione" (artt. 6, 40, 42, 43, 56, 116 c.p.) o che, addirittura, negano che, in presenza di un evento causato non dall'agente, la sola condotta possa costituire di per sé reato (art. 41 c.p.); norme che sarebbero concepibili solo in rapporto all'evento naturalisticamente inteso. A favore dell'evento giuridico, vengono invocati gli artt. 43 e 49 c.p., i quali, nel fissare le nozioni generali di dolo e di colpa e di reato impossibile, non potrebbero riferirsi all'evento naturale, perché da tali nozioni resterebbero esclusi, inconcepibilmente, i reati di pura condotta» (Mantovani, PG, 144). Proprio in considerazione di un dato normativo tanto eterogeneo, sembra preferibile ritenere che il legislatore abbia optato per la concezione naturalistica dell'evento laddove ha disciplinato profili attinenti alla causalità, e per quella giuridica in relazione alle problematiche inerenti alla colpevolezza (od elemento soggettivo: dolo, colpa etc.).

ll rapporto di causalità materiale: profili generali

Le modalità di ricostruzione del rapporto di causalità tra condotta ed evento incidono decisivamente sul grado di protezione che l'ordinamento penale è in grado di assicurare ai beni-interessi di rilievo costituzionale poziore della vita, dell'incolumità individuale e dell'incolumità pubblica, con riguardo a fenomeni di estremo rilievo sociale nella « società delle modernità » (si pensi alle alterazioni ambientali, alle attività medico-chirurgiche, ai danni da prodotto), tra i quali un rilievo notevole è assunto, per il loro progressivo aumento (anche in relazione a nuove tipologie di lavoro), dalle malattie professionali: « proprio per questa tipologia di reati, annoverati nella categoria dei più significativi illeciti di rilievo penale, alla complessità della fattispecie, per cui si esige la spiegazione degli sviluppi causali di fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici, fa talora da contrappunto un più o meno ampio deficit di conoscenze scientifiche in ordine ai reali meccanismi di causazione dell'evento medesimo, sicché la contrastata attendibilità della base cognitiva mette in crisi la certezza probatoria della decisione giudiziaria » (Canzio, 2231).

La dottrina tradizionale poneva in risalto che l'esigenza, sancita in linea generale dall'art. 40, si desume anche dalle singole disposizioni di legge che prevedono i vari reati di parte speciale, individuandone la condotta tipica attraverso l'impiego di termini “speciali”, come « cagionare » (artt. 449 e 575) « produrre » (art. 583), « derivare » (art. 422), « distruggere » (art. 253) « deteriorare » (art. 635) (Antolisei, PG, 237). Parte della dottrina ha, peraltro, osservato che la scelta la scelta del verbo « cagionare » è, in realtà, poco felice, poiché il termine esprime l'idea di un operare cieco, proprio delle forze della natura (l'inondazione cagiona la morte degli uomini; il fulmine cagiona l'incendio), ma non si adegua alla causalità « veggente », propria dell'operare di un uomo (Bettiol-Pettoello Mantovani, Diritto, 303).

Il rapporto di causalità rientra fra gli « elementi del fatto », quale forma di offesa di uno o di più beni giuridici, unitamente a tutti (e soltanto) quegli elementi oggettivi che concorrono a descrivere quella forma di offesa (la condotta; l'evento o gli eventi, cioè gli accadimenti temporalmente o spazialmente separati dalla condotta e da questa causati; i presupposti della condotta; l'oggetto materiale della condotta, cioè la persona o la cosa sulla quale incide l'azione o l'omissione) (Marinucci-Dolcini, Manuale 189 ss.).

La dipendenza causale dell'evento naturalistico da una condotta umana costituisce il primo livello di individualizzazione della responsabilità penale e, benché presupponga una condotta che per coscienza e volontà deve essere riferibile ad un uomo, prescinde da qualsiasi considerazione delle condizioni soggettive e va accertata con criteri oggettivi secondo « la migliore scienza ed esperienza del momento storico », anche se sopravvenuta al fatto ed anche se specifica di un solo uomo (Mantovani, PG, 139 ss.; Padovani, Codice, 126 ss.).

Nei reati dolosi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, « basta di regola che l'agente se ne prefiguri lo svolgimento nei tratti essenziali rilevanti ai fini della valutazione penalistica, per cui non è necessario che la corrispondenza tra decorso causale preveduto e decorso causale effettivo abbracci anche i dettagli secondari » (Fiandaca-Musco, PG, 362).

Segue . La disciplina del codice penale. Rinvio

Nella disciplina codicistica il rapporto di causalità consente di spiegare giuridicamente il « perché » di un determinato evento.

La disciplina normativa della causalità richiama la teoria « condizionalistica », secondo la quale costituisce causa ogni condizione dell'evento, ovvero ogni antecedente in difetto del quale l'evento non si sarebbe verificato; la teoria è comunemente denominata della « equivalenza causale », perché parifica l'attitudine causale di tutti gli antecedenti necessari dell'evento: in questo senso, perché l'azione umana assurga a causa, è sufficiente che essa rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo. La norma in commento comporterebbe che una modificazione del mondo esterno che non abbia alcun legame con la condotta dell'uomo, ovvero un avvenimento che pur in difetto di essa si sarebbe ugualmente verificato, ed allo stesso modo, non può considerarsi opera dell'agente, e, quindi, non può essere posta, ad alcun titolo, a suo carico: partendo da questa premessa di ordine generale, è stato enucleato il principio (positivizzato dagli artt. 40 e 41 c.p. ) che, per l'esistenza del rapporto di causalità in senso giuridico, occorrono due elementi, l'uno positivo (l'uomo con la sua azione deve aver posto in essere una condizione dell'evento, e cioè un antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato), l'altro negativo (il risultato di quell'azione, ovvero l'evento, non deve costituire il frutto del concorso di fattori eccezionali) (Antolisei, PG, 249 ss.).

La dottrina (Stella 2003, 223 ss.) ha anche esaminato i temi della modernità che investono il deficit di funzionamento della causalità, ponendo l'accento sui tentativi della prassi giurisprudenziale e della scienza penalistica di dar vita ad un diritto penale occulto del pericolo, attraverso un'interpretazione « flessibile » della causalità, ed in particolare evidenziando la distinzione tra causalità generale e causalità individuale, ovvero ponendo l'accento sulla « distinzione tra idoneità, probabilità ex ante e aumento del rischio e, sul versante opposto, sulla imputazione ex post dell'evento lesivo, secondo il criterio del nesso di condizionamento », che produrrebbe il risultato di « eliminare la causalità dai requisiti di imputazione individuale », e « trasformare il diritto penale d'evento in un occulto diritto penale di pericolo ». Alcuni « grandi » processi degli anni Sessanta hanno posto i giudici di fronte ai problemi giuridici suscitati da un deficit di certezze nel sapere scientifico: nel processo del Vajont, le incertezze dei periti sull'individuazione del « perché » la frana che aveva prodotto l'esondazione del bacino erano in apparenza tali da indurre i giudici di merito a concludere che la scienza si era rivelata impotente di fronte al compito di offrire una spiegazione dell'accaduto; con riguardo alla responsabilità da prodotto, nel processo dell'epidemia delle cosiddette « macchie bleu » comparse sulla pelle degli abitanti di una zona circostante una fabbrica di alluminio, l'analisi peritale dei fumi immessi nell'atmosfera dall'impianto predetto non aveva fornito risultati certi sulla presenza di sostanze chimiche tossiche. Si è, pertanto, constatato che lo sforzo della dogmatica di elaborare concetti e teorie di diritto generale sostanziale è destinato a diventare un esercizio inutile e vuoto se quei concetti e quelle teorie non trovano concreta applicazione nel processo penale; diritto penale sostanziale e diritto penale processuale, anziché « isole separate », devono costituire, nella concretezza dell'esperienza giudiziale, due facce della stessa medaglia. Per dimostrare la sussistenza di tale stretto connubio tra le due grandi aree tematiche del diritto penale, si evoca il principio della responsabilità per fatto proprio e della responsabilità personale: nel diritto penale dell'evento, la causalità funge da criterio di imputazione individuale dei singoli eventi dannosi (causalità concreta o individuale), in grado di evitare l'imputazione oggettiva o per fatto altrui, ma a tal fine occorre l'effettività della regola processuale che accolla all'accusa l'onere di provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il requisito causale. Qualora, per la riconosciuta e insuperabile incertezza della scienza, o comunque per i dubbi degli esperti, la sussistenza del requisito causale non risulti processualmente dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio, «... il diritto penale deve cedere il passo al diritto civile o al diritto amministrativo, cioè ad ordinamenti processuali che rendono meno stringente l'onere probatorio con la regola del più probabile che non, comunque con regole probatorie più flessibili ».

L'intrinseco legame sussistente tra gli artt. 40 e 41 rende opportuno (se non inevitabile) differire ogni ulteriore, dettagliata, analisi delle tematiche inerenti al rapporto di causalità in sede di commento dell'art. 41.

La condotta omissiva nel diritto penale

Per un corretto approfondimento delle tematiche inerenti alla condotta omissiva ed al valore causale dell'omissione nel diritto penale, occorre preliminarmente puntualizzare la distinzione tra la fattispecie obiettiva del reato omissivo proprio e quella del reato omissivo improprio (o commissivo mediante omissione).

Secondo la dottrina tradizionale, le due tipologie di reato si distinguono tra loro poiché nei reati omissivi propri la fattispecie tipica è configurata come mera omissione, nel senso che è incriminato il mancato compimento di una determinata azione, mentre nei reati omissivi impropri è incriminato il mancato impedimento di un evento dannoso o pericoloso (Marinucci-Dolcini, Manuale 2009, 214 ss.).

La dottrina dominante (Fiandaca Musco, PG, 589 ss.) afferma che l'omissione, non avendo una dimensione naturalistica, è un concetto normativo, e consiste nel « non compimento — da parte di un soggetto — di una determinata azione, che era da attendersi in base ad una norma ». Nei reati omissivi impropri, invece, colui che determina un risultato mediante una omissione può essere chiamato a rispondere di essa soltanto quando abbia violato un obbligo giuridico di attivarsi: si contravviene all'obbligo di impedire l'evento e si è, pertanto, chiamati a rispondere del mancato impedimento dello stesso evento tipico di una fattispecie « commissiva », cioè di una fattispecie sorta in origine per incriminare un fatto incentrato su un comportamento positivo, non soltanto sulla base dell'accertamento del rapporto di causalità tra condotta omissiva ed evento non impedito, poiché occorre anche verificare l'esistenza, in capo al soggetto, dell'obbligo di compiere una data azione e precisamente quella che avrebbe impedito il verificarsi dell'evento (Antolisei, PG, 258 ss.).

In altri termini, per effetto dell'innesto, sulle fattispecie di parte speciale, della regola dell'equivalenza di cui all'art. 40 cpv. (non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) nasce una nuova fattispecie incriminatrice omissiva impropria, che viene ad affiancarsi all'originaria fattispecie commissiva di parte speciale, i cui elementi costitutivi sono in gran parte ricostruiti dal giudice, al quale spetta il delicato compito di selezionare le fattispecie di azione legalmente tipizzate da convertire in corrispondenti ipotesi omissive, e di individuare gli obblighi di agire, la cui violazione veramente giustifichi una responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento (Fiandaca-Musco, PG, 594 ss.).

Il deficit di determinatezza delle fattispecie omissive improprie che l'operazione di conversione su descritta potrebbe comportare, appare compensato dalla sua limitazione alle sole fattispecie causalmente orientate, ovvero a forma libera; ed è altresì neutralizzato dalla presenza dei seguenti parametri, adeguatamente determinati, cui deve aderire, consistenti (Beltrani, 20 s.):

- nell'esistenza di un dovere giuridico di attivarsi;

- nel verificarsi, per effetto dell'inerzia del soggetto gravato dal predetto obbligo, dell'evento temuto;

- nell'equivalenza tra l'« agire cagionando » ed il « non agire non impedendo il verificarsi dell'evento che si avrebbe l'obbligo di impedire ».

Non a caso, la determinatezza delle fattispecie di reato omissivo improprio non ha mai suscitato dubbi di costituzionalità nella giurisprudenza. D'altro canto, la limitazione del campo di operatività dell'art. 40, comma 2, alle sole fattispecie causalmente orientate, ovvero « a forma libera », neutralizza i dubbi di compatibilità della norma con il principio di legalità, ed in particolare con la riserva di legge: le condotte che integrano tali fattispecie consistono nel “cagionare” (ad es., art. 575 c.p.), ovvero nell'ancor più generico “compiere atti” (ad es., art. 422 c.p.), il che significa che l'evento di reato può scaturire indifferentemente da una qualsiasi azione od omissione. Ne consegue che la posizione di garanzia introdotta dall'ordinamento a tutela dei beni protetti dalle predette norme incriminatrici (rispettivamente, l'incolumità del singolo, o della collettività) non integra gli estremi di una nuova fattispecie penale (in violazione del principio della riserva di legge), ma specifica elementi normativi di preesistenti fattispecie (anche) omissive, descrivendo una particolare condotta produttiva dell'evento (che, con riguardo agli esempi fatti, si concretizza rispettivamente nella violazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento-morte, ovvero l'evento di pericolo per la pubblica incolumità).

Il reato omissivo improprio

La progressiva presa di coscienza, nella collettività, e conseguentemente nell'ordinamento giuridico che ne costituisce espressione, delle possibili implicazioni dei principi solidaristici accolti dall'art. 2 Cost., ha comportato a carico dei consociati (come naturale contropartita dei diritti ad essi riconosciuti, sia come collettività che uti singuli) nuovi doveri di collaborazione, per la realizzazione delle finalità dello Stato sociale. Si è avuto, conseguentemente, un ampliamento dell'ambito delle responsabilità penali per omissione, a fronte dell'inadempimento degli obblighi di attivarsi, sempre più frequentemente imposti (soprattutto dalla legislazione penale speciale) per tutelare incisivamente beni il cui valore, dapprima sottovalutato, si è progressivamente accresciuto nell'idem sentire, fino al riconoscimento del loro rilievo costituzionale primario, in quanto strumentali alla compiuta realizzazione della personalità umana (si pensi, principalmente, al diritto alla salute ed all'ambiente — anche di lavoro — salubre: art. 32 Cost.).

Anche la giurisprudenza riconosce che l'art. 40, comma 2, va interpretato in termini solidaristici, alla luce dell'art. 2 della Costituzione, il quale, ispirandosi al principio del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (Cass. IV, n. 11136/2015).

Il reato omissivo improprio costituisce figura di illecito del tutto peculiare: l'evento del cui mancato impedimento si è chiamati a rispondere, è quello tipico di una fattispecie « commissiva », cioè di una fattispecie sorta in origine per incriminare un fatto incentrato su di un comportamento positivo (si pensi all'omicidio — art. 575 —, la cui condotta tipica, consistente nel « cagionare » la morte di un uomo, evoca un processo eziologico innescato da un'azione in senso stretto, pur non potendo dubitarsi che in alcuni casi, e qualora ne ricorrano le condizioni, il « non impedire », benché formalmente esulante dall'ambito della fattispecie incriminatrice, possa equivalere alla corrispondente ipotesi di commissione del reato mediante azione positiva: Fiandaca-Musco, PG, 593). In virtù dell'art. 40, comma 2, la violazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento costituisce una delle possibili modalità esecutive dei reati commissivi a forma libera, o fattispecie causalmente orientate, nel senso che, in virtù della combinazione delle singole norme incriminatrici con la disposizione in commento, le fattispecie causalmente orientate risultano duplicate (in riferimento al predetto esempio, l'omicidio è, dunque, la condotta di « chiunque cagiona, o, avendone l'obbligo giuridico, non impedisce, la morte di un uomo »: Padovani, Diritto, 121).

I reati omissivi impropri (o reati commissivi mediante omissione) non sono singolarmente tipizzati dal legislatore, ma scaturiscono dalla combinazione tra la disposizione generale di cui all'art. 40 cpv. (che sancisce l'equivalenza tra il cagionare commettendo ed il cagionare non impedendo) e le singole norme incriminatrici che prevedono ipotesi-base di reato commissivo orientate alla produzione di un evento lesivo: per effetto di questa combinazione, si ottiene la creazione (attraverso una sorta di sdoppiamento) di altrettante norme penali incriminatrici aventi ad oggetto i reati commissivi mediante omissione corrispondenti a quelli tout court commissivi tipizzati. All'art. 40 cpv. va, quindi, riconosciuta, nel rispetto del principio di legalità, una funzione estensiva dell'ordinamento penale, portato ad attribuire rilevanza penale a fatti che altrimenti, in difetto di una tassativa previsione di legge, risulterebbero non punibili; proprio attraverso la previsione, contenuta nella predetta norma, della c.d. equivalenza causale, il reato omissivo improprio finisce con l'essere ricostruito dall'interprete in base all'innesto della predetta disposizione sulle norme di parte speciale che prevedono le ipotesi di reato commissivo suscettibili di essere « convertite » in corrispondenti ipotesi omissive (Fiandaca-Musco, PG, 595 ss.).

Questa costruzione giuridica trova una convincente giustificazione nel rilievo che l'agente può realizzare il proprio volere sia attraverso una azione, che astenendosi dall'intervenire nel mondo esterno, là dove la scienza dell'uomo e la sua capacità di orientare in modo autonomo le serie causali, possano indicargli il modo di impedire il verificarsi di una certa situazione: se questa situazione è voluta, il non impedirla è un modo di realizzare la propria volontà. Né in tal modo si giunge a risultati naturalisticamente assurdi, ove si abbia riguardo alla realtà del mondo umano: sebbene, in questi casi, l'evento sia prodotto da una serie causale del tutto autonoma rispetto alla condotta effettivamente tenuta dal soggetto che avrebbe potuto impedire l'evento, ciò non esclude che il non avere impedito l'evento abbia costituito il mezzo per realizzare il proprio volere. Tuttavia, è (deve essere) la legge a stabilire quando l'evento sia causa di una omissione colpevole: in quest'ottica, il secondo comma dell'art. 40 ha la funzione di integrare il primo, specificando quando può dirsi che l'evento sia « conseguenza » dell'omissione del colpevole (Pagliaro, PG, 359).

La Relazione del Guardasigilli avverte, « perché questo punto è stato causa di equivoci, che, affermata l'esistenza del rapporto causale, non ne discende che si risponda in ogni caso dell'evento, perché la responsabilità penale presuppone, oltre l'elemento materiale, anche quello psicologico » (Relazione del Guardasigilli, cit., 84).

La regola dell’equivalenza causale

Secondo il parere unanime di dottrina e giurisprudenza, la regola dell'equivalenza causale espressa dall'art. 40, comma 2, opera in presenza di due elementi:

a) la violazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento;

b) il nesso di causalità ipotetica tra l'omissione e l'evento non impedito.

Non tutte le fattispecie commissive di parte speciale si prestano alla conversione in altrettante fattispecie commissive mediante omissione; secondo parte della dottrina (Pagliaro, PG, 365 ss.), infatti, l'art. 40 cpv.:

- può applicarsi solo a quelle fattispecie che sono linguisticamente costruite intorno a termini come « cagionare », « procurare » e simili. Ne consegue che l'equivalenza tra il « non impedire » ed il « cagionare » può operare per fattispecie come l'omicidio (art. 575), ma non per quelle che, in termini descrittivi, non siano caratterizzate da riferimenti al « cagionare » e simili, come ad es. il peculato, la calunnia, il furto;

- non può applicarsi ai reati commessi con dolo indiretto o eventuale: l'imputazione di un evento realizzato attraverso la semplice violazione di un obbligo di attivarsi è consentita soltanto quando il soggetto, attraverso l'omissione, tenda comunque all'evento (come fine ultimo, o come mezzo necessario per il conseguimento del fine ultimo), non anche quando l'agente si rappresenti l'evento come conseguenza necessaria, o possibile, del fatto, poiché il verificarsi dell'evento stesso in conseguenza dello svolgimento naturale di altri, distinti, processi causali non rappresenterebbe la proiezione esterna del volere del soggetto agente.

Altra dottrina (Fiandaca-Musco, PG, 594 s.), premesso che «un'indiscriminata applicazione, a tutte le fattispecie commissive, del principio della “equivalenza”, avrebbe come effetto di ampliare in maniera “ipertrofica” il sistema delle incriminazioni» e che «con ciò si finirebbe però col disattendere le stesse scelte legislative di politica criminale, e risulterebbero quindi violati i limiti in cui è predisposta la stessa tutela legale dei beni penalmente protetti», ha ritenuto che sussistano ulteriori limitazioni, perché l'art. 40, comma 2, presupponendo la realizzazione di un reato di evento, risulterebbe concettualmente incompatibile:

a) con i reati omissivi propri, già tipizzati con riferimento specifico ad una condotta omissiva;

b) con i reati di pura condotta, nei quali manca un evento in senso naturalistico.

