Codice Penale art. 44 - Condizione obiettiva di punibilità.

Sergio Beltrani

Condizione obiettiva di punibilità.

[I]. Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione [1582], il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto.

Inquadramento

L'art. 44 disciplina le c.d. condizioni obiettive di punibilità (d'ora in poi, c.o.p.) che è possibile definire come eventi futuri ed incerti, estranei alla condotta tipica, ma il cui verificarsi è necessario affinché essa risulti punibile.

La funzione delle condizioni obiettive di punibilità

La funzione dell'istituto (di non estrema rilevanza pratica, come testimoniano le applicazioni giurisprudenziali, sempre più rare) viene generalmente individuata nell'opportunità di collegare la punibilità di alcuni reati al verificarsi di determinate circostanze, legalmente tipizzate per non affidarne (nel rispetto del principio di legalità) l'apprezzamento alla discrezionalità del giudice: “la c.o.p. svolge nell'economia del reato il ruolo di essere rivelatrice del bene giuridico che si è voluto tutelare e la cui lesione o messa in pericolo fa scattare la punibilità della condotta tipica portando a compimento la previsione legislativa” (Cass. I, n. 888/1973).

La struttura

L'individuazione (tradizionalmente ostica, come dimostrano i contrasti sorti in dottrina e giurisprudenza in relazione a numerose fattispecie) delle c.o.p. non può fondare sul dato testuale (indice grammaticale), ma deve tener conto:

a) della funzione di ciascun elemento all'interno della fattispecie tipica (indice strutturale): in relazione ad essa, andranno esclusi dall'ambito delle c.o.p. gli eventi causalmente collegati alla condotta tipica, ovvero che devono risultare psicologicamente ricollegabili all'agente;

b) dei rapporti tra esso e l'interesse penalmente tutelato dalla norma penale incriminatrice (parametro sostanziale): in relazione ad essi, andranno esclusi dall'ambito delle c.o.p. gli eventi nei quali si incentra l'offesa al bene protetto.

Si pensi, ad es., al “pericolo per l'incolumità pubblicaex art. 423, comma 2, c.p., che sicuramente non costituisce c.o.p.: “la fattispecie di incendio di cosa propria, senza quel pericolo, non avrebbe alcun contenuto offensivo, posto che rappresenterebbe una forma di esercizio di un diritto; ne consegue che il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta necessariamente un elemento costitutivo del fatto e non già un elemento ad esso estraneo” (Fiandaca-Musco, PG, 751).

Casistica

Costituiscono, più o meno pacificamente, c.o.p.:

a) la sorpresa in flagranza (artt. 260, 707, 720: Cass. IV, n. 802/1966);

b) l'annullamento del matrimonio (art. 588);

c) il pericolo di malattia (art. 571);

d) il nocumento (artt. 616, comma 2, 618, 621, 733 c.p; art. 167 d.lgs. n. 196/2003: Cass. III, n. 7504/2014);

e) la sorpresa dell’ubriaco in luogo pubblico in stato di ubriachezza manifesta (art. 688, comma 2);

f) il danno alle persone (art. 189, comma 6, Cod. strada: Cass. IV, n. 327/1998).

Al contrario, non costituiscono c.o.p., ma elementi costitutivi del reato:

a) la commissione di un reato col mezzo della stampa (art. 57 c.p.);

b) il superamento della soglia quantitativa (art. 316-ter c.p.: Cass. VI, n. 38292/2015);

c) l'inottemperanza all'ingiunzione di eseguire una sentenza di condanna (art. 388 c.p.: Cass. III, n. 7283/1972);

d) la pubblicità (art. 414, ultimo comma, c.p.: Cass. I, n. 4519/1974);

e) il pericolo per l’incolumità pubblica (art. 423, comma 2);

f) il possesso del documento falso (art. 497-bis, comma 1, c.p.: Cass. V, n. 12268/2012);

g) il mancato adempimento dell'obbligazione (art. 641 c.p.)

Il “pubblico scandalo” nell'incesto

Particolarmente discussa è la qualificazione del “pubblico scandalo” richiesto nel reato di incesto (art. 564 c.p.).

Parte autorevole della dottrina ritiene che esso costituisca evento del reato: “il pubblico scandalo incide direttamente sull'offesa, poiché il diritto penale di uno Stato laico e pluralistico non ha interesse a punire l'incesto come fatto immorale in sé, ma solo in quanto tale fatto sia percepito come causa di turbamento da parte di terzi estranei” (Fiandaca-Musco, PG, 751).

In senso contrario, si è sostenuto, altrettanto autorevolmente che “è c.o.p. anche il pubblico scandalo (...) perché concepito come un fattore ulteriore rispetto al disvalore significativo del fatto ed aggiunto nell'art. 564 per limitare a taluni casi soltanto l'intervento punitivo nell'ambito familiare (...) È impossibile pensare che la morale familiare del capo II sotto cui è posto l'art. 564 sia offesa dallo scandalo o anche dallo scandalo: il fatto vietato dal legislatore perché riprovato nell'ottica etico-sociale è il rapporto incestuoso, non il rapporto incestuoso scandaloso” (Romano, Commentario, 477 e 479; conforme, Mantovani 2001, 841).

