Codice Penale art. 43 - Elemento psicologico del reato.

Sergio Beltrani

Elemento psicologico del reato.

[I]. Il delitto:è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;

è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente;

è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto [61 n. 3], non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

[II]. La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico.

Inquadramento

L'art. 43 definisce le nozioni di dolo, colpa e preterintenzione, e quindi di delitto doloso, colposo e preterintenzionale: “le nozioni del dolo, della colpa e della preterintenzionalità si ricollegano al concetto del delitto, di cui sono elemento costitutivo: in tal guisa resta nettamente chiarito che le definizioni dell'articolo [43] non sono che un ulteriore sviluppo del primo e secondo capoverso dell'articolo [42] “ (Relazione del Guardasigilli sul Libro I del Progetto definitivo del C.P., 1929, 87).

La distinzione del reato preterintenzionale dal reato doloso si giustifica “ non perché il primo non sia anche doloso, ma perché non è esclusivamente doloso: v'è in esso una parte dell'evento, che non è voluta dall'agente, ma gli è messa a carico come conseguenza della sua azione od omissione “ (Relazione del Guardasigilli sul Libro I del Progetto definitivo del C.P., 1929, 87).

L'ultimo comma della disposizione, unitamente all'ultimo comma dell'art. 42 c.p., chiarisce la differenza — per quanto riguarda l'elemento soggettivo — tra delitti e contravvenzioni: “ Nei casi nei quali l'indagine sul dolo o sulla colpa può, per particolari effetti, essere richiesta in tema di contravvenzioni, la nozione dell'uno o dell'altra non è diversa da quella stabilità per i delitti. La possibilità di una tale indagine nei reati contravvenzionali non è, invero, esclusa dall'articolo [42] (...). Il Progetto non presta argomento ad equivoci o difficoltà di interpretazione, perché esso, pur senza escludere che le contravvenzioni possano riconnettersi a dolo od a colpa, dichiara irrilevante ogni indagine sulla natura dell'elemento psicologico, ai fini della esistenza del reato. (...) Ciò non toglie che possa l'indagine avere una qualche rilevanza giuridica (...) per stabilire la gravità del reato contravvenzionale e la misura della pena (articolo [133]); (...) per dare una guida al giudice nella interpretazione dei decreti di amnistia eventualmente limitati ai soli reati colposi “ (Relazione del Guardasigilli sul Libro I del Progetto definitivo del C.P., 1929, 87).

Il dolo: nozione

Il dolo è tradizionalmente considerato la più grave (“perché esprime il nesso psichico più stretto ed immediato tra fatto ed autore e, quindi, una maggiore intensità aggressiva, percepita come tale dalla vittima e dalla collettività”: Mantovani, PG, 304) tra le forme tipiche di volontà colpevole (rispetto alla preterintenzione ed alla colpa).

La dottrina definisce il dolo “quale complesso di fatti interni o psicologici (rappresentazione e volizione) che, dato il termine usato (“intenzione”), non possono essere potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto” (Gallo, 1964, 751).

Dal dolo va distinto il movente, la giurisprudenza (Cass. I, n. 31449/2012) definisce il dolo quale elemento costitutivo del reato, riguardante la sfera della rappresentazione e volizione dell'evento [ovvero « quale complesso di fatti interni o psicologici (rappresentazione e volizione), che, dato il termine usato ("intenzione"), non possono essere potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto »], ed il movente quale «causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l'individuo ad agire», che può assumere rilevanza unicamente come circostanza (aggravante od attenuante: cfr. rispettivamente, artt. 61, comma 1, n. 1 e 62, comma 1, n. 1 c.p.), ovvero ai fini della graduazione della pena (art. 133, comma 2, n. 1, c.p.); il movente non è necessariamente razionale, perché le cause psichiche dell'agire umano sono aperte alle ispirazioni ed agli impulsi più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell'animo umano. Secondo una successiva decisione (Cass. II, n. 38277/2019), l'affermazione molto ricorrente che il movente è irrilevante ai fini dell'integrazione del dolo <<significa unicamente che il movente può, in ipotesi, mancare, o comunque essere rimasto ignoto. Null'altro>>;  un successivo orientamento ha affermato che l'assenza di movente dell'azione omicidiaria è irrilevante ai fini della dichiarazione di responsabilità, allorché vi sia comunque la prova dell'attribuibilità di detta azione all'imputato, non risolvendosi il suo mancato accertamento nell'affermazione probatoria di assenza di dolo del delitto di omicidio, o, tanto meno, di assenza di coscienza e volontà dell'azione (Cass. V, n. 20851/2021).

La struttura del dolo

La ricostruzione della struttura del dolo divide la dottrina:

a) secondo i fautori della teoria dell'intenzione, l'essenza del dolo andrebbe individuata nella volontà dell'agente, che mira a cagionare l'evento come fine ultimo (ad es., omicidio per vendetta), ovvero come strumento necessario per la realizzazione del proprio fine (ad es., omicidio per ereditare il patrimonio della vittima): questa ricostruzione si rivela, peraltro, parziale, non ricomprendendo il dolo eventuale nel quale, come si vedrà (infra), l'intenzione di cagionare l'evento manca, ma il possibile verificarsi dell'evento è accettato, pur come conseguenza non voluta della condotta;

b) secondo i fautori della teoria della rappresentazione, l'essenza del dolo andrebbe individuata nella volontà della condotta e nella previsione dell'evento: questa ricostruzione non può, peraltro, essere accolta perché pecca per eccesso, ricomprendendo anche la colpa con previsione o cosciente (art. 61, comma 1, n. 3) nella quale, come si vedrà (infra), vi è volontà della condotta e previsione della possibilità del verificarsi dell'evento, ma si agisce nell'erronea convinzione che esso, in concreto, non si verificherà;

c) secondo i fautori della teoria della volontà, attualmente dominante, il dolo è coscienza e volontà della condotta tipica e dell'evento tipico del reato: “e nel fuoco della volontà intesa in termini normativi, rientra non solo l'intenzione, ma anche la accettazione del rischio della causazione dell'evento [che caratterizza il dolo eventuale], essendo questa normativamente rimproverabile e, quindi, meritevole di pena come reato doloso” (Mantovani, PG, 305); al contrario, la necessità della volontà (e non della mera previsione) dell'evento evita di ricomprendere la cd. colpa cosciente.

Quest'ultima teoria è accolta dall'art. 43, che considera il dolo, ad un tempo, come rappresentazione e volontà: “rappresentazione e volontà sono categorie distinte, nel senso che vi può essere la prima senza la seconda. Ma non viceversa, perché la volontà senza la rappresentazione è un non senso. Sotto il profilo intellettivo, il dolo è rappresentazione del fatto, ma non necessariamente “conoscenza” poiché il “dubbio” (es.: se sia uomo o animale il bersaglio del cacciatore) non esclude il dolo, pur non essendo conoscenza della realtà” (Mantovani, PG, 306).

A chiarire l'essenza del dolo contribuiscono tutte le disposizioni in tema di rappresentazione e volizione degli elementi costitutivi del reato (artt. 5, 44, 47, 59).

L'oggetto del dolo

L'oggetto del dolo è costituito, secondo la migliore dottrina, dagli “elementi che l'agente deve rappresentarsi-e-volere perché il suo sia un fatto (illecito) doloso”: “la definizione legale dell'art. 43 prima parte, accentrando previsione e volizione sul solo evento, si presenta largamente incompleta: oggetto della necessaria rappresentazione-e-volizione è infatti ogni e ciascun elemento del fatto storico congruente con il modello di reato. Ciò risulta direttamente dall'art. 47, comma 1, c.p.: sul presupposto implicito che siano integrati gli estremi oggettivi di una figura criminosa, l'esclusione della punibilità dell'agente in caso di errore non può che essere dovuta alla mancanza di dolo: l'errore (essenziale) e il dolo sono dunque specularmente contigui e il dolo è, in positivo, la rappresentazione (non erronea)-e-volizione degli elementi costitutivi del fatto” (Romano 405).

Tra gli elementi che rientrano nell'ambito del dolo:

a) devono costituire oggetto di sola rappresentazione, in quanto costituenti oggetto di mera attività intellettiva conoscitiva, senza alcuna manifestazione di volontà:

- gli elementi naturalistici (presupposti, strumenti, luogo e tempo), precedenti e concomitanti, sui quali si innesta la condotta;

- l'oggetto materiale sul quale incide la condotta;

- le qualifiche del soggetto attivo, rilevanti nel reato proprio: si pensi, ad es., a quella di pubblico ufficiale nei delitti di concussione e corruzione (artt. 317 ss. );

- le caratteristiche del soggetto passivo: si pensi, ad es., alla qualifica di pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, rilevante ai fini del delitto ex art. 337 c.p.;

- gli elementi normativi della fattispecie (cfr. sub artt. 1 e 2), definiti da norme diverse da quella incriminatrice (si pensi ai concetti di altruità, possesso, detenzione, richiamati dall'art. 624 , e tutti definibili attraverso la normativa civilistica in tema di proprietà, possesso, detenzione della res oggetto di furto): la necessità che tali elementi costituiscano oggetto di rappresentazione è indirettamente desumibile dalla disciplina dell'art. 47, comma 3, ;

- le connotazioni di c.d. “antigiuridicità speciale” (extrapenale) del fatto: “laddove l'antigiuridicità si pone come elemento normativo della fattispecie criminosa — ciò che avviene allorché si prevede in modo espresso che il fatto sia commesso illegittimamente, arbitrariamente (senza autorizzazione), senza giustificato motivo — la consapevolezza dell'agente non può non concernere anche il valore di tale elemento” (Cass. I, n. 11848/1995);

- l'assenza di elementi negativi del fatto tipico (ovvero di cause di giustificazione): occorre, in proposito, precisare che oggetto del dolo non è la sussistenza di cause di giustificazione, bensì la loro inesistenza. Non sarebbe, pertanto, doloso il comportamento del soggetto che agisca nella convinzione di porre in essere un comportamento scriminato, e cioè, ad es., di esercitare un diritto (art. 51), ovvero di opporre una difesa legittima (art. 52 ) ad una altrui ingiusta aggressione;

b) devono costituire oggetto di rappresentazione-e-volizione (Cass. I, n. 5096/2012), ovvero di previsione-e-volizione, ove si tratti di accadimenti futuri: si pensi all'evento-morte, come conseguenza della condotta omicida:

- la condotta;

- l'evento, inteso in senso naturalistico (che, se esistente, deve essere previsto e voluto) ovvero soltanto giuridico: in realtà, più che l'evento (in una delle sue connotazioni), oggetto del dolo è il “fatto tipico”, “più in particolare, perché l'azione sia imputabile a titolo di dolo, occorre distinguere a seconda che si tratti di reati a “forma vincolata” ovvero a “forma libera”. Ed invero, nell'ambito dei primi è necessario che la coscienza e volontà abbiano ad oggetto proprio le specifiche modalità di realizzazione del fatto tipizzate dalla fattispecie incriminatrice. Nei secondi, invece, posto che il legislatore attribuisce rilevanza penale a qualsiasi modalità di aggressione al bene protetto, il dolo deve normalmente accompagnare l'ultimo atto compiuto prima che il decorso causale sfugga alla capacità di dominio personale dell'agente” (Fiandaca-Musco, PG, 373 s.);

- il rapporto di causalità materiale che li avvince, pur limitatamente ai suoi tratti essenziali: “basta di regola che l'agente se ne prefiguri lo sviluppo nei tratti essenziali rilevanti ai fini della valutazione penalistica, per cui non è necessario che la corrispondenza tra decorso causale preveduto e decorso causale effettivo abbracci anche i dettagli secondari: così, ad es., se Tizio nel gettare Caio da un ponte vuole farlo annegare nel fiume sottostante, la responsabilità a titolo di omicidio permarrà anche se Caio poi muore battendo la testa su un masso posto vicino alla riva, trattandosi appunto di una divergenza nel decorso causale [aberratio causae] prevedibile anche al momento dell'azione. Le specifiche modalità di causazione dell'evento acquistano, invece, rilevanza nel caso in cui siano legislativamente predeterminate: così ad es. nel dolo del reato di epidemia (art. 438) non può mancare la consapevolezza che quest'ultima venga cagionata proprio attraverso le modalità specificate dal legislatore, e cioè mediante la volontaria diffusione di germi patogeni” (Fiandaca-Musco, PG, 313).

Dall'ambito del dolo esulano i soli elementi del reato per i quali non è prevista l'imputazione a titolo di dolo: il riferimento, all'indomani della riforma dell'art. 59, comma 2, in tema di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, opera unicamente con riguardo alle condizioni obiettive di punibilità (art. 44)

Il dolo deve anche ricomprendere:

a) nei reati di offesa:

- la rappresentazione-e-volontà dell'offensività del fatto tipico (ad es., del danno nel reato di truffa

- e la conoscibilità dell'illiceità penale del fatto (nell'esempio fatto, dell'incriminazione penale della truffa);

b) nei reati di scopo, nei reati-ostacolo e nei reati di pericolo presunto:

- la rappresentazione-e-volontà del fatto materiale tipico in sé (ma non anche della sua offensività), “non essendo qui l'offesa elemento costitutivo ed identificandosi la conoscenza del disvalore sociale, della antidoverosità sociale del fatto, con la stessa coscienza della esistenza della norma”... (Mantovani, PG, 330 s.)

-... e la conoscibilità dell'illiceità penale del fatto: “oggi più di un tempo pare certo che nei reati c.d. senza offesa o senza vittima, nei reati-ostacolo o nei reati di pericolo presunto (...), a nulla varrebbe l'allegazione da parte del soggetto di una ritenuta anche totale assenza di offesa, o di offesa concreta, quando tenga un comportamento di cui gli sia nota (o possa essergli nota) la contrarietà a norme vincolanti dell'ordinamento: chi conosce (o possa conoscere) l'antigiuridicità del fatto, del quale si rappresenti-e-voglia gli elementi costitutivi, è già in dolo, così come agisce con dolo il cd. autore di convinzione (es. testimone di Geova che, in adesione a divieti del proprio credo, rifiuta la trasfusione al figlio), perché anche costui in realtà antepone una propria valutazione soggettiva a quella dell'ordinamento, che conosce e respinge” (Romano, 438).

Il dolo nei delitti a condotta frazionata

La giurisprudenza ha anche chiarito che la possibilità di imputare a titolo di dolo il fatto nel suo insieme postula, nei delitti a condotta frazionata, che la volontà dell'ultimo atto sia effettiva, non potendosi ricavare in via ipotetica attraverso un procedimento fondato su presunzioni e condotto alla stregua dell'id quod plerumque accidit: ne consegue che, allorquando la condotta del soggetto sia consapevolmente diretta a realizzare un evento e questo si produca non già per effetto di quella condotta, bensì di un comportamento sorretto dall'erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell'evento, quest'ultimo non può essere imputato a titolo di dolo, se non sub specie di delitto tentato, mentre l'ulteriore frammento del fatto può essere punito a titolo di colpa, se è previsto dalla legge come delitto colposo.

Sulla base di tale principio sono state annullate le sentenze di merito che avevano:

- in un caso, riconosciuto responsabile di omicidio volontario una donna che, nell'erroneo convincimento di avere ucciso il figlio appena nato gettato nella tazza del water, lo aveva estratto dalla strozzatura della tazza stessa nella quale il neonato si era incastrato e, avvoltolo in una coperta, lo aveva chiuso per occultarlo in un sacchetto di plastica, dove il bimbo, ancora vivo, aveva trovato la morte per asfissia (Cass. I, n. 10535/1988);

- in un altro, ritenuto configurabile l'omicidio volontario in capo a soggetti che, nel dichiarato intento di “dare una lezione” alla vittima della loro aggressione, le avevano provocato lesioni gravi, e che, subito dopo, nell'erronea convinzione del già avvenuto e non voluto decesso, allo scopo di occultare il presunto cadavere, ne avevano dato alle fiamme il corpo, così cagionandone la morte (Cass. I, n. 16976/2003);

- in un altro ancora, ritenuto configurabile il dolo omicidiario nella condotta dell'agente che, dopo avere ripetutamente colpito con calci, pugni e un corpo contundente parti vitali del corpo della vittima, la trasporti sino a una spiaggia, per ivi abbandonarla bocconi sulla battigia in condizione di mare mosso che ne determinano l'annegamento: Cass. I, n. 631/2007: fattispecie nella quale lo stretto contatto con il corpo della vittima — dopo che questa aveva perso conoscenza in conseguenza delle gravi lesioni subite costituenti concausa dell'evento letale — nella fase del trasporto e del trascinamento sino alla riva della mare aveva consentito all'imputato di percepire estremi segni di perdurante vitalità della vittima, che decedeva per asfissia da annegamento, con la conseguenza che anche quest'ultimo atto doveva ritenersi sorretto da dolo omicidiario, quanto meno nella forma del dolo eventuale).

La dottrina configura, in tali casi, il c.d. dolus generalis, “che si ha quando l'agente ritiene erroneamente di avere già realizzato un fatto di reato con una prima fase della sua condotta e lo realizza invece con una seconda fase della condotta stessa, volta ad occultare il fatto precedente. (...) Preferibile sembra che le due condotte (...) restano distinte e che la seconda non è più sorretta da dolo: ergo, concorso di tentato omicidio e omicidio colposo” (Romano, PG, 447).

La coscienza dell'offesa

Si discute tradizionalmente se nell'ambito del dolo rientri anche la coscienza dell'offesa, ovvero dell'antigiuridicità della condotta.

La giurisprudenza ritiene generalmente che “la coscienza dell'antigiuridicità (o dell'antisocialità) della condotta non è componente del dolo, per la cui sussistenza è necessario soltanto che l'agente abbia la coscienza e volontà di commettere una determinata azione. D'altra parte, essendo la conoscenza della legge penale presunta dall'art. 5, quando l'agente abbia posto in essere coscientemente e con volontà libera il fatto vietato dalla legge penale, il dolo deve essere ritenuto sussistente, senza che sia necessaria la consapevolezza dell'agente di compiere un'azione illegittima o antisociale sia nel senso di consapevolezza della contrarietà alla legge penale sia nel senso di contrarietà ai fini della comunità organizzata” (Cass. I, n. 15885/2007).

La dottrina ha chiarito che “l'imputazione dolosa non potrà esservi quante volte il soggetto, pur rendendosi conto del disvalore sociale della propria condotta, non potesse conoscere il divieto legale; ma potrà aversi, all'opposto, anche quando egli, conoscendo o potendo conoscere il divieto legale, abbia nondimeno ritenuto del tutto innocuo il proprio comportamento” (Romano, Commentario, 407).

La Corte costituzionale (sentenza n. 364/1988, ha ritenuto che il presupposto della responsabilità penale è la possibilità del soggetto agente di conoscere il contenuto precettivo della norma incriminatrice violata, che incontra un limite soltanto nella oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto in cui venga a trovarsi chiunque: la conseguenza logica è che deve costituire oggetto del dolo anche la consapevolezza dell'illiceità penale del fatto (soltanto potenziale, non occorrendo la conoscenza effettiva, ma la mera conoscibilità della norma violata), mentre non è, invece, necessaria la consapevolezza delle pene previste per la condotta vietata.

Le forme del dolo

Dolo diretto (intenzionale ed alternativo) e dolo indiretto (od eventuale)

Tra le diverse forme di dolo, si distinguono in primo luogo il dolo diretto, che si ha “quando il soggetto conosce come certi (o altamente probabili) gli elementi del fatto e prevede come sicuro (o altamente probabile) che il suo comportamento realizzerà il fatto di reato: chi agisce in questa situazione vuole la conseguenza (ritenuta) certa e necessaria della propria condotta. (...) La realizzazione del fatto di reato deve intendersi ovviamente come integrazione degli elementi del fatto storico corrispondente alla qualificazione legale, anche ignorando quest'ultima” (Romano, Commentario, 440 s.).

Il dolo diretto consiste, pertanto, nella coscienza e volontà di perseguire l'evento tipizzato dalla norma incriminatrice, come risultato certo od altamente probabile della condotta (ad es., il soggetto vuole uccidere il suo nemico e sa che colpendolo al capo con un colpo d'arma da fuoco, con certezza, ovvero con elevata probabilità, lo ucciderà), e può assumere connotazioni di:

a) dolo intenzionale, che è tradizionalmente equiparato dalla dottrina al dolo diretto, ed al quale la giurisprudenza tende ad attribuire autonoma rilevanza (ed intensità maggiore), precisando che, nell'ambito del dolo diretto, è possibile distinguere il caso in cui un evento è voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, da quello in cui l'evento è perseguito di per sé stesso come scopo finale della condotta, e non soltanto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale: nel primo caso, si avrà dolo diretto non intenzionale, nel secondo, si avrà dolo diretto intenzionale. Tipico esempio di dolo diretto intenzionale è stato ravvisato nell'atteggiamento psichico del soggetto agente che abbia esploso numerosi colpi di pistola in direzione di un proprio antagonista, e lo abbia ucciso, perseguendo come scopo finale della condotta proprio l'evento morte dell'antagonista. Diversamente, è stato qualificato come dolo diretto non intenzionale l'atteggiamento psichico del soggetto agente che, per sottrarsi alla cattura dopo una rapina, aveva risposto al colpo di avvertimento, esploso da una guardia giurata, sparando, ad altezza d'uomo ed a breve distanza, numerosi colpi con una pistola ed attingendola ad una coscia (per tutte, Cass. S.U. , n. 748/1994);

b) dolo alternativo, configurabile “allorquando l'agente al momento della realizzazione dell'elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole indifferentemente ed alternativamente l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché egli prevede necessariamente entrambi, ed attesa la sostanziale equivalenza dell'uno o dell'altro evento, dovrà rispondere per quello effettivamente realizzato” (Cass. I, n. 11521/2009: fattispecie relativa ad esplosione di colpi di pistola contro due persone dall'interno dell'abitacolo di un'autovettura).

Invero, se il soggetto non vuole la realizzazione di entrambi gli eventi cumulativamente (nel qual caso dovrebbe risponderne in concorso formale ex art. 81, comma 1), “egli non potrà rispondere che di uno di essi, non già di entrambi in concorso, e neppure di un reato consumato ed uno tentato. Es.: A, con in canna un solo colpo, vuole uccidere o B o C che procedono appaiati verso di lui; viene ucciso B: solo omicidio volontario (niente tentativo in danno di C). Se si immagina poi che l'unico colpo trafigga entrambi (p.e. B si è fatto scudo di C), si avrà ancora un solo omicidio volontario” (Romano, Commentario, 445);

Dal dolo diretto, si distingue il dolo indiretto, od eventuale, che invece “indica l'atteggiamento psicologico di chi si rappresenta la (concreta) possibilità della realizzazione del fatto di reato e ne accetta il rischio: agendo senza avere superato lo stato di dubbio circa il (concretamente) possibile verificarsi del fatto di reato, quindi nonostante la sua rappresentazione, il soggetto anche qui vuole il fatto medesimo. Si tratta di un dolo indiretto (come anche viene denominato) di intensità minore rispetto al dolo diretto (od intenzionale) ma dalla storia recente e tuttora accolto (pur con vivaci acute controversie circa la delimitazione dalla colpa cosciente, in tutti i maggiori sistemi penali contemporanei” (Romano, Commentario, 441). Il dolo eventuale è, pertanto, connotato dall'accettazione del rischio di verificazione dell'evento, visto, nella rappresentazione psichica dell'agente, come una delle possibili conseguenze, pur non direttamente voluta (di qui la qualificazione come dolo indiretto) della condotta: i pensi, ad es., nel più classico caso di scuola, al soggetto che, per intascare il premio assicurativo, dia alla fiamme il proprio esercizio commerciale, ben sapendo che l'incendio che avvamperà potrà uccidere qualcuno degli abitanti dell'appartamento sito al primo piano dell'edificio: cionondimeno, egli agisce accettando il rischio del verificarsi di un tale evento, e quindi anche a costo di determinare tale evento, previsto ed accettato, pur se non direttamente voluto.

Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 38343/2014) hanno chiarito che il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi: « nel dolo si è in presenza di organizzazione della condotta che coinvolge, non solo sul piano rappresentativo, ma anche volitivo la verificazione del fatto di reato. In particolare, nel «dolo eventuale», che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione dell'evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l'agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell'evento e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi. Occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta. A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale ».

Ai fini della configurabilità del dolo eventuale, la circostanza che l'agente non sia in possesso di specifiche competenze tecnico-scientifiche non vale di per sé ad escludere la rappresentazione dell'evento e l'adesione psicologica allo stesso, dovendosi parametrare la personalità, la storia e le precedenti esperienze del soggetto attivo del reato alle circostanze del caso concreto (Cass. V, n. 27905/2021: fattispecie in tema di omicidio, in riferimento alla quale la S.C. ha ritenuto configurabile il dolo eventuale in capo all'agente escludendo che fosse necessario il possesso di particolari competenze mediche o balistiche per comprendere che uno sparo a distanza ravvicinata, la mancanza del foro di uscita del proiettile, la presenza di sangue e di uno stato di evidente sofferenza della vittima, nonché il lungo lasso di tempo intercorso tra il ferimento e l'intervento dei soccorsi potessero avere conseguenze letali).

Prescindendo dai casi di scuola, è stato ravvisato il dolo eventuale:

- nella condotta di un soggetto il quale, ben consapevole del fatto che, per commettere la programmata rapina, doveva necessariamente scavalcare un bancone e travolgere la persona che vi si trovava dietro, aveva ugualmente agito, accettando il rischio di ferire la predetta persona (Cass. II, n. 2399/2009);

- nella condotta degli imputati che, nel compimento di una rapina, avevano legato la vittima — soggetto obeso, con difficoltà motorie e in età avanzata — con nastro adesivo fino al collo, la avevano imbavagliato e le avevano tenuto il volto premuto contro i cuscini (Cass. I, n. 36949/2015);

- nella condotta del soggetto che, in caso di sinistro comunque ricollegabile al suo comportamento ed avente connotazioni tali da evidenziare, in termini di immediatezza, la probabilità, o anche solo la possibilità, che dall'incidente sia derivato danno alle persone e che queste necessitino di soccorso, non ottemperi all'obbligo di prestare assistenza ai feriti, integrando il reato di mancata prestazione dell'assistenza occorrente in caso di incidente ex art. 189, comma 7, cod. strada  (Cass. IV, n. 33772/2017).

- nella condotta di una guardia giurata esperta nell'uso delle armi che, nel tentativo di fermare dei ladri in fuga, dopo aver esploso in aria un unico colpo ed essersi posta al riparo dall'eventuale reazione dei malviventi, ormai datisi alla fuga, aveva continuato a sparare al buio, ed a distanza di circa trenta metri, altri cinque colpi ad altezza uomo, in direzione delle persone e delle auto in movimento, accettando così il rischio, pur di fermare i fuggitivi, di procurarne la morte (Cass. V, n. 40424/2019).