Concorde la giurisprudenza, che, in tema di uso illecito di beni culturali (contravvenzione di cui all'art. 170 del d.lgs. n. 42/2004), ha affermato che, in presenza di una condotta commissiva a forma vincolata consistente nel destinare i beni culturali ad un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico, è configurabile un reato di pura condotta, in relazione al quale non è ipotizzabile una responsabilità per omesso impedimento dell'evento » (Cass. III, n. 37756/2014).

c) con i reati abituali, che richiedono una reiterazione di comportamenti (è il caso dello sfruttamento della prostituzione — art. 3 l. n. 75/1958);

d) con i delitti c.d. di mano propria, la cui fattispecie richiede una condotta positiva di carattere esclusivamente personale (come ad es. l'incesto — art. 564).

e) con i reati a forma vincolata, nei quali l'evento deve essere cagionato secondo modalità comportamentali che richiedono un effettivo attivarsi del soggetto attivo (ad es., gli artifici e raggiri della truffa: ma sul punto la giurisprudenza è in disaccordo, ritenendo pacificamente che l'artificio od il raggiro richiesti per la sussistenza del reato di truffa possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere di farle conoscere: Cass. II, n. 28703/2013).

f) con i reati già tipizzati, alternativamente, in chiave commissiva od omissiva, in relazione ai quali non sarebbe, pertanto, possibile alcuna estensione della sfera della punibilità (è il caso dei delitti colposi di pericolo — art. 450 — e del reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone — art. 659 —, nonché della tolleranza abituale della prostituzione — art. 3, n. 3, l. n. 75/1958 — che si concretizza di per sé in un comportamento omissivo), o comunque caratterizzati da una condotta tipica descritta con termini « normativi », tale da poter essere realizzata sia mediante azione che mediante omissione.

Ne consegue che l'ambito di operatività dell'art. 40 cpv. resterebbe limitato alle sole fattispecie causalmente orientate a forma libera, con eccezione, tuttavia, dei reati che offendano il patrimonio, bene interesse privo di particolare rilievo costituzionale, per i quali la costituzione dei garanti appare ingiustificata, estendendo la responsabilità anche a fatti di minima offensività. Inoltre, dovrebbero essere riconducibili alla fattispecie dell'equivalenza causale ex art. 40 cpv. i soli reati a tutela della vita e dell'incolumità individuale e pubblica, laddove, in relazione ai reati a forma libera che offendano unicamente il patrimonio (ad es., furto, danneggiamento), bene-interesse privo di particolare rilievo costituzionale, la costituzione di garanti risulterebbe ingiustificata, potendo comportare un ampliamento dell'ambito delle responsabilità penali anche in relazione ad offese di minima entità; per questi ultimi, pertanto, l'estensione ex art. 40, comma 2, sarebbe giustificabile soltanto « ove ci si trovi di fronte all'esigenza di impedire gravi lesioni ad interessi patrimoniali la cui salvaguardia possa giovare al buon funzionamento dell'intera economia collettiva: si pensi ad es. alla prospettata responsabilizzazione ex art. 40 cpv. degli amministratori e sindaci di società in vista dell'impedimento di reati societari » (Fiandaca-Musco, PG, 596 s.).

L'obbligo giuridico di impedire l'evento e le posizioni di garanzia

L'obbligo giuridico di impedire l'evento enucleato dall'art. 40, comma 2, trova il suo fondamento in una situazione di garanzia, determinata dalla necessità che ad alcuni soggetti, costituiti garanti, sia affidata la « protezione » di determinati beni giuridici, assistiti da una tutela rafforzata, stante l'incapacità — totale o parziale — dei loro rispettivi titolari a proteggerli adeguatamente. Il principio di equivalenza tra l'omissione non impeditiva e l'azione causale presuppone, pertanto, non un semplice obbligo giuridico di attivarsi, bensì una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto: la funzione specifica della posizione di garante è rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità (in senso lato) di determinati soggetti, attraverso l'instaurazione di un “rapporto di dipendenza” a scopo protettivo (Fiandaca-Musco, PG, 610 s.).

Nell'ambito delle posizioni di garanzia vanno distinte posizioni di protezione e posizioni di controllo: le prime mirano a «preservare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciarne l'integrità, quale che sia la fonte da cui scaturiscano»; le altre mirano, invece, a «neutralizzare determinate fonti di pericolo in modo da garantire l'integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati» (Fiandaca-Musco, PG, 612).

Vanno, altresì, distinte posizioni di garanzia originarie e derivate: le prime nascono in capo a determinati soggetti, in considerazione dello specifico ruolo o della speciale posizione di volta in volta rivestita; le altre si trasferiscono dal titolare originario ad un soggetto diverso, per lo più mediante un atto di trasferimento negoziale (Fiandaca-Musco, PG, 612).

La giurisprudenza individua quali elementi costitutivi essenziali della posizione di garanzia:

a) una fonte normativa di diritto privato o pubblico, anche non scritta, ovvero una situazione di fatto (consistente in una precedente condotta illegittima) da cui scaturisca il dovere giuridico di intervenire;

b) l'esistenza di un potere (giuridico, ma anche di fatto) attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado, attivandosi, di impedire il verificarsi dell'evento temuto.

In particolare, è configurabile una posizione di garanzia a condizione che (Cass. IV, n. 38991/2010; Cass. II, n. 4633/2021):

a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo;

b) una fonte giuridica (anche negoziale) abbia la finalità di tutelarlo;

c) tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate;

d) queste ultime siano dotate di capacità e poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito: un soggetto può essere considerato, agli effetti penali, titolare di una posizione di garanzia, soltanto se è effettivamente in condizione, con la sua condotta attiva, di influenzare il decorso degli eventi, indirizzandoli verso uno sviluppo atto ad impedire la lesione del bene giuridico tutelato.

La posizione di garanzia opera purché l'agente assuma in concreto la gestione dei rischi connessi all'attività assunta, non estendendosi oltre la sua sfera di governo degli stessi (Cass. IV, n. 48793/2016: in applicazione del principio, è stata esclusa la responsabilità degli imputati per omicidio colposo in relazione al decesso di un giovane per annegamento in una piscina che, sebbene ubicata in adiacenza alla struttura ricreativa dagli stessi gestita, era separata ed autonoma nonché gestita da altri soggetti, e dunque non rientrante nella loro sfera di controllo).

Si è anche precisato che — quando un obiettivo di sicurezza può essere soddisfatto con l'adozione di diverse strategiela scelta dell'una o dell'altra da parte del soggetto titolare della posizione di garanzia è indifferente, e l'obbligo può essere adempiuto anche con l'adozione di cautele diverse da quelle «specifiche», quando si adottino interventi evoluti dal punto di vista tecnico e scientifico ed efficienti almeno quanto quelli prescritti dalla regolamentazione ufficiale della materia (Cass. IV, n. 2536/2016).

La fonte dell'obbligo giuridico di impedire l'evento

L'obbligo giuridico di impedire l'evento può derivare da qualsiasi fonte ritenuta idonea dall'ordinamento, ed in particolare dalle seguenti:

- la legge (penale — ad es., art. 677 — od extrapenale — si pensi alle norme di diritto civile in tema di famiglia e minori —);

- il regolamento;

- il contratto: ai sensi dell'art. 1372 c.c., esso ha forza di legge tra le parti, sicché può essergli riconosciuta la funzione «non già di creare nuove posizioni di garanzia, bensì di trasferire ad altri l'assolvimento di compiti di tutela originariamente spettanti o al titolare dello stesso bene in questione ovvero ad un garante a titolo originario; a ritenere in tal modo, si riduce — tra l'altro — il rischio che la responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento risulti troppo condizionata dal mero arbitrio della volontà dei privati» (Fiandaca-Musco, Diritto, PG, 612 ss.); in ogni caso, possono assumere rilevanza giuridica i soli obblighi di garanzia contrattualmente trasferiti da parte del titolare del bene protetto, ovvero dal garante costituito per legge, e l'obbligo di garanzia non si trasferisce in forza della mera stipula del contratto, occorrendo la concreta instaurazione del rapporto tra il nuovo garante ed il soggetto « garantito »; infine, il garante « derivato » deve apparire ex ante (ovvero all'atto dell'assunzione della posizione di garanzia) idoneo a garantire l'integrità del bene tutelato;

- l'assunzione volontaria dell'obbligo in forma di negotiorum gestio ex art. 2028 c.c.: «ai fini della rilevanza “penalistica” delle posizioni di garanzia spontaneamente assunte quel che veramente conta è che l'intervento del garante determini o accentui un'esposizione a pericolo del bene da proteggere: ad es. perché tale intervento o induce ad affrontare un pericolo che altrimenti non si sarebbe corso (...), ovvero impedisce l'attivarsi di “istanze di protezione” alternative» (Fiandaca-Musco, PG, 614 s.).

-           la consuetudine, se è riconosciuta dall’ordinamento come legittima fonte di un determinato obbligo (in dottrina, PADOVANI, Diritto, 119).

Secondo la giurisprudenza, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell'agente, consistente nella presa in carico del bene protetto, purché l'agente assuma la gestione del rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva e consapevole presa in carico del bene protetto (Cass. IV, n. 2536/2016 e Cass. IV, n. 21869/2022); così, ad es., sarebbe configurabile il delitto di lesioni colpose a carico di colui il quale non si sia opposto alla presenza dei figli del suo vicino di casa nel cortile antistante la propria abitazione, così di fatto assumendo una posizione di garanzia sui minori, attraverso l'implicita assunzione di un obbligo di sorveglianza su di essi (Cass. IV, n. 50606/2013); in applicazione del principio, in tema di incidente aereo, è stata confermata la sentenza che aveva escluso la responsabilità dell'imputato, a titolo di omicidio colposo, per aver consentito alla persona offesa - con la quale egli era salito a bordo di un deltaplano biposto, artigianalmente costruito, di cui erano comproprietari - di assumere il comando del velivolo, non potendosi ravvisare in capo allo stesso una posizione di garanzia rispetto all'altro occupante, nei confronti del quale egli, pur essendo più esperto, si trovava in una posizione sostanzialmente paritetica, non essendo istruttore di volo né proprietario esclusivo del mezzo ed essendosi, di contro, la vittima volontariamente auto esposta al pericolo, ponendosi alla guida in assenza di doppi comandi (Cass. IV, n. 34975/2016).

Il principio che la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l'agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto, appare ormai pacifico, essendo stato ribadito anche nelle seguenti occasioni:

-           Cass. IV, n. 37224/2019, in fattispecie relativa ad omicidio colposo conseguente alla caduta di un albero: la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva affermato la responsabilità del funzionario agronomo di un Comune facendo conseguire la posizione di garanzia all'effettuazione da parte dell'imputata, un mese e mezzo prima dell'evento, di un semplice sopralluogo del tutto casuale sul posto, in mancanza di prova dell'espletamento, nell'esercizio delle proprie funzioni, di una vera e propria ispezione in senso tecnico giuridico, finalizzata alla prevenzione dello specifico rischio di crollo dell'albero, e dunque tale da consentirle di essere consapevole della presa in carico della situazione di rischio quale garante;

Cass. IV, n. 39261/2019, in fattispecie relativa al decesso di un invalido in sedia a rotelle caduto in un vano ascensore con difetto di apertura della porta al piano, a seguito dell'uso improprio della chiave di emergenza: la S.C. ha riconosciuto la posizione di garanzia, di fonte contrattuale, dell'installatore e del manutentore dell'impianto, escludendo, nel contempo, che il figlio della persona offesa, che aveva aperto l'ascensore cadendo anche lui nel vuoto, pur titolare di una posizione di garanzia di fatto di "assistenza generica", fosse gestore dello specifico rischio di precipitazione nel vuoto connesso al funzionamento dell'ascensore, ritenendolo piuttosto, in quanto fruitore dell'impianto alla stregua del padre, "destinatario" di tale rischio).

Diversamente, si è ritenuto che la posizione di garanzia non può essere generata da un agire illecito altrui (Cass. IV, n. 42867/2019: fattispecie nella quale due amici, dopo essersi procurati dosi di droga, la avevano somministrata ciascuno alla propria fidanzate, delle quali una era deceduta in conseguenza dell'assunzione di una dose eccessiva: la S.C. ha annullato senza rinvio la condanna di uno dei due a titolo di omicidio colposo, non ritenendo ravvisabile a suo carico un obbligo giuridico di controllare le modalità di preparazione da parte dell'altro della dose destinata alla fidanzata di quest'ultimo).

 

 

La successione di garanti ed il principio dell’affidamento

Secondo la giurisprudenza, in caso di pluralità di garanti posti a garanzia del medesimo bene giuridico, quando l'obbligo giuridico di impedire l'evento ricade su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva del titolare della posizione di garanzia, tenuto per primo ad intervenire, non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di altro garante, chiamato ad impedire l'evento in epoca successiva, sempre che la posizione di pericolo non si sia modificata, per effetto del tempo trascorso o di un comportamento del secondo garante, in modo tale da escludere la riconducibilità al primo garante della nuova situazione creatasi (Cass. IV, n. 1194/2013).

In tema di colpa medica, con particolare riferimento all'attività medico chirurgica d'equipe, si è affermato che il capo dell'équipe operatoria è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in virtù della quale è tenuto a dirigere e a coordinare l'attività svolta dagli altri medici, sia pure specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e ponendo rimedio, ove necessario, ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali o comunque rientranti nella sua sfera di conoscenza e, come tali, siano emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass. IV, n. 33329/2015); il medico il quale partecipi alla visita collegiale non può essere esonerato da responsabilità ove ometta di differenziare la propria posizione, rendendo palesi i motivi che lo inducano a dissentire dalla decisione presa dal direttore del reparto di dimettere il paziente (Cass. IV, n. 26966/2013); ove sorgano complicanze, egli non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che un'attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull'operato dei collaboratori (Cass. IV, n. 17222/2012).

Sempre in argomento, si è da ultimo ritenuto che, quando l'obbligo di impedire l'evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti (Cass. IV, n. 1350/2020: fattispecie in tema di colpa medica di tre sanitari che si erano succeduti nella cura di un bambino, deceduto per la perforazione dell'intestino conseguita all'effettuazione di un clisma opaco senza la previa necessaria idratazione; la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di condanna dei medici intervenuti prima di quello che aveva eseguito il predetto esame strumentale, per non avere verificato se essi avessero contribuito all'omessa idratazione del paziente, quale fosse il livello di disidratazione raggiunto in concomitanza con il loro intervento, e se i rischi connessi alla disidratazione si fossero aggravati in considerazione della decisione, presa da altri medici, di sottoporre il paziente al clisma opaco).

In materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge, con la conseguenza che l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari della predetta posizione (Cass. IV, n. 6507/2018); in caso di subentro di un soggetto nella posizione di garanzia, a fronte di una situazione di rischio per i lavoratori riconducibile alla condotta attiva del predecessore è configurabile la responsabilità del nuovo garante per non avere assolto all'obbligo di fornire misure di sicurezza utili ed efficaci (Cass. IV, n. 50019/2017: fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto irrilevante, ai fini dell'esclusione della responsabilità dell'imputato, successivo garante, il fatto che la modifica al sistema di blocco di un macchinario - causa delle lesioni riportate da un lavoratore - fosse stata apportata da altro soggetto, in epoca antecedente al subentro dell'imputato nella posizione di garanzia).

Le posizioni di garanzia: casistica

Ambiente e smaltimento rifiuti

Con riguardo allo smaltimento dei rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, poiché non vi è a suo carico un obbligo di controllo, mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi (Cass. III, n. 49327/2013); si è precisato che non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, nei confronti del comproprietario di un terreno sul quale il coniuge abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti e che non può invece fondarsi unicamente sull'esistenza del rapporto di coniugio (Cass. III, n. 28704/2017).

Analogamente, il committente di lavori edili, così come l'appaltante nell'ipotesi del subappalto, ed il direttore dei lavori, non hanno alcun obbligo giuridico di intervenire nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice o subappaltatrice, né di garantire che la stessa venga effettuata correttamente, gravando su di essi esclusivamente doveri di controllo relativi alla conformità della costruzione alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire, nonché l'osservanza delle altre prescrizioni contenute nel testo unico per l'edilizia (art. 29 d.P.R. n. 380/2001: Cass. III, n. 25041/2011).

Diversamente, risponde del reato di illecita gestione dei rifiuti, ove ometta il controllo delle operazioni di smaltimento, il funzionario dell'Agenzia Regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa), che abbia ricevuto notizia dell'esistenza di rifiuti interrati, perché a seguito di tale informativa egli, quale coadiuvante per legge le Regioni e le Province nelle funzioni di controllo sulle attività di gestione, intermediazione e commercio delle stesse, assume la titolarità di una posizione di garanzia (Cass. III, n. 3634/2010).

Anche l'amministratore di diritto di una società risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, poiché su di lui, quale legale rappresentante, gravano i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur quando sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto (Cass. III, n. 25047/2011).

Quanto al sindaco comunale, la distinzione, operata dall'art. 107 d.lgs. n. 267/2000 (t.u. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, ed i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, che sindaco abbia ex lege il dovere di attivarsi, allorché gli siano divenute note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Cass. III, n. 37544/2013).

Amministratore di sostegno

Non risponde del reato di abbandono di persone incapaci (art. 591) l'amministratore di sostegno, nominato ai sensi della l. n. 6/2004, in quanto, salvo che sia diversamente stabilito nel decreto di nomina, lo stesso, a differenza del tutore, non è investito di una posizione di garanzia rispetto ai beni della vita e dell'incolumità individuale del soggetto incapace, ma solo di un compito di assistenza nella gestione dei suoi interessi patrimoniali (Cass. V, n. 7974/2016: fattispecie nella quale la S.C. ha escluso che potesse configurarsi il predetto reato nella condotta dell'amministratore di sostegno il quale si era allontanato per il fine settimana senza segnalare la necessità del ricovero in una struttura protetta dell'amministrato che viveva nella propria abitazione con l'assistenza di una badante e del figlio non convivente).

Amministratore giudiziario

È configurabile il concorso per omissione dell'amministratore giudiziario rispetto al reato di esercizio abusivo dell'attività finanziaria commesso dall'amministratore della società sottoposta a sequestro di prevenzione, atteso che il primo è tenuto non solo alla custodia, alla conservazione ed all'amministrazione della società, ma anche ad impedire condotte di gestione realizzate da altri in violazione della legge penale (Cass. VI, n. 27187/2018: fattispecie in cui l'amministratore giudiziario non impediva agli amministratori della società sottoposta a sequestro di proseguire nell'attività di concessione di finanziamenti in favore degli acquirenti di mezzi di autotrasporto venduti dalla società medesima).

Amministratori comunali. Il Sindaco

Particolarmente variegata è la casistica giurisprudenziale riferita al Sindaco e ai dirigenti comunali. Il Sindaco del Comune, quale autorità locale di protezione civile, e nell'ambito del territorio comunale, ha la gestione dell'emergenza provocata da eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo, da calamità naturali o catastrofi; se questi eventi non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del Comune, questi è tenuto a chiedere l'intervento di altri mezzi e strutture al Prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza coordinandoli con quelli del sindaco, le cui attribuzioni hanno natura concorrente (e non residuale) con quelle del prefetto, che ne ha la direzione. Fino a quando il prefetto non abbia concretamente e di fatto assunto la direzione dei servizi di emergenza, il sindaco mantiene integri i suoi poteri e gli obblighi di gestione dell'emergenza, ed in particolare quelli di allertamento ed evacuazione delle popolazioni che si trovino nelle zone a rischio, indipendentemente dall'esistenza di una situazione di urgenza (Cass. IV, n. 16761/2011). Ancora, il Sindaco ed il responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune sono titolari, in virtù di una generale norma di diligenza (che impone agli organi — rappresentativi o tecnici — dell'amministrazione comunale di vigilare, nell'ambito delle rispettive competenze, sull'incolumità dei cittadini), della posizione di garanzia avente ad oggetto l'adeguata manutenzione ed il controllo dello stato delle strade comunali (Cass. IV, n. 13775/2011).

Quanto alla ripartizioni di organi e competenze all'interno dell'organizzazione comunale, ed alle conseguenti responsabilità, si è precisato che «in tema di enti locali territoriali, ed in particolare per quanto riguarda il Comune, le responsabilità penali connesse alla violazione delle norme che l'ente è tenuto ad osservare sono ripartite tra gli organi elettivi e quelli burocratici secondo le rispettive attribuzioni quali ricostruite nella disciplina di settore. Si distingue, a norma dell'art. 107, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali, e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, compreso quello di adottare atti — non riservati espressamente dalla legge o dallo statuto agli organi di governo dell'ente — che impegnano l'amministrazione verso l'esterno. Pertanto, «le attività attribuite ai dirigenti amministrativi rientrano in una sfera di competenza primaria, diretta ed esclusiva, rispetto alle quali il Sindaco esercita soltanto un potere di sorveglianza e di controllo collegato ai compiti di programmazione, che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale, ed alle funzioni di ufficiale di governo, legittimato all'adozione di ordinanze contingibili ed urgenti» (Cass. IV, n. 22341/2011).

È titolare di una posizione di garanzia, che trova la sua fonte nell'art. 2 r.d. 25 luglio 1904, n. 523 (t.u. delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie), l'ingegnere capo dell'Ufficio del Genio Civile, tenuto ad esercitare un potere di sorveglianza e di vigilanza sugli immobili del demanio fluviale e torrentizio, e ad impedire l'insorgere di cause di pericolo per gli utenti (Cass. IV, n. 17069/2011).