La differenza non è meramente nominalistica, poiché, come si vedrà infra, dalla soluzione prescelta derivano importanti conseguenze in tema di imputazione, che deve avvenire, nel rispetto del principio di personalità, a titolo di dolo e/o colpa, se si tratta di evento del reato, ovvero prescindendo dal dolo e/o dalla colpa, ove si tratti di c.o.p.

In realtà, ove si tenga conto delle connotazioni del bene tutelato dall'art. 564 c.p., con interpretazione costituzionalmente adeguata, in questo caso in riferimento al principio di offensività sembra possibile affermare che il “pubblico scandalo” costituisce evento del delitto di incesto: l'ordinamento è del tutto indifferente alle relazioni incestuose condotte con riservatezza e senza destare scandalo, che di per sé non sono idonee ad offendere in grado apprezzabile la pubblica moralità (bene protetto dalla norma incriminatrice in oggetto.

Ed invero, anche la giurisprudenza, tradizionalmente orientata — in linea di principio — in senso contrario, o richiede la derivazione causale del pubblico scandalo dalla condotta consapevole degli agenti (Cass. I, n. 1076/1966), oppure precisa che il pubblico scandalo è necessario al fine della “perfezione” del reato (Cass. III, n. 2639/1976), con ciò facendo rientrare “dalla finestra” quello che aveva fatto uscire “dalla porta”.

Il superamento delle soglie di punibilità nei reati tributari

In proposito la giurisprudenza è divisa:

- un orientamento, in tema di omesso versamento tramite indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti (art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000), ritiene che il superamento della soglia di punibilità rappresenta non un elemento costitutivo del reato, ma una condizione obiettiva di punibilità (Cass. VI, n. 6705/2015);

- altro orientamento, in tema di omesso versamento di Iva (previsto dall'art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000), ritiene che il superamento della soglia di punibilità — fissata, in 250.000 euro, in seguito alle modifiche apportate dal d.lgs.n. 158/2015, in 250.000 euro — non configura una condizione oggettiva di punibilità, bensì un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l'assoluzione con la formula «il fatto non sussiste»: l'integrazione della soglia non dipende, infatti, da un evento futuro ed incerto ma dallo stesso comportamento dell'agente che, con una condotta omissiva, contribuisce alla realizzazione del fatto tipico(Cass. III, n. 3098/2016).

La sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta

Le decisioni che hanno direttamente esaminato il problema erano tradizionalmente ferme nell'escludere  che la sentenza dichiarativa di fallimento, nei reati di bancarotta (artt. 216 s. l. fall.) avesse natura di c.o.p. (così, da ultimo, Cass. V,  n. 26548/2014; nel medesimo senso, Corte cost. n. 146/1982).

Inizialmente si era ritenuto che « la dichiarazione di fallimento, pur costituendo un elemento imprescindibile per la punibilità dei reati di bancarotta, si differenzia concettualmente dalle condizioni obiettive di punibilità vere e proprie perché, mentre queste presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, sotto l'aspetto oggettivo e soggettivo essa, invece, costituisce, addirittura, una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l'esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronunzia, e ciò in quanto attiene così strettamente all'integrazione giuridica della fattispecie penale, da qualificare i fatti medesimi, i quali, fuori del fallimento, sarebbero, come fatti di bancarotta, penalmente irrilevanti » (Cass. S.U., n. 2/1958); nel medesimo senso, in seguito, si era orientata Cass. ​ S.U., n. 24468/2009, per la quale « il decreto di ammissione all'amministrazione controllata ripete, nell'ambito della corrispondente fattispecie di bancarotta, la stessa natura e gli stessi effetti della sentenza dichiarativa di fallimento ed integra, pertanto, un elemento costitutivo del reato e non già una mera condizione obiettiva di punibilità, presupponendo questa un reato già strutturalmente perfetto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo ».

Non mancavano, tuttavia, indici dai quali desumere che fosse in atto un procedimento di revisione dell'orientamento consolidato:

- secondo Cass. V, n.  24679/2014, la bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di mera condotta, la quale consiste nella distrazione: detta condotta, in sé antigiuridica, diviene anche punibile se e quando intervenga la dichiarazione di fallimento;

- secondo Cass. S.U., n. 22474/2016, «i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza. Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività. La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa».

E, da ultimo (Cass. V, n. 13910/2017), il revirement è giunto a compimento, essendosi affermato che la sentenza dichiarativa di fallimento ponendosi come evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità (estrinseca), che circoscrive l'area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore, di per sè offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento, con  la precisazione che, in accordo con la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 1085/1988 e Corte cost. n. 247/1989)  essa, in quanto c.o.p., si sottrae alla regola della rimproverabilità fissata dall'art. 27, comma 1, Cost.).

In favore della natura di condizione obiettiva di punibilità della sentenza dichiarativa di fallimento si era espressa anche la Relazione del Guardasigilli al r.d. 267 del 1942 (§ 48).