E' stato invece escluso il dolo eventuale in una fattispecie nella quale l'imputato  aveva imboccato con la propria auto una via contromano ad alta velocità, in una zona priva di illuminazione, per il rilievo che “la manovra azzardata da lui compiuta comportava necessariamente gravi pericoli anche per la sua incolumità, e tanto non consente di affermare che egli accettasse, in quel momento, le conseguenze di tale condotta gravemente imprudente alla guida; e, se ciò vale per i rischi a cui egli si esponeva, vale necessariamente anche per i rischi cui egli esponeva terze persone” (Cass. IV, n. 14663/2018).

Per la distinzione tra dolo eventuale ed alternativo si rinvia a quanto infra precisato.

Per la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente si rinvia al paragrafo “Colpa cosciente e dolo eventuale”.

Il dolo eventuale non è compatibile con la generalità dei reati, potendo “risultare escluso in singole fattispecie criminose per specifiche note positive (p.e. calunnia: v. art. 368 “... che egli sa innocente”)” (Romano, Commentario, 441).

Anche la giurisprudenza è ferma nel ritenere l'incompatibilità del dolo eventuale con il delitto di calunnia: “in tema di calunnia, ai fini dell'integrazione dell'elemento psicologico non assume alcun rilievo la forma del dolo eventuale, in quanto la formula normativa «taluno che egli sa innocente» risulta particolarmente pregnante e indicativa della consapevolezza certa dell'innocenza dell'incolpato” (Cass. VI, n. 2750/2009: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso il dolo in relazione ad un caso in cui l'imputato aveva temerariamente denunciato, in un reclamo al tribunale, fatti non personalmente percepiti, ma riferiti dalle parti private e non valutati).

È stata, inoltre, ritenuta l'incompatibilità del dolo eventuale:

- con i delitti di attentato (Cass. VI, n. 28009/2014: “nei delitti di attentato, la volontà dell'agente deve dirigersi direttamente verso gli eventi naturalistici presi in considerazione dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere sufficiente la sussistenza del dolo eventuale”);

- con il delitto di illecito trattamento dei dati personaliex art. 167, comma 2, Cod. privacy (Cass. III, n. 3683/2014: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso che potesse integrare l'elemento soggettivo del reato de quo la pubblicazione di un recapito telefonico su una rivista di annunci erotici da parte di un soggetto che non conosceva il titolare delle utenze, e, pertanto, ignorava se i messaggi erotici conseguentemente ricevuti, gli fossero graditi o costituissero per lui un danno. In realtà, nel caso di specie difettava del tutto il dolo — l'imputato aveva chiesto la pubblicazione del proprio recapito telefonico, indicandone erroneamente l'ultimo numero, e quindi fornendo per negligenza un recapito accidentalmente coincidente con quello della p.o. — e la condotta era penalmente irrilevante, non essendo punibile a titolo di mera colpa).

- con i reati di pura condotta, per la sussistenza dei quali è necessario il dolo diretto; conseguentemente il dubbio sulle circostanze precedenti o concomitanti all'azione è sufficiente ad escludere l'elemento psicologico del reato (Cass. I, n. 52868/2018, relativa a delitti di detenzione, porto e ricettazione di un fucile da guerra: la S.C. ha ritenuto che dovesse escludersi il dolo in ragione del dubbio dell'imputato sulla natura dell'arma, ricollegabile, eventualmente, ad un atteggiamento colposo, emergente dall'avere questi acquistato il fucile in un'armeria, dall'averlo regolarmente denunciato e dall'aver ricevuto da un armiere di fiducia rassicurazioni circa la regolarità dello stesso).

Superati i precedenti contrasti, la giurisprudenza (Cass. S.U. , n. 12433/2010) è attualmente orientata nel senso che l'elemento psicologico della ricettazione (art. 648 c.p.) può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto: il dolo eventuale è ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza. Si è successivamente chiarito che ricorre il dolo nella forma eventuale quando l'agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad un semplice difetto di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l'ipotesi contravvenzionale dell'acquisto di cose di sospetta provenienza, ex art. 712 (Cass. II, n. 41002/2013).

È stata, inoltre, ritenuta la compatibilità del dolo eventuale:

- con il delitto di lesioni volontarieex art. 582 (Cass. VI, n. 7389/2014);

- con il delitto di diffamazioneex art. 595 (Cass. V, n. 8419/2014).

E' stato ravvisato il dolo eventuale nella condotta di una guardia giurata esperta nell'uso delle armi che, nel tentativo di fermare dei ladri in fuga, dopo aver esploso in aria un unico colpo ed essersi posta al riparo dall'eventuale reazione dei malviventi, ormai datisi alla fuga, abbia continuato a sparare al buio e a distanza di circa trenta metri, altri cinque colpi ad altezza uomo, in direzione delle persone e delle auto in movimento, accettando così il rischio, pur di fermare i fuggitivi, di procurarne la morte (Cass. V, n. 40424/2019).

In tema di lesioni gravissime per contagio da HIV, la giurisprudenza ritiene sufficiente a provare il dolo eventuale, inteso come accettazione della probabilità dell'evento, il fatto che l'agente, pienamente consapevole di essere portatore del virus, abbia ciononostante ripetutamente consumato rapporti sessuali non protetti, senza avvisare il partner del proprio stato (Cass. V, n. 34139/2019: la S.C. ha precisato che la risalente diagnosi di malattia con prescrizione di retrovirali escludeva, nel caso di specie, la possibilità di inquadrare l'imputato come "uomo della strada", inconsapevole del rischio di trasmissione del virus per via sessuale); in argomento, si rinvia amplius al paragrafo “La rilevanza penale della morte o lesioni a seguito di contagio involontario da Aids” .

Dolo generico e specifico

Si ha dolo generico “quando la legge richiede la semplice coscienza e volontà del fatto materiale, essendo indifferente per l'esistenza del reato il fine per cui si agisce (es.: per il dolo di omicidio basta la coscienza e volontà di uccidere, non richiedendo l'art. 575 alcuna specifica finalità)” (Mantovani, PG, 321).

In giurisprudenza si è, ad esempio, ritenuto che il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216  l. fall.) è reato di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario che l'agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Cass. V, n. 21846/2014); oggetto del dolo non è tanto la consapevolezza del dissesto o la sua prevedibilità in concreto, quanto la rappresentazione del pericolo che la condotta costituisce per la conservazione delle garanzie patrimoniali e per la conseguente tutela degli interessi creditori (Cass. V, n. 40981/2014).

Si ha dolo specifico “quando la norma che lo prevede richiede, affinché possa aversi imputazione dolosa del fatto, che il soggetto abbia agito per conseguire una finalità (un fine, uno scopo) particolare, la cui effettiva realizzazione non è però necessaria per l'integrazione del reato. Da notare è che là dove la norma lo prevede, il dolo specifico (...) non si sostituisce al consueto dolo del fatto (come rappresentazione-e-volizione di tutti i suoi elementi), ma si aggiunge ad esso (contribuendo dunque ad arricchirlo e in tal senso a definire del fatto il disvalore di azione). Creazione dunque squisitamente legale, il dolo specifico ha come effetto di restringere l'incriminazione, almeno in quanto se manca nell'agente il fine particolare manca il dolo richiesto dalla norma. In sé stesso non suscettibile di presentarsi in forma indiretta (poiché appunto il soggetto deve avere agito proprio per quel fine), il dolo specifico può tuttavia convivere con un dolo eventuale riguardo agli elementi del fatto ad essi estranei” (Romano, Commentario, 446).

Ad es., il reato di sfruttamento della prostituzione si realizza col trarre una qualsiasi utilità dall'attività sessuale della prostituta e richiede il dolo specifico, ossia la cosciente volontà del colpevole di trarre vantaggio economico dalla prostituzione mediante partecipazione di guadagni ottenuti con tale attività; il reato non si configura quando la corresponsione dei proventi avvenga per giusta causa e nei limiti dell'adeguatezza, cioè per servizi leciti, sempre che vi sia proporzione tra servizio e compenso (Cass. III, n. 98/2000).

La giurisprudenza ha chiarito che, nell'ipotesi di reato commesso da soggetto a capacità diminuita, l'indagine sulla sussistenza del dolo specifico va compiuta con gli stessi criteri utilizzabili nei confronti del soggetto pienamente capace, e cioè avvalendosi di un procedimento logico inferenziale fondato sull'esame di fatti esterni e certi, aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall'agente (Cass. II, n. 9311/2019: fattispecie in tema di tentata estorsione, nella quale la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva dedotto la finalità di profitto perseguita dall'imputato, tossicodipendente affetto da disturbo bipolare e di personalità "borderline", dalle richieste di denaro che avevano costantemente accompagnato le diverse manifestazioni violente e intimidatorie poste in essere in danno della madre).

La giurisprudenza ha chiarito che, nell'ipotesi di reato commesso da soggetto a capacità diminuita, l'indagine sulla sussistenza del dolo specifico va compiuta con gli stessi criteri utilizzabili nei confronti del soggetto pienamente capace, e cioè avvalendosi di un procedimento logico inferenziale fondato sull'esame di fatti esterni e certi, aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall'agente (Cass. II, n. 9311/2019: fattispecie in tema di tentata estorsione, nella quale la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva dedotto la finalità di profitto perseguita dall'imputato, tossicodipendente affetto da disturbo bipolare e di personalità "borderline", dalle richieste di denaro che avevano costantemente accompagnato le diverse manifestazioni violente e intimidatorie poste in essere in danno della madre).

I reati a dolo specifico ed il principio di offensività

 La dottrina mostra generalizzate perplessità sulla compatibilità dei reati a dolo specifico con il principio di offensività, in tutti i casi nei quali la condotta incriminata sia “neutra”, e siano proprio le finalità soggettive a determinarne il contrasto o meno con la norma incriminatrice: “si tratta di illeciti imperniati su una condotta che, considerata in sé stessa, può addirittura costituire esercizio di un diritto costituzionalmente riconosciuto, ma che assume, invece, rilevanza penale in virtù del fine soggettivamente perseguito (dolo specifico) dall'agente: si consideri ad es. il reato di associazione sovversiva (art. 270 c.p.), contraddistinto da una condotta consistente nell'associarsi, come tale costituzionalmente lecita, e dal fine di sovvertire l'ordinamento dello Stato. A ben vedere, neppure la predetta finalità potrebbe — a rigore — conferire illiceità penale al fatto, finché essa non si traduca in una vera e propria istigazione a delinquere. Più in generale, il ricorso al dolo specifico, quale criterio di criminalizzazione, è inammissibile tutte le volte in cui esso si riduca ad una finalità meramente psicologica, che non riesce ad incrementare l'idoneità lesiva del fatto materiale” (FiandacaMusco, PG, 20).

Dolo d'impeto e di proposito. Dolo di premeditazione

Si ha dolo d'impeto quando l'agente si rappresenta-e-vuole commettere il reato, ed esegue il suo proposito criminoso immediatamente, senza alcun intervallo tra determinazione ed esecuzione.

Si ha dolo di proposito, quando tra l'insorgere della determinazione criminosa e la sua attuazione trascorre un apprezzabile lasso di tempo.

Nell'ambito del secondo, rientra il c.d. dolo di premeditazione (costituente circostanza aggravante speciale dei reati di omicidio volontario e preterintenzionale, e di lesioni volontarie, exartt. 577, comma 1, n. 3, e 585, comma 1, c.p.), che si caratterizza per la particolare intensità, perché persistente per apprezzabile lasso di tempo, e non può identificarsi con la freddezza e la pacatezza dell'animo (il frigido pacatoque animo della tradizione), in quanto ogni delitto, per dato di comune esperienza, implica impegno e concitazione.

Il dolo di premeditazione richiede il concorso di due elementi (Cass. S.U. , n. 337/2009):

- l'uno di natura cronologica, consistente in un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso;

- l'altro di natura ideologica, consistente nella ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine.

Questa classificazione, oltre ad individuare la predetta circostanza speciale, qualifica comunemente l'intensità del dolo, e rileva, quindi, ai fini della graduazione della pena, in relazione al parametro di cui all'art. 133, comma 1, n. 3, c.p.

Il dolo d'impeto è compatibile con quello eventuale: la pretesa incompatibilità (argomentata sulla pretesa inconciliabilità tra previsione ed assenza di riflessione) è stata, infatti, esclusa, “posto che l'agire sulla spinta emotiva del momento non esclude la lucidità mentale e le facoltà cognitive che consentono di prevedere ed accettare il rischio dell'evento come conseguenza della propria azione” (Cass. I, n. 23517/2013, in fattispecie nella quale l'imputato, per arrestare la fuga degli autori di un tentativo di furto in suo danno, aveva esploso colpi di arma da fuoco contro la vettura a bordo della quale i ladri erano fuggiti, accettando il rischio di cagionarne la morte).

Il dolo d'impeto è compatibile con la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 36, comma 1, legge n. 104/1992, che attiene alla condizione della persona offesa facente parte di una categoria di soggetti diversamente abili, considerati particolarmente vulnerabili (Cass. I, n. 4060/2019).

Altre forme

Si configura dolo di danno quando l'agente si rappresenta-e-vuole effettivamente ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice; è, al contrario, configurabile dolo di pericolo quando l'agente si rappresenta-e-vuole unicamente minacciare il bene protetto.

Esistono, peraltro, reati di danno con dolo di pericolo (ad es., i delitti preterintenzionali) e reati di pericolo con dolo di danno (ad es., i delitti tentati ex art. 56 e quelli di attentato).

Dolo iniziale è quello che sussiste soltanto nel momento in cui viene posta in essere la condotta (azione od omissione) tipica (Tizio avvelena Caio, ma dopo la somministrazione del veleno cerca di salvarlo, senza riuscirvi).

Dolo successivo è, al contrario, quello che si manifesta dopo che la condotta tipica è stata posta in essere (Tizio non si avvede di somministrare veleno a Caio, e quando finalmente se ne avvede, volutamente non si attiva per somministrargli l'antidoto).

Diversamente dai predetti, il dolo concomitante accompagna anche il verificarsi del processo causale che produce l'evento (Tizio, dopo aver somministrato veleno a Caio, assiste impassibile all'exitus).

La classificazione qualifica l'intensità del dolo, e rileva anch'essa, come la precedente, ai fini della graduazione della pena in relazione al parametro di cui all'art. 133, comma 1, n. 3.

L'intensità del dolo

L'intensità del dolo è indicata (art. 133, comma 1, n. 3, c.p.) tra i parametri rilevanti per la valutazione della gravità del reato, ai fini della commisurazione della pena, e va desunta:

a) dal diverso atteggiarsi della rappresentazione -e- volontà del reato, quanto al grado di chiarezza e certezza della rappresentazione degli elementi (anche di fatto) costitutivi della fattispecie tipica, oltre che di volontà della condotta, dell'evento, e del rapporto di causalità tra essi: “possono individuarsi vari livelli crescenti di intensità della volontà dolosa. Nel caso di azione posta in essere con accettazione del rischio dell'evento, si richiede all'autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento. Nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, l'autore, invece, non si limita di accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con una intensità maggiore di quelle precedenti. Se l'evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità, e può distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale” (Cass. S.U., n. 748/1994);

b) dalla maggiore o minore durata del proposito criminoso;

c) dal maggiore o minore grado di consapevolezza dell'antigiuridicità (penale, od anche extrapenale) della condotta.

L'accertamento del dolo

Il giudice non può, naturalmente, indagare nella psiche dell'agente, se non attraverso l'esame degli elementi oggettivamente emergenti dal processo: è, pertanto, del tutto logico che la consapevolezza e la volontarietà della condotta dell'imputato siano desunte dai suoi diversi e molteplici atteggiamenti esteriori, che costituiscano rilevante manifestazione della volontà dell'agente.

Il dolo non inest in re ipsa, ma deve essere provato. Non trova, pertanto, fondamento alcuno la tesi del c.d. dolus in re ipsa, in passato accolta in giurisprudenza per superare difficoltà di prova in determinate situazioni: “costruzioni del tipo del dolus in re ipsa, almeno se intese con riferimento a schemi legali di autentiche presunzioni relative, non hanno alcun fondamento tecnico-giuridico, poiché sconosciute all'ordinamento vigente; vero è, piuttosto, che essendo necessario inferire un effettivo, reale atteggiamento psichico dell'agente da tutte le circostanze o elementi esteriori, si dovrà fare ricorso a massime di esperienza, le quali, in presenza di un comportamento cosciente e volontario, tenuto in date circostanze concrete, consentiranno di formulare l'ipotesi di una condotta dolosa, sino a che l'ipotesi stessa non venga smentita da altra che la renda non più plausibile. Ma questa comprensibile e doverosa semplificazione probatoria (...) non ha nulla a che vedere con un'inammissibile praesumptio iuris tantum di dolo” (Romano, Commentario, 448 s.).

L'accertamento del dolo consiste, fondamentalmente, “nel considerare tutte le circostanze esteriori che in qualche modo possano essere espressione dell'atteggiamento psicologico dell'agente e nell'inferire unicamente dall'esistenza di tali circostanze — sempreché, ovviamente, le stesse o alcune di esse non lascino ragionevolmente supporre una deviazione del modo in cui vanno normalmente le cose della vita — l'esistenza di una rappresentazione e di una volizione del fatto, sulla base delle comuni regole di esperienza, procedendo, cioè, ad una estensione analogica al caso concreto dell''id quod plerumque accidit” (Cass. I, n. 13237/1986).

La prova della sussistenza del dolo diretto “si ricava essenzialmente dagli elementi obiettivi del fatto e dalle concrete manifestazioni della condotta, sicché i dati concernenti l'asserita e dichiarata motivazione della stessa ed, al limite, le stesse affermazioni dell'agente, hanno una funzione meramente sussidiaria” (Cass. I, n. 4912/1989).

Con specifico riguardo alla prova del dolo di omicidio (art. 575 c.p.), che può, nella pratica, risultare di particolare complessità, la giurisprudenza fa tendenzialmente riferimento a quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente; la volontà omicida potrà, in particolare, essere desunta:

a) dalla micidialità del mezzo usato;

b) dall'eventuale pluralità di colpi: tuttavia, si è ritenuto anche che la mancata inflizione di più pugnalate non escluda la configurabilità del dolo omicida, ove sia accertato che, per le modalità operative e per lo strumento utilizzato, l'azione era idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell'agente (Cass. I, n. 51056/2013: nella fattispecie, la vittima era stata ferita all'addome con un solo colpo ma tale da lasciarne presumere l'esizialità, ed era stata abbandonata esanime sul luogo del fatto);

c) dalla vitalità della zona (del corpo umano) colpita;

d) da ogni altro utile fattore obiettivo, ritualmente acquisito al processo.

L'esistenza di un movente non è essenziale ai fini della prova del dolo, ove la sua sussistenza sia già stata accertata inequivocabilmente dagli elementi oggettivi del fatto.

Con riguardo alla (tradizionalmente ostica) indagine psicologica necessaria per accertare il dolo eventuale, la giurisprudenza (Cass. S.U., n. 38343/2014; Cass. V, n. 23992/2015) richiede la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa, e precisa che, a tal fine, l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali:

a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa;

b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente;

c) la durata e la ripetizione dell'azione;

d) il comportamento successivo al fatto;

e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali;

f) la probabilità di verificazione dell'evento;

g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione;

h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (c.d. prima formula di Frank).

Ad esempio, in relazione ad una fattispecie in tema di lesioni volontarie da sinistro stradale, è stata individuata la sussistenza di taluni indicatori del dolo eventuale, anziché della colpa cosciente, nell'essere il fatto avvenuto subito dopo una rapina, compiuta mentre l'imputato, gravato da numerosi precedenti, era in regime di semilibertà, nonché nella elevata velocità tenuta e nella inosservanza di segnalazioni semaforiche (Cass. II, n. 43348/2014).

In tema di responsabilità del medico per intervento chirurgico effettuato da collaboratore privo della prescritta abilitazione ed in difetto di valido consenso informato, ai fini dell'individuazione degli elementi costitutivi del dolo eventuale, è stato attribuito rilievo sintomatico all'esito infausto, alla lunghezza del trattamento, alla dissimulazione della qualifica professionale con conseguente svolgimento di attività abusiva, alla delicatezza ed alla invasività degli interventi praticati sul paziente, nonché proprio al difetto di un valido consenso informato da parte di quest'ultimo (Cass. V, n. 3222/2012: fattispecie relativa alla responsabilità per lesioni dolose del medico responsabile di uno studio dentistico che aveva affidato il paziente ad un proprio collaboratore privo della necessaria abilitazione ed in difetto di valido consenso informato dello stesso paziente. Non essendo provata la volontà di cagionare la malattia ed i postumi invalidanti poi verificatisi, la S.C. ha ritenuto che il dolo concerneva non già l'attività del medico, bensì quella abusiva del collaboratore, che non era medico ed il cui intervento aveva, pertanto, elevato il rischio di complicazioni, con potenziali, e forse probabili, effetti lesivi che il medico non poteva non rappresentarsi; il fatto che era stato taciuto al paziente che il collaboratore non era un medico è stato, inoltre, valorizzato come potenziale indizio della consapevolezza in capo all'agente che il paziente avrebbe potuto negare il proprio consenso, e dell'accettazione degli effetti lesivi dell'attività abusiva, pur di conseguirne gli elevati vantaggi economici).

Segue. Casistica

Armi, munizioni ed esplosivi

Il reato di detenzione di munizioni da guerra non richiede il dolo specifico né tantomeno è necessario che tali munizioni siano atte all'impiego, dovendosi questa caratteristica riferire, come si evince dal testo dell'art. 1 legge 2 ottobre 1967, n. 895, esclusivamente alle parti di armi da guerra o tipo guerra; la nozione di munizioni da guerra, contenuta nell'art. 1, comma terzo, legge 18 aprile 1975 n. 110, prescinde peraltro dalla loro efficienza e considera sufficiente la loro originaria destinazione (Cass. I, n. 449/1994).

L'elemento soggettivo del reato di porto abusivo di arma comune da sparo, che è reato di mero pericolo, è il dolo generico e, cioè, la coscienza e volontà di portare armi in luogo pubblico o aperto al pubblico senza la prescritta licenza (Cass. I, n. 46872/2009).

Blocco stradale

Il blocco stradale (art. 1 d.lgs. n. 66/1948: cfr. anche, per la successiva, parziale depenalizzazione, art. 1 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) è un delitto a dolo specifico, che si concretizza e si esaurisce nel fine di impedire o anche soltanto di rendere più difficoltosa la libera circolazione nella sede stradale — la cui realizzazione, peraltro, non è neppure necessaria per la sussistenza del reato — ma non esige che tale fine sia ispirato al soddisfacimento di specifici interessi (Cass. I, n. 7307/1991).

Circolazione stradale

Nel reato di «fuga» (all'art. 189 d.lgs. n. 285/1992cod. strada), l'elemento soggettivo può essere integrato anche dal dolo eventuale, ossia dalla consapevolezza del verificarsi di un incidente riconducibile al proprio comportamento che sia concretamente idoneo a produrre eventi lesivi, senza che debba riscontrarsi l'esistenza di un effettivo danno alle persone (Cass. IV, n. 17220/2012).

Guida in stato di ebbrezza

In tema di guida in stato di ebbrezza, la giurisprudenza ritiene che, in caso di esito positivo dell'alcotest, non rileva, al fine di escludere l'elemento soggettivo del reato, la circostanza che gli effetti dell'ingestione dell'alcool siano risultati prolungati nel tempo in ragione dell'assunzione di farmaci contro il diabete, in quanto l'obbligo del conducente di mettersi alla guida in stato di efficienza psico fisica include quello di tener conto degli effetti dei farmaci assunti e della loro interazione con l'assunzione di sostanze alcoliche (Cass. IV, n. 2868/2020).

Immigrazione

Per la sussistenza del reato previsto dall'art. 12, comma 5-bis, d.lgs. n. 286/1998 (t.u. della disciplina dell'immigrazione), come novellato del d.l. n. 92/2008, conv. con modif. in l. n. 125/2008, è richiesto il fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ovvero dal dare alloggio ad uno straniero privo di titolo di soggiorno, che può essere desunto da condizioni contrattuali comunque gravose rispetto ai valori di mercato (Cass. I, n. 46914/2009).

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

Secondo la giurisprudenza, integra l'elemento soggettivo del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro anche il dolo eventuale dell'utilizzatore di manodopera, ossia la consapevole accettazione del rischio che solo una parte residuale della retribuzione conferita all'intermediario venga poi effettivamente corrisposta ai lavoratori (Cass. IV, n. 45615/2021).

Mafia e misure di prevenzione

L'elemento soggettivo del delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali da parte dei condannati per reati di criminalità organizzata, di cui agli artt. 30 e 31 legge n. 646 del 1982, è integrato dal dolo generico, in quanto implica la consapevolezza dell'imputato di essere stato condannato per reati di mafia, e va di volta in volta desunto da indici sintomatici, legati alle vicende di acquisizione dei beni in rapporto anche al valore degli stessi (Cass. VI, n. 36659/2015); tuttavia, non potendosi presumere nella fattispecie la sussistenza di un c.d. dolus in re ipsa, desunto dalla mera condotta omissiva, ai fini dell'affermazione di responsabilità è necessaria una indagine specifica sull'effettiva e consapevole volontà di omettere la prescritta comunicazione (Cass. I, n. 6334/2010).

Reati abituali

Nel reato abituale, il dolo non richiede — a differenza che nel reato continuato — la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice (Cass. VI, n. 15146/2014: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso che, con riferimento a distinti episodi di maltrattamenti in famiglia, la natura di reato abituale della fattispecie incriminatrice possa costituire elemento idoneo a dimostrare la continuità ideativa e, quindi, l'esistenza del vincolo di continuazione tra gli stessi).

Reati ambientali

Il dolo generico è elemento sufficiente ad integrare il profilo soggettivo del cosiddetto delitto paesaggistico (art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) (Cass. III, n. 48478/2011, fattispecie di esecuzione di interventi edilizi abusivi in area dichiarata di notevole interesse pubblico in cui la Corte ha ritenuto sussistere l'elemento psicologico, non avendo l'imputato adempiuto al dovere di informarsi, preventivamente all'esecuzione dei lavori, anche circa l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area, né aveva fornito idonea dimostrazione in tal senso).