In tema di posizioni di garanzia derivanti dalla gestione della cosa pubblica, si è anche ritenuto che il soggetto responsabile del servizio di manutenzione delle strade non risponde degli eventi che costituiscano la concretizzazione di un rischio eliminabile soltanto con un continuo intervento di manutenzione ordinaria che eviti qualsiasi anomalia della strada, risentendo la posizione di garanzia dei limiti collegati alle disponibilità di spesa (Cass. IV, n. 6513/2021: in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza che aveva assolto il responsabile del servizio di manutenzione delle strade di un Comune dal reato di omicidio colposo, escludendo la colpa dell'imputato in relazione all'infortunio occorso ad una donna anziana, caduta per una lieve anomalia del manto stradale, non integrante una condizione di rischio per la generalità degli utenti). Altra decisione (Cass. IV, n. 14634/2021) ha precisato che la fonte della posizione di garanzia del soggetto incaricato del servizio di manutenzione delle strade è da individuarsi nell'art. 14 cod. strada, e non nell'art. 3 del d.m. 18 febbraio 1992, n. 223, che si limita a prevedere quali contenuti debba avere la progettazione delle strade pubbliche: ne consegue che la valutazione circa la configurabilità o meno di un obbligo di intervento volto ad eliminare o ridurre il rischio di incidente va operata avendo riguardo alla pericolosità in concreto del tratto di strada interessato. Rispondono di omicidio colposo e di lesioni gravissime per inosservanza dell'art. 12 del regolamento ANAS, emanato con d.p.R. 11 dicembre 1981, n. 1126, e del generale dovere di diligenza, prudenza e perizia, i dirigenti del centro di manutenzione dell'ANAS che omettano il monitoraggio e la manutenzione di un versante montuoso instabile, incombente sulla sede autostradale, con elevato indice di rischio di eventi franosi per dissesto idrogeologico, nonché la predisposizione dei necessari interventi di verifica dell'efficienza degli impianti e la progettazione e realizzazione di nuove opere strutturali di sostegno, idonee a contenere eventuali smottamenti debordanti nell'invasione della sede viaria (Cass. IV, n. 9252/2022).

Amministratori e sindaci (nei reati fallimentari, societari e tributari)

La posizione di garanzia degli amministratori di società per i reati fallimentari e societari trova la sua fonte negli artt. 2381, 2392, 2394 c.c. In base a tali norme, l'amministratore di una società ha un preciso obbligo di adoperarsi per impedire non solo gli atti pregiudizievoli per l'integrità del patrimonio sociale, ma anche quelli pregiudizievoli per i soci, i creditori o i terzi, e comunque di eliminarne od attenuarne le conseguenze dannose, vigilando sul generale andamento della gestione; pertanto, laddove non adempia a tale obbligo di garanzia, egli concorre, ex art. 40, comma 2, per omissione, nei delitti fallimentari commessi da altri amministratori, dal momento che anche gli interessi tutelati dalle norme penali fallimentari sono compresi tra quelli affidati alle sue cure.

Laddove, oltre ad un amministratore “di diritto”, esista un amministratore “di fatto”, la giurisprudenza ritiene che tale soggetto — in base alla disciplina dettata dall'art. 2639 c.c. — deve ritenersi gravato dall'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore «di diritto», e, pertanto, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest'ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40, comma 2 (Cass. V, n. 15065/2011; cfr. anche Cass. III, n. 23425/2011, in tema di corresponsabilità dell'amministratore di fatto nella omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA da parte dell'amministratore di diritto).

Quanto all'amministratore di diritto, questi risponde, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, con l'amministratore di fatto, non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma 2, l'evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire, e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita (Cass. V, n. 44826/2014).

La tematica dell'amministratore di diritto è frequentemente accostata a quella della c.d. “testa di legno”, ovvero dell'amministratore mero prestanome di altri soggetti, che abbiano agito quali amministratori di fatto: secondo la costante giurisprudenza, la circostanza di avere rivestito solo formalmente la carica sociale, non esonera l'amministratore di diritto da responsabilità, in quanto l'accettazione della stessa gli attribuisce quei doveri di vigilanza e controllo sulla corretta gestione degli affari sociali, il cui mancato rispetto comporta responsabilità a titolo di dolo generico, nell'ipotesi di accertata consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero a titolo di dolo eventuale in caso di semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Cass. III, n. 7770/2014).

Si è ritenuto che l'amministratore di fatto risponde quale autore principale del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, essendo titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, ne è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ai sensi degli artt. 40, comma 2, c.p. e 2932 c.c., ed a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. III, n. 1722/2020; Cass. II, n. 8632/2021); altro orientamento ha, peraltro, successivamente ritenuto, al contrario, e più convincentemente, che il legale rappresentante di un ente che non abbia dello stesso l'effettiva gestione non risponde ex art. 40, comma 2, c.p. per violazione dei doveri di vigilanza e controllo derivanti dalla carica rivestita, ma quale autore principale della condotta, in quanto direttamente obbligato ex lege a presentare le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto di soggetti diversi dalle persone fisiche, che devono essere da lui sottoscritte e, solo in sua assenza, da chi abbia l'amministrazione, anche di fatto (Cass. III, n. 20050/2022).

I componenti del consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata rispondono del reato di omesso versamento delle ritenute certificate e/o dichiarate quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento e non ai sensi dell’art. art. 40 comma 2, quali garanti dell’adempimento altrui (Cass. III, n. 2741/2018).

Particolare interesse ha suscitato, nel dibattito giurisprudenziale, la figura degli amministratori senza delega (cc.dd. consiglieri non operativi), introdotta dalla riforma societaria (d.lgs. n. 6/2003), che ne ha senz'altro alleggerito oneri e responsabilità rispetto agli amministratori esecutivi, rendendoli responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa. In particolare, è stato rimosso il generale «obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione» (già contemplato dall'art. 2392, comma 2, c.c.), sostituendolo con l'onere di «agire informato» (art. 2381 c.c.), inteso come potere-dovere di richiedere informazioni.

Ne esce riconfigurata la posizione di garanzia del consigliere non operativo rispetto al passato: ai fini della responsabilità penale per fatti di bancarotta fraudolenta, non è sufficiente la presenza di dati (c.d. segnali d'allarme) da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o almeno il rischio della verifica di detto evento, ma è necessario che egli ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo (Cass. V, n. 23000/2013;  nell'ambito del medesimo orientamento, senz'altro dominante, si è successivamente ritenuto che, ai fini della configurabilità del concorso nella bancarotta fraudolenta patrimoniale dell'amministratore privo di delega per omesso impedimento dell'evento, è necessario che, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle distrazioni in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di "segnali di allarme" inequivocabili dai quali desumere l'accettazione del rischio - secondo i criteri propri del dolo eventuale - del verificarsi dell'evento illecito e, dall'altro, della volontà - in guisa di dolo indiretto - di non attivarsi per scongiurare detto evento. Al contrario, secondo altro orientamento, certamente minoritario, pur a seguito della riforma, i consiglieri non operativi continuano ad essere penalmente responsabili ex art. 40, comma 2, per la commissione degli eventi che vengano a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvedano ad impedire: la prova della responsabilità può derivare anche solo dalla dimostrazione della presenza di segnali significativi in relazione all'evento illecito, nonché del grado di anormalità di questi sintomi (Cass. V, n. 3708/2012).

La posizione di garanzia dei sindaci di società, trova la sua fonte negli artt. 2403-bis e 2407 c.c.; da essa deriva una responsabilità normalmente a titolo di concorso omissivo, ex art. 40 comma 2, ovvero sotto il profilo della violazione del dovere giuridico di controllo che, ordinariamente, inerisce alla loro funzione, sub specie dell'equivalenza giuridica, sul piano della causalità, tra il non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire, ed il cagionarlo (Cass. V, n. 15360/2010).

Il suddetto obbligo di vigilanza non è limitato al mero controllo contabile, ma si estende anche al contenuto della gestione (ai sensi del nuovo testo dell'art. 2403-bis c.c.), cosicché il controllo sindacale, se non investe in forma diretta le scelte imprenditoriali, non si risolve neppure in una mera verifica contabile limitata alla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende anche un minimo di riscontro tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile (Cass. V, n. 15360/2010): ne consegue che, in tema di bancarotta, è configurabile il concorso dei componenti del collegio sindacale nei reati commessi dall'amministratore della società anche a titolo di omesso controllo sull'operato di quest'ultimo o di omessa attivazione dei poteri loro riconosciuti dalla legge (Cass. V, n. 31163/2011), con la precisazione che il controllo sindacale non si esaurisce in una mera verifica formale o in un riscontro contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione che, se omesso, può implicare a carico del componente dell'organismo sindacale, responsabilità per omesso controllo della condotta altrui (Cass. V, n. 14045/2016), salva naturalmente la verifica dell'elemento psicologico.

Anche il Presidente del collegio sindacale può concorrere nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, qualora sussistano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l'omissione dell'esercizio dei poteri di controllo — e, pertanto, l'inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori — esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole accettazione del rischio che l'omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori. (Cass. V, n. 26399/2014); da ultimo, si è ritenuto, in tema di bancarotta per distrazione, che non è configurabile nei confronti dei componenti del collegio sindacale di una società diversa dalla fallita, la responsabilità nel reato proprio, ex art. 40, comma 2, c.p., la quale, integrata dalla posizione di garanzia che essi ricoprono esclusivamente a tutela della società presso cui operano, è invocabile solo con riferimento all'obbligo di controllo dell'operato degli amministratori di tale società e non può invece estendersi ad atti di bancarotta compiuti da amministratori di società terze, in relazione ai quali possono concorrere solo attraverso una condotta attiva (Cass. V, n. 11936/2020).

Si è successivamente ribadito che i componenti del collegio sindacale, nello svolgimento dei poteri di controllo e vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto da parte degli amministratori, sono titolari di una posizione di garanzia sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato e sull'andamento generale dell'attività sociale, non solo rispetto ad ogni illecito idoneo a depauperare il patrimonio della società, ma anche a tutte le condotte di reato, inerenti all'oggetto sociale, suscettibili di determinare un indebito arricchimento dell'ente; ai fini della configurabilità della responsabilità dei sindaci, è del tutto irrilevante che l'ente sia sottoposto a concorrenti forme di controllo esterno, privato o pubblico, aventi ambito e caratteristiche differenti rispetto a quelle del collegio sindacale (Cass. V, n. 13382/2021); inoltre, la responsabilità per concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta dei componenti del collegio sindacale non può essere desunta solo dalla posizione di garanzia rivestita e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula la verifica dell'esistenza di elementi, dotati di adeguato e necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, causalmente libera dei sindaci stessi all'attività degli amministratori ovvero dell'effettiva incidenza causale dell'omesso esercizio dei doveri di controllo sulla commissione del reato (Cass. V, n. 20867/2021). Si è anche chiarito, in tema di bancarotta fraudolenta impropria, che è configurabile in capo ai sindaci supplenti il concorso omissivo per violazione dei doveri di vigilanza e dei poteri ispettivi che competono ai componenti del collegio sindacale, solo in caso di morte, rinunzia o decadenza dei sindaci titolari e solo nella misura in cui l'omesso controllo abbia avuto effettiva incidenza di contributo causale nella commissione del reato da parte degli amministratori. (Cass. V, n. 19540/2022).

Animali

Il proprietario di un cane assume una ben precisa posizione di garanzia che gli impone l'obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell'animale, e pertanto egli risponde a titolo di colpa delle lesioni cagionate a terzi dallo stesso animale, qualora ne abbia affidato la custodia a persona inidonea a controllarlo (Cass. IV, n. 34765/2008), e anche nel caso in cui l'aggressione sia avvenuta all'interno dell'abitazione (Cass. IV, n.18814/2011).

Arbitro sportivo

L'arbitro di una partita di calcio non è titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei calciatori e dei guardalinee per le lesioni derivanti dalle condizioni del terreno di gioco in quanto gli artt. 60 e 64 delle Norme organizzative interne della Federazione Italiana Gioco Calcio, che attribuiscono all'arbitro la facoltà di disporre la sospensione o il rinvio della partita, si riferiscono soltanto alla valutazione circa la possibilità di disputare la partita a causa degli eventi atmosferici o di ragioni di ordine pubblico che possano ostacolare o impedire il regolare svolgimento del gioco (Cass. IV, n. 9160/2018: fattispecie nella quale la S.C. ha escluso la responsabilità dell'arbitro per le lesioni patite da un calciatore a causa di un avvallamento del terreno di gioco nascosto da una pozzanghera di acqua piovana).

Attività professionali private

L'obbligo giuridico di impedire l'evento può nascere anche dal diritto privato.

L'amministratore di condominio è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei terzi, che trova la sua fonte normativa negli artt. 1130 e 1135 c.c., e gli impone di attivarsi per rimuovere e prevenire le fonti di pericolo connesse alla proprietà condominiale (Cass. IV, n. 34147/2012), attraverso atti di manutenzione ordinaria e straordinaria (Cass. IV, n. 46385/2015).

Sussiste una posizione di garanzia in capo ai proprietari/locatori di appartamento, avente la sua fonte fonte negli artt. 1175 e 1180 c.c. -  - che prevedono l'obbligo di consegnare la cosa in buono stato di manutenzione, ed esente da vizi tali da renderla pericolosa per la salute del conduttore o dei suoi familiari o dipendenti, e di mantenerla in stato da servire all'uso convenuto -: ne consegue che è responsabile del delitto di omicidio colposo il proprietario dell'immobile in relazione al decesso dell'inquilino, caduto da un balcone non adeguatamente protetto (Cass. IV, n. 35296/2013); tale responsabilità può sussistere anche in mancanza di un contratto di locazione in forma scritta, richiesta ad substantiam dall'art. 1 l. n. 431/1998, allorché sia provata l'instaurazione per fatti concludenti di un rapporto di comodato gratuito, anticipatore degli effetti della futura locazione (Cass. IV, n. 1508/2013); la predetta posizione di garanzia non si estende ai rischi originati dall'attività svolta dal conduttore e dalle modificazioni del bene da questi realizzate in corso di contratto (Cass. IV, n. 40259/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del locatore di un capannone industriale per il decesso, a causa di un incendio, di sette operai che dal soppalco, abusivamente realizzato dal conduttore e adibito a dormitorio, non erano riusciti a raggiungere l'uscita dell'immobile).

Con riferimento al decesso dell'inquilino di un immobile, conseguente alle letali esalazioni di una caldaia non a norma di legge, è stato configurato il reato di omicidio colposo nei confronti del comodatario dell'immobile, per il rileivo che egli è titolare, unitamente al proprietario dell'appartamento, di una posizione di garanzia nei confronti del conduttore, a condizione che siano accertati poteri di gestione e di ingerenza sull'immobile medesimo (Cass. IV, n. 43861/2016: la S.C. ha rigettato il ricorso dell'imputato, ritenendo che la stipula del contratto di locazione e l'incasso del canone, da parte del comodatario, costituissero prova dell'ingerenza di quest'ultimo nella gestione dell'immobile).

Anche il titolare di una copisteria ha l'obbligo di vigilare che all'interno di essa non siano effettuate abusivamente, per uso non personale e per trarne profitto, fotocopie di opere o parti di opere letterarie in misura superiore al 15%, potendo essere il reato di cui all'art. 68 l. n. 633/1941 (l.d.a.), come modificato dall'art. 2 l. n. 248/2000, commesso anche in forma omissiva impropria; ai fini dell'esonero dalla responsabilità penale a nulla rileva, pertanto, il fatto di non avere effettuato materialmente la fotocopiatura abusiva, essendo il titolare dell'esercizio garante anche delle condotte di dipendenti ed utenti (Cass. III, n. 35811/2012).

La direttrice di una casa di riposo per anziani è stata ritenuta responsabile per omessa predisposizione di misure idonee ad impedire l'accesso ad una scalinata, sulla quale rovinava un'ospite della struttura, procurandosi gravi lesioni e quindi la morte, giacché a lei spettava la gestione degli anziani degenti rispetto alle ordinarie esigenze di vita, e quindi anche il controllo sulle fonti di pericolo per la loro incolumità personale (Cass. IV, n. 11136/2015).

L'estetista professionale è titolare, ai sensi dell'art. 40, comma 2, di una posizione di garanzia a tutela della incolumità di coloro che si sottopongono al trattamento estetico, in virtù sia del principio del neminem laedere, sia della sua qualità di custode degli apparecchi elettromagnetici utilizzati per tale trattamento, il cui uso, anche unitamente a prodotti cosmetici, potrebbe dar luogo ad attività da qualificarsi pericolosa ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2050 c.c., sicché è astrattamente configurabile a suo carico la responsabilità per le lesioni causate dai trattamenti estetici praticati in violazione delle regole cautelari di settore (Cass. IV, n. 22835/2015).

Il costruttore risponde, in quanto titolare di una posizione di garanzia, per gli eventi dannosi causalmente ricollegabili ai difetti strutturali dei macchinari messi in commercio, a meno che l'utilizzatore abbia compiuto sulla macchina trasformazioni di natura ed entità tali da poter essere considerate causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento. (Cass. IV, n. 5541/2020: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità, a titolo di omicidio colposo, del costruttore di una macchina, il cui difetto di costruzione aveva cagionato, sei anni dopo la messa in commercio della macchina ed in assenza di cause alternative, il decesso di un lavoratore).

Il titolare di un'autofficina assume, in base al contratto di riparazione di un'autovettura, una posizione di garanzia limitata agli eventi collegati ai lavori necessari a rendere efficiente e sicura la circolazione del veicolo (Cass. IV, n. 46191/2019: la S.C. ha escluso la configurabilità di una posizione di garanzia in capo al titolare di un'autofficina per l'omessa esecuzione delle convenute opere di ripristino della funzionalità degli air bags, causa delle lesioni riportate dalla persona in un sinistro stradale, ritenendo che il volontario ritiro del veicolo, da parte della persona offesa, a fronte del ritardo nell'esecuzione dei lavori, con la consapevolezza della sua mancata riparazione, avesse determinato la cessazione dell'obbligo di protezione derivante dal contratto); un successivo intervento ha precisato che il titolare di un'autofficina che si impegni ad esaminare un veicolo al mero fine di individuare le riparazioni necessarie e redigere un preventivo di spesa è gravato da una posizione di garanzia di fonte contrattuale dalla quale deriva l'obbligo di informare il cliente, all'atto della consegna del preventivo e della contestuale restituzione del mezzo, sui rischi connessi alla circolazione derivanti dalle riparazioni da effettuare, conosciute o ignorate per colpa da parte dell'agente (Cass. IV, n. 79/2022).

Attività professionali pubbliche

Quanto alle posizioni di garanzia nascenti nel diritto pubblico, la casistica giurisprudenziale è particolarmente ricca.

Il controllore del traffico aereo, in quanto esercente un servizio pubblico in riferimento ai suoi compiti di istituto, è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del personale di bordo dell'aeromobile e dei passeggeri per garantire la sicurezza e la regolare condotta di volo in sede operativa; tale posizione di garanzia trova la sua fonte nel codice della navigazione e nella normativa internazionale (Annessi Icao: International Civil Aviation Organization: Cass. IV, n. 6820/2011).

Il primario del servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell'ospedale è titolare di una posizione di garanzia relativamente agli abusi sessuali ed ai maltrattamenti materialmente posti in essere da terzi in danno dei degenti, posto che la norma l'art. 40, comma 2, deve essere interpretato in termini solidaristici, alla luce degli artt. 2, 32, e 41, comma 2, della Cost.: « non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo perché: in base all'art. 2 Cost., esiste un dovere di rispetto della persona umana; in base all'art. 32 Cost., ricorre un diritto alla salute ed alla integrità psicofisica; l'art. 41, comma 2, Cost. vuole che l'iniziativa economica non si svolga in contrasto con l'utilità sociale. Basterebbe, dunque, tener presente detto principio «solidaristico», con precipuo richiamo agli artt. 2 e 32 Cost., per comprendere come il primario di ospedale abbia la responsabilità dei malati nel senso più ampio del termine. Se, quindi, egli ha fondato motivo di dubitare che qualcosa (o qualcuno) nel funzionamento dei reparti, crei disservizi che incidano in modo significativo sul benessere fisico-psichico dei degenti, è suo preciso dovere attivarsi per impedire il verificarsi di eventi lesivi che, se penalmente rilevanti, gli possono — appunto — essere ascritti ex art. 40, comma 2, c.p. » (Cass. fer., n. 38132/2011).

Il direttore della Asl, a norma dell'art. 3, d.lgs. n. 502/1992 (come modificato dal d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517), è investito di tutti i poteri di gestione e di controllo ed è, pertanto, costituito garante della complessiva correttezza dell'azione amministrativa riferibile all'ente che dirige: ne consegue che, ove abbia notizia che, nello svolgimento di questa, siano compiute attività illecite, incombe su di lui il dovere di inibirle ed impedire la commissione di reati, dei quali, nell'ipotesi di omesso esercizio dei poteri di accertamento e sanzione che gli sono attribuiti, può essere ritenuto penalmente responsabile ai sensi dell'art. 40, comma 2 (Cass. IV, n. 7597/2013).