L'orientamento può dirsi dominante (cfr. Cass. V, n. 53184/2017, Cass. V, n. 992/2018, Cass. V, n. 4400/2018), ma non pacifico: in senso contrario, ovvero in favore della natura di elemento costitutivo del reato, si sono medio tempore espresse Cass. V, n. 45288/2017 (incidentalmente) nonché, in maniera ampia e consapevole, Cass. V, n. 40477/2018.

Dalla natura di condizione obiettiva di punibilità della dichiarazione di fallimento deriva che, ai fini della determinazione:

—  della competenza territoriale (art. 8 c.p.p.),

—  dei termini di prescrizione (artt. 157 ss. c.p.),

—  del calcolo del termine di efficacia dell'amnistia o dell'indulto (artt. 151 e 174 c.p.),

il luogo e il tempo della commissione del reato coincidono con quelli della sentenza di fallimento.

Ne deriva, inoltre, l'insindacabilità della sentenza di fallimento, anche sotto il profilo delle eventuali modifiche migliorative della disciplina del fallimento ai sensi dell'art. 2 c.p.

La più recente decisione in argomento (Cass. V, n. 27426/2023), ribadendo quanto in epoca risalente già ritenuto da Cass. S.U. n. 2/1958, ha, peraltro, ribadito, aderendo all’orientamento che appariva in precedenza in via di superamento,  che, in tema di bancarotta, il momento consumativo dei reati coincide con la pronuncia della sentenza di fallimento nel caso di condotta esaurita anteriormente, in quanto la declaratoria di fallimento ha natura di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità.

Il contrasto resta, quindi, più che mai aperto, e mal si comprende la ragione per la quale le Sezioni Unite non siano ancora state chiamate a dirimerlo.

C.o.p. intrinseche ed estrinseche

Nell'ambito delle c.o.p. si distinguono:

a) condizioni intrinseche, che incidono sull'interesse tutelato dalla fattispecie, limitandosi peraltro ad approfondire le connotazioni della già intervenuta lesione del bene tutelato (è, ad es., il caso dell'inadempimento della prescrizione amministrativa da parte del contravventore in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, ex art. 28 d.lgs. n. 758/1994: Cass. III, n. 14777/2004);

b) condizioni estrinseche, che, pur svolgendo la stessa funzione, subordinano — per ragioni di politica criminale — la rilevanza penale della condotta al verificarsi di un evento condizionante esterno (è il caso della sorpresa in flagranza: v. supra).

Il criterio di imputazione

L'imputabilità delle c.o.p. avviene anche se l'evento condizionante “non è voluto”, e quindi più che oggettivamente, non assumendo rilievo rispetto non soltanto l'elemento psicologico, ma neanche il nesso di derivazione causale dalla condotta (al contrario, indispensabile nelle ipotesi di responsabilità oggettiva): le c.o.p. non rientrano, infatti, tra gli elementi costitutivi (fatto materiale e colpevolezza) del reato. Beninteso, dolo e/o colpa dell'agente potranno anche sussistere, ma ciò non è necessario ai fini della punibilità.

Questo regime di imputazione ha indotto parte della dottrina a dubitare della compatibilità delle c.o.p. (ed in particolare di quelle intrinseche, poiché le estrinseche risultano del tutto estranee al contenuto tipico dell'illecito già integrato) con il principio di personalità.

La tesi non sembra, peraltro, condivisibile, poiché anche prima del verificarsi della condizione (quale che ne sia la natura) il fatto-reato tipico si è compiutamente realizzato in tutte le sue componenti soggettivamente ascrivibili all'agente, e risulta già offensivo, risultando, per ragioni di opportunità, non ancora punibile, ma non incompleto. Secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 346/1988), la personalità della responsabilità penale comporta che soltanto “gli elementi più significativi della fattispecie” di volta in volta oggetto di imputazione debbano essere psicologicamente attribuibile all'agente, a titolo di dolo, ovvero, quantomeno, di colpa: tra essi sembra possibile non inserire le c.o.p.

Va, comunque, segnalato che la giurisprudenza è orientata nel senso di richiedere che l'evento che integra la c.o.p. sia ascrivibile al soggetto agente quanto meno a titolo colposo (Cass. III, n. 14777/2004).

La disciplina

La consumazione dei reati condizionati

Non si dubita che i reati condizionati devono considerarsi consumati al verificarsi della condizione, nel momento e nel luogo del suo avverarsi.

La decorrenza del termine di prescrizione

Il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata (art. 158, comma 2, c.p.).

Profili processuali

Formule di assoluzione e doveri del giudice

Ai fini dell'applicazione della esatta formula di assoluzione, il giudice deve innanzitutto stabilire se il «fatto» sussiste nei suoi elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di accertamento affermativo, può scendere all'esame degli altri elementi (imputabilità, dolo, colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è condizionata la sussistenza del reato (Cass. III, n. 28351/2013).

Bibliografia

E. Di Salvo, sub art. 44, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, II, Aggiornamento, Milano, 2015.

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