Reati fallimentari

In tema di reati fallimentari, la giurisprudenza ritiene sufficiente ad integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, dell'amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell'amministratore di fatto (Cass. V, n. 32413/2020: fattispecie relativa ai reati di bancarotta fraudolenta documentale e di fallimento per effetto di operazioni dolose di una società "cartiera", in cui la prova del dolo dell'amministratore di diritto è stata desunta dalla dichiarata conoscenza della indisponibilità di un magazzino a fronte di un elevato fatturato). Ai fini della prova del dolo di bancarotta fraudolenta documentale c.d “generica” dell'amministratore solo formale, non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l'abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell'alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono (Cass. V, n. 44666/2021).

L’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria non comprende la previsione ed accettazione del fallimento, ma solo la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alla finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori (Cass. V, n. 35093/2014).

Si è anche ritenuto che l'epoca del depauperamento può assumere rilevanza ai fini della sussistenza degli indici di fraudolenza e, dunque, del dolo, solo nel caso in cui la condotta dell'agente presenti elementi non univoci di qualificazione giuridica in termini di distrazione, ma non certo quando il depauperamento consegua ad una deliberata condotta di sottrazione, priva di un'alternativa ipotesi qualificatoria (Cass. V, n. 45230/2021).

Reati militari

Per integrare il reato di disobbedienza militare (art. 173 cod. pen. mil. pace), è sufficiente il dolo generico, costituito dalla volontà di rifiutare di obbedire ad un ordine che appaia oggettivamente attinente al servizio, nella piena consapevolezza della ribellione funzionale e dell'attinenza al servizio dell'ordine impartito dal superiore (Cass. I, n. 28232/2014).

Reati tributari

L'elemento soggettivo del reato di omesso versamento di Iva (art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000), è il dolo generico, da estendersi anche alla consapevolezza del superamento della soglia di punibilità, individuata dalla disposizione incriminatrice, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 158/2015, in 250.000 euro (Cass. III, n. 3098/2016); il soggetto che subentri ad altri nella carica di amministratore o liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, ed ometta di versare all'Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, risponde del reato di cui all'art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 quantomeno a titolo di dolo eventuale, in quanto attraverso tale condotta lo stesso si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze (Cass. III, n. 34927/2015 e n. 38687/2014).

L'elemento soggettivo del delitto di occultamento e distruzione di documenti contabili (art. 10 d.lgs. n. 74/2000) è integrato dal dolo specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire l'evasione fiscale di terzi, essendo irrilevanti, per contro, l'interesse o il movente che abbiano eventualmente spinto l'agente a commettere il reato (Cass. VII, n. 9439/2020).

Il liquidatore di una società di capitali può rispondere, in relazione alle dichiarazioni annuali presentate dopo il suo insediamento, dei reati di cui agli artt. 2 e 4 d.lgs. 3 ottobre 2000, n. 74, purché emergano elementi dai quali poter desumere quanto meno la sussistenza del dolo eventuale, e dunque la conoscenza o conoscibilità, attraverso una diligente verifica della contabilità e dei bilanci, della fittizietà delle poste e della falsità delle fatture inserite nella dichiarazione (Cass. III, n. 30492/2015).

Profili processuali

Il dolo nel subprocedimento cautelare reale

In relazione ai provvedimenti che dispongono misure di cautela reale, nella valutazione del fumus commissi delicti può rilevare anche l'eventuale difetto dell'elemento soggettivo del reato, purché di immediata evidenza (Cass. II, n. 2808/2009; Cass. VI, n. 16153/2014; argomenta anche da Corte cost., n. 153/2007).

Divieto di reformatio in pejus

Una volta che l'imputato abbia investito, con l'appello, il punto della sentenza concernente la configurabilità del tentativo di omicidio in relazione al tipo di dolo che sorregge l'azione, legittimamente il giudice di secondo grado ritiene, ferma restando la pena inflitta dal primo giudice, il dolo diretto in luogo di quello eventuale, senza che ciò comporti violazione del divieto di reformatio in pejus (Cass. I, n. 5963/2000).

La preterintenzione: nozione e struttura

Tra le forme tipiche di volontà colpevole rientra anche, ai sensi dell'art. 43, la preterintenzione.

La collocazione sistematica intermedia tra il dolo e la colpa aveva indotto la dottrina tradizionale ad individuare nella preterintenzione un tertium genus di volontà colpevole; si è, peraltro, osservato, in senso contrario, che l'evento può soltanto essere voluto (= dolo) o non voluto (= colpa): tertium non datur.

La preterintenzione (che l'art. 42, commi 2 e 3, c.p., distingue anche dalla responsabilità oggettiva) è strutturalmente caratterizzata dalla volontà di un evento minore (ad es., nell'omicidio preterintenzionale, le percosse o lesioni) cui segue un diverso e più grave evento non voluto (nel predetto es., la morte), che va oltre le intenzioni dell'agente: “mentre infatti il delitto doloso è rappresentazione-e-volizione di un fatto storico congruente con il modello legale, e mentre il delitto doloso non è volizione degli elementi del fatto storico stesso, con la sua realizzazione a causa di imprudenza, negligenza, imperizia, ecc., il delitto preterintenzionale si pone come realizzazione di un fatto più grave (...) non voluto, in presenza della rappresentazione-e-volizione di un fatto meno grave”, e si caratterizza:

a) per “l'omogeneità di lesione e quindi una progressione “lineare” fra evento meno grave voluto ed evento più grave non voluto”;

b) “l'unitarietà e l'autonomia del delitto, con l'evento più grave non voluto come elemento costitutivo del reato: un “nuovo” reato rispetto a quello voluto, e un “nuovo” reato semplice, non circostanziato” (Romano, Commentario, 450 s.).

È tradizionalmente oggetto di contrasti, in dottrina e giurisprudenza, l'individuazione del criterio di imputazione dell'evento più grave non voluto, pacifico essendo che quello meno grave voluto sia imputabile a titolo di dolo:

a) un orientamento ritiene che esso sia imputato all'agente a titolo di responsabilità oggettiva, “sulla base del solo rapporto di causalità, anche se in concreto non prevedibile e verificatosi senza che si sia avuta imprudenza, negligenza, imperizia” (Romano, Commentario, 453).

b) altro orientamento, che adegua la fattispecie al principio di personalità ex art. 27 Cost. oltre che, nel rispetto del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), all'imputazione soggettiva delle circostanze (art. 59, comma 2, c.p.: la diversità sarebbe, infatti, incomprensibile), ritiene che l'evento più grave sia imputato all'agente a titolo di colpa, e quindi soltanto se costituiva prevedibile conseguenza della condotta dolosa: a ciò induce anche la sistematica adottata dal legislatore che, dopo aver distinto nell'art. 42 c.p. la preterintenzione dalla responsabilità oggettiva, disciplina la prima, nell'art. 43, dopo il dolo e prima della colpa (Mantovani, PG, 357).

Quest'ultimo orientamento è in armonia con la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 346/1988), secondo la quale la personalità della responsabilità penale comporta che gli elementi più significativi della fattispecie di volta in volta oggetto di imputazione debbano essere psicologicamente attribuibili all'agente, a titolo di dolo, ovvero, quantomeno, di colpa; appare chiaro, inoltre, che l'obiezione tradizionalmente posta a questo orientamento, della non individuazione della regola cautelare che si assume violata, non è fondata: l'evento più grave è, infatti, imputato all'agente a titolo di colpa generica per imprudenza nella condotta esecutiva del reato meno grave, sfociata nella realizzazione dell'evento più grave non voluto.

L'orientamento ormai dominante in giurisprudenza ritiene, al contrario, che l'elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non sia costituito né da dolo e responsabilità oggettiva, né da dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 assorbe la prevedibilità di evento più grave nell'intenzione di risultato; ne consegue che la valutazione relativa alla prevedibilità dell'evento da cui dipende l'esistenza del delitto de quo è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa, e che l'agente risponde dunque per fatto proprio, sia pure in relazione ad un evento diverso da quello effettivamente voluto, che, per esplicita previsione legislativa, aggrava il trattamento sanzionatorio (Cass. V, n. 13114/2002, e Cass. V, n. 791/2013) in applicazione del principio, Cass. V, 44986/2016 ha confermato la sentenza con la quale era stata affermata la responsabilità dell'imputato a titolo di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell'evento, e non di omicidio preterintenzionale, con riferimento alla morte di una donna per soffocamento, verificatasi nel corso di un rapporto sessuale con l'imputato, che prevedeva l'adozione di comune accordo di tecniche di "bondage", ossia di costrizione fisica mediante legatura).Quanto al rapporto di causalità tra la condotta e l'evento più grave non voluto, quest'ultimo deve costituire il prodotto della specifica situazione di pericolo generata dal reo con la condotta intenzionale volta a ledere o percuotere la vittima: “ne consegue che se la morte della vittima è del tutto estranea all'area di rischio attivato con la condotta iniziale, che era intenzionalmente diretta a percuotere o provocare lesioni ed è invece conseguenza di un comportamento successivo, posto in essere a seguito dell'erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell'evento mortale, quest'ultimo non può essere imputato a titolo preterintenzionale, ma deve essere punito a titolo di colpa, in quanto effetto di una serie causale diversa da quella avente origine dall'evento di percosse o lesioni dolose” (Cass. V, n. 3946/2003, che, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile di omicidio preterintenzionale un uomo che, avendo spinto a terra una donna provocandole la perdita dei sensi, l'aveva creduta morta e, per simularne il suicidio, le aveva posto un cuscino sul volto e aveva staccato il tubo del gas, cagionando con tali ulteriori condotte la morte della stessa per soffocamento).

Per la punibilità a titolo di preterintenzione, come per la colpa, occorre una espressa previsione di legge (ex art. 42, comma 2, c.p.): in difetto, i reati previsti dalla parte speciale del codice penale ovvero dalla legislazione speciale sono punibili unicamente a titolo di dolo; peraltro, il codice disciplina il solo omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.), cui, nella legislazione speciale, si affianca l'aborto preterintenzionale (art. 18, commi 2 e 4, l. 22 maggio 1978, n. 194).

I delitti preterintenzionali sono autonomi ed unitari, e, pertanto, l'evento (ed il reato) meno grave non possono assumere autonoma rilevanza ad alcun fine (amnistia, prescrizione).

Per la medesima ragione, dall'ambito dei delitti preterintenzionali esulano quelli aggravati dall'evento: il delitto preterintenzionale è un nuovo delitto, non una forma aggravata di quello meno grave (di percosse o lesioni), e, per tale ragione, diversamente da quelli aggravati dall'evento, non è soggetto al giudizio di comparazione tra circostanze concorrenti ex art. 69 c.p.

Neanche il delitto ex art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) è riconducibile alla preterintenzione, ed in particolare al delitto ex art. 584 c.p.: in quest'ultimo, l'attività del colpevole è diretta a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe reato di percosse o di lesione personale, mentre nel primo la detta attività del soggetto agente mira a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali (Cass. V, n. 6403/1990 e Cass.n. 21002/2015: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse ravvisato l'omicidio preterintenzionale in relazione ad un decesso causato da un'azione violenta consistita nell'immobilizzare ed imbavagliare la vittima e dalla quale era derivato un fenomeno di asfissia da soffocamento).

Si è ritenuto che, per configurare l’omicidio preterintenzionale, l'evento morte deve costituire il prodotto della specifica situazione di pericolo generata dal reo con la condotta intenzionalmente tenuta, volta a ledere una persona, sicché esso non può essere imputato a titolo di preterintenzione, ma di colpa, ove costituisca effetto di una serie causale diversa e del tutto estranea all'area di rischio attivato con la condotta iniziale (intenzionalmente diretta a provocare lesioni), in quanto conseguenza di un comportamento successivo (Cass. V, n. 5269/2022).

L’orientamento più recente (Cass. V, n. 4564/2024), ribadendo quanto ritenuto dall’orientamento dominante,  ha ritenuto che la preterintenzione non è costituita da dolo e responsabilità oggettiva, né da dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell'intenzione di risultato: proprio con riguardo all'elemento psicologico, il delitto di omicidio preterintenzionale si differenzia da quello previsto dall'art. 586 c.p., nel quale l'attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali.

I rapporti con il dolo eventuale ed alternativo

Secondo la giurisprudenza (Cass. I, n. 16523/2021), il dolo eventuale è costituito dalla consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall’accettazione di tale rischio, che potrà essere graduata a seconda di quanto maggiore o minore l’agente consideri la probabilità di verificazione dell’evento; diversamente, sussiste il dolo alternativo nel caso in cui l’agente ritenga altamente probabile o certo l’evento, non limitandosi a prevederne e ad accettarne il rischio, ma prevedendo ed accettando l’evento stesso e quindi, pur non perseguendolo come suo scopo finale, alternativamente lo vuole con un’intensità evidentemente maggiore di quelle precedenti.

La preterintenzione è caratterizzata, come detto, dalla volontà dell'evento meno grave (nell'omicidio preterintenzionale, ad es., di percuotere o cagionare lesioni personali alla vittima), e non di quello più grave (la morte): tuttavia, se il soggetto abbia agito con la volontà di ferire od uccidere la vittima indifferentemente (dolo alternativo), ovvero con previsione dell'evento, non volendolo, ma accettando il rischio del suo verificarsi (dolo eventuale) non ricorre l'ipotesi preterintenzionale, sussistendo (in forma indiretta) la volontà dolosa dell'evento omicidiario più grave (Cass. I, n. 7362/1982).

Il dolo dell'evento meno grave deve assumere le connotazioni del dolo diretto, e non meramente eventuale: invero, sia l'art. 584 (che richiede il compimento di «atti diretti a... » percuotere e/o cagionare lesioni), sia l'art. 18, comma 2, l. n. 194 del 1978 (che richiede il compimento di “azioni dirette a provocare lesioni”) richiedono, che l'evento meno grave sia cagionato da una condotta lesiva caratterizzata da dolo diretto, non meramente eventuale (Cass. I, n. 7362/1982 e Cass. n. 4904/1989); per tale ragione si è ritenuto di individuare, nel fatto di chi vende o ceda una quantità di droga a un tossicomane, il quale deceda a causa dell'assunzione — autonomamente realizzata — della droga stessa, non il delitto ex art. 584 c.p., bensì quello ex art. 586, potendo in tale ipotesi ravvisarsi unicamente una condotta lesiva caratterizzata da dolo eventuale, e non diretto (Cass. I, n. 2538/1988).

La colpa: nozione

La colpa è una delle forme tipiche di volontà colpevole (unitamente al dolo ed alla preterintenzione).

L'art. 42, comma 2, c.p. richiede, per la punibilità a titolo di colpa, una espressa previsione di legge: in difetto, i reati previsti dalla parte speciale del codice penale ovvero dalla legislazione speciale sono punibili unicamente a titolo di dolo; interpretando l'art. 43, comma 1, in combinazione con l'art. 42, comma 1, può immediatamente rilevarsi che l'imputazione di un evento a titolo di colpa presuppone:

a) l'attribuibilità della condotta all'agente (c.d. suitas: cfr. sub art. 42);

b) l'assenza di volontà del fatto-reato (diversamente dall'imputazione a titolo di dolo, caratterizzata dalla volontà del fatto-reato);

c) la riconducibilità dell'evento all'inosservanza delle regole di condotta indicate dall'art. 43, comma 1, che costituiscono elementi oggettivi dell'imputazione soggettiva a titolo di colpa.

La dottrina tradizionale considerava la colpa quale ulteriore (e meno grave, rispetto al dolo) criterio di imputazione, identificandone il fondamento:

a) nella realizzazione involontaria di un fatto-reato tipico...

b)... frutto della violazione di regole di condotta doverose (volte a prevenire danni del tipo di quello prodotto dall'evento non voluto al bene giuridicamente protetto dalla norma incriminatrice violata)...

c)... che l'agente aveva la possibilità di osservare.

Al pari del dolo, la colpa veniva ricollegata ad un atteggiamento antidoveroso (pur meno grave) della volontà dell'agente, cui si rimprovera, in questo caso, (non di aver voluto l'evento, bensì) di non avere osservato le regole cautelari imposte dall'ordinamento per evitarlo.

Il notevole incremento della criminalità colposa, un tempo considerata “rara”, ha intensificato gli studi della dottrina sulla colpa, alla quale l'orientamento attualmente dominante riconosce autonoma (rispetto al dolo) rilevanza: «diversamente da come si è spesso sostenuto, il reato colposo non costituisce soltanto una seconda e meno grave forma di colpevolezza da affiancare al dolo. Esso rappresenta un modello specifico di illecito penale, dotato di struttura e caratteristiche proprie che emergono già sul piano della “tipicità”, e che si riflettono fin sul terreno della “colpevolezza» (Fiandaca-Musco, PG,565).

La “coscienza e volontà” dell'azione colposa tipica

L'attribuibilità dell'azione (anche colposa) all'agente presuppone che essa sia stata “cosciente e volontaria”; peraltro, l'imputazione a titolo di colpa si caratterizza per il fatto che il soggetto agente può essere ritenuto responsabile anche per atti incoscienti ed involontari. Si pone, pertanto, il problema di raccordare le due previsioni.

La dottrina ha chiarito, in proposito, che «nel campo del delitto colposo vi è azione penalmente rilevante finché è possibile muovere un rimprovero per colpa: in altri termini, i presupposti dell'azione finiscono per coincidere con le condizioni che rendono possibile l'imputazione colposa. Detto in breve: azione e colpa stanno e cadono insieme. Ciò posto, si comprende come il concetto di “coscienza e volontà” dell'azione ex art. 42 vada differenziato a seconda che si tratti di reati dolosi o colposi: nei reati dolosi la coscienza e volontà consiste in un coefficiente psicologico effettivo; invece, nei delitti colposi, tale requisito si identifica ora con un dato psicologico (colpa c.d. cosciente), ora con un dato normativo (colpa c.d. incosciente). In quest'ultimo senso, l'azione si considera “voluta” anche quando risulta soltanto “dominabile” dal volere; è dominabile o controllabile un atto che può essere impedito mediante l'attivazione dei normali poteri di arresto e di impulso della volontà. All'agente, cui si imputa il fatto, si rimprovera, dunque, di non aver attivato quei poteri di controllo che doveva e poteva attivare per scongiurare l'evento lesivo. Il giudizio sulla “volontarietà” assume in tali casi un contenuto normativo proprio perché il rimprovero si fonda, essenzialmente, sul fatto che l'agente non ha osservato, pur potendolo, lo standard di diligenza richiesto nella situazione concreta» (Fiandaca-Musco, PG, 567).

La colpa costituisce, pertanto, una sorta di soglia minima che assume, ad un tempo, duplice valenza, sia in relazione all'attribuibilità dell'azione, che all'individuazione di un'azione colposa penalmente rilevante: risultano, infatti, attribuibili al soggetto, a titolo di colpa, “i fatti che si verificano per una deficienza del volere, e cioè perché la volontà non ha operato come doveva: essi risalgono per ciò stesso al volere del soggetto agente, del quale rispecchiano un atteggiamento antidoveroso” (Cass. S.U., 18 novembre 1958, C.).

Ad esempio, in presenza di un malore improvviso ed imprevedibile che abbia cagionato la perdita di coscienza del conducente di un autoveicolo, rendendone ingovernabili le azioni, viene meno (ex art. 42 c.p.) la condizione essenziale perché il fatto umano, astrattamente costitutivo di reato, in ipotesi commesso dal predetto in stato di incoscienza assuma rilevanza penale, a titolo di colpa, poiché l'agente è inconsapevole e, quindi, non responsabile (Cass. S.U., n. 12093/1980); diversamente, non potrebbe ravvisarsi la non attribuibilità dell'evento lesivo provocato, e/o il difetto di colpa, in favore del soggetto che si sia nuovamente posto alla guida dopo essere rimasto vittima in passato di malori improvvisi di consistente gravità, ormai divenuti, con ordinaria diligenza, prevedibili (Cass. IV, n. 11638/1999).

La struttura oggettiva del delitto colposo

L'individuazione dell'azione colposa tipica non può prescindere dalla considerazione delle diverse qualifiche normative della colpa indicate dall'art. 43 c.p.: “la violazione delle norme a contenuto precauzionale caratterizza il reato colposo sotto un duplice punto di vista: oltre ad integrare una specifica forma di colpevolezza, essa rileva già sul piano della tipicità, in quanto ogni illecito colposo si conforma sulla base del rapporto intercorrente fra la trasgressione del dovere oggettivo di diligenza ed i restanti elementi della fattispecie incriminatrice. Sicché, il contenuto del dovere di diligenza muta in funzione del tipo di fattispecie che viene in questione. Sul terreno del reato causalmente orientato con evento naturalistico — il quale rappresenta in verità il più importante modello di responsabilità colposa — il contenuto della regola cautelare si specifica in rapporto all'evento da evitare: azione tipica qui sarà da considerare quella che, nel complesso degli atti compiuti da un soggetto e causalmente collegati con l'evento, per prima dia luogo ad una situazione di contrarietà con la regola di condotta a contenuto preventivo” (Fiandaca.Musco, PG, 568).

La violazione del dovere obiettivo di diligenza imposto dall'ordinamento rientra, pertanto, nell'ambito della tipicità dell'azione colposa.

Colpa generica e specifica

La fonte delle regole cautelari la cui inosservanza legittima l'imputazione per colpa può essere:

a) sociale (c.d. colpa generica, per negligenza, imprudenza od imperizia);

bgiuridica (c.d. colpa specifica, per violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline).

Le prime costituiscono regole non formalizzate, ma cristallizzate nel comune sentire, sulla base di esperienze ripetute, con valenza ed efficacia cautelare in relazione alla prevenzione di determinati eventi; le seconde sono regole normativamente imposte per le medesime finalità.

Nell'ambito della colpa generica, secondo la dottrina (Romano, Commentario, 461):

- la negligenza si caratterizza come “difetto di diligenza riferita ad una condotta che prescrive un fare” (ad es., per il capostazione, vigilare assiduamente sulla regolare circolazione dei treni, senza distrarsi);

- l'imprudenza si caratterizza come «difetto di diligenza riferita ad una condotta che non doveva intraprendersi o che si doveva intraprendere con date modalità” (ad es., non fumare in un deposito di esplosivi, ovvero fare attenzione a che non cada la cenere), ovvero, secondo la giurisprudenza (Cass. IV, n. 16944/2015), “realizzazione di un'attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l'ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell'incolumità e degli interessi propri ed altrui”;

- l'imperizia si caratterizza come “forma di imprudenza o di negligenza in relazione ad attività che richiedono particolari conoscenze" (Blaiotta, 446).

Nell'ambito della colpa specifica rientrano norme cautelari o precauzionali positivizzate; in particolare (Fiandaca-Musco, PG, 575 s.):

- le leggi sono tutte quelle che abbiano specifiche finalità cautelari (non anche — come pure si era in passato sostenuto — le leggi penali tout court, ove tali finalità esse non abbiano: vi è differenza, infatti, tra la norma — generica — che vieta l'omicidio e quella — indubbiamente cautelare — che imponga l'adozione di determinate cautele onde prevenire il verificarsi di infortuni sul lavoro).

Le norme penali incriminatrici non possono mai assumere, di per sé, valenza cautelare: si è, pertanto, ritenuto, in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.), che la morte dell'assuntore di sostanza stupefacente sia imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussistano la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione illecita di sostanze stupefacenti: art. 73 d.P.R. n. 309/1990) e la prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale (Cass. S.U., n. 22676/2009);

- i regolamenti «contengono norme a carattere generale predisposte dall'Autorità pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività (si pensi ad es. al regolamento di esecuzione del Codice della strada)»;

- gli ordini e le discipline «contengono norme indirizzate ad una cerchia specifica di destinatari e possono essere emanati sia da Autorità pubbliche, sia da Autorità private (si pensi ad es. agli ordini emessi da soggetti pubblici o privati per regolare attività lavorative, ovvero alla disciplina interna di una fabbrica)».

Nell'ambito di tali fonti si distinguono, ulteriormente, norme rigide (che impongono una regola di condotta assoluta: ad es., bisogna fermarsi al rosso) ed elastiche (che dettano regole di condotta che l'agente deve adattare al caso concreto: ad es., la distanza di sicurezza tra veicoli va commisurata alla velocità di marcia). La giurisprudenza, in riferimento alla violazione di queste ultime, ha chiarito che è, comunque, necessario che l'imputazione soggettiva dell'evento avvenga attraverso un apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dall'agente modello (Cass. IV, n. 26239/2013: fattispecie in tema di disastro aviatorio colposo nella quale la S.C. ha ritenuto corretta la motivazione della sentenza di appello, che aveva riconosciuto la responsabilità del primo pilota in relazione al rovinoso ammaraggio di un velivolo per improvviso spegnimento in volo dei motori propulsori, osservando che il predetto, ancorché avesse per tempo segnalato il guasto del misuratore di carburante, non potesse essere esonerato da colpe in presenza di una serie di omissioni — consistite nel non aver seguito le fasi del rifornimento di carburante, nel non aver operato una diminuzione di quota, nell'aver posizionato male le eliche durante l'ammaraggio e nell'aver avvertito tardivamente i passeggeri — senza le quali sarebbe stato possibile evitare il disastro e la conseguente morte di sedici persone a bordo dell'apparecchio).

L'inosservanza della prescrizione positivizzata imposta costituisce, di per sé, l'essenza della colpa specifica, poiché all'agente (destinatario della legge, regolamento, ordine o disciplina) non è consentito sostituire il proprio giudizio a quello imposto normativamente, ed adottare condotte diverse che egli ritenga più adeguate sotto il profilo cautelare: per tale ragione, l'agente non potrebbe invocare, a giustificazione dell'inosservanza, l'eventuale invalidità formale della fonte, ma soltanto la sua inesistenza (ad es., non l'illegittimità costituzionale non dichiarata della legge che detta la regola cautelare, ma la sua mancata vigenza, per difetto di pubblicazione).

Si è incisivamente osservato, in giurisprudenza, che, sussistendo colpa specifica, la prevedibilità o meno, da parte dell'agente, dell'evento è priva di rilievo: «ad integrare la colpa specifica basta l'inosservanza della regola cautelare imposta dalla legge, regolamento, ordine o disciplina, purché, beninteso, l'evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che tale regola intende prevenire, per cui non vale invocare la mancanza del requisito della prevedibilità, essendo questa insita nello stesso precetto normativo violato, nel senso che è stato l'autore di questo a prefigurarsi una volta per tutte la pericolosità di una certa situazione (nella specie: quella derivante dalla mancata schermatura di un organo di un lavoratore), tanto da dettare precise regole precauzionali per ovviarvi» (Cass. IV, n. 1501/1990; Cass. I, n. 35536/2003); non sarebbe, infatti, consentito al destinatario di sostituire il proprio giudizio di prevedibilità od evitabilità a quello dell'ente legittimato ad emanare la legge, regolamento, ordine o disciplina a contenuto cautelare (Cass. IV, n. 11445/2003).