Circolazione stradale

L'utente della strada è responsabile della sicurezza della circolazione ed assume, pertanto, una posizione di garanzia anche nei confronti di terze persone che vengono in contatto con lui, ogni qualvolta la sua condotta determini situazioni di pericolo eccedenti il normale rischio collegato alla circolazione stradale (Cass. IV, n. 14145/2015).

Quanto alla manutenzione, sussiste in capo all'Ente proprietario di una strada destinata ad uso pubblico una posizione di garanzia da cui deriva l'obbligo di vigilare affinchè quell'uso si svolga senza pericolo per gli utenti e che permane anche in caso di concessione di appalto per l'esecuzione di lavori di manutenzione stradale (Cass. IV, n. 17010/2016: in applicazione del principio, è stata annullata la sentenza che aveva escluso la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al direttore dei lavori dell'Ente proprietario della strada, in relazione ad un sinistro stradale verificatosi nel cantiere, limitandosi ad accertare che non risultavano sue ingerenze nell'organizzazione dei lavori né segnalazioni di pericolo o anomalie sul percorso).

Comandante della nave

Sono titolari di una posizione di garanzia anche il comandante, il direttore ed il primo ufficiale di macchina della nave in caso di incendio, a nulla rilevando che esso sia sorto accidentalmente o per causa di terzi, allorché i soggetti garanti abbiano colposamente omesso di attivarsi, così creando le condizioni per l'ulteriore propagarsi delle fiamme (Cass. IV, n. 31680/2010).

In particolare, il comandante della nave, in base all'ordinamento della navigazione marittima (artt. 186, 190, 321 codice navigazione), è titolare di un'ampia posizione di garanzia, in base alla quale egli ha l'obbligo di sovraintendere a tutte le funzioni che attengono alla salvaguardia delle persone imbarcate, ivi compresa l'attività svolta dal medico di bordo direttore del servizio sanitario (Cass. IV, n. 9897/2015), e della stessa nave, ivi comprese le operazioni di salvataggio dei passeggeri e di evacuazione (Cass. IV, n. 35585/2017). Quest'ultima decisione ha, inoltre, ritenuto, in tema di reato di abbandono della nave in pericolo (art. 1097 codice navigazione), che l'obbligo del comandante di abbandonare la nave per ultimo e di mantenere il comando nel pericolo, previsto dall'art. 303, comma 2, codice navigazione, gli imponga di restare a bordo dell'unità in pericolo per coordinare tutte le procedure finalizzate al salvataggio dei passeggeri e dell'equipaggio fino a quando l'esercizio del comando abbia una concreta utilità; in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva affermato la responsabilità del comandante della nave che si era allontanato dalla plancia dei comandi senza strumenti di comunicazione e aveva abbandonato definitivamente l'unità navale che stava progressivamente affondando, nonostante la segnalata presenza di passeggeri ancora a bordo.

Forze dell'ordine

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che la qualifica di ufficiale od agente di polizia giudiziaria grava, ai sensi dell'art. 40, comma 2, il soggetto di una particolare posizione di garanzia avente come contenuto l'obbligo giuridico di evitare l'agire illecito di terzi: si è, conseguentemente, ritenuto che il non impedire l'attività illegittima di sfruttamento ed esercizio della prostituzione ai gestori di una casa, nella quale una poliziotta si prostituiva a sua volta, costituisce concorso (aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale) per omissione nella predetta attività illecita, che la poliziotta aveva il dovere di impedire, e non il reato di omessa denuncia ex art. 361 (Cass. III, n. 3100/1996); si è anche precisato che il concorso omissivo nel reato ex art. 40, comma 2, si distingue dalla fattispecie di omessa denuncia di reato ex art. 361, in quanto, in quest'ultima ipotesi, il pubblico ufficiale si limita ad omettere o ritardare di denunciare un reato di cui sia venuto a conoscenza, mentre nella prima non pone in essere un comportamento doveroso, di carattere positivo che avrebbe potuto impedire la commissione di un reato (Cass. VI, n. 11295/2015). 

Si è anche ritenuto che commette concorso nel reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, l'agente della polizia di Stato che, frequentando regolarmente un locale notturno, anche consumando rapporti sessuali senza pagare alcun corrispettivo, non impedisca ai gestori del locale lo svolgimento dell'attività di meretricio, in quanto la qualifica di agente di polizia giudiziaria comporta l'assunzione di una particolare posizione di garanzia, rilevante ai sensi dell'art. 40, avente come contenuto l'obbligo giuridico di evitare l'agire illecito di terzi (Cass. III, n. 364/2020).

Diversamente, la dottrina nega l'esistenza, a carico degli appartenenti alle forze dell'Ordine, di un generalizzato obbligo penalmente rilevante di impedire le altrui condotte illecite, essenzialmente per il rilievo che « il dovere di impedimento dei reati gravanti sugli appartenenti alla forza pubblica ai sensi dell'art. 1 r.d. 18 giugno 1931 n. 773, ovvero sugli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 55 c.p.p., è troppo generico per poter soddisfare veramente a quelle caratteristiche di determinatezza e specialità che connotano il rapporto di protezione posto a fondamento della posizione di garanzia: insomma, non appare seriamente ipotizzabile una posizione di garanzia finalizzata a proteggere tutti i beni di tutti i cittadini »; pertanto, ferme restando le eventuali conseguenze disciplinari di una inerzia ingiustificata, il concorso per omissione non impeditiva nell'altrui agire illecito sarebbe configurabile soltanto « in presenza di particolari condizioni che conferiscano maggiore determinatezza e specificità agli obblighi di contenuto impeditivo: così, ad es., risponderebbe di concorso mediante omissione l'agente di scorta ad un uomo politico che rimanesse volutamente inattivo di fronte agli assassini del soggetto da proteggere » (Fiandaca-Musco 2014, 653). 

Il dirigente di un ufficio della Questura è titolare di una posizione di garanzia avente ad oggetto le condotte dei soggetti che prestano servizio presso l'ufficio (Cass. IV, n. 34385/2011), così come l'ufficiale del disciolto corpo degli Agenti di Custodia, con funzioni di responsabile e comandante del servizio di traduzione, può concorrere, per omesso impedimento, nei reati di abuso d'ufficio e di abuso d'autorità contro arrestati, materialmente commessi dall'agente di polizia penitenziaria ad esso subordinato per l'esecuzione del servizio, ancorché tra i due non sia configurabile un rapporto gerarchico (Cass. V, n. 37088/2013).

Genitori e figli

L'art. 2047 c.c. costituisce fonte legale di una posizione di garanzia, dalla quale deriva un obbligo di sorveglianza a carico del genitore di figlio minore infraquattordicenne, fondata sull'incapacità di intendere e di volere di quest'ultimo, e che prescinde dall'illiceità o meno della condotta tenuta dal soggetto garantito (Cass. IV, n. 43386/2010); diversamente, l'art. 2048 c.c. presuppone la capacità di intendere e di volere e, quindi, la concorrente responsabilità del soggetto sorvegliato.

La persona, cui sia stato affidato, anche di fatto, un minore, è investita di una posizione di garanzia, risponde del fatto da questi commesso, avendo l'obbligo di impedire gli eventi dannosi causati dal minore (Cass. IV, n. 26033/2009).

A norma dell'art. 147 c.c., il genitore esercente la potestà sui figli minori è costituito garante della vita e dell'incolumità psico-fisica e sessuale dei figli stessi da aggressioni altrui, e risponde, pertanto, ai sensi dell'art. 40, comma 2, degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge (o da terzi) su di essi. L'obbligo di che trattasi impone al genitore di effettuare un intervento idoneo ad impedire l'evento, ivi compresa eventualmente anche la denuncia del coniuge abusante, sempre però che non vi sia la possibilità di altri interventi idonei: « il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell'art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell'integrità psico — fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all'art. 40 cpv. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate: a) dalla conoscenza o conoscibilità dell'evento; b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell'azione doverosa incombente sul garante; c) dalla possibilità oggettiva di impedire l'evento » (Cass. III, n. 1369/2012).

In proposito, si è successivamente ritenuto che risponde del reato di violenza sessuale in danno del figlio minore, commesso da terzi, il genitore che, consapevole del fatto, non si attivi per impedirlo ed anzi consenta il protrarsi degli abusi (Cass. III, n. 40663/2016: nel caso esaminato, il genitore aveva tollerato che la figlia quindicenne subisse abusi da parte del futuro sposo, con loro convivente, nonostante il rifiuto e le proteste della minore).

Nell'ipotesi di emissioni sonore prodotte da un impianto stereo, attivato da un soggetto minorenne imputabile ad un volume tale da arrecare disturbo al riposo e alle occupazioni dei vicini, è stata configurata la responsabilità del genitore (in concorso con il figlio minore) per il reato di cui all'art. 659 c.p., per il rilievo che il primo è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del figlio minore ex art. 2048 c.c., operante a meno che non sia acquisita prova che egli si sia trovato in concreto nell'impossibilità di impedire il fatto, ad es., per non averne avuto conoscenza né conoscibilità (Cass. III, n. 53102/2016).

Analogo obbligo di protezione incombe anche sui terzi cui i minori siano affidati dai genitori; si è, tuttavia, ritenuto che non risponda del reato sessuale commesso da terzi in danno dei nipoti minori l'avo (nella specie, la nonna) che, consapevole di tale fatto, non si sia attivata per impedirlo, stante l'inesistenza a suo carico di un obbligo giuridico in tal senso (va tuttavia precisato che nella concreta fattispecie la S.C. ha ritenuto la responsabilità della nonna a titolo di concorso commissivo in ordine alle stesse condotte che in origine le erano state addebitate a titolo di concorso per omissione, osservando che già solo con la propria presenza reiterata sul palcoscenico delle nefandezze, aveva rafforzato l'azione degli autori materiali: Cass. III, n. 34900/2011).

Infortuni sul lavoro

Le tre figure principali cui sono riconducibili specifiche posizioni di garanzia nell'ambito della normativa antinfortunistica, sono il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto.

In via generale il datore di lavoro, in forza dell'art. 2087 c.c., è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei lavoratori, sicché — ove non ottemperi agli obblighi di tutela — può essergli addebitato, ai sensi dell'art. 40, comma 2, l'evento lesivo verificatosi in danno della vita o dell'incolumità del lavoratore (Cass. S.U. , n. 5/1999), e ciò anche quando quest'ultimo sia il figlio dello stesso datore (Cass. IV, n. 38118/2010).

Secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità,  il datore di lavoro è responsabile anche degli infortuni ascrivibili a imperizia, negligenza ed imprudenza del lavoratore, salvo i casi della assoluta abnormità del comportamento di quest'ultimo. Esiste infatti in capo al datore di lavoro una posizione di garanzia che gli impone di apprestare tutti gli accorgimenti, i comportamenti e le cautele necessari a garantire la massima protezione del bene protetto, la salute e l'incolumità del lavoratore appunto, posizione che esclude che il datore di lavoro possa fare affidamento sul diretto, autonomo, rispetto da parte del lavoratore delle norme precauzionali, essendo invece suo compito apprestare tutti i presidi a tutela della sicurezza dei luoghi, degli impianti o macchinari utilizzati e adoperarsi perché la concreta esecuzione del lavoro avvenga nel rispetto di quelle modalità  (Cass. IV, n. 5005/2011).

Con la precisazione che, all'interno delle organizzazioni complesse, non può attribuirsi, in via automatica, all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, dovendosi sempre considerare l'effettivo contesto organizzativo e le condizioni in cui detto organo ha dovuto operare (Cass. IV, n. 13858/2015). Peraltro, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, proprio al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile (Cass. IV, n. 4325/2016).

L'obbligo in questione, è posto a tutela di tutti i i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all'ambito imprenditoriale (Cass. VII, n. 11487/2016); incombe sul gestore del rischio connesso all'esistenza di un cantiere anche la prevenzione degli infortuni di soggetti a questo estranei, ancorché gli stessi tengano condotte imprudenti, purché non esorbitanti il tipo di rischio definito dalla norma cautelare violata (Cass. IV, n. 38200/2016: fattispecie nella quale è stata confermata la responsabilità dell'imputata, proprietaria di un appartamento nel quale erano in corso lavori di ristrutturazione, per le lesioni riportate da un vicino che, recatosi nell'immobile per eseguire un sopralluogo, era caduto in una botola priva di protezioni, precipitando nell'appartamento sottostante, nonostante anche egli avesse tenuto un comportamento imprudente percorrendo un tracciato diverso da quello indicatogli dall'imputata).

Il datore di lavoro deve vigilare per impedire l'instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. (Cass. IV, n. 10123/2020: nella fattispecie, relativa al decesso di un lavoratore colpito da una macchina escavatrice perché, in violazione dell'art. 12, comma 3, d.P.R. n. 164 del 1956, si trovava nel campo di azione di tale mezzo, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione del datore di lavoro che aveva escluso l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire la presenza dei lavoratori nello scavo, secondo la prassi instauratasi in contrasto con la legge).

Nel caso in cui la lavorazione comporti un numero elevato di azioni ripetitive, è obbligo del datore di lavoro, quale titolare della posizione di garanzia, prevenire il concretizzarsi di rischi riguardanti la verificazione anche di un "evento raro" la cui realizzazione non sia però ignota all'esperienza e alla conoscenza della scienza tecnica e, una volta individuato il rischio, predisporre le misure precauzionali e procedimentali, ove necessarie, per impedire l'evento (Cass. IV, n. 27186/2019: fattispecie in tema di omessa valutazione del rischio di esplosione verificatasi per l'omessa adozione di procedimento da seguire durante l'operazione, svolta quotidianamente e sempre con le medesime modalità, di pulitura di una pressa ad iniezione, necessitata, nel caso di specie, dalla formazione di un grumo di materiale plastico all'interno che aveva occluso sia un ugello, sia il foro di ingresso del materiale, evenienza, quest'ultima, rara, ma non straordinaria in quanto verificatasi, altrove, sul medesimo macchinario, almeno altre due volte negli ultimi trent'anni).

Il "medico competente" è un garante originario, titolare di una propria sfera di competenza, e il suo obbligo di collaborazione con il datore di lavoro comporta un'effettiva integrazione del sanitario nel contesto aziendale, con la conseguenza che egli non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un'attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale (Cass. IV, n. 21521/2021: in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza che aveva condannato il medico competente per le lesioni patite da un infermiere - che aveva contratto un'epatite in quanto accidentalmente punto dall'ago mentre stava effettuando un prelievo da un paziente affetto da HCV ed HBV -, che si è ritenuto essere state cagionate dalla mancata previsione dell'adozione di aghi protetti nel documento di valutazione rischi alla cui stesura l’imputato era stato chiamato dal datore di lavoro a collaborare).

Con riguardo alle attività lavorative che si svolgono su lucernari, tetti, coperture e simili, in base alle disposizioni contenute nell'art. 148, d.lgs. n. 81 del 2008, si è ritenuto che è configurabile, in capo al datore di lavoro, lo specifico obbligo di verifica in concreto della resistenza della superficie su cui debba insistere la lavorazione e, nel caso in cui nel corso di tale accertamento sorga un dubbio circa la capacità portante della superficie calpestabile, quello, ulteriore, di adottare le cautele atte a garantire l'incolumità dei lavoratori (Cass. IV, n. 12161/2020: nella specie, la S.C. ha escluso che l'esito positivo di un collaudo avvenuto molti anni prima potesse far venir meno l'obbligo del datore di lavoro di verificare in concreto la resistenza della copertura).

Premesso che, in considerazione del potere-dovere generale di vigilanza su di lui gravante, il datore di lavoro deve ritenersi responsabile in tutte le ipotesi in cui l'organizzazione aziendale non presenti complessità tali da sollevarlo del tutto dalle responsabilità connesse gestione del rischio, si è ritenuto che il soggetto titolare dell'impresa che noleggia macchinari non ha l'obbligo di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione che l'appaltatore di lavori deve adottare in favore dei lavoratori alle sue dipendenze, e pertanto non assume, nei confronti di questi ultimi, una posizione di garanzia in relazione ai rischi specifici connessi all'ambiente di lavoro nel quale essi sono chiamati ad operare, non esercitando alcuna attività produttiva (Cass. IV, n. 22717/2016); tuttavia, nell'ipotesi di noleggio “a caldo” di macchinari, anche il noleggiatore risponde delle conseguenze dannose derivanti dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche relative all'utilizzo del macchinario noleggiato (Cass. IV, n. 38071/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha ravvisato la concorrente responsabilità dell'imputato, titolare dell'impresa di noleggio, che, a conoscenza dei lavori da eseguire, aveva noleggiato all'appaltatore un mezzo inadeguato).

Successive decisioni hanno chiarito che l'obbligo del datore di lavoro di vigilare sull'esatta osservanza, da parte dei lavoratori, delle prescrizioni volte alla tutela della loro sicurezza, può ritenersi assolto soltanto in caso di predisposizione e attuazione di un sistema di controllo effettivo, adeguato al caso concreto, che tenga conto delle prassi elusive seguite dai lavoratori di cui il datore di lavoro sia a conoscenza (Cass. IV, n. 35858/2021), e che, per far ritenere adempiuti gli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro, non è sufficiente la messa a disposizione dei lavoratori di manuali di istruzione per l'uso dei macchinari, occorrendo, invece, che il datore di lavoro verifichi che le prescrizioni antinfortunistiche siano state effettivamente assimilate dai propri dipendenti e rappresenti loro le conseguenze pericolose dell'eventuale inosservanza delle istruzioni ricevute (Cass. IV, n. 35816/2021); è stata configurata la responsabilità civile del datore di lavoro per la condotta delittuosa – nella specie, atti sessuali – posta in essere dal conducente di autobus nei confronti dei passeggeri presenti a bordo durante la sosta al capolinea, sussistendo il nesso di occasionalità necessaria nello svolgimento dell'attività lavorativa, in quanto questa non comprende solo la guida, ma anche la vigilanza del mezzo di trasporto (Cass. III, n. 8968/2020).

L'esistenza — nell'organizzazione d'impresa — di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP; art. 2, lett. f), d.lgs. n. 81/2008), non esonera il datore di lavoro da responsabilità penale: infatti questi agisce in genere come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio (Cass. fer., n. 32357/2010).

La giurisprudenza (Cass. IV, n. 4075/2021) ha, da ultimo, precisato che il datore di lavoro ha l'obbligo di adottare idonee misure di sicurezza anche in relazione a rischi non specificamente contemplati dal documento di valutazione dei rischi – DVR -, così sopperendo all'omessa previsione anticipata: in applicazione del principio, è stata confermata la condanna del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore a seguito della precipitazione della cabina di un ascensore sulla quale stava lavorando, nonostante tale specifico pericolo di precipitazione non fosse specificamente contemplato nel DVR).

La figura del RSPP non è assimilabile a quella del delegato per la sicurezza, poiché quest'ultimo, destinatario di poteri e responsabilità originariamente ed istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro, deve essere formalmente individuato ed investito del suo ruolo con modalità rigorose (Cass. IV, n. 37861/2009); ciò tuttavia non significa che egli  sia esonerato da qualsiasi responsabilità poiché,  pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (Cass.  S.U., n. 38343/2014); si è successivamente precisato che il RSPP, in quanto consulente del datore di lavoro privo di potere decisionale, risponde dell'evento in concorso con il datore di lavoro solo se abbia commesso un errore tecnico nella valutazione dei rischi, dando un suggerimento sbagliato od omettendo di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate (Cass. IV, n. 49761/2019: nella specie, la S.C. ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza impugnata per avere fondato la responsabilità del RSPP su un omesso intervento in fase esecutiva, considerata estranea alle competenze consultive e intellettive dello stesso).

Successive decisioni hanno chiarito che il RSPP ha l'obbligo di elaborare, nel documento di valutazione dei rischi, i sistemi di controllo sull'attuazione delle misure precauzionali richieste dal tipo di attività lavorativa, ma non è tenuto a controllare che il datore di lavoro adempia alle misure indicate nel documento, sicché risponde per eventuali eventi lesivi, ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p. solo nel caso in cui abbia omesso l'elaborazione delle misure preventive e protettive o dei sistemi di controllo delle stesse (Cass. III, n. 37383/2021), e che egli può essere ritenuto responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione (Cass. IV, n. 24822/2021).

Invece, il responsabile del servizio manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all'effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro (Cass. IV, n. 23292/2011).

Tra i soggetti destinatari ex lege della posizione di garanzia, vi è anche il committente, soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia un'opera; questi può designare un responsabile dei lavori, con un incarico formalmente rilasciato, accompagnato dal conferimento di poteri decisori, gestionali e di spesa, che gli consenta di essere esonerato dalle responsabilità, sia pure entro i limiti dell'incarico medesimo, e ferma restando la sua piena responsabilità per la redazione del piano di sicurezza, del fascicolo di protezione dai rischi e per la vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento del suo incarico e sul controllo delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza (Cass. IV, n. 37738/2013).

È altresì titolare di una posizione di garanzia, possibile fonte di conseguenze giuridiche, il proprietario (committente) che affidi lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non verificata professionalità (Cass. IV, n. 35534/2015); tuttavia, in linea generale il committente appaltante è esonerato da responsabilità, a meno che l'evento non possa ritenersi causalmente collegato a un'omissione colposa, specificamente determinata, che risulti imputabile alla sfera di controllo dello stesso committente (Cass. IV, n. 6874/2014).

Va poi segnalata l'evoluzione giurisprudenziale formatasi intorno alla discussa figura del datore di lavoro di fatto: questi è il soggetto che, pur avendo formalmente appaltato a terzi le opere che avevano dato origine all'infortunio, sia intervenuto costantemente nella loro esecuzione, acquistando i materiali e le attrezzature, curando l'organizzazione del lavoro ed impartendo istruzioni e direttive (Cass. IV, n. 7954/2014), sicché deve ritenersi investito di una posizione di garanzia possibile fonte di conseguenze giuridiche. A tal riguardo si è anche precisato che se è vero in via generale che assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, ciò non può tuttavia valere a rendere efficace una delega priva dei requisiti di legge (Cass. IV, n. 22246/2014).

Allo stesso modo per il subappaltante, che è esonerato dagli obblighi di protezione solo nel caso in cui i lavori siano subappaltati per intero e rivestano una completa autonomia, tanto che non possa verificarsi alcuna sua ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatore (Cass. IV, n. 1490/2010; conforme, Cass. IV, n. 12440/2020: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna del titolare dell'impresa appaltatrice per il reato di omicidio colposo, con violazione degli obblighi previsti dall'art. 7, d.lgs. n. 626 del 1994, avendo egli omesso di cooperare con la ditta subappaltatrice, che operava nel cantiere dal medesimo diretto, per l'individuazione e valutazione dei rischi e per l'attuazione delle misure di prevenzione e di protezione, consentendo che l'esecuzione dei lavori avvenisse senza che fossero installate o utilizzate impalcature ed opere provvisionali idonee a prevenire la caduta dall'alto dei lavoratori).

Di particolare interesse è poi l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il datore di lavoro è costituito garante — all'interno della propria impresa — non solo nei confronti dei lavoratori, ma anche dei terzi che frequentano la struttura aziendale, e può quindi essere ritenuto responsabile di eventi lesivi causati con la propria condotta che abbia determinato l'insorgere di una fonte di pericolo (nella specie, l'amianto: Cass. IV, n. 38991/2010).

Quanto al preposto, egli è titolare di una posizione di garanzia che discende direttamente dall'art. 2, lett. e), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che lo definisce come « la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa ». Tuttavia, il preposto risponde degli infortuni occorsi ai lavoratori in violazione degli obblighi derivanti da detta posizione di garanzia purché sia titolare dei poteri necessari per impedire l'evento lesivo in concreto verificatosi, e non anche quando sia privo del potere decisionale e di spesa necessario anche per la formazione del lavoratore (Cass. IV, n. 12251/2014).

Sono riconducibili alla figura del preposto il sorvegliante di cava, che assume la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l'esecuzione, sicché egli risponde delle lesioni colposamente occorse ai dipendenti (Cass. IV, n. 24764/2013), ed, analogamente, il capocantiere (Cass. IV, n. 9491/2013), il quale ha l'obbligo di impedire prassi lavorative contra legem (Cass. IV, n. 4340/2016).

Il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Cass. IV, n. 26295/2018).

È stata, altresì, riconosciuta l'esistenza di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori:

- in capo al responsabile dei lavori edili, tenuto, in virtù dell'art. 6, comma 2, d.lgs. n. 494/1996 (come risultante a seguito delle modifiche apportate dall'art. 6 del d. lg. n. 528/1999), a svolgere una funzione di supercontrollo, verificando che i coordinatori adempiano agli obblighi su di essi gravanti (Cass. IV, n. 46839/2011);

- in capo al direttore d'albergo, titolare, in considerazione del ruolo dirigenziale ricoperto, della posizione di garanzia avente ad oggetto l'adozione delle iniziative necessarie ai fini dell'attuazione delle misure di sicurezza appropriate alla prevenzione di infortuni sul lavoro, e conseguentemente tenuto ad assicurarsi che esse siano costantemente applicate (Cass. IV, n. 22334/2011);

- in capo al coordinatore per l'esecuzione dei lavori, che ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell'opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza (Cass. IV, n. 32142/2011). Al riguardo, si è anche osservato che la funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore per l'esecuzione dei lavori ha ad oggetto esclusivamente il rischio c.d. generico, relativo alle fonti di pericolo riconducibili all'ambiente di lavoro, al modo in cui sono organizzate le attività, alle procedure lavorative ed alla convergenza in esso di più imprese; ne consegue che il coordinatore non risponde degli eventi riconducibili al c.d. rischio specifico, proprio dell'attività dell'impresa appaltatrice o del singolo lavoratore autonomo; inoltre, ai fini dell'individuazione del c.d. rischio generico, la cui prevenzione rientra nei compiti del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, occorre accertare se lo stesso si riferisce alla conformazione generale del cantiere, non essendo, a tal fine, dirimente il carattere di maggiore o minore difficoltà della singola lavorazione (Cass. IV, n. 3288/2017 che, in applicazione del principio, ha escluso che il rischio da caduta dall'alto sia ontologicamente riconducibile nel novero dei rischi generici, dovendosi accertare in concreto se lo stesso derivi dalla conformazione generale del cantiere ovvero sia riconducibile alla singola lavorazione oggetto del contratto di appalto, ed ha conseguentemente annullato parzialmente con rinvio la sentenza di condanna del coordinatore per la sicurezza dei lavori in relazione al decesso causato dalla precipitazione dal tetto di un dipendente dell'impresa appaltatrice dei lavori di rimozione delle lastre di copertura, rilevando che i giudici del merito non avevano accertato se si trattava di un rischio generico, relativo alla conformazione generale del cantiere, ovvero di un rischio specifico attinente alle attività oggetto del contratto di appalto);  si è successivamente precisato che il coordinatore per l' esecuzione dei lavori ha una funzione di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni, e non anche il puntuale controllo delle singole attività lavorative, che è demandato alle figure operative del datore di lavoro, del dirigente e del preposto (Cass. IV, n. 2293/2021);

- al direttore tecnico dell'impresa esecutrice dei lavori, tenuto a vigilare affinché l'opera sia eseguita in maniera conforme alla normativa vigente, e, quindi, garante della sicurezza dei fruitori della stessa anche una volta che questa sia ultimata, ove non siano stati rispettati i corretti canoni di costruzione (Cass. IV, n. 27574/2020).

Si è ritenuto che lo stesso lavoratore, per effetto di quanto previsto dall'art. 5, commi 1 e 2, lett. b), d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, è garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri colleghi di lavoro o di altre persone presenti, quando si trova nella condizione di intervenire per rimuovere le possibili cause di pericolo, in ragione di una posizione di maggiore esperienza (Cass. IV, n. 36452/2014); in tale ottica, si è affermato che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello «iperprotettivo», interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello «collaborativo» in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori stessi: pertanto il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore (Cass. IV, n. 8883/2016).

Nell'ambito dell'esecuzione di opere pubbliche, il legislatore, all'art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, d.lgs. n. 81/2008, espressamente prevede che “ per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo “ (Cass. IV, n. 35295/2013). I dirigenti comunali possono, dunque, essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, mentre al Sindaco residuano unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo (Cass. IV, n. 22341/2010).

Il direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nel caso di assenza dal cantiere, dovendo esercitare un'oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed adottare, ove necessario, le dovute precauzioni d'ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell'esecutore dei lavori, mediante la rinunzia all'incarico ricevuto (Cass. IV, n. 17106/2024: fattispecie in tema di disastro colposo, in riferimento alla quale la S.C. ha confermato l’affermazione di responsabilità del direttore dei lavori per aver consentito che la demolizione di un edificio fosse eseguita in assenza di un programma e con modalità divergenti dalle leges artis e dalle regole della buona tecnica nella materia in oggetto).

Internet

Si esclude che a carico dell'internet provider sia configurabile un generalizzato obbligo di controllo sui reati commessi dai gestori dei siti ospitati attraverso la diffusione on line di determinati contenuti, la cui violazione renderebbe il provider responsabile ex art. 40, comma 2, dei predetti reati; si è, in particolare, ritenuto che non sia configurabile il reato di trattamento illecito di dati personali a carico degli amministratori e dei responsabili di una società fornitrice di servizi di Internet hosting provider, che memorizza e rende accessibile a terzi un video contenente dati sensibili (nella specie, un disabile ingiuriato e schernito dai compagni in relazione alle sue condizioni), omettendo di informare l'utente che immette il file sul sito dell'obbligo di rispettare la legislazione sul trattamento dei dati personali, qualora il contenuto multimediale sia rimosso immediatamente dopo le segnalazioni di altrui utenti e la richiesta della polizia (Cass. III, n. 5107/2014), per il rilievo che l'attività svolta dal provider, anche secondo quanto dispone il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, consiste nell'offrire una piattaforma sulla quale i destinatari del servizio possono liberamente caricare i loro video senza che il gestore abbia alcun potere decisionale sui dati sensibili in essi inclusi, e, quindi, possa essere considerato titolare del trattamento degli stessi, finché non abbia l'effettiva conoscenza della loro illiceità, non incombendo a suo carico un obbligo generale di sorveglianza, di ricerca dei contenuti illeciti o di avvertimento della necessità di rispettare la disciplina sulla privacy.

Detto obbligo (la cui fonte viene generalmente individuata proprio nella natura dell'attività d'impresa esercitata dal provider, e nelle responsabilità che ne possono derivarne anche civilisticamente) è, al contrario, configurato nel caso in cui il provider abbia conoscenza della strumentalizzazione della propria struttura per la commissione di reati da parte di terzi. La giurisprudenza ha, ad esempio, ritenuto la responsabilità del gestore di un sito di attualità calcistiche a titolo di concorso nel reato di diffamazione (art. 595) commesso da un terzo, in danno del presidente della FIGC Tavecchio, attraverso la pubblicazione, sulla community del sito, di un articolo dai contenuti offensivi, valorizzando (non per l'omesso controllo preventivo sul contenuto dell'articolo, bensì) l'intervenuto accertamento che l'imputato aveva mantenuto consapevolmente l'articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse la propria, incontestata, efficacia diffamatoria dalla data in cui l'autore dell'articolo gli aveva inviato una e-mail che lo informava dei contenuti diffamatori diffusi sul sito, fino alla data successiva nella quale era stato eseguito il sequestro preventivo del sito (Cass. V, n. 54946/2016).

La Corte EDU (III, 9 marzo 2017, Pihl c. Svezia), con riguardo al caso di un commento anonimo, offensivo dell'onore del ricorrente (accusato di appartenere al partito nazista) pubblicato su un blog, i cui gestori erano stati ritenuti dalle autorità nazionali non responsabili nei confronti del ricorrente, non ha ravvisato violazioni della CEDU. Premesso che in casi simili occorre bilanciare il diritto al rispetto della vita privata con la libertà di espressione dei singoli e delle associazioni che gestiscono portali internet, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la decisione di non considerare i gestori responsabili del commento anonimo era corretta, perché il commento (pur offensivo dell'onore del ricorrente) non incitava all'odio o alla violenza, ed era stato pubblicato su un blog gestito da una piccola associazione priva di finalità di lucro, e senza molto seguito, rimanendo on line soltanto per nove giorni, e quindi risultando non accessibile al grande pubblico; inoltre, i gestori del blog non avrebbero potuto immaginare l'evenienza della pubblicazione di quel commento, del tutto estraneo ai contenuti normalmente presenti sul sito, ed avevano prontamente provveduto a rimuoverlo all'indomani della richiesta dell'interessato.

Soltanto apparentemente più rigorosa, quanto alla responsabilità penale del provider in tema di pornografia minorile, è la l. n. 269/1998, il cui art. 3 (che ha inserito nel codice penale l'art. 600-ter), nel costruire la fattispecie di distribuzione, divulgazione o pubblicizzazione (nonché, per effetto della l. n. 38/2006, diffusione), per via telematica, di materiale pedopornografico, come dolosa (art. 600-ter, comma 3), collega, a sua volta, la possibile responsabilità penale del provider (a titolo di concorso, ex art. 110, con il soggetto che ha diffuso nel proprio sito tali inqualificabili materiali) alla sua consapevolezza, con "previsione e volontà" (ex art. 43, comma 1), di agevolare l'altrui condotta illecita, lungi dal costituire il provider come garante; ancora una volta senza costituirli come garanti, la già citata l. n. 38/2006 ha introdotto a carico dei fornitori di servizi e di connettività una serie di oneri, sempre collegati, peraltro, alla acquisita conoscenza dell'esistenza di siti pedopornografici, e non quindi in funzione preventiva, di protezione e/o controllo.

La l. n. 128/2004 (di conversione, con modifiche, del d.l. n. 72/2004) ha introdotto una serie di misure destinate a rendere effettiva la tutela anche penale del diritto d'autore ed, in particolare, nuovi obblighi di vigilanza e controllo anche a carico dei providers, tenuti, a seguito di provvedimento dell'autorità giudiziaria:

(a) a comunicare alle autorità di polizia ogni informazione in proprio possesso che possa risultare utile ad individuare i gestori dei siti e gli autori delle condotte penalmente sanzionate (art. 1, comma 5, l. n. 128/2004);

(b) a porre in essere tutte le misure che si palesino utili ad impedire l'accesso ai siti che diffondano illecitamente i contenuti in oggetto, ovvero a rimuovere i contenuti segnalati (art. 1, comma 6, l. n. 128/2004).

L'inosservanza è sanzionata in via amministrativa (art. 1, comma 7, l. n. 128/2004): tali forme di collaborazione, "richieste ai fornitori di connettività e servizi, sono perfettamente in armonia con l'art. 17 del d.lgs. n. 70/2003, in materia di e-commerce, in quanto non determinano alcun obbligo di controllo e di vigilanza sulle informazioni trasmesse o memorizzate, né alcun obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite" (Relazione governativa al d.l. n. 72/2004, in  Guida al dir. 2004, 14, 20).   

L'introduzione dei predetti obblighi consente, tuttavia, di ipotizzare che il provider, se abbia ricevuto notizia dalle indicate Autorità della commissione di illeciti in rete, ed in particolare del reato di cui all'art. 171-ter l.d.a. (l. n. 633/1941), con richiesta delle connesse informazioni e/o attività, e ciononostante sia rimasto inadempiente, possa essere ritenuto responsabile delle condotte illecite ulteriormente commesse, in concorso (a titolo quantomeno di dolo eventuale) con l'autore, per averne consapevolmente agevolato la commissione, od avere accettato il rischio.

In tema di responsabilità del blogger per commenti diffamatori pubblicati da terzi si rinvia amplius sub art. 595.

Medici ed infermieri

La giurisprudenza ha affermato che il medico — in presenza di rilevabili e apprezzabili indici obiettivi significativi di un prevedibile (o anche solo possibile) atteggiamento dissimulatorio del paziente psicologicamente instabile in relazione alla confessione delle proprie patologie di altra natura — è responsabile del mancato o trascurato approfondimento delle relative condizioni cliniche generali, dovendo in tal caso ricondursi alla responsabilità colposa del sanitario la mancata assunzione di tutte le possibili e lecite iniziative volte a indurre il paziente a indagare in modo effettivo e controllato il proprio stato di salute, e quindi ad avviarlo alla cura dei propri stati patologici, con la conseguente ipotizzabilità della responsabilità dello stesso sanitario per le prevedibili conseguenze lesive rivenienti da dette patologie (Cass. IV, n. 1846/2016).

Non solo il medico tutore, ma anche lo specializzando è titolare di una posizione di garanzia in relazione alle attività personalmente compiute nell'osservanza delle direttive e sotto il controllo del medico tutore, che deve verificarne i risultati (Cass. IV, n. 6215/2009).

Il medico anestesista è tenuto a controllare, prima dell'inizio dell'intervento chirurgico, l'apparecchio di anestesia e le sue componenti, verificando che lo sfigmomanometro ed il pulsossimetro siano presenti in sala operatoria e pronti all’uso (Cass. IV, n. 7597/2014), monitorando costantemente le funzioni vitali del paziente e mantenendo una continua e scrupolosa osservanza clinica dello stesso, della sua connessione al circuito di anestesia, e dell'erogazione dell'ossigeno al rotametro (Cass. IV, n. 10152/2021: in applicazione del principio, è stata confermata la condanna, per il reato di omicidio colposo, dell'anestesista che, avendo omesso di controllare l'apparecchiatura, prima dell'induzione dell'anestesia e durante la stessa, sottovalutando l'allarme del saturimetro e omettendo di sottoporre a continua osservazione il paziente, verificandone i parametri vitali, non si era avveduto del distacco del tubo erogatore dell'ossigeno dalla presa a muro cui era conseguito il decesso del paziente per difetto di ventilazione).

Il medico chirurgo operatore è titolare di un'ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente, in virtù della quale egli è tenuto a concordare con l'anestesista il percorso anestesiologico da seguire — avute presenti anche le condizioni di salute del paziente e le possibili implicazioni operatorie legate ad esse — nonché a vigilare sulla presenza in sala operatoria del medesimo anestesista, deputato al controllo dei parametri vitali del paziente per tutta la durata dell'operazione (Cass. IV, n. 1832/2015).

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l'obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie - di apprestare specifiche cautele (Cass. IV, n. 33609/2016: fattispecie nella quale è stata confermata la sentenza che aveva affermato la responsabilità di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva, nei confronti della quale aveva omesso di assicurare una stretta e continua sorveglianza, sebbene le notizie anamnestiche e la diagnosi di accettazione avessero reso evidente il rischio suicidario).

Anche il medico del Pronto Soccorso è gravato da una posizione di garanzia, che comporta l'obbligo di rapido inquadramento diagnostico e di determinazione degli eventuali accertamenti indispensabili a confermare la diagnosi, ai fini della predisposizione del pronto intervento per la risoluzione della patologia, senza che lo stesso possa fare affidamento – nella indicazione di priorità degli interventi e degli accertamenti diagnostici – sull'ordine degli interventi dei medici del Pronto Soccorso attribuito dalla procedura del "triage", di competenza infermieristica (Cass. IV, n. 12144/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato l'affermazione di responsabilità, per il reato di omicidio colposo, di un medico del pronto soccorso che - nel trattamento di una paziente vittima di violenza sessuale e con difficoltà respiratorie, alla quale in sede di "triage" era stato attribuito codice rosso - nel prescrivere una radiografia toracica ed una consulenza ginecologica, aveva omesso di segnalare, confidando nell'urgenza di entrambi gli esami derivante da detto codice, la priorità del primo, sì da non consentire di diagnosticare con immediatezza la patologia pneumologica che avrebbe poi determinato il decesso).

In tema di colpa medica, nel caso di intervento operatorio svolto in equipe, il chirurgo è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata all'ambito strettamente chirurgico, ma si estende al successivo decorso post-operatorio, con la conseguenza che è ravvisabile la sua responsabilità ove, terminato l'intervento, si sia allontanato senza avere affidato il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti, in grado di seguire il decorso post operatorio (Cass. IV n. 22007/2018: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva assolto dal reato di omicidio colposo due chirurghi che erano intervenuti in ausilio dei colleghi meno esperti sostituendosi agli stessi nella conduzione dell'intervento, e si erano poi allontanati, con successivo decesso della paziente per non essere stata trasferita in una struttura provvista di rianimazione).

In seno all’equipe, il medico in posizione apicale risponde dell'evento lesivo conseguente alla condotta colposa del medico di livello funzionale inferiore a cui abbia trasferito la cura del singolo paziente, ove non abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo, volti a prevenire ogni possibile danno ai pazienti (Cass. IV, n. 10152/2021: in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità penale del primario di una divisione di anestesia di un ospedale per l'omicidio colposo di un paziente, deceduto in conseguenza di un difetto di ventilazione durante un intervento chirurgico, per non avere vietato l'utilizzo per l'anestesia di un apparecchio obsoleto e privo di allarme acustico in caso di interruzione nell'erogazione di ossigeno, da parte di un anestesista inesperto, in quanto privo di specializzazione e di limitatissima esperienza).

Secondo un orientamento, non è configurabile una responsabilità professionale dell'aiuto e dell'assistente medico sulla base della sola partecipazione all'intervento chirurgico effettuato direttamente dal primario, non essendo essi obbligati a dissociarsi dall'attività materialmente compiuta dal primo operatore né a manifestare il proprio dissenso «in tempo reale», abbandonando la sala operatoria (Cass., IV, n. 5684/2014); ma si è successivamente ritenuto, in senso contrario, che è destinatario degli obblighi di protezione nei confronti del paziente il sanitario che, pur in mancanza di una formale investitura, abbia partecipato in fatto all'atto chirurgico, esercitando le funzioni dei garanti tipici ed assumendo i relativi rischi (Cass. IV, n. 28316/2020: fattispecie relativa al decesso di un paziente a seguito di toracentesi, in relazione alla quale è stata confermata la sentenza di condanna del medico pneumologo che aveva partecipato all'intervento, pur limitandosi a sostenere il paziente per fargli assumere la posizione più idonea, ma pur sempre condividendo le modalità operative dei chirurghi che avevano deciso di intervenire senza una guida ecografica).

Successivamente, si è osservato che, in caso di lavoro in  equipe  e, più in generale, di  cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli ed i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui ( Cass. IV, n. 49774/2019 : fattispecie in cui la  S.C.  ha escluso la responsabilità del chirurgo che, in mancanza di un previo accertamento diagnostico che escludesse la possibilità di una tubercolosi, aveva eseguito, su decisione concordata dal primario pediatra e dal primario chirurgo, un intervento su un minore, poi deceduto a causa di sopravvenuta infezione polmonare).