In dottrina si è, peraltro, osservato anche che «l'inosservanza di leggi (o regolamenti ecc.) è violazione di una regola di diligenza in senso oggettivo solo se ed in quanto la diligenza nella situazione contingente non ne suggerisca o imponga la trasgressione. Quali previsioni astratte di prudenza, esse non sono mai criteri risolutori del comportamento dovuto nel caso concreto; l'inosservanza si limita, dunque ad indiziare la violazione della diligenza, ma non riesce di per sé a provare la colpa ai fini dell'imputazione dell'evento, così come, specularmente, l'osservanza non è di per sé decisiva per l'esclusione della colpa stessa (...). I due gruppi di qualifiche del comportamento colposo (c.d. colpa generica; c.d. colpa specifica) non differiscono sostanzialmente l'uno dall'altro, rilevando in definitiva in ciascuno dei casi la prevedibilità in concreto e la misura dell'uomo coscienzioso ed avveduto: sempre l'agente dovrà adeguare il suo comportamento alla diligenza necessaria nella situazione data» (Romano, Commentario, 462 s.).

Si pongono, tuttavia, due problemi:

- se l'agente che versi in colpa specifica debba rispondere dell'evento comunque imprevedibile, che si sarebbe verificato anche se la regola cautelare specifica fosse stata rispettata;

- se il rispetto della norma cautelare specifica esaurisca la diligenza doverosa per l'agente.

In relazione al primo problema deve osservarsi che l'agente che versi in colpa specifica potrà essere ritenuto responsabile dell'evento soltanto se questo rientri tra quelli che la norma cautelare violata mirava a prevenire, e se il rispetto di essa avrebbe, se non evitato l'evento, quantomeno ridotto apprezzabilmente le possibilità del suo verificarsi; se, al contrario, la violazione della norma cautelare sia risultata ininfluente rispetto al verificarsi dell'evento, non potrà ritenersi sussistente la responsabilità per colpa specifica dell'agente, poiché, in caso contrario, si materializzerebbe inammissibilmente un'imputazione tipicamente oggettiva (versari in re illecita). Nel classico esempio di scuola, sarà esente da responsabilità penale l'automobilista che, pur violando, ma minimamente, il limite di velocità consentito, abbia travolto il bambino improvvisamente e repentinamente gettatosi in strada per rincorrere un pallone, poiché la vittima sarebbe rimasta travolta anche ove il limite di velocità fosse stato rispettato.

Per ragioni analoghe, in riferimento al secondo problema, se, con l'ordinaria diligenza dell'agente modello, ovvero grazie alle sue conoscenze in ipotesi superiori, l'agente concreto sia in grado di avvedersi che il rispetto della normativa cautelare non esaurisce, in relazione al caso concreto, le possibili ed opportune cautele, egli, nonostante il rispetto delle norme cautelari specifiche, potrà essere imputato a titolo di colpa generica (per violazione del dovere di diligenza) ove si sia limitato al rispetto delle disposizioni cautelari specifiche, non attivandosi — come gli sarebbe stato possibile — le ulteriori cautele generiche. Per restare all'esempio appena fatto, sarà responsabile per colpa generica l'automobilista che, pur rispettando il limite di velocità, abbia travolto il bambino, per non essersi avveduto — come al contrario gli sarebbe stato possibile — della presenza di un folto gruppo di bambini intenti a giocare a pallone, che salivano e scendevano dal marciapiedi.

Anche la giurisprudenza sostiene che l'osservanza della regola cautelare imposta dalla legge et c. non valga sempre ad esonerare l'agente dalla responsabilità per il reato colposo, in presenza di specifiche circostanze che la rendano inidonea, nel caso concreto, a garantire la tutela del bene cui la regola cautelare specifica era preordinata (Cass. IV, n. 24823/2007: in applicazione del principio, si è, ad esempio, ritenuto, in tema di circolazione stradale, che non possa essere esclusa la responsabilità dell'imputato a titolo di colpa per l'omicidio verificatosi in occasione di un sinistro stradale, per il solo fatto che egli avesse rispettato i limiti di velocità: nel caso esaminato, si era, infatti, accertato che egli aveva omesso di ridurre ulteriormente la velocità di marcia, non adeguandola alle concrete condizioni della strada, che, nel tratto interessato dall'incidente, era bagnata e presentava un restringimento della carreggiata, oltre ad una curva che ostacolava la visuale).

Ai fini dell’accertamento della responsabilità per fatto colposo, è sempre necessario individuare la regola cautelare, preesistente alla condotta, che ne indica le corrette modalità di svolgimento, ed indicare quale fosse – sulla base della negligenza, prudenza o perizia richieste – in concreto ed ex ante il comportamento doveroso prescritto ed omesso, non potendo il giudice limitarsi a fare ricorso ai concetti di prudenza, perizia e diligenza senza indicare in concreto quale sia il comportamento doveroso che tali regole cautelari imponevano di adottare (in applicazione del principio, Cass. IV, n. 31490/2016 ha annullato la sentenza impugnata, che aveva affermato la responsabilità per omicidio colposo di un medico per il decesso di un paziente a seguito di un intervento chirurgico, ritenendo imprudente e/o imperita la manovra chirurgica attuata senza, tuttavia, indicare le modalità di condotta che prudenza e perizia prescrivevano di adottare nella fattispecie; conforme, Cass. IV, n. 32899/2021 che, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio colposo in relazione ai fatti verificatisi nel disastro ferroviario di Viareggio, che aveva ravvisato la colpa degli esponenti della società titolare della gestione della rete nel non avere prescritto la riduzione della velocità nell'attraversamento delle stazioni ferroviarie a quella adeguata ad evitare il rischio di ribaltamento, senza indicare la misura di tale velocità).

La prevedibilità ed evitabilità dell'evento colposo

L'individuazione delle regole non specifiche di condotta che l'agente diligente deve osservare, per non versare in colpa generica, fonda sulla cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo: «alla base delle norme precauzionali — si tratti di norme di diligenza, prudenza, perizia — tendenti a scongiurare i pericoli connessi allo svolgimento delle diverse attività umane, stanno 'regole di esperienza' ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti per evitarne le conseguenze. (...) Se così è, proprio la  "revedibilità" a "evitabilità" dell'evento costituiscono i criteri di individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete, una volta che sia insorta o stia per insorgere una situazione di pericolo» (Fiandaca-Musco, PG, 569).

Il fondamento della colpa generica va, dunque, individuato nella prevedibilità del pericolo, il cui verificarsi si ritiene possa essere scongiurato dal rispetto delle norme cautelari generiche formatesi nel tempo: «il fondamento della responsabilità colposa è dato sicuramente dalla prevedibilità del pericolo, non essendo altro la prevedibilità che la possibilità dell'uomo coscienzioso ed avveduto, dell'homo eiusdem professionis et condicionis, di cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un certo evento è evitabile adottando determinate regole di diligenza. (...) Se la prevedibilità è la possibilità per il “modello di agente” di rendersi conto, di cogliere, quali siano, di volta in volta, le norme precauzionali da seguire per evitare determinati eventi, non può non seguirne, sul piano strettamente logico, che la prevedibilità dell'evento è in funzione della evitabilità» (Cass. IV, n. 4793/1991 e Cass. IV, n. 29232/2007, quest'ultima relativa a fattispecie in tema di omicidio colposo da incidente stradale, concernente la mancata adozione di regole cautelari più severe di quelle ordinarie in occasione del transito su di una strada di montagna accidentata e senza guard rail, le cui pessime condizioni di manutenzione avrebbero potuto consentire all'agente di prevedere la presenza di detriti e terriccio sulla carreggiata, ancorché egli non fosse stato preventivamente a conoscenza della circostanza).

A conclusioni in parte diverse deve, peraltro, giungersi con riguardo alle attività sperimentali e/o rischiose, ma socialmente utili: «il richiamo di regole precauzionali consolidate nella prassi è, invece, del tutto escluso nelle situazioni nelle quali l'uso sociale non si è ancora pronunciato: si pensi ad es. ai pericoli inediti connessi all'attività di sperimentazione svolta nei laboratori scientifici. Nell'ambito di queste attività, proprio perché mancano norme preesistenti di condotta, il soggetto si trova costretto a compiere ex novo il giudizio prognostico relativo alla pericolosità dell'attività in questione: giudizio che dovrà, evidentemente, essere emesso in base alle conoscenze possedute dalla cerchia degli stessi sperimentatori sulla natura del pericolo connesso alla loro attività. È opportuno, tuttavia, tener presente che l'osservanza di regole precauzionali trova un limite nell'ambito delle attività sì rischiose, ma consentite dall'ordinamento per la loro elevata utilità sociale: da questo punto di vista, le cautele da osservare non possono giungere comunque fino al punto di pregiudicare nei suoi aspetti essenziali il comportamento autorizzato; diversamente, si annullerebbe quell'utilità sociale, in vista della quale determinati comportamenti rischiosi risultano consentiti dall'ordinamento» (Fiandaca-Musco, PG, 570).

Anche l'imputazione per colpa specifica fonda sul medesimo criterio, ma in relazione a regole cautelari scritte e normativamente imposte: in questo caso, il giudizio prognostico sulla prevedibilità ed evitabilità del pericolo, e sui mezzi che possono risultare idonei ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso, è, come anticipato nel & che precede, compiuto dall'autorità che pone la norma scritta.

Per verificare la sussistenza dell'elemento soggettivo/colpa, occorre accertare la prevedibilità dell'evento, «giacché non può essere addebitato all'agente modello (l'homo ejusdem professionis et condicionis) di non avere previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere, finendosi, diversamente opinando, con il costruire una forma di responsabilità oggettiva» (Cass. IV, n. 4675/2007, riguardante le vicende dell'impianto Petrolchimico di Venezia).

Il giudizio sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento «deve essere effettuato ex ante in base al parametro “oggettivo” dell'homo eiusdem professionis et condicionis: cioè la misura della diligenza, della perizia e della prudenza dovuta sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività dell'agente reale” (Fiandaca-Musco, PG, 579); la dottrina ha anche osservato, in proposito, che “chi dispone tegole sul tetto — anche se si tratta in pratica del padrone di casa — sarà giudicato col metro dell'operaio specializzato, esperto ed accorto; chi si pone alla guida di un autoveicolo — anche se non è convenientemente addestrato, e persino se non è in possesso della necessaria abilitazione — dovrà comportarsi come un esperto ed accorto automobilista: quel che conta, invero, è il fatto che una persona abbia agito come “membro” di un determinato gruppo sociale» (Marinucci 1965, 194).

Secondo la giurisprudenza, “la verifica in ordine alla “prevedibilità” dell'evento impone il vaglio delle possibili conseguenze di una determinata condotta commissiva (od omissiva), avendo presente il cosiddetto “modello d'agente”, ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore concreto si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta» (Cass. IV, n. 22249/2014).

È ben possibile che l'agente concreto sia dotato di conoscenze superiori rispetto a quelle dell'agente modello; in tal caso il rispetto delle regole cautelari generiche o specifiche non esaurisce, il dovere di diligenza cui l'agente è tenuto, poiché egli, prima di agire, deve anche verificare — sulla base non soltanto delle conoscenze dell'agente modello, bensì delle proprie, se superiori — la persistente validità delle regole cautelari consolidate: «l'utilizzazione di un tipo oggettivo di agente-modello non impedisce in certi casi di individualizzare ulteriormente la misura della diligenza imposta: così, se per avventura l'agente reale possiede conoscenze superiori rispetto a quelle proprie del tipo di appartenenza, queste dovranno essere tenute in conto nel ricostruire l'obbligo di diligenza da osservare. Diversamente, proprio i soggetti dotati di conoscenze particolari avrebbero concesso il privilegio di non rispondere dei loro atti negligenti o imprudenti (si pensi al caso del ricercatore scientifico che lavora con sostanze chimiche la cui pericolosità è solo a lui nota)» (Fiandaca-Musco, PG, 580).

La dottrina opera, in proposito, una incisiva distinzione: «si dovrebbe tenere conto, in più, soltanto di speciali conoscenze 'causali' dell'agente, ma non di sue speciali capacità. (...) Una speciale conoscenza causale può esigere in effetti una maggiore cautela ed attenzione (richiedibile da tutti), ma una speciale capacità non esige di per sé di essere impiegata integralmente nel caso concreto. Quanto alle migliori cognizioni causali, si tenga presente che la misura oggettiva della prevedibilità della realizzazione del fatto è correlata bensì alla figura modello di un uomo coscienzioso ed avveduto, ma nella situazione dell'agente; quanto invece alle maggiori capacità, vero essendo che doti superiori rispetto alla media di una categoria di appartenenza dovranno essere tenute in conto già nella 'standardizzazione' di nuovi 'modelli' di uomini coscienziosi ed avveduti, non pare che il diritto penale possa imporre al soggetto sempre e comunque lo sfruttamento integrale di una sua dote eccezionale sotto la minaccia della sanzione (...). Es.: l'automobilista A conosce la particolare pericolosità dell'incrocio perché abita da quelle parti (maggiore conoscenza causale): deve stare particolarmente attento; il corridore automobilista B non è tenuto ad impiegare sempre tutta la sua perizia anche quando non è in gara (diverso sarebbe se, in caso di emergenza, consapevolmente e volutamente non usasse la sua perizia per evitare l'incidente [accorgendosi che il soggetto in pericolo è un suoi nemico]: eventuale omicidio doloso)» (Romano, Commentario, 459 s.).

Quanto all'apprezzamento del parametro della prevedibilità, ed all'individuazione del momento cui occorre fare riferimento per poter pretendere che l'agente riconoscesse i rischi della sua attività ed i potenziali sviluppi lesivi, si è ritenuto che l'agente abbia un obbligo di informazione riguardante le più recenti acquisizioni scientifiche, «anche se esse non siano ancora divenute patrimonio comune ed anche se non applicate nel circolo di riferimento, a meno che si tratti di studi isolati ancora privi di conferma» (Cass. IV, n. 4675/2007 cit.): nell'effettuare il giudizio di prevedibilità, necessario ai fini della configurazione della colpa, il giudice deve considerare anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni, sia pure indistinta, potenzialmente derivabile dal suo agire, ma tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure misure di prevenzione. In altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, dovrà aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno, e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione.

Si è da ultimo ribadito che l’evento rilevante onde valutare la configurabilità o meno della colpa del soggetto agente non è un qualsiasi evento realizzatosi, ma soltanto quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare (Cass. IV, n. 30985/2019, in fattispecie relativa ad incidente mortale consistente nella caduta di una donna particolarmente corpulenta da una giostra, a causa dell'inidoneità dei seggiolini: la S.C. ha ravvisato la responsabilità sia dei costruttori, che avevano l'obbligo di mettere in commercio un prodotto dotato di dispositivi di sicurezza efficaci, essendo garanti della sicurezza dei passeggeri, sia del gestore, il quale aveva il dovere di attenersi alle disposizioni contenute nel libretto d'uso della giostra che imponeva di interdire l'accesso alla giostra a persone le cui dimensioni non consentissero un efficace ancoraggio al sedile).

Si è anche ribadito che la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Cass. IV, n. 9745/2021: fattispecie nella quale la S.C. ha confermato la condanna del titolare di un'impresa edile per i decessi e le lesioni gravissime cagionate a suoi dipendenti in conseguenza del crollo di un pesante cornicione in cemento armato, determinato da un inadeguato suo ancoraggio alle strutture sottostanti, essendo egli in grado, per la qualifica rivestita, di rendersi conto della pericolosità intrinseca del pesante manufatto e della necessità di un sicuro ancoraggio).

Le connotazioni del dovere di diligenza

Il dovere di diligenza, a seconda dei casi, può concretizzarsi:

a) nell'onere di preventiva informazione (ad es., lo straniero che si accinga a recarsi in Italia in automobile ha l'onere di verificare le norme del Codice della strada vigente);

b) nell'obbligo di astenersi da una determinata condotta, in tutti i casi in cui la stessa crei un rischio troppo elevato del verificarsi dell'evento (ad es., chi è già stato vittima di un improvviso malore, non deve rimettersi alla guida di un'autovettura), ovvero l'agente non abbia l'esperienza necessaria per agire “in sicurezza” (ad es., il chirurgo inesperto non deve accettare — se non in caso di assoluta improrogabilità, per necessità ed urgenza — di eseguire un intervento complesso, che chirurghi più esperti possano eseguire con maggiori possibilità di successo). In quest'ultima ipotesi, sarebbe configurabile, in caso contrario, la c.d. colpa per assunzione: “versa nella cosiddetta “colpa per assunzione” colui che, non essendo del tutto all'altezza del compito “assunto” esegua un'opera senza farsi carico di munirsi di tutti i dati tecnici necessari per dominarla, nel caso, ovviamente, che quell'opera diventi fonte di danno anche a causa della mancata acquisizione di quei dati o conoscenze specialistiche. L'agire come membro di un determinato gruppo, o come portatore di un determinato ruolo sociale, comporta, infatti, l'assunzione di responsabilità di saper riconoscere ed affrontare le situazioni ed i problemi inerenti a quel ruolo, secondo lo standard di diligenza, di capacità, di conoscenze richieste per il corretto svolgimento di quel ruolo stesso” (Cass. IV, n. 4793/1991, cit.);

c) nell'adozione di misure cautelari (ad es. l'automobilista che attraversa un centro abitato deve rispettare i limiti di velocità);

d) nell'obbligo di controllo dell'operato altrui (si tratta della tematica del reato omissivo improprio, per la quale si rinvia sub art. 40).

La giurisprudenza ha anche osservato che, nei casi in cui risulti ex ante l'inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto ad osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l'evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (Cass. IV, n. 32899/2021: la S.C. ha precisato che, una volta accertato che, al momento della condotta, sia già stata acquisita l'insufficienza delle regole cautelari positivizzate e siano già state individuate ulteriori regole cautelari efficaci, non positivizzate, è configurabile la colpa generica non solo integratrice della colpa specifica ma anche ad essa derogatrice).

I limiti del dovere di diligenza

Il dovere di diligenza incontra essenzialmente due limiti, individuabili:

a) nel c.d. “rischio consentito”;

b) nell’affidamento nell’altrui comportamento.

Il rischio consentito

Con riguardo alle attività pericolose, ma consentite, perché ritenute socialmente utili, si pone il problema di individuare il soggetto deputato alla comparazione tra l'utilità sociale dell'attività rischiosa e le esigenze di tutela della collettività: in difetto di parametri atti a circoscrivere in relazione a tali attività i limiti di osservanza delle misure precauzionali, tendenzialmente i finisce con il ritenere "consentito ciò che di fatto viene — anche a torto — tollerato dalla comunità sociale; con la conseguenza di legittimare una prassi in cui il grado di pericolosità dei comportamenti tollerati sopravanza il grado di utilità che essi producono a beneficio della collettività”; appare, peraltro, evidente che lo svolgimento di attività rischiose, pur se socialmente diffuse (si pensi alla circolazione stradale, ferroviaria ed aerea) o considerate di pubblica utilità (si pensi alla produzione di esplosivi o di sostanze tossiche, utili in campo industriale, ovvero alla ricerca scientifica) debba essere legittimato da autorizzazioni amministrative, “che — ove esistono — rendono esplicitamente lecito lo svolgimento di determinate attività, subordinandone l'esercizio al rispetto di precise norme cautelari" (Fiandaca-Musco, PG, 583).

Nelle attività pericolose consentite, tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, la soglia della prevedibilità dell'evento dannoso è più alta di quanto non lo sia rispetto allo svolgimento di attività comuni, e maggiori dovranno, conseguentemente, essere la diligenza e la perizia dell'agente nel precostituire condizioni idonee a ridurre quanto più possibile la possibile incidenza del rischio consentito (Cass. IV, n. 4999/2014: fattispecie relativa al decesso per annegamento di un minore nel corso di una lezione di nuoto, in riferimento alla quale la S.C. ha precisato che il gestore delle attività sportive, ove non sia in condizioni di adempiere all'obbligo di sicurezza di cui è titolare, è tenuto ad astenersi dall'attività medesima); ne consegue che l'impossibilità di eliminazione del pericolo non può comportare una attenuazione dell'obbligo di garanzia, ma deve tradursi in un suo rafforzamento (Cass. IV, n. 35263/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva affermato la responsabilità degli organizzatori di una attività di aviolancio per il decesso di una allieva, avendo omesso di adottare adeguate cautele nonostante la presenza di un forte vento e la inesperienza della vittima che doveva effettuare il suo primo lancio). Si è, in proposito, ritenuto anche che, non costituendo l'attivitàequestre meramente addestrativa attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., la responsabilità a titolo di colpa del titolare di un maneggio per le lesioni eventualmente derivate, durante una lezione, dal disarcionamento di una allievo da parte del cavallo, non può essere presunta ma deve essere sempre accertata in concreto con relativo onere a carico dell'accusa, non potendo trovare applicazione la presunzione di cui all'art. 2052 c.c., rilevante ai soli fini della responsabilità civile (Cass. IV, n. 4502/2016).

In tema di responsabilità per colpa medica, si è ribadito che «rischio consentito» (o aggravamento del «rischio consentito») non significa esonero dall'obbligo di osservanza delle regole di cautela, ma rafforzamento di tale obbligo in relazione alla gravità del rischio, che solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole potrà effettivamente ritenersi consentito per quella parte che non può essere eliminata (Cass. IV, n. 4107/2009: fattispecie nella quale due medici avevano, per negligenza, consentito ad un paziente affetto da gravi problemi psichici, l'esercizio di un'attività pericolosa, ovvero l'uso delle armi, ed il paziente aveva ucciso due persone, ne aveva ferite quattro e poi si era suicidato).

All'ambito del rischio consentito si ricollega anche la responsabilità per il “tipo di produzione”, ovvero legata alle attività produttive imprenditoriali. In tema, la giurisprudenza ha ritenuto che il costruttore risponde per gli eventi dannosi causalmente ricollegabili alla costruzione del prodotto, ove risulti privo dei necessari dispositivi o requisiti di sicurezza, e sempre che l'utilizzatore non ne abbia fatto un uso improprio, tale da poter essere considerato causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento (Cass. IV, n. 39157/2013).

L'affidamento nell'altrui comportamento

In virtù del c.d. principio dell'affidamento, accolto anche dalla giurisprudenza di legittimità, ogni consociato può confidare che ciascuno degli altri consociati con i quali entri in contatto si comporti rispettando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta viene in questione, e limitarsi, quindi, ad evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta (Cass. IV, n. 4793/1991 cit.).

La dottrina precisa che il principio è «"valido", però, solo sino a che non sia prevedibile che il terzo non si atterrà alla medesima diligenza» (Romano,Commentario, 463).

Il principio di affidamento nel comportamento altrui (che comporta l'esclusione di responsabilità dell'agente incolpevole) non può, peraltro, essere invocato legittimamente «quando colui che si affida sia (già) in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella posizione di garanzia [cfr. sub art. 40], elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione: laddove, infatti, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto o potuto impedire, l'evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento (ai fini e per gli effetti di quanto disposto, in tema di "interruzione del nesso causale", dall'art. 41, comma 2)» (Cass. IV, n. 35827/2013: in applicazione del principio, è stata confermata la condanna — per omicidio colposo in relazione ad un infortunio sul lavoro — del coordinatore per la sicurezza che aveva predisposto un piano di sicurezza assolutamente generico, ed aveva invocato, per escludere la propria responsabilità, la mancanza, di fatto, del coordinatore per l'esecuzione dei lavori).

Il principio dell'affidamento trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché questo rientri nel limite della "ragionevole" prevedibilità in base alle circostanze del caso concreto (Cass. IV, n. 6940/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che – in relazione al crollo della Nuova Torre Piloti del Porto di Genova provocato dalla manovra della Nave Jolli Nero - aveva affermato la responsabilità del direttore di macchina che aveva omesso di comunicare immediatamente alla plancia la mancata partenza del motore, potendosi ritenere prevedibile che, a fronte del mancato funzionamento del contagiri ed in mancanza di comunicazione con la sala macchine, nonostante il segnale di allarme, il personale di plancia non recepisse il malfunzionamento della procedura di partenza ed omettesse di adottare prontamente le misure idonee per far ripartire il motore ed evitare l'urto contro la torre).

Per quanto riguarda la configurabilità o meno di obblighi di diligenza aventi ad oggetto comportamenti di terzi:

- in relazione alle ipotesi di colpa specifica, occorre aver riguardo allo scopo della regola cautelare scritta trasgredita, che potrebbe mirare proprio a far sì che l'agente impedisca comportamenti di terzi (ad es., si pensi agli agenti di P.S. che abbiano ricevuto l'ordine di scortare un noto uomo politico, proprio per preservarne l'incolumità da aggressioni di terzi);

- in relazione alle ipotesi di colpa generica, la mera previsione del possibile comportamento colposo altrui non sembra di per sé idonea a far insorgere la responsabilità penale: il principio dell'affidamento “significa, infatti, soltanto che, di regola, non si ha l'obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi terze persone, altrettanto capaci di scelte responsabili” (Cass. IV, n. 4793/1991, cit.).

Ancor di più, con riguardo al possibile comportamento doloso altrui, non sembra configurabile, di massima, alcuna responsabilità: “nella misura in cui l'azione è frutto di una libera scelta del soggetto che ne è autore, vale a maggior ragione in questo caso il principio dell'autoresponsabilità: ciascuno risponde delle proprie azioni deliberate in modo libero e responsabile” (Fiandaca-Musco, PG, 586).

A questi principi generali può, peraltro, derogarsi nel caso in cui l'agente sia consapevole dell'inadeguatezza del terzo ad operare scelte responsabili, cioè a comportarsi come l'agente modello (si pensi al caso del padre che consenta al figlio minorenne e non patentato di uscire in macchina), o dell'intenzione dolosa del terzo (si pensi al caso del soggetto che, ben consapevole dei propositi omicidi del terzo, gli presti un'arma atta all'impiego), ovvero di assunzione di una posizione di garanzia in relazione all'agire del terzo.

Il rapporto di causalità nei reati colposi commissivi

Ai fini della sussistenza del rapporto di causalità tra l'azione colposa e l'evento non può ritenersi sufficiente la mera inosservanza della regola cautelare (generica o specifica), occorrendo la sussistenza di un ulteriore legame tra l'inosservanza e l'evento, dovendo quest'ultimo essersi verificato come conseguenza della violazione della regola cautelare, onde evitare che l'agente possa esser ritenuto oggettivamente responsabile per il verificarsi di eventi esulanti dall'ambito di quelli che detta regola mirava a prevenire: “la condotta dell'agente deve anzitutto essere stata una condizione dell'evento; inoltre, l'imputazione oggettiva esige che l'evento, anzitutto costituisca realizzazione del pericolo giuridicamente riprovato creato con la condotta che viola la regola di diligenza oggettiva (ovvero rientri tra quelli per evitare i quali è posta la norma cautelare); inoltre, derivi proprio dalla violazione della regola di diligenza oggettiva” (Romano, Commentario, 464).

Esso deve, pertanto, costituire prevedibile conseguenza dell'inosservanza della regola cautelare, che sarebbe stato possibile prevenire attraverso il rispetto di essa (c.d. prevedibilità e prevedibilità dell'evento).

La giurisprudenza ha osservato che la necessaria prevedibilità dell'evento — anche sotto il profilo causale — non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo, e che, ai fini dell'imputazione soggettiva dell'evento, il giudizio di prevedibilità deve essere formulato facendo riferimento alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali (Cass. S.U., n. 38343/2014).

Il giudizio di prevedibilità (e prevenibilità) dell'evento va operato ex ante ed in concreto, “proprio allo scopo di mettere al bando il principio (non più compatibile con un diritto penale moderno) “qui in re illecita versatur tenetur etiam pro casu”“ (Fiandaca-Musco, PG, 588).

La giurisprudenza ritiene che, per la formalizzazione dell'addebito colposo, non sia sufficiente verificare la violazione della regola cautelare, essendo necessario anche accertare che detta regola fosse diretta ad evitare proprio il tipo di evento dannoso verificatosi, poiché alla colpa dell'agente va ricondotto non qualsiasi evento realizzatosi, bensì soltanto quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare: in caso contrario, si avrebbe ancora una volta una responsabilità oggettiva giustificata dal mero versari in re illicita. Dovrà, pertanto, essere verificata la c.d. “concretizzazione (o realizzazione) del rischio”, “che si pone sul versante oggettivo della colpevolezza, come la prevedibilità dell'evento dannoso si pone più specificamente sul versante soggettivo. La relativa valutazione deve prendere in considerazione l'evento in concreto verificatosi per accertare se questa conseguenza dell'agire rientrava tra gli eventi che la regola cautelare inosservata mirava a prevenire” (Cass. IV, n. 4675/2007 cit.; conforme, Cass. IV, n. 1819/2015, che ha confermato la condanna di un giostraio, per il decesso di una donna la quale, nel tentativo di accedere alla giostra già in movimento, aveva perso l'equilibrio ed era caduta rovinosamente per terra, urtando violentemente con la parte frontale del corpo il bordo della base rotante della struttura, alla quale non era stato adeguatamente interdetto l'accesso).

La responsabilità colposa implica, quindi, che la violazione della regola cautelare abbia determinato la concretizzazione del rischio che detta regola mirava a prevenire, poiché alla colpa dell'agente va ricondotto non qualsiasi evento realizzatosi, ma solo quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna del comandante di una nave per il reato di naufragio, per avere lo stesso — dopo aver disatteso la rotta sommariamente pianificata assieme all'ufficiale cartografo — messo in atto una manovra spericolata, tenendo una rotta ed una velocità del tutto inadeguate, per finalità essenzialmente legate al c.d. “saluto” ravvicinato alla costa, con conseguente condizione di ingovernabilità della nave che aveva reso vano il tardivo tentativo di correggerne la rotta per evitare l'impatto con i fondali rocciosi (Cass. IV, n. 35585/2017).

Si è anche più recentemente ribadito che la responsabilità colposa implica che la violazione della regola cautelare deve aver determinato la concretizzazione del rischio che detta regola mirava a prevenire, poiché alla colpa dell'agente va ricondotto non qualsiasi evento realizzatosi, ma solo quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare (Cass. IV, n. 40050/2018: nella specie, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio colposo per incidente stradale, fondata sulla violazione dell'art. 143 codice della strada in riferimento al comportamento del conducente che non aveva tenuto strettamente la destra della carreggiata ed aveva investito un pedone in fase di attraversamento).

La prevedibilità dell'evento dannoso e la concretizzazione del rischio presentano, quindi, significative differenze contenutistiche, che non mancano di riverberarsi sulle rispettive modalità di accertamento:

a) la prevedibilità dell'evento dannoso va accertata ex ante e va valutata dal punto di vista dell'agente (non di quello che ha concretamente agito, bensì dell'agente modello), onde verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell'evento. Nel caso di eventi o calamità naturali che si sviluppino progressivamente, il giudizio di prevedibilità dell'evento dannoso — necessario perché possa ritenersi integrato l'elemento soggettivo del reato sia nel caso di colpa generica che in quello di colpa specifica — va compiuto non solo tenendo conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi, ma valutando, anche sulla base di leggi scientifiche, la possibilità che questi eventi si presentino in futuro con dimensioni e caratteristiche più gravi o addirittura catastrofiche; in mancanza di leggi scientifiche che consentano di conoscere preventivamente lo sviluppo di eventi naturali calamitosi, l'accertamento della prevedibilità dell'evento va compiuto in relazione alla verifica della concreta possibilità che un evento dannoso possa verificarsi e non secondo criteri di elevata credibilità razionale, che riguardano esclusivamente l'accertamento della causalità (Cass. IV, n. 16761/2010);

b) il criterio della concretizzazione del rischio richiede, al contrario, una valutazione ex post, «che consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto che esistono regole cautelari per così dire “aperte”, nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre cd. "rigide", che prendono in considerazione solo uno specifico e determinato evento» (Cass. IV, n. 4675/2007 cit.).

È importante evidenziare che:  

- l'indagine causale va effettuata ex post, e, pertanto, a tali fini assumono rilievo le basi nomologiche note al momento del giudizio, tenendo anche conto delle conoscenze scientifiche sopravvenute;

- l'indagine sulla colpa va effettuata ex ante, valutando il comportamento posto in essere dall'agente, e, pertanto, a tali fini assumono rilievo unicamente le basi nomologiche note (o che tali dovevano essere) all'agente nel momento di realizzazione della condotta (Cass. IV, n. 21028/2011).

La giurisprudenza ha anche osservato che la c.d. causalità della colpa si configura “non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico, bensì anche quando una condotta appropriata dell'agente avrebbe avuto apprezzabili e significative probabilità di scongiurare il danno. Su tale assunto la riflessione giuridica è sostanzialmente concorde, dovendosi registrare solo differenti sfumature in ordine al livello di probabilità richiesto per ritenere l'evitabilità dell'evento. In ogni caso, non si dubita che sarebbe irrazionale rinunziare a muovere l'addebito colposo nel caso in cui l'agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell'evento o (per dirla in altri, equivalenti termini) avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto” (Cass. IV, n. 31980/2013: fattispecie in tema di omicidio colposo, nella quale, sulla base degli accertamenti tecnici eseguiti nel corso del procedimento, era emerso come la maggior velocità nella specie tenuta dall'autocarro condotto dell'imputato avesse determinato un considerevole incremento dell'energia cinetica del veicolo nella significativa misura del 217% in più, in tal modo ponendo le premesse per la determinazione di un impatto con il veicolo antagonista dalle conseguenze particolarmente gravi sul piano della prevedibile entità della deformazione dell'abitacolo del veicolo della persona offesa).

Sempre in tema di c.d. causalità della colpa, può assumere rilievo la c.d. “colpa relazionale”, configurabile nei casi in cui la ricostruzione del comportamento alternativo lecito vada condotta (non già in un contesto monosoggettivo, bensì) nella prospettiva dell'interazione (e dunque della “relazione”) tra due o più soggetti. Si allude, al riguardo, a tutte quelle situazioni nelle quali il comportamento alternativo lecito avrebbe dovuto tradursi nella sollecitazione, nella segnalazione o, comunque, nel coinvolgimento di ulteriori soggetti, che — a loro volta — avrebbero dovuto attivarsi, in base a doveri “divisi” o “comuni” (quindi operando in via autonoma ovvero interagendo con altri), secondo le prescrizioni di ulteriori regole cautelari (si pensi alla cooperazione colposa, al concorso di cause colpose indipendenti, alla delega di funzioni, al principio di affidamento e ai relativi limiti nei settori della circolazione stradale, dell'attività medico-chirurgica in équipe, et c.).  Secondo la giurisprudenza, « l'ipotetico comportamento alternativo lecito non incide (per definizione) in maniera diretta su fattori biologici, meccanici, o comunque naturali (innescando immediatamente — sia pure in via congetturale — un decorso causale stricto sensu inteso, diverso da quello realmente verificatosi), proiettandosi in una duplice dinamica ipotetica, destinata a tener conto, sia delle (ipotetiche) reazioni comportamentali dei soggetti che avrebbero dovuto interagire, sia degli (ipotetici) effetti concreti delle condotte che quei medesimi soggetti avrebbero dovuto realizzare. In tali casi, l'ascrizione normativa dell'evento colposo, in quanto concretamente evitabile, non poggerà sulla prospettazione ipotetica di decorsi causali governati da leggi scientifiche (nessuna legge scientifica potendo spiegare come si sarebbero comportati altri soggetti, chiamati ad interagire nel caso concreto), bensì assumendo che il soggetto che sarebbe stato attivato dal comportamento alternativo lecito avrebbe agito correttamente. Tale valutazione dovrà quindi essere condotta secondo parametri standardizzati (e quindi evocando più l'agente “modello”, che l'agente “in carne ed ossa” destinato in ipotesi controfattuale a fornire il proprio apporto), con la conseguente sostanziale irrilevanza del possibile dubbio (in questa sede infondatamente prospettato) circa l'inutilità o addirittura la dannosità in concreto del (negligente) apporto altrui » (Cass. IV, n.31244/2015: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse ravvisato, in relazione alla morte di bambino nato affetto da gravi patologie conseguenti ad un parto tardivo, la responsabilità dell'ostetrica per avere omesso di allertare tempestivamente i medici di guardia dei segnali di sofferenza fetale del nascituro registrati dal “tracciato”). L'evento deve, quindi, costituire prevedibile conseguenza dell'inosservanza della regola cautelare, che sarebbe stato possibile prevenire attraverso il rispetto di essa (si tratta, come anticipato, della c.d. prevedibilità e prevenibilità dell'evento).

Anche la c.d. "causalità psichica" (da intendersi quale derivazione causale tra la condotta dell'agente e la successiva condotta della persona offesa, indotta ad agire in forza del condizionamento subito), deve essere ricostruita sulla base di consolidate e riscontrabili massime di esperienza, che consentano di selezionare ex ante le condotte condizionanti, socialmente o culturalmente tipizzabili, cui deve necessariamente far seguito un rigoroso e puntuale riscontro critico fornito dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto, sì da escludere la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio (Cass. IV, n. 12478/2016).

Qualora si assuma violata una regola cautelare cosiddetta "elastica", che cioè necessiti, per la sua applicazione, di un legame più o meno esteso con le condizioni specifiche in cui l'agente deve operare - al contrario di quelle cosiddette "rigide", che fissano con assoluta precisione lo schema di comportamento -, ai fini dell'accertamento dell'efficienza causale della condotta antidoverosa è necessario procedere ad una valutazione di tutte le circostanze del caso concreto (Cass. IV, n. 40050/2018: nella specie, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio colposo da incidente stradale, fondata sul generico riferimento alla inadeguatezza della velocità tenuta dal conducente, senza esplicitare quale fosse la velocità adeguata ovvero quella che, alla luce di tutte le circostanze del fatto, risultava - non ex post, ma ex ante - ragionevolmente in grado di evitare l'investimento).

Si è, infine  osservato, con riguardo ai reati colposi d'evento, che la natura commissiva della condotta consistente nella trasgressione di un divieto implica, per l'accertamento del nesso causale, che il giudizio controfattuale non sia basato sui criteri probabilistici-statistici tipici della causalità per omissione, ma sia effettuato valutando se l'evento si sarebbe ugualmente verificato eliminando l'azione dal contesto in cui è stata posta in essere (Cass. III, n. 47979/2016: fattispecie in tema di morte come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p., nella quale è stata riconosciuta la sussistenza del nesso di causalità tra il lancio dalla finestra di un'abitazione, posta al secondo piano di un palazzo, di una busta piena d'acqua all'indirizzo di una persona di anni 86 affetta da pregressa cardiovascolopatia sclerotica, e la sua morte avvenuta due ore più tardi per insufficienza cardio-respiratoria).

Segue . Casistica

 

Attività sportive

Secondo la giurisprudenza, ai fini della configurabilità della responsabilità per colpa in ambito sportivo, il giudice deve individuare la regola cautelare violata dalla condotta fallosa dell'atleta, e quindi indicare, quanto alla colpa specifica, le regole di gioco scritte, anche se "elastiche" perché determinate in base a circostanze contingenti, e, quanto alla colpa generica, il comportamento doveroso prescritto, sulla base della diligenza, prudenza e perizia, in concreto ed ex ante, in relazione alle caratteristiche e peculiarità della pratica sportiva esercitata in un dato momento (Cass. IV, n. 8609/2022: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio una sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'atleta per le lesioni colpose cagionate da un fallo di gioco nel corso di una partita di calcio, ritenuto foriero di un rischio inutile e gratuito in rapporto al contesto amatoriale della competizione, omettendo di specificare la regola cautelare violata).

Circolazione ferroviaria e stradale

In tema di responsabilità, a carico del responsabile civile, da circolazione ferroviaria, che la giurisprudenza qualifica come attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., si ritiene che, al fine del superamento della presunzione di colpa posta a carico del soggetto gestore della rete ferroviaria, non è sufficiente la semplice prova di avere adottato tutte le misure offerte dalla tecnica, ma è necessario dimostrare di avere adottato tutte le cautele idonee ad evitare il prodursi del danno derivante da quella specifica attività, ivi comprese quelle organizzative e gestionali, imposte dalla prudenza e dalla diligenza (Cass. IV, n. 9001/2022: fattispecie in tema di disastro ferroviario colposo, in cui la S.C. ha confermato la condanna dell'ente gestore, quale responsabile civile, per aver omesso un'attività di continuo vaglio delle competenze e capacità degli addetti al controllo del traffico, particolarmente pericoloso perché effettuato su monorotaia, decisivo ad assicurare la sicurezza della circolazione dei treni; cfr. anche Cass. IV, n. 32899/2021, per la quale l'attività di manutenzione di carri merci integra un'attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c. potendone scaturire pericoli per la sicurezza della circolazione ferroviaria, con la conseguenza che i doveri discendenti da tale norma gravano sul titolare dell'impresa e, ove l'attività sia esercitata in forma societaria, a carico di chi ha il compito di organizzarla: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna per il reato di omicidio colposo di un soggetto che, nell'ambito di una società che si occupava della manutenzione di carri merci, aveva il compito di organizzare tale attività, per avere omesso di adottare disposizioni adeguate in grado di assicurare la corretta esecuzione della manutenzione, le quali avrebbero consentito di rilevare lo stato di corrosione dell'assile montato in sostituzione, che poi, cedendo, aveva determinato il deragliamento del carro e la conseguente morte di numerose persone). L'attività pericolosa costituita dalla circolazione dei carri trasportanti merci pericolose, esercitata dall'impresa di trasporto ferroviario, è attribuibile anche al fornitore del carro merci, perché egli, consegnando il carro all'impresa trazionista, contribuisce alla sua circolazione, con la conseguenza che anche il fornitore del carro è tenuto ad osservare le regole cautelari volte ad assicurare che la circolazione non avvenga in modo pericoloso per persone o cose (Cass. IV, n. 32899/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato il riconoscimento della responsabilità per i reati di omicidio colposo dell'amministratore delegato della società che - senza previamente verificare la storia manutentiva del carro, noleggiato da un terzo - aveva fornito a Trenitalia s.p.a. il carro merci trasportante GPL, su cui era montato un assile corroso, il cui cedimento, durante l'attraversamento della stazione di Viareggio, ne aveva determinato il deragliamento e il successivo ribaltamento e incendio, con conseguente morte di numerose persone). Si è, infine, ritenuto che il soggetto che esegue la manutenzione di un componente di un mezzo di trasporto, necessario al moto dello stesso, risponde, a titolo di omicidio colposo, della morte causata dal difetto di manutenzione, perché la funzione di tale attività è quella di assicurare la perdurante efficienza e sicurezza del proprio oggetto, le cui caratteristiche intrinseche e di utilizzo concorrono ad individuare gli eventi prevedibili, derivanti da suoi difetti emendabili, che le regole tecniche che presidiano l’attività di manutenzione sono volte a prevenire (Cass. IV., n. 32899/2021).

In tema di omicidio colposo da incidente stradale, la violazione, da parte di uno dei conducenti dei veicoli coinvolti, di una specifica norma di legge dettata per la disciplina della circolazione stradale non può di per sé far presumere l'esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l'evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l'incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere(Cass. IV, n. 17000/2016).

Il principio di affidamento trova applicazione anche in relazione ai reati colposi commessi a seguito di violazione di norme sulla circolazione stradale, ed impone di valutare, ai fini della sussistenza della colpa, se, nelle condizioni date, l'agente dovesse e potesse concretamente prevedere le altrui condotte imprudenti, ragionevolmente prevedibili irregolari (Cass. IV, n. 46818/2014; Cass. IV, n. 46741/2009: fattispecie nella quale è stata ritenuta in concreto imprevedibile per l'imputato — che, a bordo di una autovettura, percorreva una strada statale, e stava avviando manovra di svolta a sinistra per accedere ad un'area di servizio che si trovava sul lato opposto della carreggiata, profittando del fatto che alcuni veicoli, tra cui in particolare un autoarticolato, che procedevano nell'opposto senso di marcia, si erano fermati per favorire la manovra — la condotta della parte lesa, una ciclomotorista che aveva sorpassato scorrettamente sulla destra la colonna ferma di autoveicoli, omettendo inoltre di fermarsi o rallentare in prossimità dell'ingresso all'impianto di distribuzione di carburanti). 

Si è, peraltro, precisato che il principio dell'affidamento, nello specifico campo della circolazione stradale, trova opportuno temperamento nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché rientri nel limite della prevedibilità (Cass. IV, n. 7664/2018: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità per omicidio colposo del conducente di un motociclo, su cui era trasportata la vittima, che, a una velocità del sessanta per cento superiore a quella consentita, aveva tentato la manovra vietata di sorpasso a sinistra per evitare l'impatto con l'auto che lo precedeva la quale, giunta in prossimità di un incrocio, senza avere azionato l'indicatore di direzione e senza controllare che da tergo non provenisse nessuno, aveva iniziato a bassa velocità manovra di svolta a sinistra; conforme, Cass. IV, n. 24414/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato l'affermazione di responsabilità per omicidio stradale del conducente di un'autovettura che, in autostrada, aveva investito un pedone che si trovava accanto alla propria autovettura, ferma per un precedente sinistro, osservando che risultava prevedibile l'eventualità di un incidente tale da comportare l'ostruzione totale o parziale della strada).

Secondo l’orientamento più recente, il principio di affidamento postula che la condotta dell'agente costituisca concausa dell'evento e che non sia prevedibile il comportamento incauto altrui in relazione alle condizioni concrete del fatto, alla singola posizione di garanzia ed all'azione intrapresa (Cass. IV, n. 1929/2024: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da responsabilità, per carenza di concausalità colposa nel delitto di omicidio stradale, un automobilista che, nel percorrere una via con diritto di precedenza a una velocità superiore di soli 16 Km/h ai limiti consentiti, collideva, in prossimità di un incrocio, con un autocarro che non aveva rispettato il diritto di precedenza, il cui conducente, a seguito dell'impatto, decedeva, sul rilievo della irrilevanza, ai fini della causazione dell'esito letale, dell'inosservanza del limite di velocità).

Il conducente favorito dal diritto di precedenza non deve abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (Cass. IV, n. 27404/2018); se ne è desunto che egli:

— in prossimità di un incrocio, ha il dovere di osservare le normali prescrizioni di prudenza e diligenza, e quindi di moderare la velocità in prossimità di un incrocio, per essere in grado di affrontare qualsiasi evenienza, anche il mancato rispetto della precedenza spettantegli da parte di terzi (Cass. IV, n. 46818/2014, e Cass. IV n. 30989/2015: quest'ultima, in applicazione del principio, ha confermato la sentenza di condanna per omicidio colposo a carico dell'automobilista, il quale, aveva impegnato un incrocio ad una velocità superiore rispetto a quella consentita, investendo così altra autovettura e causando il decesso del guidatore, che non aveva rispettato il segnale di stop e non aveva allacciato la cintura di sicurezza); si è successivamente precisato che il conducente di un veicolo, nell'impegnare un crocevia, deve prefigurarsi anche l'eccessiva velocità da parte degli altri veicoli che possono sopraggiungere, onde porsi nelle condizioni di porvi rimedio, atteso che tale accadimento rientra nella normale prevedibilità  (Cass. IV, n. 20823/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'imputato per aver effettuato una svolta repentina senza fermarsi e controllare che non stessero sopraggiungendo altri veicoli, nonostante la vittima del sinistro procedesse su un motoveicolo a velocità superiore al consentito);

— anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, deve accertarsi della eventuale presenza, seppur colpevole, di pedoni che si attardino nell'attraversamento, ed è tenuto a moderare la velocità per essere in grado di affrontare l'eventualità del mancato rispetto della precedenza da parte di terzi (Cass. IV, n. 27404/2018).

L'obbligo di moderare adeguatamente la velocità, in relazione alle caratteristiche del veicolo ed alle condizioni ambientali, va inteso nel senso che il conducente deve essere in grado di padroneggiare il veicolo in ogni situazione, tenendo altresì conto di eventuali imprudenze altrui, purché ragionevolmente prevedibili (Cass. IV, n. 25552/2017: nel caso esaminato, la S.C. ha ritenuto ragionevolmente prevedibile la presenza, di sera, in una strada cittadina poco illuminata, in un punto situato nei pressi di una fermata della metropolitana, di persone intente all'attraversamento pedonale nonostante l'insistenza in loco di apposito sottopassaggio).

La manovra di retromarcia va eseguita con estrema cautela, lentamente e con il completo controllo dello spazio retrostante; ne consegue che il conducente, qualora si renda conto di avere alle spalle una strada che non rende percepibile l'eventuale presenza di un pedone, se non può fare a meno di effettuare la manovra, ha l'obbligo di controllare la strada, eventualmente ricorrendo alla collaborazione di terzi per consentirgli di fare retromarcia senza alcun pericolo per gli altri utenti della strada (Cass. IV, n. 8591/2018).

Il conducente di un veicolo non può essere chiamato a rispondere delle conseguenze lesive di uno scontro per non avere posto in essere una manovra di emergenza, qualora si sia venuto a trovare in una situazione di pericolo improvvisa dovuta all'altrui condotta di guida illecita, non utilmente ed agevolmente percepibile, tenuto conto dei tempi di avvistamento, della repentinità della condotta del soggetto antagonista, dei concreti spazi di manovra, dei necessari tempi di reazione psicofisica (Cass. IV, n. 16096/2018).

Si è affermato che il conducente di un veicolo è tenuto, in base alle regole della comune diligenza e prudenza, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in caso di sua renitenza, anche a rifiutarne il trasporto o ad omettere l'intrapresa della marcia e ciò a prescindere dall'obbligo e dalla sanzione a carico di chi deve fare uso della detta cintura (Cass. IV, n. 32877/2020: in applicazione del principio è stata confermata la sentenza di condanna del conducente per il reato di omicidio colposo in danno della persona trasportata priva di cintura di sicurezza).

La giurisprudenza è divisa in ordine alla responsabilità del soggetto incaricato del servizio di manutenzione, in caso di incidente automobilistico dovuto ad omessa od insufficiente manutenzione della sede stradale.

Un orientamento (Cass. IV, n. 21040/2008 e Cass.n. 46831/2011) ritiene che, nel caso in cui un incidente stradale sia stato causato dalla insufficiente od omessa manutenzione della sede stradale da parte dell'ente pubblico a ciò preposto, il soggetto incaricato del relativo servizio risponde, in sede penale, in ogni caso (e non soltanto quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto) delle lesioni colpose conseguite al sinistro, secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa; la responsabilità dell'addetto alla manutenzione può essere esclusa (ex art. 41 c.p.) solamente quando la condotta dell'utente della strada si configuri come evento eccezionale e abnorme, non altrimenti prevedibile né evitabile.

Altro orientamento (Cass. IV, n. 34154/2012) ritiene, al contrario, che alle condizioni della strada può essere riconosciuta esclusiva efficienza causale dell'evento costituito dal sinistro stradale (con conseguente responsabilità esclusiva del soggetto incaricato della manutenzione) soltanto nel caso in cui esse siano tali da costituire un'insidia od un trabocchetto per gli utenti, e costituiscano, pertanto, una fonte di pericolo occulto non evitabile con l'uso della normale diligenza; al contrario, nei casi in cui la situazione di pericolo sia conoscibile e superabile adottando la normale diligenza che si richiede all'utente di strada pubblica, responsabile della causazione di un eventuale incidente è, direttamente ed esclusivamente, chi non ha adottato la diligenza imposta.

Cattive condizioni meteorologiche, calamità naturali e rischio sismico

In relazione agli obblighi impeditivi gravanti sui titolari di posizioni di garanzia nell'ambito del Servizio Nazionale di Protezione Civile, in base al cd. "Metodo Augustus", previsto dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri, 3 dicembre 2008 e dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, 3 dicembre 2008, in caso di allerta meteo di massima gravità, non sussiste un automatico obbligo di chiusura delle scuole e di inibizione della circolazione dei veicoli, potendosi, in alternativa, attuare un piano informativo straordinario e contemporaneamente predisporre un piano di intervento deputato a gestire l'emergenza allorché si concretizzi (Cass. IV, n. 22214/2019).

Nel caso di eventi o calamità naturali che si sviluppano progressivamente, il giudizio di prevedibilità dell’evento dannoso — necessario perché possa ritenersi integrata la colpa — deve tener conto dell’esperienza del passato, e cioè della natura e delle dimensioni di eventi analoghi già verificatisi, ma non può fondarsi esclusivamente sull’essersi in passato già verificati eventi analoghi, occorrendo, infatti, valutare anche la possibilità che tali eventi si possano ripetere con dimensioni e caratteristiche più gravi, in quanto tale giudizio va compiuto ex ante ed in concreto (Cass. IV, n. 16029/2019: fattispecie in tema di responsabilità di un Sindaco per omicidio colposo plurimo, verificatosi a causa di un intenso nubifragio che aveva causato frane e colate detritiche che avevano devastato centri abitati, in cui la S.C. ha confermato la sentenza che, nonostante la verificazione negli anni precedenti di fenomeni con caratteristiche simili, aveva escluso la prevedibilità in concreto dell'evento, in ragione della genericità degli avvisi della protezione civile sul rischio idrogeologico e sulle condizioni metereologiche); Cass. IV, n. 29439/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna del sindaco, che, dopo aver ricevuto avviso di previste condizioni meteo particolarmente avverse, ometteva di disporre l'interdizione delle vie secondarie di accesso alla zona soggetta a pericolo di allagamento nonostante fosse prevedibile una possibile estensione del fenomeno, così cagionando la morte di due persone che, a bordo di un'autovettura, venivano travolte da una massa d'acqua fuoriuscita dal corso di un torrente).