Con riguardo al personale ausiliario, si ritiene che l'infermiere, come tutti gli operatori di una struttura sanitaria, sia gravato da una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute deve tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità, per l'intero tempo del turno di lavoro (Cass. IV, n. 39256/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna, per il reato di omicidio colposo, di un'infermiera in servizio presso una residenza assistita, che aveva omesso di eseguire ed attivare le dovute ricerche di una paziente disabile, notoriamente dedita all'uso di sostanze alcoliche, che, non rientrata in camera da letto dopo cena, era morta nella notte per assideramento, dopo essere caduta a terra nel tragitto tra un padiglione e l'altro della struttura); nel medesimo senso, si è ritenuto che l'infermiere specializzato sia  titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, avendo egli il dovere di attendere all'attività di somministrazione dei farmaci in modo non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico orientato in termini critici, al fine non di sindacare l'operato del medico bensì per richiamarne l'attenzione su errori percepiti ovvero per condividere gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita (Cass. IV, n. 2192/2015), e, successivamente, che l’infermiere, in quanto titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, sia gravato da un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche (Cass. IV, n. 21449/2022); tra i compiti dell'infermiere  rientra  anche « quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverati in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico » (Cass. IV, n. 24573/2011).

Anche con riguardo alle posizioni di garanzia esistenti nel settore medico vale il principio che l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi (Cass. IV, n. 17491/2019: fattispecie in tema di lesioni conseguenti alla mancata tempestiva esecuzione di parto cesareo, nella quale la S.C. – in applicazione del principio - ha annullato la sentenza di condanna del medico ostetrico che, allontanatosi dal nosocomio in una situazione che si presentava non patologica, e permanendo in turno di reperibilità, era stato informato dal collega di turno ospedaliero delle difficoltà insorte nel corso del parto naturale, avendo i giudici di merito omesso di valutare se l'imputata fosse concretamente in grado di influenzare il corso degli eventi).

Segue. Medici sportivi di società di calcio

Premesso che la posizione di garanzia può derivare, oltre che da una fonte normativa, sia di diritto pubblico che di natura privatistica, anche da una situazione di fatto, cioè dall'esercizio delle funzioni tipiche del garante, mediante un comportamento concludente consistente nella presa in carico del bene protetto, è stata affermata la sussistenza della posizione di garanzia in capo ai medici sportivi di due squadre di calcio, estranei all'apparato di soccorso presente sul campo e tuttavia intervenuti durante una partita in soccorso di un giocatore colpito da malore, in ragione della materiale instaurazione della relazione terapeutica consistita nel prestare i primi soccorsi ripristinando la pervietà delle vie aeree (Cass. IV, n. 24372/2019: la decisione ha anche affermato che gli obblighi impeditivi e di controllo che derivano dalla predetta posizione di garanzia non vengono meno per il solo fatto che vi siano altri soggetti gravati da autonomi e concorrenti analoghi obblighi, e permangono fino a quando non si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in applicazione del principio, si è ritenuto che gli obblighi impeditivi gravanti sui medici sportivi di due squadre di calcio, intervenuti durante una partita in soccorso di un giocatore colpito da malore, non fossero venuti meno in ragione della presenza in campo del medico responsabile dell'unità mobile di pronto soccorso che in base a una convenzione aveva l'obbligo di prestare assistenza ai giocatori e agli spettatori, e del suo successivo intervento, perdurando, invece, sino al momento del caricamento del calciatore sull'ambulanza).

Precedente attività posta in essere dall'agente ed attività pericolose consentite

La più recente dottrina, a differenza di quella più risalente, non considera più fonte dell'obbligo giuridico di impedire l'evento la precedente attività pericolosa: si osserva infatti che in tal caso ci si trova in presenza di un normale obbligo precauzionale, conseguente ad una condotta « positiva » pericolosa (Fiandaca-Musco, PG, 608 s.).

La giurisprudenza ritiene, invece, che l'obbligo giuridico di adoperare cautele volte ad impedire eventi dannosi può trovare la sua fonte anche nella precedente attività propria dell'obbligato, nei casi in cui essa generi una situazione di pericolo. In proposito, si è affermato che il titolare dell'azienda che, con la propria condotta, abbia determinato nell'esecuzione abusiva di lavori l'insorgere di una fonte di pericolo, è titolare di una posizione di garanzia che gli impone di fornire precise direttive al personale dipendente per avvertire i terzi dell'esistenza di situazioni di rischio (Cass. IV, n. 27591/2013: fattispecie nella quale è stata affermata la responsabilità del proprietario di un vivaio per il decesso del conducente di un autocarro, che, a causa dell'innalzamento del piano stradale realizzato senza rispettare le distanze, rimaneva folgorato per il contatto delle piante trasportate con la linea elettrica); si è, altresì, precisato che, in tema di colpa omissiva, l'obbligo giuridico di attivarsi, gravante sull'agente, può trovare origine anche nell'esercizio di attività pericolose, dovendosi intendere come tali non solo quelle così identificate dalle leggi di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, bensì ogni attività che, per sua stessa natura o per le caratteristiche di esercizio, comporti una rilevante possibilità del verificarsi di un danno (Cass. IV, n. 26239/2013. In fattispecie relativa a disastro aviatorio).

Nelle attività pericolose consentite, la soglia della prevedibilità degli eventi dannosi è più alta di quanto non lo sia rispetto allo svolgimento di attività comuni, e, di conseguenza, maggiori devono essere la diligenza e la perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre quanto più possibile il rischio consentito; ne consegue che l'impossibilità di eliminazione del pericolo non può comportare una attenuazione dell'obbligo di garanzia, ma deve tradursi in un suo rafforzamento (Cass. IV, n. 4999/2014: fattispecie relativa al decesso per annegamento di un minore nel corso di una lezione di nuoto, nella quale la S.C. ha precisato che il gestore delle attività sportive, ove non sia in condizioni di adempiere all'obbligo di sicurezza di cui è titolare, è tenuto ad astenersi dall'attività medesima).

Scuola

Secondo la giurisprudenza, in capo al dirigente scolastico, in materia di reati colposi omissivi, è ravvisabile una responsabilità di natura contrattuale nei confronti degli allievi, che si caratterizza per l'esistenza di un obbligo di vigilanza e protezione connesso alla funzione educativa e all'affidamento dei minori all'istituto, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo (Cass. IV, n. 2536/2015). La medesima posizione di garanzia sussiste in capo a tutti gli addetti al servizio scolastico nei confronti dei soggetti affidati alla scuola, che dipende sia dall'età e dal grado di maturazione raggiunto dagli alunni, oltre che dalle circostanze del caso concreto e dagli specifici compiti di ciascun addetto, e si caratterizza in generale per l'esistenza di un obbligo di vigilanza nei confronti degli alunni, per tutto il tempo in cui questi sono loro affidati, e quindi fino al momento del subentro, almeno potenziale, della vigilanza dei genitori o di chi per loro, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo (Cass. IV, n. 17574/2010).

Sport

Nell'ambito dell'attività sportiva, l'elaborazione giurisprudenziale ha individuato una serie di posizioni di garanzia, generalmente connesse al ruolo apicale rivestito dal soggetto e/o ai poteri di controllo sulla fonte di pericolo per i terzi. Così, il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle attività e discipline sportive, è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40, comma 2, ed è tenuto, anche per il disposto di cui all'art. 2051 c.c., a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva, sicché ricorre il nesso di causalità tra l'omessa adozione di dette cautele e l'evento lesivo occorso ad un utente dell'impianto sportivo (Cass. IV, n. 22037/2015).

Sono, altresì, titolari di posizione di garanzia:

- il gestore e il responsabile della sicurezza di un impianto sciistico, in forza del contratto concluso con lo sciatore, il quale utilizza l'impianto e le piste dallo stesso servite, e non dalla presunta intrinseca pericolosità dell'attività svolta (art. 2050 c.c.), atteso che pericolosa è in realtà la pratica sportiva dello sci (Cass. IV, n. 44796/2015); conforme, Cass. III, n. 50427/2019, per la quale, in particolare, sul gestore della pista di sci incombe, exart. 3 l. n. 363 del 2003, <<l'obbligo, non delegabile a terzi, di provvedere all'iniziale valutazione di tutti i rischi connessi all'esercizio della pista medesima con il massimo grado di specificità, essendo estendibile a tale materia, per identità di ratio, la regola espressa in tema di sicurezza sul lavoro dall'art. 17, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008>>);      conforme anche Cass. IV, n. 8110/2019, con la precisazione che la posizione di garanzia che assume il gestore di un impianto sciistico in ordine all'incolumità degli sciatori prevede l'obbligo di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche e protezioni, o, in alternativa, rimuovere possibili fonti di rischio, in presenza di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini l'elevata probabilità di un'uscita di pista dello sciatore;

- il Presidente di una società sportiva, nei confronti dei tesserati ed in relazione alla pratica sportiva (Cass. IV, n. 18981/2009);

- il gestore di una scuola di volo, che abbia trascurato la manutenzione del velivolo, per l'obbligo di garanzia assunto contrattualmente nei confronti degli affidatari del mezzo (Cass. IV, n. 21202/2012);

- il conducente di una motoslitta, in considerazione delle condizioni particolari in cui il mezzo è destinato ad operare (Cass. IV, n. 25654/2013);

- il bagnino che non si sia posizionato in maniera adeguata da tenere sotto controllo l'area sottoposta alla sua vigilanza (Cass. IV, n. 24165/2013; conforme, Cass. IV, n. 13848/2020, secondo la quale il bagnino addetto ad un impianto di piscina è titolare di una posizione di garanzia in forza della quale egli è tenuto a sorvegliare gli utenti della stessa per garantirne l'incolumità fisica);

- il gestore di una piscina, che è tenuto a garantire l'incolumità fisica degli utenti mediante la presenza di un assistente bagnante a bordo piscina, che non può essere trasferita, in via convenzionale, sulle persone a protezione delle quali essa è prevista (Cass. IV, n. 4890/2020: in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza che, in ragione dell'omessa predisposizione di un servizio di assistenza bagnanti, aveva riconosciuto la responsabilità dei componenti del consiglio direttivo di un'associazione sportiva dilettantistica che gestiva in forma imprenditoriale una piscina aperta al pubblico per l'omicidio colposo di una bambina, deceduta per annegamento dopo essere sfuggita al controllo del padre, consapevole che la figlia non sapeva nuotare, ritenendo irrilevante l'impegno assunto dal genitore di sorvegliare la minore);

- la guida di un gruppo di escursionisti subacquei, la quale è tenuta: a) a verificare la presenza nei partecipanti all'escursione dei brevetti attestanti i livelli di esperienza e di capacità acquisiti e la compatibilità degli stessi con le caratteristiche ed i livelli di rischio dell'escursione programmata; b) a scegliere il percorso più adeguato per raggiungere la meta concordata, in rapporto, non solo, alle capacità tecniche degli escursionisti ma, anche, alle effettive condizioni del mare ed ambientali, con la conseguente necessità di modificare la programmazione iniziale ove esse subiscano dei mutamenti (Cass. IV, n. 27964/2014); in argomento, cfr. anche Cass. IV, n. 20378/2021, per la quale, in caso di escursione subacquea di gruppo, di natura ricreativa, ai fini della configurabilità di una posizione di garanzia a carico dei componenti del gruppo con riferimento alle possibili situazioni di emergenza che si possono venire a determinare durante l'immersione, è necessaria l'esplicita o tacita assunzione del compito di provvedere alle operazioni di soccorso del compagno in condizioni di bisogno, da accertarsi alla luce di tutte le evidenze disponibili, ed, in particolare, in riferimento alle prassi correnti tra subacquei impegnati in immersioni amatoriali e alle specifiche relazioni intercorrenti tra i componenti del gruppo;

- l'organizzatore di corse automobilistiche, tenuto a porre in essere tutte le cautele possibili onde evitare incidenti di gara, non potendo, in difetto, invocare il carattere intrinsecamente pericoloso della predetta attività, che soltanto con riguardo alle condotte dei partecipanti può dirsi non ispirata al comune concetto di prudenza (Cass. IV, n. 27304/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha ravvisato la responsabilità dell'organizzatore di un "rally" nel corso del quale un pilota era deceduto urtando contro una quercia posta sul margine della carreggiata, non adeguatamente segnalata e delimitata).

Violazioni edilizie

Per costante giurisprudenza la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene, né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40, comma 2, ma va dedotta da indizi ulteriori rispetto all'interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato: pertanto la stabile residenza dell'imputato in luogo distante da quello interessato dall'opera abusiva, l'assenza durante il periodo della costruzione di cui si erano occupati i genitori, e l'indisponibilità di risorse economiche compatibili con l'attività edilizia, sono tutti elementi che depongono per l'estraneità all'illecito del proprietario non committente (Cass. III, n. 44202/2013).

Il direttore dei lavori è garante, nei confronti del Comune, dell'osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all'esecuzione dei lavori (Cass. III, n. 34602/2010), così come il dirigente del settore urbanistica del Comune, il quale è titolare di una posizione di garanzia in relazione alla esecuzione di opere abusive nel territorio comunale: si argomenta che l'art. 27 d.P.R. n. 380/2001 pone a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (Cass. III, n. 9281/2011). Ne consegue che il Sindaco non ha alcuna responsabilità penale per non aver impedito lo svolgimento di attività abusive incidenti sull'assetto urbanistico e paesaggistico del territorio comunale, dal momento che non è titolare di un generale dovere di vigilanza sulle attività in questione (Cass. III, n. 36571/2011).

Per quanto riguarda l'edilizia in zone sismiche, ed in particolare il rispetto della disciplina dettata per le costruzioni in zone sismiche, si ritiene che sia obbligo del progettista e del direttore dei lavori verificare preliminarmente se vi siano stati pregressi interventi sull'immobile che ne abbiano già significativamente alterato gli originari equilibri, se del caso proponendo o effettuando i necessari lavori di adeguamento [Cass. III, n. 6604/2017: fattispecie in cui è stata configurata la penale responsabilità per i reati previsti dagli artt. 589 e 590 c.p. di progettisti e direttori dei lavori che, pur formalmente limitando i loro interventi ad attività di manutenzione non direttamente incidenti sulle strutture portanti di un edificio, avevano complessivamente contribuito all'incremento dei carichi ponderali gravanti sullo stesso per un valore superiore al limite percentuale (20%) ammesso ai sensi della lett. b) § C.9.1.1 dell'allegato al d.m. Ministero del lavori pubblici del 10 gennaio 1996, senza effettuare nessuna opera di adeguamento, in tal maniera determinando un'incidenza causale aggravante delle conseguenze del crollo di un edificio a causa del terremoto dell'Aquila del 2009].

Le posizioni di garanzia nell’ambito della strutture soggettivamente complesse

In materia antinfortunistica

La giurisprudenza (Cass. IV, n. 24136/2016) ritiene che, ai fini dell’individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio.

Sono, comunque, generalmente riconducibili:

— alla sfera di responsabilità del preposto, l’infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa;

— a quella del dirigente, il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo.

In particolare, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio: ne consegue che è riconducibile alla sfera gestionale del direttore di stabilimento, con delega in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, la sottoposizione degli impianti a regolare manutenzione, al fine di rilevare ed eliminare eventuali difetti pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (Cass. IV, n. 18409/2018: fattispecie in cui al S.C. ha confermato la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del direttore di stabilimento per l'infortunio occorso a un lavoratore che aveva compiuto una pericolosa operazione per supplire a un difetto di funzionamento di un macchinario, di cui il direttore di stabilimento non era a conoscenza, per non avere predisposto e verificato che il servizio di manutenzione ponesse in essere i necessari controlli e lo tenesse costantemente informato sui loro esiti).

Possono assumere posizioni di garanzia anche i componenti del comitato esecutivo (c.d. "board"), ove sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell'ambito operativo della società, con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro (Cass. IV, n. 55005/2017: fattispecie in cui la S.C. ha confermato l’assoluzione dei componenti del comitato esecutivo di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, sia perché il comitato non si era mai riunito, sia perché attribuzioni e poteri erano stati "di fatto, in modo sostanziale" delegati all'amministratore delegato e a determinati soggetti non componenti del comitato esecutivo né membri del consiglio d'amministrazione).

In materia sanitaria

Nell'ambito delle strutture sanitarie complesse, i l direttore sanitario ha «l'obbligo di pretendere il rigoroso rispetto delle sfere di competenza professionale dei singoli operatori che agiscono nel presidio, con particolare riguardo agli atti di esclusiva competenza del medico, e di adottare provvedimenti, in caso di inosservanza, onde ricondurre l'espletamento dell'attività professionale all'alveo della legalità»: egli può, quindi, essere chiamato a rispondere per non avere impedito ad uno dei soggetti la cui attività è tenuto a vigilare, l'esercizio abusivo della professione medica, ex artt. 40, comma 2, e 348 (Cass. VI, n. 117/2013). Si è precisato che il direttore sanitario di una casa di cura privata è titolare, in virtù dei poteri di gestione e organizzazione della struttura a lui spettanti, di una posizione di garanzia giuridicamente rilevante, tale da consentire di configurare una responsabilità colposa per fatto omissivo per mancata o inadeguata organizzazione (c.d. "colpa da organizzazione"), derivante dall'inottemperanza all'obbligo di adottare le cautele organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati, sempre che questi non siano ascrivibili esclusivamente al medico e/o ad altri operatori della struttura (Cass. IV, n. 32477/2019: fattispecie nella quale è stata riconosciuta la responsabilità del direttore sanitario di una casa di cura per il decesso di una paziente a seguito di parto gemellare, in virtù della riconosciuta carente predisposizione di scorte di sangue adeguate, mancanza di fissazione di protocolli e modalità con cui contattare ospedali pubblici o strutture più idonee in situazioni emergenziali).

Anche il medico che, all'interno di una struttura sanitaria complessa come il reparto sanitario di un carcere, riveste funzioni apicali, è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle terapie praticate ai pazienti (Cass. IV, n. 1866/2008).

Il personale di pronto soccorso, in virtù della sua posizione di garanzia a tutela della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento, è tenuto anche a verificare che la presenza di medici ed infermieri sia adeguata all'affluenza dei pazienti in pronto soccorso; per tale ragione, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, detto personale ha l'obbligo di allertare i sanitari in servizio in altri reparti dell'ospedale, al fine di consentirne l'intervento in supporto (Cass. IV, n. 11601/2015).

Argomento particolarmente dibattuto è se la l'instaurazione della c.d. relazione terapeutica comporti sempre e comunque una posizione di garanzia a carico del medico. In senso affermativo, si è affermato che, quando un paziente si presenti presso una struttura medica chiedendo l'erogazione di una prestazione professionale, il medico, in virtù del «contatto sociale», assume una posizione di garanzia a tutela della sua salute, in virtù della quale, anche se non può erogare la prestazione richiesta o comunque necessaria, deve fare tutto quanto è nelle sue possibilità e capacità per la salvaguardia dell'integrità del paziente (Cass. IV, n. 13547/2012). Si è anche ritenuto che il medico, il quale all'interno di una struttura sanitaria ospedaliera venga chiamato per un consulto specialistico, ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto, e non può esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione (Cass. IV, n. 3365/2010). Il principio è stato successivamente ribadito: l'instaurazione del rapporto terapeutico tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita (Cass. IV, n. 15178/2018: fattispecie in cui l'imputato, medico neurologo, aveva omesso di prescrivere necessari esami di base che avrebbero consentito l'esatta diagnosi di una cardiopatia aritmogena maligna che aveva causato la morte della paziente). In senso contrario, si è, però, ritenuto che il medico, a cui il paziente sia inviato dal Pronto Soccorso a titolo di consulto, ove non riscontri sotto il profilo di sua stretta competenza alcuna patologia di rilevante gravità e si limiti a richiedere un'altra consulenza, la quale indichi gli esami idonei a diagnosticare la patologia in atto, non assume - per il solo fatto di avere richiesto l'ulteriore consulenza - la posizione di garanzia, che resta a carico dei medici del pronto soccorso (Cass. IV, n. 24068/2018); nel medesimo senso, si è ulteriormente ritenuto che, ai fini dell'affermazione di responsabilità penale dei medici operanti - non in posizione apicale - all'interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda (Cass. IV, n. 53349/2018: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto non configurabile una posizione di garanzia in capo al medico urologo di turno il quale, nell'ambito di un'organizzazione sanitaria in cui era previsto che la valutazione degli esiti degli esami da detto medico prescritti non spettasse allo stesso bensì al successivo medico applicato, aveva disposto ulteriori accertamenti omettendo di informarsi sull'esito degli stessi).