La giurisprudenza ha escluso la natura eccezionale ed imprevedibile dell’evento sismico ove verificatosi in zona qualificata a rischio, ed ha conseguentemente ritenuto che l’adeguatezza del comportamento dell’agente chiamato a gestire il rischio sismico, deve essere valutata in relazione alle contingenze del caso concreto, in considerazione delle caratteristiche dell’edificio, della sua utilizzazione, delle informazioni scientifiche, specifiche e di contesto, disponibili in ordine a possibilità o probabilità di eventi dirompenti (Cass. IV, n. 2536/2016: fattispecie relativa al crollo di un edificio scolastico, in cui la S.C. ha ritenuto la responsabilità per omicidio colposo del Dirigente scolastico e del Dirigente del settore edilizia della Provincia per aver omesso di disporre lo sgombero dell’immobile, in considerazione della prevedibilità dell’evento tellurico in quanto verificatosi in area qualificata a discreto rischio ed a seguito di uno sciame sismico protrattosi nel tempo con crescente intensità e di due violentissime scosse verificatesi nella stessa notte).

Una più ampia analisi delle tematiche inerenti alla responsabilità per colpa in riferimento alle conseguenze di eventi sismici è operata da Cass. IV, n. 12478/2016. Si è, in particolare, osservato che la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante, non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell’evento; in applicazione del principio, in fattispecie relativa al sisma che ha colpito la città di L’Aquila in data 6 aprile 2009, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva escluso la responsabilità, a titolo di omicidio colposo, dei componenti della Commissione grandi rischi del Dipartimento della Protezione civile, ritenendo che non fossero ravvisabili specifiche regole cautelari nelle disposizioni che ne disciplinano le competenze, trattandosi di norme che attribuiscono a tale organo esclusivamente compiti di natura consultiva, funzionali all’attività di previsione e prevenzione del rischio, senza contenere prescrizioni sul quomodo dell’attività stessa. Con riguardo alla medesima fattispecie, è stato configurato il reato di omicidio colposo nella condotta del dirigente del Dipartimento della Protezione civile che, a fronte di uno sciame sismico in atto, rendendo agli organi di informazione, in assenza di adeguati riscontri scientifici, dichiarazioni rassicuranti circa i futuri sviluppi dell’attività sismica, affermandone la limitata pericolosità, aveva condizionato la condotta degli abitanti delle zone interessate, inducendoli ad abbandonare i comportamenti autoprottettivi in precedenza adottati — consistiti nell’allontanarsi dalle abitazioni al verificarsi delle prime scosse sismiche — e a trattenersi all’interno degli edifici, così rimanendo travolti dal crollo degli stessi a seguito di una successiva scossa avente efficacia distruttiva: in proposito, si è precisato che il nesso di causalità è configurabile anche nei casi in cui sussista un diretto legame di derivazione causale tra la condotta dell’agente e la successiva condotta della persona offesa, indotta ad agire in forza del condizionamento subito).

Infortuni sul lavoro

Le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino ad operare all’interno di un determinato ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino, in danno di un terzo, i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico (Cass. IV, n. 32178/2020: fattispecie in cui la S.C. ha confermato la condanna di un lavoratore che, nello svolgimento di operazioni di scarico merci, in violazione dell'art. 20, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, aveva consentito che un terzo estraneo si intromettesse nello svolgimento della lavorazione riportando lesioni personali).

In caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al preposto di fatto, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva "da posizione" (Cass. IV, n. 1096/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato senza rinvio, "perché il fatto non costituisce reato", la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del capo reparto di un supermercato, preposto di fatto da soli cinque giorni, per l'infortunio subito da un dipendente a causa del mancato uso dei dispositivi di protezione).

Reati fallimentari

In tema di bancarotta semplice documentale, la colpa dell’imprenditore non è esclusa dall’affidamento a soggetti estranei all’amministrazione dell’azienda della tenuta delle scritture e dei libri contabili, perché su di lui grava, oltre all’onere di un’oculata scelta del professionista incaricato e alla connessa eventuale culpa in eligendo, anche quella di controllarne l’operato (Cass. V, n. 24297/2015).

Responsabilità da prodotto

Costituisce violazione di una elementare regola di prudenza della condotta di chi vende un bene senza essersi previamente accertato che questo possiede i requisiti di sicurezza prescritti dalla normativa (Cass. IV, n. 36445/2014: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva affermato la responsabilità per omicidio colposo del venditore di un immobile, il quale aveva consegnato il bene senza verificare la conformità alla normativa in tema di impianti a gas, in relazione alla morte di un familiare degli acquirenti conseguente ad una esplosione innescata dalla fuoriuscita di sostanza gassosa).

Responsabilità per colpa nei gruppi di imprese

In tema di responsabilità per reati colposi d'evento commessi nell'ambito dell'attività di una società facente parte di un gruppo di imprese, in relazione all'evento che costituisce concretizzazione del rischio connesso all'attività esercitata direttamente da una società controllata, è configurabile la responsabilità dell'amministratore di diritto della società capogruppo, per l'esercizio colposo dei poteri di direzione e coordinamento, ove tali poteri, sulla base del reale assetto dei rapporti correnti tra la società capogruppo e le controllate, per il loro concreto contenuto, siano in grado di incidere sulla gestione del rischio affidata sul piano operativo alle società controllate (Cass. IV, n. 32899/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna dell'amministratore di diritto della società capogruppo Ferrovie dello Stato s.p.a., holding non meramente finanziaria, per le morti conseguite al deragliamento di un treno merci durante l'attraversamento della stazione di Viareggio, integranti concretizzazione del rischio connesso all'attività imprenditoriale svolta dalle controllate società deputate alla gestione della rete ferroviaria e all'esercizio dell'attività di trasporto ferroviario, in ragione delle significative competenze nella gestione del rischio per la sicurezza della circolazione ferroviaria, riconosciute in capo alla capogruppo in considerazione del particolare assetto del gruppo).

La struttura soggettiva del delitto colposo

Si è già osservato (v. supra) che l'imputazione a titolo di colpa presuppone la non volontà della realizzazione del fatto-reato.

In proposito, vengono abitualmente distinte:

a) colpa propria, ordinariamente caratterizzata dall'assenza di volontà dell'evento;

b) colpa impropria, sussistente nei casi eccezionali in cui l'agente risponderebbe a titolo di colpa, pur avendo voluto l'evento. Vi rientrano le fattispecie di cui agli artt. 47 c.p. (errore di fatto determinato da colpa), 55 c.p. (eccesso colposo nelle cause di giustificazione), e 59, comma 4, c.p. (erronea supposizione, per colpa, di una causa di giustificazione).

La dottrina preferibile evidenzia, peraltro, che «l'etichetta di “colpa impropria” è poco felice e rischia di creare fraintendimenti: essa suscita l'impressione che si sia di fronte a fatti intrinsecamente “dolosi” trattati come se fossero colposi sul piano delle conseguenze sanzionatorie. In realtà, anche i fatti in questione sono strutturalmente colposi: nonostante la volizione in senso psicologico dell'evento, il dolo non è configurabile perché manca la coscienza e volontà dell'intero fatto tipico, stante l'erronea rappresentazione di elementi non corrispondenti alla realtà. Inoltre, ciò che si rimprovera all'agente non è di aver voluto l'evento, bensì di averlo provocato con negligenza o imperizia» (Fiandaca-Musco, PG, 599).

La “non volontà” dell'evento non postula di necessità la “non previsione” di esso; in proposito, vengono, pertanto, ulteriormente distinte (Fiandaca-Musco, PG, 599):

(a) colpa cosciente (o con previsione), che ricorre nelle ipotesi “nelle quali l'agente non vuole commettere il reato, ma si rappresenta l'evento come possibile conseguenza della sua condotta”;

(b) colpa incosciente, che ricorre “quando il soggetto non si rende conto di potere con il proprio comportamento ledere o porre in pericolo beni giuridici altrui. In questi casi il rimprovero che si muove al soggetto è di non aver prestato sufficiente attenzione alla situazione pericolosa”.

In ragione della maggiore intensità della colpa cosciente, “l'avere agito, nei delitti colposi, nonostante la previsione dell'evento” costituisce circostanza aggravante comune (art. 61, comma 1, n. 3 c.p.).

Al fine di “personalizzare” il più possibile il giudizio di responsabilità colposa, parte della dottrina ricorre al criterio della “doppia misura” del dovere di diligenza: “una volta accertata in sede di tipicità la violazione del dovere obiettivo di diligenza enucleato alla stregua dell'homo eiusdem condicionis et professionis, il rimprovero di colpevolezza viene fatto dipendere dall'accertamento dell'attitudine del soggetto che ha in concreto agito ad uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata: tale verifica dovrebbe tener conto del livello di capacità, esperienza e conoscenza del singolo agente (c.d. misura soggettiva)” (Fiandaca-Musco, PG, 600). Ad esempio, non dovrebbe essere ritenuto responsabile per colpa l'automobilista principiante che, in condizioni di emergenza, non abbia saputo eseguire una manovra (non ordinaria, bensì) difficoltosa.

Colpa cosciente e dolo eventuale

Notevole rilevanza pratica va riconosciuta alla distinzione tra dolo eventuale (v. supra) e colpa cosciente o con previsione (art. 61, comma 1, n. 3 ).

Al riguardo erano enucleabili in giurisprudenza due distinti filoni interpretativi:

a) il primo, senz'altro dominante (Cass. II, n. 7027/2014; Cass. IV, n. 24612/2014), attribuisce, ai fini della distinzione, rilievo preminente al criterio dell'accettazione del rischio: risponde a titolo di dolo eventuale l'agente che, pur non volendo l'evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, attivandosi anche “a costo di determinarlo”, mentre risponde a titolo di colpa aggravata dalla previsione dell'evento l'agente che, pur rappresentandosi l'evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole convinzione che esso non si verifichi, o comunque di essere in grado di evitarlo. Accettare il rischio di produrre l'evento equivale a volerlo, ed in tal modo si rispettano ed applicano le norme generali vigenti in tema di elemento psicologico (artt. 42 e 43 ), che, ai fini della sussistenza del dolo, richiedono comunque, come requisito indefettibile, l'esistenza dell'elemento volitivo sotto l'aspetto della consapevole volontarietà dell'evento;

b) l'altro, meno recente (Cass. IV, n. 13083/2009, e n. 28231/2009), pur non escludendo del tutto la rilevanza dell'accettazione del rischio, considera tale elemento unicamente quale elemento implicito nella volizione della condotta, ponendo l'accento sulla prevedibilità dell'evento: si ha dolo eventuale nel caso in cui il verificarsi dell'evento si presenti come concretamente possibile, mentre si versa in ipotesi di colpa con previsione nei casi in cui la verificabilità dell'evento rimane una ipotesi astratta.

Nell'una e nell'altra ottica, si riteneva indispensabile una indagine sull'effettivo atteggiarsi della volontà dell'agente e sul modo in cui egli si sia rapportato rispetto all'evento: quando il soggetto non ha agito proprio allo scopo di determinare un certo evento (nel qual caso sarebbe ravvisabile dolo intenzionale), ai fini dell'imputazione dell'evento, ciononostante verificatosi, a titolo di dolo eventuale, occorre sempre verificare l'esistenza nell'agente di un atteggiamento psicologico che riconduca in qualche modo l'evento nella sfera della volizione del medesimo (il che avviene, ad esempio, quando egli si rappresenti l'evento come concretamente probabile e tuttavia agisca, accettando il rischio del suo verificarsi). Sussisterà il dolo eventuale quando l'agente si rappresenti la probabilità, od anche soltanto la semplice possibilità, del verificarsi dell'evento letale come conseguenza della condotta medesima, ed il rischio di esso — ponendo in essere la condotta — sia stato accettato (Cass. S.U., n. 3428/1992); al contrario, nei casi in cui il soggetto, pur essendosi rappresentato la possibilità del verificarsi dell'evento, abbia agito nella convinzione (non importa se erronea) che l'evento non si sarebbe verificato, quest'ultimo non può essere attribuito alla sua sfera volitiva: in questo caso, potrà, pertanto, ritenersi la sussistenza della mera colpa con previsione, poiché il verificarsi dell'evento è stato percepito come astratta evenienza, non percepita dall'agente come concretamente realizzabile, e quindi da lui non voluta.

La dottrina ritiene senz'altro possibile conciliare le diverse teorie: «punto di partenza è il rilievo che agire in presenza della rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto implica un consenso del soggetto, se soltanto il consenso viene inteso non come adesione intima, come speranza, come un “vedere-con-favore”, ma come decisione personale che ricomprende ed accetta la realizzazione medesima: in questo risiede la parte di innegabile verità delle teorie del consenso, con la dovuta accentuazione del ruolo irrinunciabile della volontà; d'altro canto, è anche vero che colui che agisce rappresentandosi il concreto pericolo della realizzazione del fatto, cioè non modificando o correggendo la sua “originaria” previsione nell'altra opposta, di una sicura concreta non-realizzazione del fatto, effettivamente accetta il rischio del realizzarsi degli elementi del reato (anche se nel suo animo dovesse sperare che non si realizzino) e in questo senso vuole il fatto, decidendosi per esso. Il dolo eventuale è dunque rappresentazione della (concreta) possibilità della realizzazione del fatto di reato e accettazione del rischio (quindi, volizione) del fatto medesimo; la colpa cosciente è invece rappresentazione della (astratta, o meglio “semplice”) possibilità della realizzazione del fatto, ma accompagnata dalla sicura fiducia che in concreto non si realizzerà (quindi, non-volizione del fatto stesso)» (Romano, Commentario, 443). Il dolo eventuale si caratterizza, quindi, per l'accettazione del rischio che si realizzi un evento non direttamente voluto, e si distingue dalla colpa con previsione (o cosciente), nella quale l'agente, pur in presenza di analoga prospettazione, respinge il predetto rischio, confidando nella propria capacità di controllare la condotta. Il mero auspicio del non verificarsi dell'evento rappresentato, ma non direttamente voluto, non esclude il dolo eventuale, occorrendo a tal fine che la convinzione del mancato verificarsi del predetto evento fondi su elementi di fatto concreti, ragionevolmente idonei ad indurre l'agente a confidare nella propria capacità di evitare quell'evento.

In argomento, sono, peraltro, intervenute da ultimo le Sezioni unite (Cass. S.U., n. 38343/2014), chiarendo che “il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.

Come è evidente, la disamina, in astratto, delle differenze sussistenti tra i due criteri di imputazione va tradotta, nella pratica, nell'individuazione di validi criteri distintivi, suscettibili di concreta verifica probatoria (altrimenti diabolica, sub specie di dolo eventuale, per il pubblico ministero); in caso contrario, il dolo eventuale si rivelerebbe quale ingegnosa, ma assolutamente astratta, costruzione dottrinale, priva di possibilità di concreto riscontro nella pratica: “l'accertamento nei singoli casi di un dolo eventuale o di una colpa cosciente, con le pesanti conseguenze che vi sono connesse, risulta molte volte problematico, specie quando a rilevanti oggettive probabilità del verificarsi dell'evento se ne accompagnino altrettante che l'agente, il quale pure se lo sia rappresentato, non ne abbia soggettivamente accertato il concreo rischio” (Romano 444).

Non sembra possibile fissare criteri indistintamente validi per tutti i casi: il giudice sarà chiamato a svolgere, di volta in volta, una indagine approfondita al fine di verificare quale, nel caso specifico, sia stato l'atteggiamento psicologico dell'agente, ed i risultati di questa indagine di fatto, se sorretti da adeguata motivazione, sfuggono a qualsiasi controllo in sede di legittimità.

È stato ravvisato dolo eventuale, e non colpa cosciente:

- in tema di lesioni volontarie da sinistro stradale, valorizzando quali indicatori del dolo eventuale, anziché della colpa cosciente, l'essere il fatto avvenuto subito dopo una rapina, compiuta mentre l'imputato, gravato da numerosi precedenti, era in regime di semilibertà, nonché la elevata velocità tenuta e la inosservanza di segnalazioni semaforiche (Cass. II, n. 43348/2014);

- in tema di omicidio doloso, nella condotta del conducente di autovettura che, deliberatamente, aveva effettuato una manovra di impegno della corsia di sorpasso al fine di ostruire la marcia e di impedire il sorpasso a due motociclisti i quali provenivano da tergo a velocità elevata, provocando così la collisione della sua autovettura con le motociclette, strette tra il veicolo e la barriera spartitraffico (Cass. I, n. 8561/2015).

La giurisprudenza ha, da ultimo, evidenziato che la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente rileva solo nel caso in cui la condotta dell'agente riguardi un'attività lecita seppure rischiosa, e non, invece, laddove si versi in ipotesi di attività illecita atteso che, in tal caso, è esclusa, alla base, la stessa configurabilità dell'osservanza o meno di regole cautelari (Cass. V, n. 4854/2022: fattispecie di omicidio doloso, commesso durante un furto in abitazione, a seguito dell'esplosione di due colpi, il secondo dei quali ad altezza d'uomo, in direzione dei ladri, con un'arma dotata di spiccata potenzialità offensiva).

Segue. Casistica

La rilevanza penale della morte o lesioni a seguito di contagio involontario da Aids

È evidente che le condotte che abbiano provocato il contagio involontario da Aids del partner possono essere indotte sia da colpa cosciente, sia da dolo eventuale, possono cioè aver costituito oggetto di rappresentazione-ed-accettazione/volizione da parte del soggetto agente, che può nondimeno essersi ugualmente determinato ad agire (non confidando di riuscire ad evitare il verificarsi dell'evento rappresentato-e-temuto, ovvero nella certezza — pur errata — del non verificarsi di esso, bensì unicamente) nella speranza che l'evento rappresentato-e-temuto non si sarebbe verificato.

Il problema si sposta, quindi, sul piano probatorio. E proprio un deficit probatorio ha indotto la Corte di cassazione (Cass. I, n. 30425/2001), nel primo caso sottoposto al suo esame, a ritenere la sussistenza della mera colpa con previsione dell'agente, coniuge della vittima (essendosi ritenuto che, nonostante la reiterazione dei rapporti sessuali, intrattenuti sempre senza l'adozione di cautele, l'imputato avesse rimosso psicologicamente l'eventualità del contagio e della conseguente possibilità che la moglie morisse, tenuto anche conto del fatto che egli, pur consapevole di aver contratto il male, per numerosi anni aveva goduto di condizioni di salute discrete). Successivamente (Cass. V, n. 44712/2008), è stato invece ravvisato il dolo eventuale nella condotta di una donna che, pur nella consapevolezza di essere affetta dal male (che aveva contratto dal marito, poi deceduto), e delle sue possibili conseguenze letali, aveva intrattenuto per lunghi anni rapporti sessuali non protetti con il nuovo partner senza avvertirlo del pericolo: si è, in questo caso, ritenuto che “è vero che vi possono essere fenomeni di rimozione psicologica quando si versi in condizione di difficoltà o di pericolo, ma francamente non appare credibile che si rimuovano eventi destinati a restare fortemente impressi nella mente delle persone quali la morte del proprio coniuge (...) e la scoperta di essere ammalati della stessa grave malattia che ha condotto alla scomparsa del marito”.

Entrambe le decisioni destano perplessità. Nel primo caso, il marito avrebbe dovuto necessariamente rivolgersi ad un medico, per colmare il proprio deficit conoscitivo, ed il non averlo fatto appare sintomatico dell'accettazione del verificarsi di un evento sicuramente non voluto (e che altrettanto sicuramente si auspicava che non si sarebbe verificato), ma che nulla induceva ragionevolmente a ritenere con certezza che non si sarebbe verificato, ovvero che sarebbe stato evitato: l'evento doveva, pertanto, essere imputato all'agente a titolo di dolo eventuale. Nel secondo, essendosi dato atto (in motivazione) che risultava provato che la donna avesse agito “essendo perfettamente consapevole del concreto rischio di infezione al quale esponeva il suo compagno — evento non solo concretamente possibile, ma altamente probabile con il protrarsi dei rapporti sessuali — ed accettando il rischio del verificarsi dell'evento, alla fine avvero verificatosi”, a ben vedere avrebbe dovuto essere ravvisato un più grave (quoad poenam: cfr. art. 133 c.p.) dolo diretto alternativo, proprio in considerazione dell'elevato grado di probabilità (quasi prossimo alla certezza, nella rappresentazione dell'agente) del verificarsi dell'evento, pur non voluto direttamente.

Si è successivamente ritenuto che risponde del delitto di omicidio doloso a titolo di dolo eventuale per contagio da HIV il soggetto che, consapevole di essere sieropositivo e informato della concreta possibilità di trasmissione del virus mediante rapporti sessuali non protetti, con probabile esito letale dell'infezione, non abbia avvisato la compagna della propria condizione, intrattenendo con la stessa tali rapporti e, dopo la scoperta della trasmissione dell'infezione, l'abbia convinta a non sottoporsi a terapia antiretrovirale in ragione di tesi negazioniste, così favorendo l'insorgenza di un linfoma non Hodgkin B, patologia "AIDS definente", inizialmente non trattata con la prescritta chemioterapia, che ne cagionava la morte (Cass. I, n. 14560/2022): anche quest’ultima decisione non ci appare condivisibile, per le medesime ragioni esposte in relazione al secondo dei casi in precedenza esaminati.

Morte o lesioni a seguito di sinistro stradale provocato da conducente sotto effetto di droga e/o in stato di ubriachezza

Anche le condotte del tipo di quella in esame possono essere indotte sia da colpa cosciente, sia da dolo eventuale, possono cioè aver costituito oggetto di rappresentazione-ed-accettazione/volizione da parte del soggetto agente, che può nondimeno essersi ugualmente determinato ad agire (non confidando di riuscire ad evitare il verificarsi dell'evento rappresentato-e-temuto, ovvero nella certezza — pur errata — del non verificarsi di esso, bensì unicamente) nella speranza che l'evento rappresentato-e-temuto non si sarebbe verificato (ad es., perché per strada non avrebbe incrociato nessuno, ovvero nessuno in rotta di collisione con il suo veicolo).

Il problema si sposta, ancora una volta, sul piano probatorio.

In un caso, la Corte di cassazione (Cass. IV, n. 13083/2009 cit., in fattispecie nella quale l'indagato, soggetto di giovane età, non particolarmente esperto alla guida ed in accertato stato di ebbrezza, a bordo di un'autovettura di grossa cilindrata, al termine di un litigio, era ripartito a forte velocità, sgommando, ed aveva perso il controllo dell'autovettura, investendo due passanti — uno dei quali successivamente deceduto — che si trovavano sul marciapiedi, senza riuscire a tentare una frenata in extremis), ha escluso la sussistenza del dolo eventuale. La decisione suscita, peraltro, perplessità: in motivazione non è stato, infatti, dedicato neanche un cenno alla tematica della prova del dolo eventuale, né si è indicato cosa il P.M., in quella fattispecie, poteva (e quindi doveva) provare, più di quanto avesse provato; è, d'altro canto, evidente che il silenzio dell'indagato sulle sue interne intenzioni costituisce elemento del tutto privo di rilievo, non essendo ragionevolmente ipotizzabile una costruzione giuridica che fondi di necessità sulla confessione dell'agente, risultando altrimenti indimostrabile. I dati acquisiti potevano più condivisibilmente essere valorizzati per evidenziare — quantomeno a livello indiziario — la sussistenza di un dolo eventuale, ovvero della coscienza e volontà di tenere (ripartendo a forte velocità e sgommando) una condotta di guida improntata ad iattanza (verosimilmente per riaffermare la supremazia del proprio ego dopo il litigio occorso), anche a costo di provocare eventi del tipo di quelli verificatisi, sicuramente non voluti (nulla lo dimostrava), ma altrettanto sicuramente previsti e prevedibili, ed accettati come possibile conseguenza del proprio agire, pur se nell'auspicio (non certo nella certezza, non corroborata processualmente da alcunché: non da una particolare perizia alla guida, smentita anche dall'assenza di tracce di frenata, a riprova dell'incapacità di porre in essere proficue manovre di emergenza; non dalla cilindrata dell'auto; non dal proprio equilibrio psico-fisico, irrimediabilmente minato dallo stato ubriachezza del quale l'indagato era certamente consapevole) del loro non verificarsi.

Successivamente, premesso che “ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l'agente, pur essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione di un fatto costituente reato come conseguenza della propria condotta, avrebbe agito anche se avesse avuto certezza del suo verificarsi, accettandone la realizzazione a seguito della consapevole subordinazione di un determinato bene ad un altro; si versa invece nella colpa con previsione allorquando la rappresentazione come certa del determinarsi del fatto avrebbe trattenuto l'agente dall'agire”, la Corte di cassazione (Cass. I, n. 10411/2011) ha condivisibilmente censurato la qualificazione come colposa della condotta del conducente di un grosso furgone, da lui rubato, che, per sottrarsi all'arresto, dopo aver superato ad elevata velocità una serie di semafori rossi, aveva travolto un'autovettura provocando la morte di uno dei passeggeri e il ferimento degli altri, osservando che, al fine di stabilire se nel caso in esame ricossero gli estremi del dolo eventuale o della colpa aggravata dalla previsione dell'evento, il giudice d'appello avrebbe dovuto esaminare i seguenti elementi, ponendoli in correlazione logica fra loro:

- le modalità e la durata dell'inseguimento;

- il lasso di tempo intercorso tra l'inizio dello stesso e la sua trasformazione in mero controllo a distanza del furgone rubato;

- le complessive modalità della fuga e la sua protrazione pur dopo che la Polizia aveva adottato una differente tipologia di vigilanza;

- le caratteristiche tecniche del mezzo rubato in rapporto a quanto in esso contenuto; la conseguente energia cinetica in relazione alla velocità serbata;

- le caratteristiche degli incroci impegnati con luce semaforica rossa e le relative possibilità di avvistamento di altri veicoli;

- la conformazione dei luoghi in cui avvenne l'impatto con la «Citroen» condotta dalle vittime;

- l'assenza di tracce di frenata o di elementi obiettivamente indicativi di tentativi di deviazione in rapporto al punto d'impatto con il mezzo su cui viaggiavano i tre giovani e alle caratteristiche dell'incrocio tra viale Regina Margherita e via Nomentana;

- il comportamento serbato dall'imputato dopo la violenta collisione.

All'esito del giudizio di rinvio, il processo si è concluso con la condanna dell'imputato per il reato di omicidio volontario (e lesioni volontarie) a titolo di dolo eventuale (Cass. V, n. 42973/2012).

Altra, successiva, decisione, premesso che sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente, quando l'agente si sia rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell'evento e si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione, in modo tale che, sul piano del giudizio controfattuale, possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento medesimo, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio doloso pronunciata in relazione alla condotta dell'imputato, il quale, in stato di ebbrezza, aveva viaggiato contro mano in autostrada, provocando così la collisione con altra auto e, per l'effetto, sia il ferimento del conducente sia il decesso immediato dei quattro trasportati, affinché la corte territoriale enucleasse, con maggiore precisione e valutandone analiticamente gli indicatori sintomatici, l'elemento soggettivo del reato (Cass. I, n. 18220/2015).

Reati tributari

In tema di omesso versamento dell'Iva da parte di una società a responsabilità limitata (art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000), si è ritenuto che versi in dolo eventuale, e non in mera colpa, il soggetto che, subentrando ad altri dopo la dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, abbia acquistato le quote sociali e abbia assunto la carica di amministratore, senza compiere il previo controllo, di natura puramente documentale, sugli ultimi adempimenti fiscali; il carattere «colposo» dell'addebito è stato escluso in considerazione della particolare semplicità delle verifiche che avrebbero consentito di appurare l'incombenza dell'obbligo tributario (Cass. III, n. 3636/2014).

Il grado della colpa

Il grado della colpa è indicato (art. 133, comma 1, n. 3, c.p.) tra i parametri rilevanti per la valutazione della gravità del reato, ai fini della commisurazione della pena, ma rileva anche nei casi in cui il giudice debba decidere in ordine al risarcimento dei danni ex art. 185 c.p.

Esclusa la rilevanza delle distinzioni proprie del diritto civile (colpa grave, gravissima, lieve, lievissima), dovrà attribuirsi rilievo agli elementi che fondano ordinariamente il giudizio di colpa; in particolare (Padovani, 217 s.):

a) “in rapporto alla regola obiettiva, rileva l'entità quantitativa dell'inosservanza (altro essendo, ad es., superare il limite di velocità di dieci o di cento km.) ed il numero delle inosservanze”;

b) “in rapporto all'evitabilità dell'evento, il grado è maggiore quando l'osservanza avrebbe sicuramente impedito l'evento, ed è minore quando invece è solo probabile ch'essa l'avrebbe scongiurato”;

c) “in rapporto all'esigibilità dell'osservanza, il grado è maggiore in soggetti di particolare abilità, competenza ed esperienza e minore in soggetti che possiedano tali caratteristiche ad un livello più modesto (altro è, ad es., l'errore in una diagnosi elementare da parte di un giovane laureato adibito ai servizi di guardia medica, altro lo stesso errore da parte di un clinico specialista)”.

Anche il concorso di colpa della vittima incide, riducendolo, sul grado della colpa (Cass. IV, n. 9311/2003, in fattispecie di omicidio colposo in danno di persona trasportata, a sua volta in colpa per avere omesso l'uso della cintura di sicurezza).

La colpa professionale

Si ha colpa professionale nei casi di responsabilità di chi esercita una delle professioni intellettuali previste e disciplinate dagli artt. 2229 ss. c.c. (non anche di chiunque eserciti professionalmente una certa attività (Cass. IV, n. 43182/2013).

Si è tradizionalmente discusso in merito al criterio di valutazione della colpa del professionista, se cioè egli possa essere ritenuto penalmente responsabile soltanto per colpa grave, secondo quanto desumibile dall'art. 2236 c.c.

La giurisprudenza (per tutte, Cass. IV, n. 16328/2011 e Cass. IV, n. 4391/2012; in argomento, cfr. anche Corte cost. n. 166/1973), in relazione alla colpa medica (ipotesi di colpa professionale sicuramente più frequente nella prassi giurisprudenziale) era ormai ferma nel configurare la responsabilità del professionista anche per colpa non grave: il principio civilistico di cui all'art. 2236 c.c., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave, poteva  trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi quando si deve valutare non già l'imprudenza o negligenza del medico, bensì l'addebito di imperizia, ed il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà, ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell'intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto; al contrario, non sussistono i presupposti per parametrare l'imputazione soggettiva al canone della colpa grave ove si tratti di casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standards (Cass. IV, n. 4391/2012).

Segue.  La limitazione della responsabilità professionale del medico in caso di « colpa lieve »: l’art. 3 l. n. 189/2012

L'art. 3 l. n. 189/2012 (di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 158/2012, c.d. “decreto Balduzzi, dal nome del parlamentare proponente) aveva previsto — per la sola colpa professionale nell'esercizio della professione sanitaria — due innovazioni di grande rilievo:

a) la distinzione, nell'ambito dell'elemento psicologico del reato, tra « colpa lieve » e « colpa grave »;

b) la valorizzazione delle linee guida e delle pratiche terapeutiche virtuose (le cc.dd. best practices) corroborate dal sapere scientifico.

L'art. 3 l. n. 189/2012 aveva ampliato la rilevanza del grado della colpa professionale medica, estendendola addirittura alla configurabilità o meno dell'elemento psicologico dei reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., e quindi della liceità o meno della condotta, senza, peraltro, definire autonomamente le due figure della « colpa lieve » e della « colpa grave », né tratteggiarne la linea di confine. I tratti che distinguono i predetti gradi della colpa apparivano, peraltro, agevolmente mutuabili dall'elaborazione civilistica della materia (ed, in particolare, dall'interpretazione di norme come l'art. 2043 c.c. e l'art. 96 c.p.c.), cui all'evidenza il legislatore deve aver ritenuto di fare riferimento, poiché in caso contrario il suo silenzio sarebbe inspiegabile. La « colpa grave » ricorreva, quindi, quando il soggetto agente abbia omesso quel minimo di perizia che gli avrebbe consentito di rispettare la norma cautelare violata; quella « lieve » ricorreva, invece, in presenza di una semplice leggerezza, non assolutamente incompatibile con il grado di perizia richiesto nell'esplicazione dell'opera professionale. Trattasi, è vero, di criteri non del tutto determinati in astratto, ma che tali potevano diventare in concreto ove si valorizzi la pluriennale elaborazione della giurisprudenza civile.

La giurisprudenza (Cass. IV, n. 22405/2015), dopo aver evidenziato che, a seguito della modifica normativa in esame, « il peso dell'apprezzamento tecnicamente discrezionale [rimesso al giudice] è massimo », aveva ritenuto di dover trarre gli elementi atti a favorire una congrua distinzione delle ipotesi di colpa « lieve » e « non lieve » dalla pur scarna dottrina che aveva in passato esaminato la tematica, giungendo all'identificazione di una serie di parametri di valutazione:

a) la misura della divergenza tra condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere;

b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente;

c) le motivazioni della condotta;

d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa, ovvero la previsione dell'evento.

Si era concluso, con riguardo alla mutata rilevanza del grado della colpa in subiecta materia, che  « l'entità della violazione delle prescrizioni va rapportata proprio agli standards richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato definito dalle standardizzate regole d'azione »; era stata anche manifestata la consapevolezza che « attraverso tale raffronto la ponderazione demandata al giudice acquisisce una misura di maggiore determinatezza o, forse, solo di minore vaghezza. Infatti non può essere taciuto che, per quanto ci si voglia sforzare di congegnare la valutazione rendendola parametrata a dati oggettivi, a regole definite, e quindi non solo intuitiva, resta comunque un ineliminabile spazio valutativo, discrezionale, col quale occorre fare i conti » (Cass. IV, n. 16237/2013).

Nella vigenza della l. n. 189/2012, appariva in via di consolidamento l'orientamento per il quale la colpa grave si configura quando si è in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, come definito dalle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, tenuto conto della necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle specifiche condizioni del paziente (Cass. IV, n. 22281/2014), e che sulla gravità della colpa del medico può incidere la frequenza o meno della complicanza che sia insorta a causa della sua condotta non appropriata (Cass. IV, n. 47289/2014). Sarebbe connotata da colpa non lieve — preclusiva, quindi, dell'esonero previsto dall'art. 3 cit. — la condotta del medico il quale si attenga a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida (Cass. IV, n. 2168/2015).   

Un orientamento ha osservato che, in presenza di due alternative terapeutiche, il medico è tenuto a scegliere la soluzione meno pericolosa per la salute del paziente, con la conseguenza che egli è responsabile, in caso di complicazioni, e nonostante l'osservanza delle regole dell'arte, per imprudenza, ove adotti l'alternativa più rischiosa (Cass. IV, n. 12968/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di un medico che – per una sospetta endometriosi poi rivelatasi insussistente - aveva sottoposto la paziente a un intervento di isterectomia, dal quale, nonostante la corretta esecuzione, era derivata la lesione dell'uretere, per non avere approfondito se, in base alle linee guida, fosse preferibile effettuare una terapia farmacologica, sia pure dagli effetti temporanei, in attesa di poter scoprire, grazie alla reazione della paziente a tali cure e ad ulteriori approfondimenti diagnostici, la fondatezza della diagnosi di sospetta endometriosi).  

Le linee-guida

Prima dell'entrata in vigore della l. n. 189/2012 , la giurisprudenza aveva qualificato le linee guida come « suggerimenti atti ad orientare i sanitari nei comportamenti che devono porre in essere in relazione ai casi concreti » (Cass. IV, n. 24400/2006), e ne aveva ammesso la valenza probatoria, quanto all'esistenza della colpa professionale, ove esse fondino su « autorevoli studi svolti anche a livello internazionale » (Cass. IV, n. 10795/2008: fattispecie nella quale era stata accertata la « grossolana violazione delle regole dell'arte medica psichiatrica », ovvero delle linee guida dell'American Psychiatric Association sulla prevenzione del rischio suicidiario).

Dopo l'entrata in vigore della l. n. 189/2012 , la giurisprudenza ha ribadito che le linee guida (definibili in sintesi come « raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione per coadiuvare medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche »:Cass. IV, n. 18430/2014) potevano assumere rilevanza ai fini dell'accertamento della responsabilità del medico soltanto quando indicavano standards diagnostico-terapeutici conformi alla regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e non risultavano ispirate esclusivamente a logiche di economicità della gestione, per contenere le spese in contrasto con le esigenze di cura del paziente: « le linee guida rilevanti (...) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento della spesa, poiché l'efficienza del bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza del dovere del sanitario di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente » (Cass. IV, n. 7951/2014). Potevano, inoltre, essere utilizzate come parametro per l'accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico soltanto le linee guida conformi alle regole della migliore scienza medica: in questo caso, proprio attraverso le indicazioni fornite dalle linee guida il giudice avrebbe potuto individuare eventuali condotte censurabili, se necessario avvalendosi di perizie, onde verificare la sussistenza di eventuali particolarità del caso concreto, che avrebbero potuto imporre o consigliare un percorso diagnostico-terapeutico alternativo rispetto a quello indicato dalle linee guida (Cass. IV, n. 11493/2013).

Il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determinava, comunque, di per sé, l’esonero dalla responsabilità penale del sanitario ai sensi dell’art. 3 cit., dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Cass. IV, n. 24455/2015).

Si riteneva, pertanto, che l'art. 3 l. n. 189/2012 avesse escluso la rilevanza (solo) penale della « colpa lieve » in riferimento alle condotte che avessero osservato linee guida o si fossero conformate a pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché accreditate dalla comunità scientifica. Tuttavia, il rispetto di tali linee guida etc. non determinava, di per sé, automaticamente, l'esonero dalla responsabilità penale del medico, dovendo comunque accertarsi se, nonostante l'osservanza di tali suggerimenti, vi fossero stati errori determinati da colpa, e, comunque, se un diverso comportamento terapeutico, più appropriato in considerazione delle peculiarità del caso concreto, avrebbe avuto una qualificata probabilità di evitare l'evento: sarebbe stata, infatti, connotata da colpa non lieve, ma grave (preclusiva, quindi, dell'esonero da responsabilità penale ex art. 3 cit.), la condotta del medico il quale si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate, anche quando la specificità del quadro clinico del paziente (ovvero, le peculiarità della malattia e le specifiche condizioni del paziente) imponessero un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida (Cass. IV, n. 2168/2015).

Inizialmente, la giurisprudenza aveva ritenuto che, ai fini dell'accertamento della responsabilità del medico per i reati di omicidio o lesioni colposi, le linee guida contenessero soltanto regole di perizia, il che avrebbe privato di rilevanza la disciplina sopravvenuta di cui all'art. 3 cit. in tutti i casi nei quali agli imputati fossero contestate ipotesi di colpa professionale per negligenza ed imprudenza (Cass. IV, n. 11493/2013 e Cass. IV, n. 5460/2014).

L'assunto era, peraltro, immediatamente apparso alla dottrina privo di condivisibile fondamento giuridico (Beltrani 2013, 27 ss.): a prescindere dal rilievo che frequentemente le linee guida contengono indicazioni circa il “rischio terapeutico” ritenuto ragionevole, strettamente inerenti al grado di prudenza suggerito, non poteva trascurarsi di considerare che, pacificamente, l'imperizia « consiste in una forma di imprudenza o di negligenza in relazione ad attività che richiedono particolari conoscenze » (Blaiotta 2015, 263).

Meritava, pertanto, maggior consenso l’opposto orientamento a parere del quale la disciplina di cui all’art. 3 cit., pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, poteva tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente fosse quello della diligenza (Cass. IV, n. 47289/2014; Cass. IV, n. 2168/2015; Cass. IV, n. 45527/2015).

Questo orientamento era ben presto divenuto dominante, essendo stato ribadito da Cass. IV, n. 23283/2016, per la quale la limitazione della responsabilità del medico in caso di colpa lieve, prevista dall’art. 3, comma 1, l. n. 189/2012, operava, in caso di condotta professionale conforme alle linee guida ed alle buone pratiche, anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia: tale interpretazione appariva conforme al tenore letterale della norma, che non fa alcun richiamo al canone della perizia e rispondeva alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica delineato dall’art. 43, comma 3.

Quanto al relativo onere probatorio, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dall’art. 3 della citata l. n. 189/2012, la giurisprudenza (Cass. IV, n. 7951/2014 e Cass. IV, n. 21243/2015) riteneva necessaria l’allegazione delle linee guida alle quali la condotta del medico si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice di verificare:

a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa;

b) l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame.

Segue.  Le nuove disposizioni in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie

La materia è stata successivamente modificata dalla l.  n. 24/2017, recante disposizioni in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

L'art. 5 l.  n. 24/2017 stabilisce che gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, devono attenersi, salve le specificità dei casi concreti, alle raccomandazioni previste dalle linee-guida elaborate dagli enti, dalle istituzioni pubbliche e private, dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in un apposito elenco, istituito e regolamentato con separato decreto del Ministro della salute, ed in difetto, alle buone pratiche clinico-assistenziali; le predette linee-guida, inserite nel neonato Sistema nazionale per le linee guida (SNLG) saranno pubblicate sul sito internet dell'Istituto superiore di sanità pubblica.  

La dottrina (Brusco 2017), in sede di commento a prima lettura delle nuove disposizioni, ha evidenziato:

 — l'inopportunità del riferimento analitico soltanto ad alcune specifiche finalità (che non contempla, ad esempio, l'attività ostetrica; appare, al contrario, evidente la riconducibilità delle — pure non menzionate — attività chirurgiche a quelle terapeutiche) in luogo del precedente, generico, ma onnicomprensivo, riferimento alla professione sanitaria tout court;

— l'apparente maggior rigore della nuove legge (rispetto alla l. n. 189/2012) nel valutare l'esistenza e la validità delle linee guida accreditate, non necessariamente finalizzate alla miglior cura del paziente, ma che in astratto potrebbero essere mosse dall'intento di contenere i costi o comunque da finalità di “autodifesa corporativa”, e risultare, in definitiva, non affidabili: il nuovo riferimento all'intervento di società scientifiche avrebbe, invero, potuto scongiurare quest'ultima evenienza, ma l'inclusione, tra i soggetti abilitati all'elaborazione di linee guida (aventi valenza scriminante), di enti ed istituzioni private rischia di legittimare l'intervento di soggetti « il cui interesse primario non sia solo quello della tutela della salute del paziente (...). Tanto per esemplificare: quelli delle case farmaceutiche o delle compagnie di assicurazione (...). Del resto questo rischio è presente anche nel caso di linee guida elaborate da enti e istituzioni pubblici quando vengano in considerazione i costi e la durata delle prestazioni farmaceutiche ed ospedaliere »;  

— l'incomprensibilità della ragione per la quale non vengono prese in considerazione le linee guida elaborate da società ed organi scientifici stranieri (cui potrebbe risultare, comunque, possibile attribuire efficacia scriminante in via interpretativa, « con il criterio analogico in bonam partem o comunque pervenendo ed escludere l'elemento soggettivo nel caso concreto »);

— l'incomprensibilità della mancanza di precisazioni con riferimento alle buone pratiche (best practices) [che, in virtù dell'abrogazione dell'art. 3, comma 1, del “decreto Balduzzi”, potrebbero non dover più essere necessariamente accreditate dalla comunità scientifica]: non appare, peraltro, possibile ritenere che una pratica sia “buona” « se non è convalidata da criteri scientifici rigorosi e condivisi ».  

Con specifico riferimento alla responsabilità penale dei soggetti esercenti la professione sanitaria, l'art. 6 l. n. 24/2017 ha inserito nel codice penale il nuovo art. 590-sexies, il quale:  

a) si applica, per sua espressa previsione, ai soli reati di omicidio colposo (art. 589) e lesioni colpose (art. 590) commessi nell'esercizio della professione sanitaria, tuttora sanzionati con le pene previste dalle predette disposizioni (comma 1):  la dottrina (Brusco2017) ha, in proposito, osservato che « esistono anche altre ipotesi di reato colposo che possono essere addebitate a chi svolge questa professione e difatti l'art. 3 della l. Balduzzi genericamente la nuova normativa a tutti gli esercenti la professione sanitaria limitandosi a precisare i presupposti per l'applicazione della disciplina di favore (...). E (...) non potrebbe porsi un problema di legittimità costituzionale, in relazione agli altri reati di natura colposa che possono essere commessi dagli esercenti le professioni sanitarie (per es. l'interruzione colposa di gravidanza) che, invece, in base all'art. 3 della l. Balduzzi, venivano trattati non diversamente dai reati di omicidio e lesioni colpose? »;

 b) stabilisce, con riguardo ai soli casi di colpa professionale per imperizia, l'esclusione della punibilità « quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto » (comma 2);

c) abroga il primo comma dell'art. 3 della legge Balduzzi, eliminando, quindi, la previsione della limitazione dell'esclusione di responsabilità per i soli casi di colpa lieve, e quindi la rilevanza della distinzione tra la stessa e la colpa grave (comma 3).

La nuova disciplina comporta, quindi, che:

— non viene più considerato, ai fini penali, il grado della colpa, non assumendo più rilievo la “colpa lieve” (al contrario, rilevante per la legge Balduzzi) o la “colpa grave” (al contrario, rilevante nel testo licenziato dalla Camera dei Deputati in prima lettura, e successivamente modificato in Senato);

— il rispetto delle linee guida esclude la rilevanza penale dei fatti verificatisi per colpa (anche grave) dovuta ad imperizia, ma non sempre e comunque, bensì soltanto nei casi in cui le raccomandazioni ivi previste risultino adeguate a provvedere alle specifiche esigenze terapeutiche sussistenti nel caso concreto;

— in caso di mancato rispetto delle linee guida, anche i fatti causati da imperizia che non integri un'ipotesi di colpa grave conservano possibile rilevanza penale.  

Per quanto, inoltre, riguarda la responsabilità civile dei predetti soggetti e delle strutture (sanitarie e sociosanitarie) all'interno delle quali essi operano,  l'art. 7 l. n. 24/2017:  

— ribadisce la natura contrattuale (e non extracontrattuale) della responsabilità delle strutture di riferimento per i danni derivanti da condotte dolose o colpose dei soggetti esercenti le professioni sanitarie, anche nei casi in cui essi non siano dipendenti delle predette strutture, ma siano stati scelti d'iniziativa del paziente (comma 1), e nei casi in cui i predetti danni derivino da prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria, oppure nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica, od anche in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale, nonché attraverso la telemedicina (comma 2);

— ribadisce altresì la natura extracontrattuale (e non contrattuale) della responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie per i danni derivanti da loro condotte dolose o colpose, salvo che abbiano agito nell'adempimento di un'obbligazione contrattuale assunta con il paziente (comma 3);

— stabilisce che, nella determinazione del risarcimento del danno, il giudice valuti la condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della legge e del neo-introdotto art. 590-sexies c.p. (comma 3).

L'art. 9, comma 1, della legge stabilisce, inoltre, che l'azione di rivalsa può essere esercitata nei confronti del soggetto esercente la professione sanitaria dalla struttura sanitaria o sociosanitaria, o dall'impresa di assicurazione, in ambito più circoscritto (rispetto all'azione diretta di responsabilità esercitata dal danneggiato nei confronti del soggetto esercente la professione sanitaria), ovvero soltanto in caso di dolo o colpa grave (e non anche di colpa lieve, come in caso di azione diretta): a tali fini, la distinzione tra i diversi possibili gradi della colpa conserva rilevanza.  

L’intervenuto fenomeno di successione di leggi nel tempo pone il problema di stabilire se la disciplina sopravvenuta sia più o meno favorevole di quella in precedenza vigente per i soggetti imputati dei reati di omicidio o lesioni per colpa professionale medica: secondo la dottrina, « non si tratta di un problema solo teorico perché questo quesito si porrà inevitabilmente per tutte le condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina (anche se, per l’omicidio colposo, la data di consumazione del reato viene individuata al momento della morte del paziente). Ad un primo superficiale esame la nuova disciplina sembrerebbe più favorevole all’imputato o indagato che diviene non punibile, per i reati indicati, se abbia rispettato le linee guida o le buone pratiche qualunque sia il grado della colpa; e quindi anche in caso di colpa grave! Abbiamo però visto come sia arduo immaginare ipotesi di questo genere in chi abbia fedelmente seguito linee guida e buone prassi scientificamente accreditate. Piuttosto succederà, nei casi concreti, che i giudici dovranno risolvere il problema soprattutto con riferimento alle ipotesi di colpa lieve riferita a negligenza o imprudenza che, dopo il recente mutamento nella giurisprudenza della quarta sezione penale della Corte di cassazione (che, innovando rispetto al precedente orientamento, ha ritenuto che l’art. 3 della l. Balduzzi fosse applicabile anche ai casi di imprudenza e negligenza) importerà una vera e propria ricriminalizzazione di queste ipotesi che, per ovvie ragioni, potrà applicarsi solo ai casi verificatisi successivamente all’entrata in vigore della modifica normativa » (Brusco, 2017).

I primi orientamenti giurisprudenziali: la disciplina più favorevole.

 

In giurisprudenza è immediatamente emerso un contrasto in ordine all’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” introdotta dal nuovo art. 590-sexies c.p., e, conseguentemente, al se essa comportasse effetti sostanziali favorevoli o meno.

G Un orientamento (Cass. IV, n. 28187/2017), premesso che la disciplina dettata dal nuovo art. 590-sexies c.p. « si applica solo quando sia stata elevata o possa essere elevata imputazione di colpa per imperizia », aveva osservato che il comma 2 della predetta disposizione fissa una « nuova regola di parametrazione della colpa in ambito sanitario », ancorando il giudizio sulla responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria a « costituti regolativi precostituiti » (desumibili dalle linee guida, come definite e pubblicate dall’art. 5 l. n. 24/2017), ed eliminando al tempo stesso la rilevanza della distinzione (al contrario rilevante secondo il “decreto Balduzzi”) tra “colpa lieve” e “colpa grave” ai fini dell’imputazione dell’evento; per tale ragione, la nuova disciplina sarebbe risultata meno favorevole rispetto a quella di cui all’abrogato art. 3, comma 1, d.l. n. 158/2012, che, al contrario — prevedendo l’irrilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica — limitava la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria ai soli casi di colpa grave, ma più favorevole della disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del “decreto Balduzzi”.

In sintesi: le nuove disposizioni (che eliminano la distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini dell’attribuzione dell’addebito, e prevedono una nuova disciplina in ordine alle linee-guida, vero e proprio parametro per la valutazione della configurabilità della colpa per imperizia in tutte le sue manifestazioni) troverebbero applicazione solo ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della novella, mentre per i fatti anteriori può trovare ancora applicazione, ai sensi dell’art. 2 c.p., la disposizione di cui all’abrogato art. 3, comma 1, della legge n. 189/2012, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte lesive connotate da colpa lieve, nei contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, e risulta quindi più favorevole, poiché aveva escluso la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, limitando la responsabilità ai soli casi di colpa grave.

Si precisava, inoltre, che l'art. 590-sexies, comma 2, troverebbe applicazione:  

a) soltanto in riferimento agli eventi lesivi costituenti espressione di condotte regolate da linee guida appropriate al caso concreto (il che si verifica in assenza di ragioni — di norma individuabili nella sussistenza di casi di co-morbilità — tali da dover indurre a discostarsene in tutto od in parte), e correttamente poste in essere (tenuto conto delle peculiarità del caso concreto) nel rispetto delle predette linee guida;  

b) soltanto in riferimento a situazioni in astratto connotate da imperizia (diversamente dal “decreto Balduzzi”, che da ultimo la giurisprudenza aveva ritenuto operante anche con riferimento a profili di colpa generica diversi dall'imperizia).  

La nuova disciplina dettata dall'art. 590-sexies non troverebbe, al contrario, applicazione:

a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;

b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;

c) in relazione alle condotte che, sebbene collocate nell'ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso di errore nell'esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali.

Altro orientamento (Cass. IV, n. 50078/2017) ha ritenuto, al contrario, che il secondo comma dell'art. 590-sexies c.p. costituisse norma più favorevole rispetto all'art. 3, comma 1, del d.l. n. 158/2012, in quanto prevederebbe una causa di non punibilità dell'esercente la professione sanitaria collocata al di fuori dell'area di operatività della colpevolezza, ed operante — ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) — nel solo caso di imperizia, ma indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta (anche gravemente) imperita nell'applicazione delle stesse.