Nei gruppi di imprese

In tema di responsabilità per reati colposi d'evento commessi nell'ambito dell'attività di una società facente parte di un gruppo di imprese, in relazione all'evento che costituisce concretizzazione del rischio connesso all'attività esercitata direttamente da una società controllata, la giurisprudenza ha ritenuto configurabile la responsabilità dell'amministratore di diritto della società capogruppo, per l'esercizio colposo dei poteri di direzione e coordinamento, ove tali poteri, sulla base del reale assetto dei rapporti correnti tra la società capogruppo e le controllate, per il loro concreto contenuto, siano in grado di incidere sulla gestione del rischio affidata sul piano operativo alle società controllate (Cass. IV, n. 32899/2021: in applicazione del principio, è stata confermata la dichiarazione di responsabilità dell'amministratore di diritto della società capogruppo Ferrovie dello Stato s.p.a., holding non meramente finanziaria, per le morti conseguite al deragliamento di un treno merci durante l'attraversamento della stazione di Viareggio, integranti concretizzazione del rischio connesso all'attività imprenditoriale svolta dalle controllate società deputate alla gestione della rete ferroviaria e all'esercizio dell'attività di trasporto ferroviario, in ragione delle significative competenze nella gestione del rischio per la sicurezza della circolazione ferroviaria, riconosciute in capo alla capogruppo in considerazione del particolare assetto del gruppo).

La delega di funzioni nell’ambito dell’impresa

 

In materia antinfortunistica

L'art. 16 d.lgs. n. 81/2008 ha, per la prima volta, disciplinato espressamente le condizioni ed i limiti di ammissibilità della delega di funzioni da parte del datore di lavoro (comunque inammissibile, ai sensi dell'art. 17 d.lg. n. 81/2008, cit., con riguardo alla valutazione dei rischi ed alla elaborazione del documento previsto dall'art. 28, oltre che alla designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi).

Nella predetta materia, la delega è ora, per legge, ammissibile a condizione che (Beltrani, 61 ss.):

a) risulti da atto scritto con data certa;

b) il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

c) al delegato vengano attribuiti tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;

d) attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;

e) sia accettata dal delegato per iscritto.

Inoltre, ai sensi del comma 3-bis dell'art. 16 d.lgs. n. 81/2008 cit. « il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il datore di lavoro delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni di cui ai commi 1 e 2. La delega di funzioni di cui al primo periodo non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente comma non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate ».

Possano essere trasferiti gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 d.lgs. n. 81/2008(Cass. S.U., n. 38343/2014; Cass. IV, n. 4350/2016):

- riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale;

- sia espresso ed effettivo, non equivoco;

- investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa.

La delega (cui deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità) non esonera, comunque, del tutto il datore di lavoro dalle proprie responsabilità: l'art. 16 d.lgs. n. 81/2008 cit. è stato successivamente modificato dall'art. 12 d.lgs. n. 106/2009, sicché, oggi la delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento dal parte del delegato delle funzioni trasferite. L'obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all'art. 30, comma 4 d.lgs. cit. Ne consegue che anche in caso di conferimento di delega, resta fermo l'obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega stessa, secondo quanto la legge prescrive (Cass. IV, n. 39158/2013: fattispecie nella quale la S.C. confermato la condanna per omicidio colposo dell'amministratore di una società, che si era difeso evidenziando di aver trasferito poteri di vigilanza ad altri soggetti, senza essere in grado di dimostrare il rilascio di una specifica delega di funzioni ad essi); resta escluso che l'imprenditore possa delegare i compiti inerenti all'adozione ed all'osservanza delle misure di sicurezza al lavoratore beneficiario della tutela (Cass. IV, n. 14615/2014). Si è anche precisato che « occorre tenere distinta la tematica della delega di funzioni prevenzionistiche, la quale richiede per la sua efficacia — in primo luogo nei confronti del delegante — la ricorrenza dei requisiti esplicitamente elencati dall'art. 16 d.lgs. n. 81/2008 (tra i quali va rinvenuto anche quello della specificità dell'oggetto) da quella evocata dal «principio di effettività» (d.lgs. n. 81/2008, art. 299). Infatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori può affermarsi che il principio di effettività, se vale ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, non vale a rendere efficace una delega priva dei requisiti di legge; se nonostante tale carenza il delegato verrà chiamato a rispondere del proprio operato, sarà in quanto egli ha assunto di fatto i compiti propri del datore, del dirigente o del preposto, e non per la esistenza di una delega strutturalmente difforme dal modello normativo » (Cass. IV, n. 22246/2014).

Si è evidenziato che il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente esistenti all'interno dell'azienda, in relazione alle singole lavorazioni o all'ambiente di lavoro, oltre che le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori; il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di assicurare loro una formazione sufficiente ed adeguata (Cass. IV, n. 27295/2017).

Per la non delegabilità dell’obbligo del gestore di provvedere all’iniziale valutazione di tutti i rischi connessi all’esercizio di una pista da sci, in applicazione, per identità di ratio, dell’art. 17, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008, cfr. supra "Sport".

Una più recente decisione (Cass. IV, n. 44943/2021) ha affermato che, all'interno di una struttura aziendale complessa, il rilascio di deleghe in materia di prevenzione e sicurezza dei lavoratori, con conferimento del correlato potere di spesa, ai direttori di stabilimento non esonera gli amministratori dalla responsabilità per la condotta commissiva di impiego nelle lavorazioni di tale materiale nocivo, quali datori di lavoro ai quali sono da imputarsi le scelte "politico-imprenditoriali".

In materie diverse dall’antinfortunistica

Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, perché la delega di funzioni possa esonerare da responsabilità il garante originario, sono necessarie alcune condizioni, e precisamente (Beltrani, 63):

- l'impresa deve essere di notevoli dimensioni, poiché la delega di funzioni può operare quale limite della penale responsabilità del rappresentante legale di essa, solo quando le dimensioni aziendali siano tali da giustificare il decentramento di compiti e mansioni, ma non nelle strutture semplici (Cass. III, n. 46710/2013). Si è però precisato, in materia di reati ambientali, ex art. 29-quattuordecies del d.lgs. n. 152 del 2006, che non è più richiesto, ai fini della validità ed efficacia della delega di funzioni, che il trasferimento delle stesse sia reso necessario dalle dimensioni dell'impresa o da esigenze organizzative, dal momento che in materia antinfortunistica l'art. 16 d.lg. n. 81/2008, non contempla più tra i requisiti richiesti per una delega valida ed efficace quello delle «necessità» (Cass. III, n. 27862/2015);

- la delega deve essere formalmente conferita, e deve essere redatta per iscritto, poiché la forma orale è inidonea allo scopo (Cass. III, n. 6872/2011). Tuttavia, un diverso orientamento ritiene, in proposito, che l'efficacia devolutiva della delega di funzioni è subordinata all'esistenza di un atto traslativo dei compiti connessi alla posizione di garanzia del titolare, che sia connotato dai requisiti della chiarezza e della certezza, i quali possono sussistere a prescindere dalla forma impiegata, non essendo richiesta per la sua validità la forma scritta né ad substantiamad probationem (Cass. III, n. 3107/2013);

- la delega deve essere effettiva, cioè comportare un effettivo trasferimento di poteri al delegato;

- il delegato deve essere persona professionalmente e tecnicamente qualificata.

In ogni caso, in capo all'imprenditore permane l'obbligo di vigilare e controllare l'attività svolta dai delegati: in applicazione di tale principio, in materia di reati fallimentari, si è affermato che — anche quando il titolare dell'impresa abbia affidato la contabilità aziendale a soggetti forniti di specifiche cognizioni tecniche — non viene meno l'obbligo di controllo sul loro operato, sussistendo a suo carico la presunzione semplice, superabile solo con una rigorosa prova contraria, che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni da lui stesso fornite (Cass. V, n. 2812/2013 e n. 36870/2020).

Un recente orientamento ha espressamente ammesso la delega di funzioni in tema di gestione dei rifiuti, a condizione che:

a) la stessa sia puntuale ed espressa, con esclusione di poteri residuali in capo al delegante;

b) riguardi, oltre alle funzioni, anche i correlativi poteri decisionali e di spesa;

c) la sua esistenza sia giudizialmente provata con certezza;

d) il delegato sia tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato allo svolgimento dei compiti affidatigli;

e) il trasferimento delle funzioni sia giustificato dalle dimensioni o dalle esigenze organizzative dell'impresa, ferma restando la persistenza di un obbligo di vigilanza del delegante in ordine al corretto espletamento, da parte del delegato, delle funzioni trasferite (Cass. III, n. 15941/2020, con la precisazione che tale obbligo di vigilanza non comporta il controllo continuativo delle modalità di svolgimento delle funzioni trasferite, richiedendosi la mera verifica della correttezza della complessiva gestione del delegato).

In tema di disciplina degli alimenti, la giurisprudenza ritiene che il legale rappresentante della società che gestisce una catena di supermercati non è per ciò solo responsabile, qualora essa sia articolata in plurime unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto qualificato ed investito di mansioni direttive, in quanto la responsabilità del rispetto dei requisiti igienico-sanitari dei prodotti va individuata all'interno della singola struttura aziendale, senza che sia necessariamente richiesta la prova dell'esistenza di una apposita delega in forma scritta (Cass. III, n. 9406/2021).

La causalità omissiva

Nei reati omissivi non è configurabile un rapporto di causalità identico a quello che caratterizza i reati di evento commessi mediante azione: mentre in questi ultimi occorre stabilire un nesso di derivazione tra dati reali del mondo esterno, tra una condotta materiale ed un determinato accadimento, nell'ambito delle fattispecie omissive improprie il problema è quello di verificare se, ed in che modo, l'eventuale compimento dell'azione dovuta avrebbe inciso sul corso degli eventi, e se avrebbe potuto evitare il verificarsi dell'evento lesivo.

Secondo la dottrina, per determinare il nesso causale tra l'omissione e l'evento, occorre formulare un giudizio ipotetico (o prognostico) che richiede, per essere correttamente effettuato, non l'utilizzo di personali conoscenze, bensì il ricorso a criteri di giudizio fondati su leggi di copertura; soltanto dopo l'individuazione della legge di copertura, in virtù della quale sia consentito affermare che al verificarsi di certi antecedenti vengono in genere meno determinate conseguenze, si potrà anche questa volta ricorrere, come test di controllo, alla formula della condicio sine qua non la quale, riferita all'illecito omissivo improprio, va articolata nel senso che l'omissione è da considerare causa dell'evento quando non può essere mentalmente sostituita dall'azione doverosa, senza che l'evento venga meno. Il procedimento logico da seguire è necessariamente basato su un ragionamento ipotetico o prognostico, vale a dire sulla verifica del modo nel quale l'eventuale compimento dell'azione doverosa avrebbe modificato il corso degli avvenimenti: il giudice deve accertare, in particolare, se l'azione doverosa, ove compiuta, sarebbe valsa ad impedire l'evento con una probabilità vicina alla certezza. Quest'ultima precisazione va intesa nel senso che i giudizi prognostici non consentono di raggiungere una certezza assoluta (Fiandaca-Musco, PG, 600 s.). Ed allora, per compensare questo deficit di certezza che la causalità ipotetica comporta, deve sussistere l'ulteriore elemento della violazione di un obbligo giuridico di impedire l'evento: nessun cittadino può, infatti, essere chiamato a rispondere per il semplice fatto che un suo possibile intervento soccorritore avrebbe scongiurato la lesione di beni giuridici altrui, altrimenti si verificherebbe un grave sacrificio dell'altrui libertà. Il dovere di impedire eventi lesivi in danno di beni altrui non può che rappresentare una eccezione, ammissibile soltanto in presenza di una fonte giuridica dell'obbligo di attivarsi (Fiandaca-Musco, PG, 601 ss.).

La dottrina assolutamente dominante ritiene ormai che è « causa penalmente rilevante la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione “necessaria” (“conditio sine qua non” — “causa but for”) nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non si sarebbe verificato »; « la verifica della causalità postula il ricorso al giudizio controfattuale, articolato nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato è contrario al fatto conosciuto come vero, e costruito con la “doppia formula”: la condotta umana è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato, mentre non lo è se, eliminata quella col pensiero, l'evento si sarebbe ugualmente verificato », evidenziando, inoltre, che « pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell'omissione, della quale resta tuttora controversa in dottrina la natura reale o normativa dell'efficienza condizionante negli sviluppi della catena causale, si osserva tuttavia che il paradigma logico della causalità rimane sempre quello del condizionale controfattuale, la cui formula — doppiamente ipotetica — dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell'azione doverosa e sostituito alla componente statica un processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, omesso ma supposto come realizzato, il singolo evento nei reati omissivi impropri, positivamente costruiti in relazione ad ipotesi-base di reati di danno (art. 40, comma 2 ), sarebbe, o non, venuto meno » (Canzio, 2231 s.).

L'elaborazione giurisprudenziale della causalità omissiva

Secondo la teoria condizionalistica accolta nel codice, una azione è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento venga meno o si verifichi con modalità diverse.

Partendo da questa premessa, le S.U., nella fondamentale sentenza Franzese (Cass.  S.U., n. 30328/2002), hanno affermato che « è dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione “necessaria” — condicio sine qua non — nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al giudizio controfattuale, articolato sul condizionale congiuntivo “se... allora...” (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato nella ipotesi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale “doppia formula”, nel senso che:

a) la condotta umana “è” condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato;

b) la condotta umana “non è” condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si sarebbe egualmente verificato... ».

Questo procedimento eliminatorio deve essere condotto alla stregua di criteri rigorosi: «un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica — “legge di copertura” —, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi “del tipo” di quello verificatosi in concreto. Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi “universali” (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi “statistiche” che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest'ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di “alto grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili» (Cass.  S.U., n. 30328/2002, cit.). Ne deriva che in caso di insufficienza, contraddittorietà e incertezza probatoria, quindi in caso di plausibile e ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all'interno della rete di causazione "si impone un esito assolutorio ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p., secondo il canone di garanzia in dubio pro reo” (Cass.  S.U.n. 30328/2002, cit.).

Va tuttavia operata una distinzione tra condotte commissive ed omissive, posto che nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali, mentre in caso di omissione il rapporto si instaura tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa).

Ciò comporta che, per l'accertamento del nesso causale tra condotta ed evento:

- nel primo caso, occorre che il giudizio controfattuale sia operato valutando se l'evento si sarebbe ugualmente verificato anche in assenza della condotta commissiva (Cass. IV, n. 15002/2011);

- nel secondo caso, « proprio perché nei reati omissivi si è in presenza di un «nulla», «la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l'evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto». In breve, in tali casi il giudice è chiamato a valutare se il comportamento omesso avrebbe o meno impedito il verificarsi dell'evento, ma al contrario della causalità dell'azione, in caso di omissione il ragionamento deve partire da un dato che non esiste nella realtà, e cioè ipotizzare come avvenuta la condotta non tenuta, per poi valutare, con giudizio controfattuale, la sua efficacia impeditiva: è per tale motivo che in tema di causalità omissiva si discorre di giudizio doppiamente ipotetico » (Cass. IV, n. 11197/2012).

La «teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche», quale criterio di accertamento del nesso causale, è ormai unanimemente accolta in giurisprudenza, con la precisazione che le leggi scientifiche sono «universali», se spiegano la verificazione dell'evento in termini di certezza senza eccezioni; «statistiche», se spiegano il ricollegarsi di un evento ad una determinata condizione solo in termini di percentualistici.

Tuttavia, l'impossibilità di disporre di leggi universali e la difficoltà concreta di poter sempre dare risposte probabilistiche con percentuali vicine alla certezza, ha condotto all'elaborazione di un nuovo criterio di identificazione causale che, pur restando ancorato al metodo della copertura delle leggi scientifiche, valorizza anche la probabilità logica, distinguendo tra «probabilità statistica» e «probabilità logica»: «la prima riferita al «tipo» di evento; la seconda riferita al singolo «evento concreto» (cd. «causalità individuale»). In breve, la probabilità «statistica» indica il grado di frequenza con cui ad un antecedente segue una conseguenza; la probabilità «logica», premessa la presenza di una legge statistica, indica nel caso concreto se con procedimento logico induttivo, sia da escludere la presenza di fattori causali alternativi idonei a produrre l'evento » (Cass. IV, n. 11197/2012).

La direzione ormai intrapresa dall'elaborazione giurisprudenziale in tema di prova del nesso causale nei reati omissivi impropri, è dunque quella di verificare la sussistenza del nesso eziologico non sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma anche sulla base di un giudizio di alta probabilità logica, « a sua volta fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto » (Cass., S.U., n. 38343/2014): giudizio di alta probabilità logica significa che il nesso causale tra omissione ed evento può essere configurato soltanto se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Cass. IV, n. 9170/2013).

Cass. IV, n. 29889/2013 ha ritenuto la responsabilità di un sanitario del pronto soccorso per il decesso di un paziente, al quale non era stato diagnosticato un infarto acuto del miocardio per cui era stato omesso il trasferimento presso un'unità coronarica per l'esecuzione di un intervento chirurgico che avrebbe avuto un'elevata probabilità risolutiva).

In una interessante decisione, in tema di responsabilità per il reato di lesioni gravissime dovute alla trasmissione del virus Hiv, si è affermato che l'accertamento del nesso di causalità non è legato al solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché anche coefficienti medio-bassi di probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica — sostenuti da verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità alla fattispecie concreta — se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza, nel caso concreto, di altri fattori interagenti in via alternativa, possono essere utilizzati ai fini del riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento (Cass. V, n. 8351/2013: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha confermato l'affermazione di responsabilità dell'imputato, il quale, consapevole di essere affetto da virus Hiv, aveva omesso di riferirlo alla convivente, ritenendo accertato il nesso di causalità sulla scorta di un dato statisticamente significativo indicato in valori prossimi al 50%, corroborato da ulteriori elementi legati sia alla frequenza dei rapporti sessuali tra le parti, sia ad elementi idonei ad escludere l'esistenza di fattori alternativi).

Ancora, si è affermato che ai fini del giudizio di imputazione causale dell'evento, il giudice deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità del caso concreto, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto dall'ordinamento (Cass. IV, n. 21028/2011: la S.C. ha anche precisato che, nell'indagine causale, da effettuarsi  ex post , assumono rilievo le basi nomologiche note al momento del giudizio, mentre nell'indagine sulla colpa, da effettuarsi ex ante, occorre valutare il comportamento posto in essere dall'agente, e, pertanto, assumono rilievo unicamente le basi nomologiche note all'agente nel momento di realizzazione della condotta).

Premesse la perdurante validità della teoria condizionalistica e la necessità di procedere al giudizio controfattuale, mai poste in dubbio, e riaffermato che il nesso di causalità non può essere accertato con criteri di valutazione diversi da quelli utilizzati per gli altri elementi costitutivi del reato, si è evidenziato che « il merito, unanimemente riconosciuto, della decisione delle sezioni unite Franzese è quello di aver rimosso l'equivoco di una diversità di accertamento della causalità omissiva e soprattutto, proprio sotto questo profilo, di aver ritenuto non accettabile la teoria della certezza o della quasi certezza, prossima ad uno, quasi che in questi casi fosse possibile prevedere un differente modo di accertamento del fatto e del rapporto eziologico e fosse possibile una certezza assoluta, contrastata, persino, dalla filosofia della scienza, che, secondo quanto sostenuto dai più accreditati filosofi del ramo, si fonda sulla c.d. «causa probabile», giacché appartiene «all'innocenza del pensiero scientifico del passato» il riferimento alla certezza assoluta » (Cass. IV, n. 37762/2013).

Si è, infine, osservato che « la locuzione «oltre ogni ragionevole dubbio», contenuta nella sentenza delle sezioni unite «Franzese» e poi in altre, ed ora recepita nell'art. 533 c.p.p. (...) impone di far notare, dopo l'esperienza giurisprudenziale applicativa di dieci anni, che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale, sono a fondamento della stessa, sicché esattamente è stato notato come detta frase ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, e allora non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma si ribadisce un principio immanente nel nostro ordinamento, costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell'imputato » (Cass. IV, n. 37762/2013).

La giurisprudenza più recente ribadisce, in tema di reato colposo omissivo improprio, che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (Cass. IV, n. 28571/2016: fattispecie riguardante il decesso di un calciatore durante una partita di calcio, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio colposo nei confronti dei medici intervenuti in soccorso per il mancato impiego del defibrillatore in presenza di una crisi cardiaca in soggetto affetto da cardiomiopatia aritmogena, per non avere i giudici di appello effettuato la concreta valutazione della valenza salvifica da assegnare all'uso del defibrillatore nel quadro patologico presentato dal paziente).

Successive decisioni hanno ribadito che il giudizio controfattuale, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, ove eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto (cd. giudizio esplicativo), al fine di verificare, sulla base di tale ricostruzione, se la condotta omessa può valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione all'evitabilità dell'evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore (Cass. IV, n. 416/2022), e che, ai fini del riconoscimento giudiziale del nesso di causalità tra condotta ed evento, non rilevano solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo alla "certezza", ma anche i coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto, ove si discuta di colpa medica, secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, oltre che sulla base del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192, comma 2, c.p.p. e della regola generale in tema di valutazione della prova di cui al primo comma della medesima disposizione, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, di modo che, secondo un giudizio di alta probabilità logica, la condotta omissiva dell'imputato risulti condizione "necessaria" dell'evento (Cass. III, n. 10209/2021).