L’intervento delle Sezioni Unite

Il predetto contrasto di giurisprudenza ha reso necessario l'intervento delle Sezioni Unite, le quali, con la sent. Cass. S.U., n. 8770/2018, hanno ritenuto , quanto all’ambito di operatività della novella, che:

a) le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell'art. 5 della l. n. 24/2017 — pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia — non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene;

b) l'art. 590-sexies c.p. prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell'art. 589 o di quello dell'art. 590 c.p., ed operante nei soli casi in cui l'esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece:

— ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza;

— quando l'atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche;

— quando queste siano individuate, e dunque selezionate, dall'esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso;

— in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

Secondo la disciplina attualmente vigente, l'esercente la professione sanitaria risponde, quindi, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica:

1) se l'evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;

2) se l'evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

3) se l'evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia, nell'individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;

4) se l'evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico.

Con specifico riferimento alle implicazioni dell’intervenuto fenomeno di successione di leggi nel tempo, le Sezioni Unite hanno ritenuto che:

a) l’abrogato art. 3 del c.d. “decreto Balduzzi” « risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario — commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco — connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate »;

b) « nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi, mentre non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole »;

c) « sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio ».

Per quanto riguarda gli effetti civili, si è osservato che « l’applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto Balduzzi prevedeva un coordinamento con l’accertamento del giudice penale, nella cornice dell’art. 2043 c.c., ribadito dall’art. 7, comma 3, della legge Gelli-Bianco. La responsabilità civile anche per colpa lieve resta ferma a prescindere, dunque, dallo strumento tecnico con il quale il legislatore regoli la sottrazione del comportamento colpevole da imperizia lieve all’intervento del giudice penale ».

La giurisprudenza successiva

La giurisprudenza ha da ultimo ribadito, sulla scia della decisione delle Sezioni Unite n. 8770/2018, che le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell’art. 5, l. n. 24/2017, benché non costituiscano veri e propri precetti cautelari vincolanti, tali da integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, rappresentano i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza e perizia, cosicché, in caso di accertata violazione di linee guida adeguate al caso concreto, la verifica del grado della colpa non rileva ai fini dell’affermazione della responsabilità, ma può rilevare ai fini del trattamento sanzionatorio ed ai fini delle conseguenze civilistiche di tipo risarcitorio (Cass. IV, n. 9447/2019); le linee guida definite e pubblicate ai sensi dell'art. 5 della citata legge sono, infatti, raccomandazioni di ordine generale, che contengono "regole" cautelari di massima, flessibili e adattabili, prive di carattere precettivo, rispetto alle quali è fatta salva la libertà di scelta professionale del sanitario nel rapportarsi alla specificità del caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità e nel rispetto della "relazione terapeutica" con il paziente (Cass. IV, n. 7849/2022). 

Le connotazioni della colpa in riferimento all’attività medico-chirurgica

In riferimento alla colpa professionale medica, la prevedibilità “consiste nella possibilità di prevedere l'evento che conseguirebbe al rischio non consentito e deve essere commisurata al parametro del modello di agente, dell'homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze dell'agente concreto” (Cass. IV, n. 37473/2003).

Come già ritenuto in generale (cfr. supra), anche la possibile esclusione della colpa del medico trova un limite nella condotta incompatibile con quel minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi in chi è abilitato alla professione medica; la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Cass. IV, n. 49707/2014: in applicazione del principio, la S.C. ha censurato la sentenza di condanna dell'imputato per omicidio colposo del paziente affidatogli, non risultando adeguatamente considerata la sua qualità di semplice specializzando in neurologia come tale non equiparabile, in sé a quella del medico specializzato).

Nel caso di prestazioni mediche di natura specialistica, effettuate da chi sia in possesso del diploma di specializzazione, “devono essere considerate ai fini della valutazione della condotta le condizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista nel relativo campo, per cui va richiesto con maggior rigore l'uso della massima prudenza e diligenza” (Cass. IV, n. 40183/2004).

All'interno della medesima categoria di professionisti può essere enucleata una pluralità di agenti-modello: “la misura di perizia oggettivamente richiesta nell'espletamento dell'attività sanitaria è graduabile secondo che il medico appartenga alla cerchia dei cattedratici, degli specialisti o dei semplici generici” (Fiandaca-Musco, PG, 585).

L'obbligo d'acquisizione del consenso informato del paziente (cfr. in argomento anche sub art. 50) alla somministrazione del trattamento sanitario non costituisce una regola cautelare e dunque la sua inosservanza da parte del medico non può costituire, nel caso in cui lo stesso trattamento abbia causato delle lesioni, un elemento per affermare la responsabilità a titolo di colpa di quest'ultimo, a meno che la mancata sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (Cass. IV, n. 21537/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna del medico per le lesioni gravi occorse alla paziente dovute anche all'omessa acquisizione del consenso informato, mancando il quale egli aveva modificato la metodica d'intervento originariamente concordata senza poter tenere conto delle patologie della paziente).

Allorché il sanitario si trovi di fronte ad una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non si proceda alla stessa, e ci si mantenga, invece, nell'erronea posizione diagnostica iniziale; ciò, sia nelle situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, sia laddove è prospettabile che vi si debba ricorrere nell'immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare della situazione già esistente. (Cass. V, n. 52411/2014: fattispecie in cui la S.C. ha confermato la decisione impugnata per aver giudicato configurabile la responsabilità del ginecologo, che non aveva eseguito un monitoraggio intermittente sulle condizioni del feto, nonostante dai tracciati emergessero segni di sofferenza fetale ai quali era seguita, come sviluppo prevedibile, la morte del nascituro).

Nell'ipotesi di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, è stata esclusa la sussistenza di un'omissione penalmente rilevante a carico dello psichiatra che lo aveva in cura, quando risulti che il medico, nella specifica valutazione clinica del caso, si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare, applicando la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell'arte psichiatrica (Cass. IV, n. 14766/2016: in applicazione del principio, è stata confermata l'assoluzione del medico psichiatra e della psicologa, in servizio presso una casa circondariale, dall'imputazione di omicidio colposo per il decesso di un detenuto per impiccagione, sul rilievo che, alla luce dei dati clinici in loro possesso e ai parametri di valutazione individuabili nella letteratura scientifica, non poteva ravvisarsi un rischio suicidiario concreto ed imminente, dovendo per altro verso escludersi ogni loro responsabilità per le carenze organizzative della amministrazione penitenziaria, dovute alla presenza di una cella con finestra dotata di un appiglio per agganciare il lenzuolo utilizzato per il gesto autosoppressivo).

Il principio secondo il quale ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell'attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell'intervento nelle quali i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti; con riguardo a tali fasi, infatti, trova applicazione il diverso principio dell'affidamento, in virtù del quale può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui (Cass. IV, n. 27314/2017). Qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario — compreso il personale paramedico — è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (Cass. IV, n. 30991/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna nei confronti degli infermieri e dell'anestesista per le lesioni occorse alla vittima, la quale, in attesa di essere sottoposta ad intervento chirurgico, era stata posizionata sul lettino operatorio ed era stata girata sul lato, senza tuttavia essere legata, ed in tale posizione le era stata somministrata l'anestesia, a causa della quale, sopravvenuto lo stato di incoscienza, era caduta dal letto); in tali casi, non può invocare il principio di affidamento il sanitario che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché, allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (Cass. IV, n. 24895/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ritenuto responsabile del reato di lesioni colpose il medico del Pronto Soccorso che, a fronte di un sospetto di meningite, senza prescrivere al paziente la terapia antibiotica come disposto dalle linee guida, si era rivolto per un consulto specialistico al neurologo, il quale aveva tardivamente prescritto tale terapia).

Ai fini dell'affermazione della responsabilità penale a titolo di colpa omissiva, assume rilievo la condotta del medico che, interpellato per una consulenza dal reparto di pronto soccorso, formuli una diagnosi non definitiva senza attendere il completamento degli esami ematici disposti di urgenza, a nulla rilevando che detta omissione dipenda da difficoltà organizzative o dalla formazione di una prassi interna alla struttura ospedaliera, che non può impedire o ritardare l'attività diagnostica, incombendo sullo specialista l'obbligo di completare la valutazione che gli compete, sulla base degli esiti delle analisi che la struttura sanitaria assicura (Cass. IV, n. 13573/2019: la S.C. ha anche precisato che siffatto obbligo viene meno solo qualora intervenga la sostituzione del medico interpellato con altro collega che, subentrando al primo, è tenuto a provvedere alla diagnosi definitiva).

Si è anche osservato che la condotta alternativa diligente ha funzione preventiva e non deve assicurare ex ante alcuna certezza di evitare l'evento, purché sia certo che una condotta appropriata abbia significative probabilità di evitarlo; pertanto, la sua mancata adozione da parte dell'agente è idonea a determinarne la responsabilità, senza che occorra stabilire il momento esatto in cui l'evento si è prodotto in modo irreversibile, essendo sufficiente che il dato scientifico affermi che il decorso del tempo ha inciso, aggravandole, sulle conseguenze della condotta omissiva (Cass. IV, n. 17491/2019: fattispecie in tema di lesioni conseguenti alla mancata tempestiva esecuzione di parto cesareo, con riguardo alla quale la S.C. ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna del medico ostetrico di turno ospedaliero che aveva omesso di attivarsi tempestivamente per il parto cesareo, nonostante il tracciato cardiotocografico fosse indicativo di sofferenza fetale, essendo invece irrilevante accertare in quale momento le lesioni da ipossia avessero assunto carattere irreversibile).

In caso di omicidio colposo di persona già affetta da malattia, si è ritenuto che l'azione dell'imputato è causalmente collegata con l'evento quando risulti dimostrato che essa abbia prodotto un trauma che ha influito sulla evoluzione dello stato morboso, provocando o accelerando la morte, mentre non lo è quando si accerti che il trauma non era, nemmeno in via indiretta, sufficiente a cagionare l'evento letale (Cass. IV, n. 49773/2019). 

Le tematiche inerenti alla posizione di garanzia del medico (anche nell'ambito delle attività di equipe) ed alla colpa omissiva sono più ampiamente esaminate sub art. 40.

Si è ritenuto che il medico, a cui il paziente sia inviato dal Pronto Soccorso per un consulto specialistico, ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente, non potendo esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione (Cass. IV, n. 24895/2021: In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che, con riguardo alle lesioni subite da un paziente affetto da meningite in conseguenza della tardiva somministrazione di terapia antibiotica, aveva riconosciuto la responsabilità del neurologo interpellato per un consulto specialistico, oltre che del medico di Pronto Soccorso); la giurisprudenza (Cass. IV, n. 8464/2022 ) ha configurato una ipotesi di colpa per negligenza nella condotta del medico del pronto soccorso che, in presenza di sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, non rispetti l'obbligo cautelare informativo di rendere edotto il paziente circa l'insufficienza dei dati diagnostici acquisiti per individuare l'effettiva patologia che lo affligga, così da prevenire il rischio di scelte inconsapevolmente ostative agli approfondimenti diagnostici e alle cure.  Nel caso esaminato, riguardante i l decesso di un paziente per patologia cardiaca, avvenuto a distanza di poche ore dalle volontarie dimissioni dall'ospedale, sulla base di una diagnosi di epigastralgia formulata dal medico di pronto soccorso prima del completamento dell'iter diagnostico, la Cassazione  ha ritenuto imputabile all'informazione inidonea, incompleta e confusa veicolata dal sanitario, piuttosto che ad un evento eccezionale, il comportamento del paziente ostativo al ricovero.

L’anestesista è tenuto a controllare, prima dell'inizio dell'intervento chirurgico, l'apparecchio di anestesia e le sue componenti, e a monitorare costantemente le funzioni vitali del paziente, mantenendo una continua e scrupolosa osservanza clinica dello stesso, della sua connessione al circuito di anestesia, e dell'erogazione dell'ossigeno al rotametro (Cass. IV, n. 10152/2021: fattispecie in cui la S.C. ha confermato la condanna, per il reato di omicidio colposo, dell'anestesista che, avendo omesso di controllare l'apparecchiatura, prima dell'induzione dell'anestesia e durante la stessa, sottovalutando l'allarme del saturimetro e omettendo di sottoporre a continua osservazione il paziente, verificandone i parametri vitali, non si era avveduto del distacco del tubo erogatore dell'ossigeno dalla presa a muro cui era conseguito il decesso del paziente per difetto di ventilazione).

“Colpa lieve” e “colpa grave” nel c.d. decreto Balduzzi

L'art. 3 della citata l. n. 189 del 2012 aveva attribuito rilevanza al grado della colpa professionale medica al fine della configurabilità o meno dell'elemento psicologico dei reati di cui agli articoli 589 e 590, e quindi della liceità o meno della condotta, senza, peraltro, definire le due figure della “colpa lieve” e della “colpa grave”, né tratteggiarne la linea di confine.

I tratti che distinguono i predetti gradi della colpa appaiono, peraltro, agevolmente mutuabili dall'elaborazione civilistica della materia (ed, in particolare, dall'interpretazione di norme come l'art. 2043 c.c. e l'art. 96 c.p.c.), cui all'evidenza il legislatore deve aver ritenuto di fare riferimento, poiché in caso contrario il suo silenzio sarebbe inspiegabile. La “colpa grave” ricorre, quindi, quando il soggetto agente abbia omesso quel minimo di perizia che gli avrebbe consentito di rispettare la norma cautelare violata; la “colpa lieve” ricorre, invece, in presenza di una semplice leggerezza, non assolutamente incompatibile con il grado di perizia richiesto nell'esplicazione dell'opera professionale. Trattasi, è vero, di criteri non del tutto determinati in astratto, ma che tali diventano in concreto ove si valorizzi la pluriennale elaborazione della giurisprudenza civile.

Secondo la giurisprudenza (Cass. IV, n. 22405/2015), in tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall'agente:

a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi;

b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente;

c) la motivazione della condotta;

d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa.

La colpa grave si configura quando si è in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, come definito dalle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, tenuto conto della necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle specifiche condizioni del paziente (Cass. IV, n. 22281/2014); sulla gravità della colpa del medico può incidere la frequenza o meno della complicanza che sia insorta a causa della sua condotta non appropriata (Cass. IV, n. 47289/2014). Sarebbe connotata da colpa non lieve — preclusiva, quindi, dell'esonero previsto dall'art. 3 cit. — la condotta del medico il quale si attiene a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida (Cass. IV, n. 2168/2015).

L’art. 3 l. n. 189/2012 aveva determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose (in primis artt. 589 e 590, ma non solo) commesse dagli esercenti le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si fossero attenuti a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica: la giurisprudenza aveva, in proposito, osservato che “nell’indicata sfera fattuale, la regola d’imputazione soggettiva è ora quella della (sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante” (Cass. IV, n. 11493/2013).

Si era, pertanto, verificata una abolitio criminis parziale, poiché si era in presenza di una norma incriminatrice speciale sopravvenuta, che aveva ristretto l’area applicativa della norma generale (l’art. 43) anteriormente vigente; il fenomeno è ordinariamente disciplinato dall’articolo 2, comma 2.

Nel medesimo senso, Cass. IV, n. 23283/2016 cit. aveva anche chiarito che l’intervenuta parziale abolitio criminis, realizzata, per effetto del citato art. 3, in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, comporta che, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell’art. 2, comma 2,  dovesse procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida.

Era apparsa dubbia unicamente l’efficacia della novella con riguardo alle condanne già passate in giudicato, per l’impossibilità di devolvere al giudice dell’esecuzione i nuovi accertamenti che potevano risultare indispensabili ai fini di valutare se le singole fattispecie risultassero effettivamente depenalizzate oppure no. In passato, con riguardo alla depenalizzazione della detenzione per consumo personale di sostanze stupefacenti in esito alla procedura referendaria diretta all’abrogazione di talune norme del d.P.R. n. 309/1990, conclusasi con l’emanazione del d.P.R. n. 171/1993, si era ritenuto che, nel caso in cui ci si trovasse in presenza di una condanna definitiva, la procedura prevista dall’art. 673 c.p.p. non potesse essere assimilata ad una impugnazione, e dovesse quindi ritenersi precluso qualsiasi nuovo esame delle prove e degli elementi raccolti emersi nella precedente fase di cognizione, ormai del tutto esaurita: compito del giudice dell’esecuzione è, infatti, quello di interpretare il giudicato e di renderne esplicito il contenuto ed i limiti, ricavando dalla decisione irrevocabile tutti gli elementi, ancorché non chiaramente espressi, che si rendano necessari ai fini della disciplina prevista dal più volte ricordato art. 673. Peraltro, pur dovendosi tenere fermo il principio che il giudicato si è formato in corrispondenza delle statuizioni racchiuse nel dispositivo della sentenza, qualora non fosse possibile individuare già dal capo di imputazione contestato la finalità per la quale la sostanza stupefacente era detenuta, al fine di escludere la ipotesi della detenzione per uso personale, ben poteva essere utilizzata la motivazione della decisione, quando si trattasse, non di modificare il dispositivo, ma di stabilire il significato e la portata di esso, nell’indiscusso presupposto che il rapporto tra parte motiva e parte dispositiva della sentenza non può che essere di integrazione (Cass. VI, n. 1542/1994). È, pertanto, chiaro che non è consentito al giudice dell’esecuzione di integrare, e tanto meno di modificare, il contenuto del giudicato, dovendosi ritenere preclusa, nella sede di cui all’articolo 673 c.p.p., una valutazione diversa di quella manifestamente palesata dal giudice della cognizione (Cass. VI, n. 728/1995: fattispecie ancora una volta in tema di detenzione di stupefacenti, in cui il giudice della cognizione aveva escluso la sussistenza della prova della destinazione della sostanza detenuta allo spaccio anziché al consumo personale).

Ma, con specifico riferimento agli effetti dell’art. 3 cit., dal tenore dei capi di imputazione e/o delle motivazioni delle sentenze di condanna passate in giudicato potrebbe non evincersi se gli esercenti le professioni sanitarie, nello svolgimento della propria attività, si fossero attenuti a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, e se, in relazione alle loro condotte, fosse configurabile soltanto una colpa lieve piuttosto che una colpa grave, giacché le norme anteriormente vigenti non richiedevano tale specificazione (Beltrani, 30 s.).

Profili processuali

Correlazione tra accusa e sentenza

In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Cass. IV, n. 35943/2014: fattispecie nella quale è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l'omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori). Non viola il principio di correlazione con l'accusa la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo a seguito di infortunio sul lavoro che, a fronte di una contestazione di colpa generica per omesso controllo dello stato di efficienza di una macchina per la tutela della sicurezza dei lavoratori, affermi la responsabilità a titolo di colpa specifica, riconducibile all'addebito di colpa generica. (Cass. III, n. 19741/2010: Nella specie la colpa specifica dell'imputato era stata in sentenza ravvisata nell'omessa sostituzione delle ganasce usurate della pinza di un carroponte, ossia in un difetto di manutenzione della medesima, titolo di colpa generica originariamente contestato).

Una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito (Cass. IV, n. 27389/2018: la S.C. ha precisato che i profili di colpa commissiva per il reato disastro colposo individuati nella sentenza impugnata non potevano considerarsi estranei alla imputazione originaria, in quanto ricompresi nel fatto storico in essa delineato e, soprattutto, rientranti nella colpa generica contestata all'imputato).

Divieto di reformatio in pejus

Non viola il precetto di cui all'art. 597, comma 3, c.p.p. in tema di divieto di reformatio in pejus la decisione con cui il giudice di appello, senza operare alcun aumento di pena, modifichi tuttavia le percentuali di colpa attribuite agli imputati con la sentenza da essi gravata (Cass. IV, n. 7202/2004).

Divieto di bis in idem

Il giudicato formatosi riguardo ad una contravvenzione in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, costituente elemento di colpa specifica di un delitto colposo ad evento naturalistico, oggetto di un successivo procedimento, non preclude la procedibilità per tale delitto, trattandosi di reati concorrenti, non costituiti dal medesimo fatto storico (Cass. fer., n. 34782/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso che l'intervenuta emissione di un decreto penale di condanna, non opposto, relativo alla violazione della disciplina antinfortunistica, determinasse effetti preclusivi rispetto al delitto di lesioni colpose).

L'elemento soggettivo nelle contravvenzioni

Ai sensi dell'art. 42, comma 4, c.p., “nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

Superata la tesi (smentita dalla formulazione della predetta norma, oltre che in irrimediabile contrasto con il principio di personalità, sancito dall'art. 27, comma 1, della Costituzione) per la quale la norma richiederebbe, ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico delle contravvenzioni, la mera “suitas” della condotta (cfr. sub art. 42), anche in difetto di dolo o colpa, l'orientamento in atto dominante non dubita che la predetta disposizione, lungi dal sancire l'irrilevanza del dolo e della colpa ai fini dell'integrazione della fattispecie tipica contravvenzionale, ne stabilisca unicamente l'indifferenza: di massima, l'elemento soggettivo delle contravvenzioni può indifferentemente consistere nel dolo o nella colpa (diversamente che per i delitti, quest'ultima costituisce, pertanto, criterio tipico di imputazione delle contravvenzioni), ma non è sufficiente la mera volontarietà dell'azione, essendo necessaria quanto meno la colpa: “il dolo o la colpa devono dunque essere presenti: l'azione o l'omissione costitutiva dell'illecito contravvenzionale dovrà così essere compiuta dal soggetto (sempre) con coscienza e volontà, ed inoltre o con un quadro rappresentativo e volitivo avente per oggetto gli elementi del fatto, oppure senza un tale quadro e per imprudenza, negligenza, imperizia” (Romano, Commentario, 399).

Non a caso, l'art. 43, comma 4, stabilisce che “la distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qual volta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”; ed invero, “talvolta la struttura legale della contravvenzione ammette espressamente o tacitamente solo una delle due forme di imputazione (es. soltanto il dolo: artt. 661 e 720 c.p.; soltanto la colpa: art. 676, comma 2 , c.p.)” (Romano, Commentario, 400). Inoltre, ai sensi dell'art. 133, comma 1, n. 3, c.p., il giudice, per determinare la pena da irrogare, deve determinare l'intensità del dolo od il grado della colpa, con ciò non potendo esimersi dall'accertare se, nel caso concreto, ricorra l'uno (con applicazione di pena maggiore) o dell'altra (e viceversa).

Anche per tale ragione, va certamente disatteso l'orientamento di quanti, in dottrina (Antolisei 369) e giurisprudenza (meno recente: Cass. VI, n. 7040/1980; Cass.  I, n. 2935/1982), ritengono che in materia contravvenzionale sussisterebbe una presunzione relativa di colpa, che addosserebbe all'imputato l'onere di provare l'assenza di sua colpa, cioè di aver fatto tutto quanto poteva per osservare la norma violata, poiché, al contrario, l'accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo delle contravvenzioni va operato secondo le regole ordinarie, senza il ricorso a presunzioni (che sarebbero, comunque, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza sancita dall'art. 27, comma 2, Cost.): si è, infatti, chiarito che “in tema di elemento soggettivo delle contravvenzioni, deve ritenersi che non è sufficiente la mera coscienza e volontà dell'azione o dell'omissione, in quanto non esiste una presunzione iuris tantum di colpevolezza. Ne deriva che il giudice ha l'obbligo d'accertare che siano presenti il dolo o la colpa” (Cass. III, n. 4511/1997). La buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Cass. I, n. 47712/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato, che, nel denunziare un'arma ereditata dal padre, non aveva indicato le munizioni in suo possesso, in ciò indotto da una nota dell'ufficio di p.s., che – erroneamente - esentava dall'obbligo anzidetto sino ad un limite di 200 munizioni).

La responsabilità oggettiva è estranea all'ambito contravvenzionale, essendo circoscritta ai soli delitti (ex art. 42, comma 3, c.p.).

Per la possibile rilevanza della buona fede del contravventore si rinvia sub art. 47.

Casistica

Cass. II, n. 23160/2019, in tema di contravvenzione di porto ingiustificato di arma bianca (art. 4, l. n. 110 del 1975) ha ribadito che, per la sussistenza del dolo del reato di porto illegale di armi, è sufficiente la coscienza e volontà del porto, ovvero la consapevolezza della disponibilità concreta ed immediata di un’arma impropria, anche se da parte di altra persona, ricordando che a conclusioni opposte si è giunti unicamente in un caso nel quale l'imputato era stato accusato di aver trasportato a bordo di un'autovettura non di sua proprietà un coltello a serramanico, senza dimostrare di aver compiuto quanto era nelle sue possibilità per osservare la norma violata, giacché l'arma bianca era collocata nel vano porta oggetti posto al suo fianco e, dunque, ben visibile e prontamente utilizzabile (Cass. I, n. 13365/2013). Ciò premesso, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo che l’imputato non potesse giustificare la disponibilità del coltello in contestazione (rinvenuto nel portabagagli di un’autovettura appartenente a terzi, della quale l’imputato aveva occasionale disponibilità), se non ne era consapevole, e che proprio in ordine a tale consapevolezza la Corte di appello nulla aveva osservato, essendosi limitata a proporre una mera congettura, non corroborata da alcun concreto elemento di prova.

Bibliografia

Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso Thyssenkrupp, in Giur. it. 2014, 2565 ss.; Beltrani, Commento a Cass. IV, n.11493/13, in Guida dir. 2013, n. 17, 27 ss.; R. Blaiotta, Colpa grave e responsabilità del medico, in Libro dell'anno, Treccani, 2014; Blaiotta, sub art. 43, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, II, Aggiornamento 2015, Milano, 2015; Brusco, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte dal c.d Decreto Balduzzi, in Dir. pen. cont. 2013, n. 4, 51 ss.; Brusco, La nuova legge sulla responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, in ilpenalista.it, 1 marzo 2017; Fiandaca, Sfrecciare col rosso e provocare un incidente mortale: omicidio con dolo eventuale ?, in Foro it. 2009, 414 ss.; Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale, Riv. it. dir. e proc. pen. 2014, 1938 ss.; Gallo, voce Colpa, in Enc. dir., Milano, 1964, vol. VII, 624 ss.; Gallo, voce Dolo, in Enc. dir., Milano, 1964, vol. XII, 751 ss.; Mantovani, Il principio di affidamento nel diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 539 ss.; Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965; Paoloni, L'elemento soggettivo dell'omicidio preterintenzionale, in Cass. pen. 2013, 2667 ss.; Pulitanò, I confini del dolo, una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2013, 22 ss.; Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni del novum legislativo, in Dir. pen. cont. 2013, n. 4, 73 ss.; Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2014, 1953 ss.

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