Si è, da ultimo, ribadito che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Cass. V, n. 785/2024: fattispecie nella quale la S.C. ha confermato la condanna di un sanitario per omicidio colposo di una neonata, affetta da alterazioni congenite rilevabili dal percorso anomalo del tracciato, inopinatamente staccato, che avrebbero imposto il continuo monitoraggio della partoriente, volto a consentire, in caso di evoluzione dello stato di sofferenza del feto, il tempestivo intervento con parto cesareo).

Segue. Casistica

Colpa medica

In generale, in tema di colpa nell'attività medico-chirurgica, il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l'effettivo rilievo condizionante della condotta umana, ed in specie l'effetto salvifico delle cure omesse, deve essere condotto sulla scorta di affidabili informazioni scientifiche e tenendo conto delle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere (Cass. IV, n. 10615/2012):

- qual è solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata;

- qual è normalmente l'efficacia delle terapie;

- quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici.

Ciò premesso, in linea con quanto affermato dalla sentenza Franzese, la prevalente giurisprudenza ritiene che sussista il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di contrafattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Cass. IV, n. 9170/2013).

Nello sforzo costante di individuare criteri quanto più possibili soddisfacenti per l'accertamento del nesso di causalità in tema di reato colposo omissivo improprio, qualche sentenza ha anche affermato che il suo riconoscimento non deve necessariamente postulare, in ogni caso, l'accertata operatività di leggi scientifiche universali o di leggi statistiche che esprimano un coefficiente prossimo alla certezza, dovendosi piuttosto fare riferimento al ragionamento inferenziale evocato in tema di prova indiziaria dall'art. 192, commi 1 e 2, c.p.p., oltre che alla regola della ponderazione delle ipotesi antagoniste, prevista dall'art. 546, comma 1, lett. e, c.p.p.: ciò in vista dell'individuazione, con elevato grado di credibilità razionale e previa esclusione dell'efficienza causale di alternativi meccanismi eziologici, della condizione necessaria dell'evento, e non di quella meramente sufficiente alla sua produzione (Cass. IV, n. 17523/2008).

Nel caso, assai frequente, di attività medica svolta in équipe, si è affermato che non può invocarsi il principio di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali, o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione: se quindi, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento (Cass. IV, n. 692/2013).

È appena il caso di ricordare che in tema di omicidio imputabile a colpa medica, il rapporto causale va riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi, ma anche alla natura e ai tempi dell'offesa, nel senso che il rapporto in questione deve essere riconosciuto anche quando risulti provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando risulti ricollegabile alla condotta del medico un'accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (Cass. IV, n. 40924/2008).

Nei casi in cui alla cura del paziente concorrono, con interventi non necessariamente omologabili, più sanitari, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare una responsabilità di gruppo in base ad un ragionamento aprioristico (Cass. IV, n. 7346/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza di condanna nei confronti di due medici componenti una più ampia equipe chirurgica, rinviando al giudice di merito i dovuti accertamenti sulla sussistenza del nesso causale con le lesioni patite dalla vittima, in ragione del ruolo non preminente in concreto da loro svolto nell'ambito dell'equipe).

Si è successivamente affermato che, in caso di lavoro in equipe, e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli ed i compiti di ciascun operatore siano nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui (Cass. IV, n. 49774/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso la responsabilità del chirurgo che, in mancanza di un previo accertamento diagnostico che escludesse la possibilità di una tubercolosi, aveva eseguito, su decisione concordata dal primario pediatra e dal primario chirurgo, un intervento su un minore, poi deceduto a causa di sopravvenuta infezione polmonare; conforme, Cass. IV, n. 30626/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva affermato la responsabilità di due medici che avevano sottoposto la stessa paziente ad una serie di interventi gastroenterologici, uno dei quali eseguito con modalità gravemente imperite, che si erano rivelati inadeguati ad arrestare il processo peritonitico, senza distinguere le responsabilità di ciascuno in relazione alla specifica condotta del singolo).

Si è, infine, osservato che l'accertamento del nesso causale tra la diagnosi intempestiva di una malattia tumorale e il decesso del paziente postula il ricorso ad un giudizio controfattuale ipotetico, sulla base del modello probabilistico e multifattoriale che richiede di valutare l'incidenza del comportamento alternativo lecito, ossia se la diagnosi tempestiva avrebbe impedito ovvero significativamente ritardato, con alto grado di probabilità logica ed in assenza di decorsi causali alternativi, l'esito infausto (Cass. IV, n. 9705/2022: fattispecie in cui è stata annullata con rinvio la condanna per omicidio colposo del medico imputato di avere ritardato la diagnosi di sarcoma a cellule chiare, in quanto, per la particolare aggressività del tumore, con una percentuale di sopravvivenza a cinque anni non superiore al 25%, anche nel caso di diagnosi e cure tempestive, si sarebbe verificata una elevata probabilità di morte della paziente).

In ordine alla possibile rilevanza delle cc. dd. linee guida, o best practices,  si rinvia sub art. 43.

Malattie professionali e responsabilità da prodotto

In passato la prevalente giurisprudenza riteneva che la causalità in materia di malattie professionali avesse natura omissiva; con l'insorgenza di patologie derivanti dall'esposizione di lavoratori a prodotti e/o sostanze nocive, agli imputati si contesta generalmente una condotta commissiva, ovvero la violazione di un divieto (non sottoporre i lavoratori ad esposizioni nocive), non un obbligo; tale condotta commissiva è abitualmente connotata anche da profili omissivi (l'omesso apprestamento delle necessarie cautele), che non possono però mutarne la natura, in quanto l'omissione di cui all'art. 40, comma 2, non è un'omissione di cautele ma — più radicalmente e specificamente — un omesso impedimento. Le decisioni più recenti evidenziano, pertanto, che, nella maggior parte dei casi, le condotte attive ed omissive interagiscono, rendendo ancor più complesso l'accertamento della causalità: « la distinzione [tra causalità attiva ed omissiva] non deve essere sopravvalutata, dal momento che è ormai pacificamente riconosciuto che i due tipi di comportamento sono in realtà strettamente connessi e, per così dire, l'uno speculare all'altro, dato che nel violare le regole di comune prudenza il soggetto non è evidentemente inerte, ma tiene un comportamento diverso da quello dovuto; peraltro, essi sono sottoposti a regole identiche in ordine all'accertamento della responsabilità e la distinzione attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anziché fondato sui dati della realtà » (Cass. IV, n. 37762/2013).

Nell'accertamento del nesso causale, spesso particolarmente complicato in quanto si ha a che fare con metodologie lavorative nuove, che possono comportare rischi nuovi e decorsi causali scientificamente ignoti, diviene imprescindibile il ricorso all'esperto, per individuare le leggi scientifiche e statistiche che governano la specifica materia. In tal caso, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, questi può scegliere fra varie tesi « prospettate da differenti periti, di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata, e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti » (Cass. IV, n. 37762/2013).

In questo campo enorme interesse ha suscitato e continua a suscitare la problematica legata delle conseguenze dell'esposizione a polveri di amianto.

È stato osservato che in tema di patologie correlate alla inalazione di fibre di amianto (soprattutto con riferimento al mesotelioma pleurico ed ai carcinoma polmonare), « nella comunità scientifica si confrontano prevalentemente due opinioni. La prima fa leva sulla legge scientifica nota come «modello multistadio della cancerogenesi», secondo cui la formazione del cancro è un'evoluzione a più stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la conseguenza che l'aumento della dose di amianto inalata, è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo la teoria multistadio, il tumore polmonare rappresenta una patologia «dose-correlata», ossia il cui sviluppo, in termini di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato »; ne deriva che, « a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poiché abbreviano la latenza e dunque anticipano l'insorgenza della malattia o l'aggravano («effetto acceleratorio») ». Tale teoria, ove accolta, condurrebbe alla condanna degli imputati, indipendentemente dal momento di assunzione della posizione di garanzia e dalla durata della loro carica (purché fosse operativa durante il periodo di esposizione all'amianto dei lavoratori deceduti), ciò sull'assunto che fa loro condotta omissiva ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente. Secondo altra opinione, invece, la suddetta teoria è priva di evidenza scientifica, posto che la valenza degli studi sul punto è meramente di natura epidemiologica sulla popolazione, ma non consente alcuna verifica in relazione alla ricerca della causalità dei singoli decessi. Pertanto, allo stato delle conoscenze della scienza, non sarebbe possibile risolvere il quesito della rilevanza causale delle dosi successive, assunte dopo l'innesco della patologia (successive alla cd. «dose killer»), anzi attendibili studi, escludono tale rilevanza. L'accoglimento di tale tesi non consentirebbe di giungere ad alcuna certezza del momento in cui la vittima ha inalato l'unica e rilevante originaria fibra killer, con la conseguente impossibilità di giungere al riconoscimento di chi degli imputati fosse responsabile delle omissioni al momento del fatto, nel rispetto del principio che una condanna può essere pronunciata solo «al di là di ogni ragionevole dubbio» » (Cass. IV, n. 11197/2012).

Si conviene ormai sul fatto che, pur non risultando in concreto possibile determinare con esattezza il momento di insorgenza della patologia, ciò che rileva è che la condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza, che a sua volta incide in modo significativo sull'evento morte, riducendo la durata della vita (Cass. IV, n. 33311/2012). Lo stesso principio viene applicato in tema di successione dei garanti: la responsabilità per gli eventi dannosi legati all'inalazione di polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia (nella specie: asbestosi), va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una parte soltanto del periodo di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta, con riguardo alle patologie già insorte, ha ridotto i tempi di latenza della malattia, ovvero, con riguardo alle affezioni insorte successivamente, ha accelerato i tempi di insorgenza (Cass. IV, n. 38991/2010).

Si è, poi, ritenuto che, in presenza di patologie riconducibili a più fattori causali, qualora la rilevanza causale della condotta omissiva sull'evento patologico sia caratterizzata da una mera probabilità statistica, la ricostruzione del nesso eziologico impone la sicura esclusione di fattori causali alternativi, potendosi solo così attribuire ad un fattore causale statisticamente poco incidente il rango di elevata probabilità logica (Cass. IV, n. 13138/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, escludendo la possibilità di affermare con certezza, sulla base degli elementi acquisiti, la dipendenza eziologica della patologia riscontrata al lavoratore dalle condotte omissive attribuite al datore di lavoro).

In materia assume perlopiù rilevanza il problema della prova scientifica del nesso causale: la giurisprudenza chiarisce, in proposito, in puntuale applicazione dei principi generali, che, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" (Cass. IV, n. 55005/2017: in applicazione del principio, la S.C. - richiamando espressamente i limiti del sindacato di legittimità rispetto al sapere scientifico - ha ritenuto immune da censure la sentenza di assoluzione degli amministratori delegati e dei presidenti del consiglio d'amministrazione di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, che aveva argomentato la mancanza di prova del nesso causale sulla duplice considerazione che gli imputati avevano assunto la carica a distanza di molti anni dalla cosiddetta "iniziazione" della malattia tumorale, e che costituiva ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica la sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma dell'esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella della "iniziazione"). In chiave più strettamente processuale, si è conseguentemente ritenuto che la presenza, all'esito delle indagini preliminari, di questioni di ardua soluzione contrassegnate da una contrapposizione di orientamenti in seno alla comunità scientifica internazionale, impone il vaglio dibattimentale, potendosi nel dibattimento disporre una perizia che consenta di fornire una adeguata risposta a tali complesse problematiche che richiedono l'acquisizione di dati o valutazioni di natura tecnica (Cass. IV, n. 1886/2018: nel caso esaminato, risultava all'udienza preliminare la contraddittorietà della prova del nesso causale in ragione delle contrastanti conclusioni dei consulenti del pubblico ministero e della difesa in ordine alla sussistenza o meno del cosiddetto "effetto acceleratore" della malattia derivante dalla protrazione dell'esposizione ad amianto dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico).

La giurisprudenza più recente appare ferma nel ritenere che, in tema di accertamento del rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, il dato scientifico sulle proprietà oncogene di una sostanza non è sufficiente dovendo il giudice di merito vagliare, nel caso concreto, la pertinenza di tale informazione nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, e dovendo esercitare un controllo critico sull'affidabilità delle basi scientifiche e sul grado di convergenza delle opinioni nella comunità scientifica; in particolare, per affermare la responsabilità dell'imputato fondata sull'effetto acceleratore sul mesotelioma della esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell'insorgenza della malattia, il giudice, avendo la relativa legge scientifica di copertura natura probabilistica, deve verificare se l'abbreviazione della latenza della malattia si sia verificata effettivamente nei singoli casi al suo esame, essendo a tal fine necessarie informazioni cronologiche che consentano di affermare che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all'iniziazione non segua un'ulteriore esposizione e dovendo altresì essere noti e presenti nella concreta vicenda processuale i fattori che nell'esposizione protratta accelerano il processo (Cass. IV, n. 16715/2018: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva ritenuto la sussistenza dell'effetto acceleratore, in base al criterio della esclusione delle cause alternative, ritenuto inidoneo; conforme, Cass. IV, n. 22022/2018: fattispecie in tema di morte da esposizione ad amianto,  in relazione alla quale la S.C. ha precisato che, ai fini dell'affermazione di responsabilità, il giudice è tenuto ad accertare se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali). In presenza di patologie riconducibili a più fattori causali diversi e alternativi tra loro, qualora la rilevanza causale della condotta omissiva sull'evento patologico sia caratterizzata da una mera probabilità statistica, la ricostruzione del nesso eziologico impone la sicura esclusione di fattori causali alternativi (Cass. IV, n. 16715/2018: in applicazione del principio, la S.C.  ha annullato con rinvio la sentenza di condanna impugnata, risultando incerta, sulla base degli elementi acquisiti, la dipendenza eziologica del tumore polmonare dall'esposizione ad amianto di un lavoratore tabagista).

In materia, va segnalata una successiva decisione (Cass. IV, n. 44943/2021), che all’esito di una ampia disamina di tutte le questioni controverse in tema di nesso di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, ha affermato una serie di principi di notevole interesse. Si è, in primo luogo, osservato che ricerche epidemiologiche sul tempo di latenza della malattia asbesto-correlata non sono idonee all'accertamento del nesso di causalità individuale nei confronti dei lavoratori già esposti in passato a sostanze nocive in ambito lavorativo e non lavorativo, in quanto costituiscono mere descrizioni e proiezioni probabilistiche, non universali, del dato relativo all'incremento di incidenza della malattia nella popolazione osservata ed all'abbreviazione della latenza media, senza alcuna implicazione sul ruolo causale del protrarsi dell'esposizione nel caso concreto. E si è aggiunto che il giudice, nell'individuare la legge scientifica di copertura da porre a base del ragionamento inferenziale, può discostarsi dalle conclusioni raggiunte da una "conferenza di consenso", che segna il grado di convergenza della comunità scientifica in un dato momento storico, solo mediante un'approfondita analisi degli studi e delle basi fattuali su cui si fonda la tesi antagonista, valutandone l'eventuale formulazione successiva al raggiungimento dell'accordo, l'indipendenza dei soggetti che hanno contribuito alla ricerca e l'eventuale diffusa condivisione scientifica susseguente alla sua enunciazione. In applicazione del principio, la Cassazione ha ritenuto insufficiente a smentire le conclusioni raggiunte da una conferenza di consenso, che ha validato la tesi della "dose correlata" quale causa di insorgenza del mesotelioma pleurico, la formulazione di una isolata opinione difforme, espressa all'interno del consesso da uno dei suoi partecipanti, che ricollegava l'innesco irreversibile della malattia alla inalazione in un determinato momento della "trigger dose", quantità non definibile di fibra di asbesto, ricollegando solo un effetto acceleratore alla successiva esposizione alle polveri nocive.

Reati fallimentari

La giurisprudenza ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice, l'inerzia del singolo amministratore, quand'anche da sola insufficiente ad impedire l'evento pregiudizievole, nell'unirsi all'identico atteggiamento omissivo — sia esso colposo o doloso — degli altri componenti dell'organo amministrativo, acquista efficacia causale rispetto al dissesto, o all'aggravamento del dissesto, in quanto l'idoneità dell'opposizione del singolo a impedire l'evento deve essere considerata non isolatamente, ma nella sua attitudine a rompere il silenzio e a sollecitare, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri amministratori (Cass. V, n. 32352/2014).

L'elemento psicologico

La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione — da parte del garante — di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (Cass. IV, n. 21554/2021; Cass. IV, n. 5404/2015).

All'obbligo giuridico di impedire l'evento deve accompagnarsi l'esistenza in capo al garante di poteri fattuali che possono concretizzarsi anche in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria) e di minore efficacia rispetto a quelli specificamente diretti ad impedire il verificarsi dell'evento, purché consentano all'agente di attivare meccanismi idonei a tal fine (Cass. IV, n. 9167/2018: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, secondo il quale - nella dinamica causale di un infortunio sul lavoro verificatosi in un cantiere navale in cui un operaio era precipitato dalla prua di un'imbarcazione -, se l'imputato avesse fatto apporre barriere idonee, ovvero avesse tassativamente vietato l'accesso alla zona di pericolo, avrebbe con ragionevole probabilità impedito l'evento).

La responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento può qualificarsi anche per il solo dolo eventuale, a condizione che sussista, e sia percepibile dal garante, la presenza di segnali perspicui e peculiari dell'evento illecito, caratterizzati da un elevato grado di anormalità: cosicché si è ritenuta configurabile, a carico del Rettore di una comunità di accoglienza giovanile, la responsabilità per omesso impedimento dell'evento, costituito da reiterate condotte di abuso sessuale ai danni di alcuni giovani ospiti, poste in essere dal responsabile dell'annesso convitto (Cass. III, n. 28701/2010).

L'errore

Secondo la dottrina “entra a far parte del fatto che costituisce reato anche la posizione di garanzia con i suoi elementi tipici, di fatto o di diritto (i presupposti dell'obbligo di agire); potrà avvenire che l'agente versi in un errore (essenziale) sulla posizione, oltre che per un errore di fatto (art. 47, comma 1), anche per un errore su norma extrapenale non integratrice (p.e., sulle clausole contrattuali che fissano i limiti di impegno, cioè della sua “garanzia”: art. 47, comma 3); altro è invece se l'agente non conosce o versa in errore sulla fonte normativa (penale, ma anche — come più spesso avviene — “originariamente” extrapenale) che attribuisce rilevanza penale alla posizione di garanzia in unione con la figura (attiva) del reato-base (errore sul divieto, da ricondurre all'art. 5)” (Romano, Commentario, 502).

È, pertanto, necessario che gli eventi che l'agente non si adopera per impedire siano entrati nella sua sfera di percezione psichica: ad esempio non sarebbe possibile affermare la responsabilità della madre per omissione in ordine al delitto di violenza sessuale commesso da terzi in danno della propria figlia minore, ove non si abbia prova che ella ne fosse consapevole (Cass. III, n. 10556/1995).

Profili processuali

La costituzione di parte civile

La giurisprudenza ha affermato che è ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali (Cass. IV, n. 27162/2015). Analogamente, in procedimento per reato colposo derivante da colpa medica e per falso in atto pubblico, commesso mediante alterazione delle annotazioni contenute nella cartella clinica, è stata ritenuta legittima la costituzione di parte civile dell'associazione denominata «Movimento federativo democratico — Tribunale dei diritti del malato», considerando, per un verso, che tale associazione persegue lo scopo istituzionale di limitare e rimuovere attentati all'integrità fisica e psichica delle persone negli ambienti dei servizi pubblici e sociali, e quindi di garantire un corretto rapporto tra il paziente e la struttura sanitaria; per altro verso, che il diritto alla salute è un diritto non solo individuale, ma anche collettivo, ai sensi dell'art. 32  Cost. (Cass. V, n. 13989/2004).

Bibliografia

Beltrani, sub art. 40, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, II, Aggiornamento, Milano, 2015; Blaiotta, La causalità nella responsabilità professionale, Milano, 2004; Blaiotta, Causalità giuridica, Torino, 2010; Canzio, La causalità tra diritto e processo penale: un'introduzione, in Cass. pen. 2006, 2230 ss; Del Forno, Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non libera il datore di lavoro delle proprie responsabilità in tema di prevenzione infortuni, in Riv. pen. 2010, 1122 ss.; Fasani, La responsabilità ambientale dei funzionari Arpa per l'omesso impedimento dei reati ambientali, in Riv. giur. amb. 2011, 623; Federici, Osservazioni sui compiti dell'infermiere nei riguardi del paziente, in Giur. it. 2012, 1130; Federici, Sulla responsabilità omissiva dell'amministrazione condominiale, in Giur. it. 2013, 935 ss.;. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979; Fiandaca, Omicidio e lesioni personali colpose, infortunio sul lavoro, responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in Foro it. 2013, II, 363; Menardo, Sulla delega di funzioni nella sicurezza sul lavoro, in Giur. it. 2011, 1879 ss.; Menardo, Considerazioni sul nesso di causalità in caso di morte per esposizione a polveri di amianto, in Giur. it. 2013, 1389 ss.; Mucciarelli, Omissione e causalità ipotetica, in Diritto&Questionipubbliche, n. 10/2010; Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento, Padova, 1975; Siniscalco, voce Causalità (Rapporto di), in Enc. dir., Milano, 1968, vol. VI, 639 ss.; Stella, voce Rapporto di causalità, in Enc. giur. Treccani, 1991, XXV; F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 2000; Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2003, 223 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario