Codice Penale art. 49 - Reato supposto erroneamente e reato impossibile.

Sergio Beltrani

Reato supposto erroneamente e reato impossibile.

[I]. Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.

[II]. La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso [56].

[III]. Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso.

[IV]. Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza [229].

Inquadramento

Il principio di offensività comporta che «il reato deve sostanziarsi anche nella offesa di un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa: nullum crimen sine iniuria. Esso presuppone ed integra il principio della materialità del fatto: mentre questo assicura contro le incriminazioni di meri atteggiamenti interni, quello garantisce altresì contro la incriminazione di fatti materiali non offensivi» (Mantovani 192 s.).

Un'interpretazione sistematica degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione consente di ritenere che il principio è stato costituzionalizzato:

a ) l'art. 25, comma 2, Cost. è incentrato sulla nozione di «fatto commesso», il cui impiego indicherebbe «non la condotta meramente “disubbidiente”, ma l'evento offensivo, a precludere l'incriminazione non solo di meri atteggiamenti interiori, ma anche di comportamenti assunti come meramente sintomatici di tali atteggiamenti» (Mantovani, 196 ss.);

b ) l'art. 13 Cost., nell'affermare l'inviolabilità della libertà personale, ne consente la privazione, attraverso l'irrogazione della sanzione penale (detentiva, od anche soltanto pecuniaria, pur sempre convertibile nella prima, in caso di inadempimento), soltanto in relazione a condotte che abbiano arrecato apprezzabile offesa a beni dotati di rilievo costituzionale, o comunque, secondo parte della dottrina, non incompatibili con la Costituzione;

c) gli artt. 25, comma 3, e 27 Cost., nel distinguere la funzione delle pene da quella delle misure di sicurezza, lasciano intendere che le prime debbano colpire condotte che abbiano arrecato offesa al bene giuridico protetto, laddove le seconde sono applicabili anche in relazione a condotte di mera disubbidienza, non lesive di alcun bene giuridico, ma purtuttavia sintomatiche di pericolosità sociale: «distinzione che verrebbe negata dalla incriminazione di fatti di mera disubbidienza, la quale trasformerebbe la pena in una misura esclusivamente preventiva, volta a colpire la mera pericolosità dell'agente e che usurperebbe le funzioni proprie della misura di sicurezza» (Mantovani, 196 ss.).

Il principio di offensività fissa, pertanto, «precipui limiti contenutistici all'utilizzo della sanzione penale ed alla tipizzazione delle fattispecie, in una direzione che [...] reclama l'utilizzo della pena solo in relazione a comportamenti esteriori (a “fatti” e non a “modi di essere” della persona, secondo quanto imposto dall'art. 25, comma 2, Cost.) connotati da un disvalore particolarmente significativo (o persino lesivi di “interessi di rilievo costituzionale”), tale da giustificare l'esigenza di risocializzazione dell'autore mediante la massima sanzione (art. 27, comma 3, Cost.), consistente nel sacrificio — attuale o potenziale — della libertà personale (art. 13 Cost.), e comunque nella compromissione di diritti fondamentali» (Manes, 100 ss.).

Il principio, secondo la ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, «rispettivamente, della previsione normativa sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (“offensività in astratto”), e dell'applicazione giurisprudenziale (“offensività in concreto”), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato» (Corte cost., n. 265/2005).

Nel rispetto del principio, inteso nella sua accezione astratta, l'interprete, in presenza di dubbi interpretativi, dovrà optare per l'interpretazione che renda la norma esaminata ad esso conforme: soltanto ove si palesi l'impossibilità di una interpretazione compatibile col principio, la norma potrà essere ritenuta costituzionalmente illegittima; il principio, inteso nella sua accezione concreta, comporta, inoltre, che il giudice deve accertare se la condotta accertata sia risultata idonea a ledere o mettere in pericolo, apprezzabilmente, il bene protetto, risultando in concreto offensiva (Corte cost., n. 263/2000).

Dopo iniziali resistenze, l'esistenza e la rilevanza del principio di offensività sono state riconosciute anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ad es., Cass. IV, n. 16894/2004, per la quale, alla luce del principio di offensività, non è configurabile il reato di furto aggravato ex art. 625, n. 7, c.p. in presenza della sottrazione o asportazione dal lido del mare o dal letto dei fiumi, di quantità irrilevanti di sabbia per attività ricreative, poiché tali comportamenti, solo minimamente incidenti sulla cosa, non ledono il bene giuridico e non concretizzano l'illecito penalmente rilevante; Cass. I, n. 1271/2007, per la quale non è integrato il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina quando sia provato che il trasporto del cittadino straniero era preordinato al ritorno al suo Paese d'origine attraverso il mero transito in altri Stati, in quanto, alla luce del principio di offensività, il rimpatrio del clandestino è comportamento di segno opposto all'attività di impulso o gestione del fenomeno migratorio illegale; Cass. III, n. 46719/2009, per la quale, nonostante la natura di reato di pericolo astratto del reato di cui all'art. 12, comma 3, d.P.R. n. 164/1956 (che fa divieto agli operai di lavorare nel campo di azione dell'escavatore) — oggi sostituito dall'art. 118, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 — un'interpretazione conforme al principio di offensività impone di ritenere che il reato sia configurabile solo durante il funzionamento dell'escavatore, non anche quando esso non sia in funzione.

Il principio di offensività, secondo parte autorevole parte della dottrina, sarebbe enunciato già a livello codicistico, prima ancora che costituzionale, dall'art. 49, comma 2.

Per i rapporti con la particolare tenuità del fatto si rinvia sub art. 131-bis.

Il reato putativo

L'art. 49, comma 1, disciplina il c.d. reato putativo (d'ora in poi, r.p.), che ricorre “quando il soggetto crede di commettere un fatto che costituisce reato (o un reato più grave), mentre reato non è (o è reato meno grave)” (Mantovani 381), e si concretizza in un «non reato», come tale non punibile (nel rispetto del principio di legalità), e del tutto privo di rilievo penale: diversamente da quanto stabilito per il reato impossibile dall'art. 49, comma 4, in caso di r.p. non sono, infatti, applicabili misure di sicurezza. Tuttavia, se il fatto costituente r.p. integra gli elementi costitutivi di altro reato, l'agente risponderà di quest'ultimo (art. 49, comma 3): ad es., se l'agente credeva di commettere in strada l'abrogato delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, dovrà comunque rispondere del delitto di diffamazione.

Classificazioni

Si distinguono generalmente:

a) r.p. per errore di diritto: il soggetto agente, ritenendo esistente per errore una norma penale incriminatrice in realtà inesistente (ad es., perché abrogata, depenalizzata, ovvero dichiarata illegittima costituzionalmente, od anche perché interpretata inesattamente), crede di realizzare un fatto previsto come reato, ma in realtà pone in essere un fatto penalmente lecito;

b) r.p. per errore di fatto: il soggetto agente pone in essere una condotta che differisce parzialmente da quella incriminata, per errore su uno degli elementi di fatto che caratterizzano la fattispecie tipica (ad es., credendo di impadronirsi di una cosa mobile altrui, asporta, complice l'oscurità, una cosa mobile propria). Diversamente dai casi di aberratio (ictus o delicti: artt. 82 s. c.p., nei quali l'agente vuole un fatto realmente previsto come reato, ma realizza un fatto diverso, a sua volta integrante estremi di reato (pur se — per errore nell'esecuzione — l'evento, o lo stesso reato, è diverso da quello voluto), in questa forma di r.p. il fatto realizzato corrisponde a quello voluto, ma non integra estremi di reato, potendo al più integrare gli estremi di un reato diverso;

(c) r.p. per errore sulle scriminanti: il soggetto agente pone in essere una condotta che integra gli estremi di un astratta fattispecie di reato, che nondimeno difetta di tipicità poiché, a sua insaputa, ricorrono gli estremi di una causa di giustificazione (cfr. art. 59, comma 1).

La valenza sistematica dell'art. 49, comma 1

Tutte le forme di r.p. si concretizzano nella realizzazione di un fatto non costituente reato, nella erronea rappresentazione di commettere un reato.

Un orientamento considera la previsione dell'art. 49, comma 1, priva di innovativa portata precettiva, poiché la norma si limiterebbe a ribadire una disciplina già desumibile implicitamente da quella dettata dall'art. 47 in tema di errore di fatto, in quanto:

a) l'art. 47 prevederebbe che l'agente realizzi una fattispecie conforme a quella tipica prevista in astratto da una norma incriminatrice, pur rappresentandosi erroneamente di realizzarne una diversa, non integrante estremi di reato;

b) l'art. 49, comma 1, disciplinerebbe l'ipotesi in cui l'agente si rappresenti la commissione di un fatto-reato che in realtà non è previsto come tale da alcuna norma incriminatrice.

Pertanto, nel caso previsto dall'art. 49, comma 1, la non punibilità non necessitava di una esplicita riaffermazione, conseguendo all'assoluto difetto di tipicità della condotta.

Altro, più recente, orientamento attribuisce, al contrario, all'art. 49, comma 1, una importante valenza sistematica: la norma sancirebbe anche a livello codicistico il principio di materialità, fungendo da vera e propria «norma di chiusura», attraverso l'affermazione della non punibilità delle mere intenzioni che non si siano in alcun modo materializzate nella realtà esterna, ed andrebbe interpretata congiuntamente all'art. 56 (che afferma la non punibilità delle attività meramente preparatorie che non si siano esteriorizzate in attività materiali idonee ed univoche rispetto alla commissione di un delitto), ed all'art. 115 (che prevede la non punibilità dell'accordo e dell'istigazione cui non segua la commissione di un reato, con possibilità unicamente di applicare una misura di sicurezza).

Casistica

Due soltanto sono le applicazioni in tema di r.p. segnalate dal C.E.D. della Corte di cassazione.

Pascolo abusivo

Sono stati ravvisati gli estremi del r.p. in un caso nel quale si era accertato che l'imputato, cui si contestava il delitto di pascolo abusivo (art. 636 c.p.), ignorava la sussistenza della scriminante del consenso dell'avente diritto, ovvero l'autorizzazione al pascolo data dal proprietario del fondo al proprietario del gregge (Cass. I, 26 maggio 1956).

Riciclaggio

In tema di riciclaggio (art. 648-bis c.p.), integra gli estremi del r.p., non punibile ai sensi dell'art. 49, comma 1, la condotta di chi abbia agito ritenendo o accettando il rischio di riciclare somme di denaro provenienti da delitto non colposo, quando quest'ultimo risulti in realtà insussistente  (Cass. II, n. 7795/2014).

Il reato impossibile

L'art. 49, commi 2 e seguenti, disciplina il reato impossibile (d'ora in poi, r.i.), che rientra, in virtù della disciplina dettata dall'art. 49, comma 4, nella categoria dei quasi-reati (cfr. anche sub art. 115), ricomprendente le fattispecie in relazione alle quali, pur in difetto della commissione di un reato, può esser consentita l'applicazione di misure di sicurezza.

Il reato impossibile per inidoneità dell'azione

L'art. 49, comma 2, prima parte, esclude la punibilità dell'agente nei casi in cui l'evento dannoso o pericoloso risulti «impossibile» per la «inidoneità dell'azione», prevedendo, peraltro, la possibilità che il giudice (a sua discrezione, e non obbligatoriamente) applichi all'imputato non punibile (se ritenuto socialmente pericoloso: cfr. sub art. 202, comma 2) una misura di sicurezza (la libertà vigilata, ex artt. 215, comma 4, e 229, comma 1, n. 2, sempre che non ricorrano le condizioni di cui all'art. 232), e salva l'applicazione della pena prevista per il reato diverso effettivamente commesso, di cui eventualmente concorrano nel fatto gli elementi costitutivi.

Si pone, pertanto, il problema di raccordare tale previsione con la necessità, ai fini della sussistenza del tentativo punibile, della «idoneità degli atti», ed in particolare, di individuare:

(a) le connotazioni dell'azione «inidonea» ex art. 49, comma 2;

(b) i criteri per valutare detta «inidoneità».

Con riguardo al primo problema, deve ritenersi che azione inidonea sia quella che difetti in assoluto, intrinsecamente e sin dall'origine (e quindi, indipendentemente da ogni controllo od intervento successivo che possano avere impedito la consumazione del reato), della capacità potenziale di produrre il risultato cui mira l'agente, il che si verifica quando il piano di azione predisposto da quest'ultimo, nel momento in cui venne intrapreso, e tenendo conto delle circostanze conosciute o conoscibili dallo stesso agente, non presentava alcuna possibilità di successo, difettando del carattere della serietà.

Secondo la giurisprudenza, per individuare un r.i. per inidoneità dell'azione (in luogo di un tentativo punibile) “si deve adottare un criterio realistico ed empirico, strettamente aderente ai dati di comune esperienza ed ancorato ad un'attenta considerazione del tipo concreto di condotta posto in essere dall'agente. Pertanto, postulando la predetta figura, per definizione, la mancata verificazione dell'evento avuto di mira dall'agente, si tratta di stabilire se tale mancata verificazione sia dipesa esclusivamente dall'incapacità obiettiva ed intrinseca dei mezzi usati dal soggetto attivo, nel qual caso si ha reato impossibile, ovvero dall'interferenza, nella dinamica della condotta, di fattori preesistenti, contemporanei, ovvero sopravvenuti, nel qual caso, sussistendo anche l'estremo dell'univocità degli atti, si ha reato tentato” (Cass. I, n. 6442/1977).

Alla «inidoneità» non può essere equiparata la mera «insufficienza» del mezzo, poiché quest'ultima denota soltanto la mancanza di forza sufficiente a conseguire lo scopo nel caso concreto e vale quindi unicamente ad impedire la consumazione del reato, senza escludere la punibilità del tentativo (è il caso del soggetto che tenti di commettere un omicidio adoperando un coltellino con manico lungo cinque centimetri, lama appuntita e stretta, ma lunga soltanto quattro centimetri e mezzo, esaminato da Cass. I, n. 5158/1972).

Con riguardo al secondo problema, dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente concordi nel ritenere che l'idoneità od inidoneità dell'azione deve essere valutata

a) in concreto...

b)... e con giudizio ex ante:

il giudice deve riportarsi al momento in cui l'azione venne posta in essere, tenendo conto delle circostanze in quel momento conosciute e conoscibili dall'agente, in relazione al raggiungimento del risultato perseguito; l'eventuale inidoneità del mezzo adoperato andrà, quindi, valutata non in relazione agli ostacoli fortuiti o volontari incontrati o sopravvenuti, né tantomeno in relazione al mancato conseguimento dell'intento, ma soltanto tenendo conto delle condizioni in presenza delle quali l'agente determinò la propria condotta.

Si è da ultimo ribadito che l'inidoneità dell'azione - da valutarsi con riferimento al tempo del commesso reato in base al criterio di accertamento della prognosi postuma - deve essere assoluta, nel senso che la condotta dell'agente deve essere priva di astratta determinabilità causale nella produzione dell'evento, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato, indipendentemente da cause estranee o estrinseche, ancorché riferibili all'agente (Cass. I, n. 870/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'imputato il quale, nel corso di una rapina, dopo aver sottratto una pistola alla persona offesa, aveva premuto più volte il grilletto senza riuscire a far fuoco per l'inserimento del dispositivo di sicurezza manuale dell'arma).

Un tal giudizio non costituisce, peraltro, inutile duplicazione di quello imposto dall'art. 56, poiché, come osservato dalla dottrina, “per accertare se il bene in questione abbia corso un reale pericolo, non ci si può appagare del giudizio prognostico effettuato ex art. 56 nella sola ottica del soggetto agente. A questa prima verifica se ne deve aggiungere una seconda, compiuta questa volta nell'ottica della vittima come titolare del bene posto in pericolo: il che vuol dire che lo stesso criterio della prognosi postuma verrà ora applicato tenendo conto non soltanto delle circostanze conosciute o conoscibili dall'agente al momento dell'azione, ma di tutte le circostanze presenti nella situazione data, quale che sia il momento in cui vengono conosciute" (Fiandaca-Musco, PG, 506).

La «azione idonea» ai fini della configurabilità del tentativo punibile

Appare a questo punto chiaro il significato pratico del concetto di «azione idonea» (che connota il tentativo punibile), ovvero «azione inidonea» (che connota il r.i. per inidoneità dell'azione):

- nel caso in cui il mezzo adoperato dall'agente risulti astrattamente ed assolutamente inidoneo a raggiungere il fine che l'agente si è proposto, e cioè tale da non consentire in nessun caso l'attuazione del proposito criminoso, neppure per l'intervento di eventuali fattori occasionali od eccezionali capaci di conferire o restituire all'azione stessa quella efficienza causale di cui solo precariamente sia sprovvista (con la conseguenza che il verificarsi dell'evento risulta impossibile, e non soltanto improbabile, poiché in questo secondo caso il bene tutelato resterebbe ugualmente esposto al pericolo), si avrà un r.i. per inidoneità dell'azione;

- nel caso in cui, al contrario, gli atti compiuti, valutati in relazione alle circostanze conosciute nel momento in cui essi sono stati posti in essere, siano capaci di poter (con certezza, ovvero soltanto probabilmente) raggiungere, anche mediante un'ulteriore attività umana, il risultato che l'agente si proponeva di conseguire, si avrà una azione idonea che caratterizza oggettivamente il tentativo punibile.

La giurisprudenza ritiene che, ai fini della configurabilità del reato impossibile, l'inidoneità dell'azione deve essere assoluta per inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato così da non consentire neppure in via eccezionale l'attuazione del proposito criminoso. (Cass. V, n. 9254/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse ritenuto sussistente il tentativo di furto con riferimento un'autovettura dotata di accensione elettronica mediante centralina, osservando che, pur in mancanza della chiave originale, era comunque possibile attivare i circuiti elettrici mediante l'utilizzo di idonee apparecchiature e che, comunque, il veicolo poteva essere spostato a motore spento in un luogo irrintracciabile per la persona offesa).

Casistica

L'esame di alcune interessanti applicazioni giurisprudenziali chiarisce praticamente il senso della distinzione.

Si è ritenuto sussistere azione idonea rilevante ex art. 56 c.p.:

a) in un caso nel quale soltanto il fortuito inserimento esterno di alcuni fili di lana sotto la cresta del cane della pistola (facilmente estraibili, secondo il perito) aveva ostacolato il ricaricamento automatico dell'arma: ciò non rappresentava tuttavia un impedimento assoluto al funzionamento dell'arma, potendo i fili venir rimossi occasionalmente ovvero ad opera dello stesso imputato, il quale non vi era riuscito solo per la concitazione del momento (Cass. I, n. 7490/1984);

b) in un caso nel quale l'istituto bancario ai cui danni era diretto il tentativo di rapina era dotato di un «dispositivo antirapina»: “quest'ultimo infatti non rende «impossibile» l'azione criminosa sia perché non intrinsecamente riferibile ai mezzi ed all'azione del colpevole, sia per la possibilità di suo non funzionamento e/o di funzionamento difettoso” (Cass. VI, n. 4187/1995).

Al contrario, si è ritenuto sussistere r.i. per inidoneità dell'azione ex art. 49:

c) in un caso nel quale alcuni dipendenti dell'U.T.E. avevano apposto il timbro dell'ufficio, con data e numero progressivo, su moduli in bianco di domande di voltura catastale firmate da professionisti roganti, moduli di cui detti dipendenti avevano fatto scorta per provvedere alla loro attività di «agenzia di fatto», riempendoli di volta in volta a seconda delle esigenze: si è, al riguardo, osservato che detto comportamento non rientra nello schema tipico della falsità ideologica, e non integra neppure la figura del tentativo, “stante l'assoluta incompletezza del documento, e quindi la sua inidoneità attuale a fare pubblica fede di alcunché; difetta, inoltre, la direzione inequivoca della condotta, tale da denotare oggettivamente un'attitudine dei singoli moduli a realizzare un falso individuato” (Cass. VI, n. 13939/1999).

La concezione realistica del reato

La dottrina tradizionale costruiva il r.i. come fattispecie priva di autonomia, come una sorta di duplicazione, in negativo, del delitto tentato, ovvero come un tentativo inidoneo o non riuscito.

I fautori della c.d. concezione realistica del reato (elaborata da Gallo M., 786 ss.), talora accolta dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 62/1982 e n. 333/1991), e diffusa anche nella giurisprudenza di legittimità più recente (che, pur non enunciandola compiutamente, mostra di farvi assiduo riferimento a livello applicativo) attribuiscono, al contrario, all'art. 49 una più ampia, e stimolante, valenza sistematica, in affermazione del c.d. principio di offensività dell'illecito penale. Questa dottrina afferma, infatti, l'inutilità della disciplina del r.i. per inidoneità dell'azione, se interpretata nel senso tradizionalmente accolto, che sarebbe già implicito nell'art. 56 c.p., e propone, pertanto, una diversa interpretazione dell'art. 49, comma 2, c.p., cui viene attribuita l'autonoma funzione di affermare la non punibilità di tutti quei comportamenti che, pur apparendo perfettamente corrispondenti al modello astratto di illecito descritto dalla norma penale incriminatrice, per un qualsiasi motivo risultino posti in essere in circostanze ovvero con modalità concrete tali da rendere assolutamente impossibile il realizzarsi dell'evento-contenuto del reato, poiché, in tali casi, l'azione posta in essere (pur corrispondente a quella astratta tipica delineata dalla norma) sarebbe priva dell'idoneità a ledere o porre apprezzabilmente in pericolo il bene interesse tutelato, per il decisivo scarto tra «tipicità» e «lesività» della condotta posta in essere.

L'autonomia dell'art. 49, comma 2, rispetto all'art. 56 c.p. troverebbe precise conferme testuali:

a) il primo riguarda tutti i reati, il secondo i soli delitti;

b) il primo presuppone l'inidoneità «dell'azione», il secondo l'idoneità «degli atti». Si tratterebbe di situazioni differenti, poiché la nozione di «atto» evocherebbe l'incompletezza della condotta criminosa, al contrario necessariamente portata a compimento ove il legislatore ricorra descrittivamente alla nozione di «azione»: la normativa in tema di r.i. per inidoneità dell'azione affermerebbe il principio che una fattispecie può integrare estremi di reato, e risultare conseguentemente punibile, soltanto se la condotta criminosa (b1) sia stata portata interamente a compimento, e risulti in tutto conforme a quella astratta tipica descritta dalla norma incriminatrice, (b2) e risulti concretamente offensiva, ovvero leda o metta in pericolo il bene protetto. Ove tale ultima condizione non si verifichi, verrebbe meno l'offensività della condotta, si produrrebbe cioè uno «scarto», o meglio una difformità fra la fattispecie astratta tipica (che il legislatore presume offensiva del bene che intende proteggere), e quella realizzata in concreto dall'agente (priva di concreta offensività del bene protetto), in presenza della quale deve venir meno anche la rilevanza penale, ovvero la punibilità, della condotta;(c) il primo evocherebbe un evento «dannoso o pericoloso», da intendere quindi in senso giuridico, come offesa, laddove il secondo richiamerebbe la necessità di un evento inteso in senso naturalistico;

d) il primo, a parere dell'orientamento tradizionale, consentirebbe l'applicazione di una misura di sicurezza anche in caso di contravvenzione (che rientra nel genus «reato») impossibile per inidoneità dell'azione, laddove il secondo considera punibile il solo tentativo di delitto: ove si ritenga che il primo costituisca una anticipazione, in negativo, della disciplina dettata dal secondo, l'interprete si troverebbe contraddittoriamente ad ammettere, al tempo stesso, in relazione alle contravvenzioni, la non punibilità del tentativo idoneo, e l'applicabilità di una misura di sicurezza per il tentativo inidoneo (un minus, rispetto al primo).

In tale ottica, la disciplina del r.i. per inesistenza dell'oggetto, di cui all'art. 49, comma 2, ult. parte, costituirebbe (essa soltanto) un limite negativo alla disciplina del delitto tentato, laddove da quella del r.i. per impossibilità dell'azione deriverebbe, sistematicamente che, ai fini della punibilità, l'agente deve rappresentarsi e volere l'evento lesivo come risultato della condotta posta in essere, e quest'ultima deve concretamente ledere o quantomeno porre apprezzabilmente in pericolo il bene protetto dalla norma incriminatrice; diversamente da quanto si prevede per il tentativo, l'idoneità offensiva ex art. 49 andrebbe operata attraverso un giudizio operato (non ex ante, bensì) ex post, onde accertare se il fatto già verificatosi abbia, o meno arrecato, concretamente, una apprezzabile offesa al bene protetto dalla norma incriminatrice. Se, al contrario, l'agente non finalizza la propria condotta alla produzione della lesione del bene (o comunque non se ne rappresenti la possibilità), ovvero comunque questa non si verifichi effettivamente, ricorreranno gli estremi del r.i. per inidoneità dell'azione, ed il soggetto agente non sarà punibile.

A parere della dottrina dominante, gli “indizi lessicali” valorizzati dalla concezione realistica del reato, innanzi riepilogati, sono privi di decisiva consistenza:

a) la disomogeneità del riferimento normativo al reato (presente, tuttavia, nella sola rubrica dell'art. 49 c.p., il che ne indebolisce la rilevanza a fini interpretativi), ovvero al delitto, costituirebbe mera imperfezione terminologica, priva di decisiva valenza interpretativa;

b) ugualmente non decisiva appare la disomogeneità del riferimento all'«azione» ovvero agli «atti», ove si consideri, ad es., la pacifica compatibilità del tentativo con la disciplina del reato continuato, pur se l'art. 81, comma 2, c.p. parla di pluralità di «azioni» (non di «atti») commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso: dovrebbe forse arguirsene che il tentativo non può mai esser posto in essere in continuazione con altri reati (concretizzandosi in «atti», non in «azioni»)?;(c) ancora una volta non decisiva appare la disomogeneità dei riferimenti testuali all'evento: anche l'art. 40, comma 1, c.p. evoca, in relazione al rapporto di causalità, il concetto di evento «dannoso o pericoloso», senza che possa dubitarsi, proprio perché trattasi di norma dettata in tema di causalità, che essa richiami l'evento in senso naturalistico;

d) infine, anche l'accoglimento della concezione realistica non risolve l'evidenziata contraddizione in tema di contravvenzioni, in realtà superabile con un pò di buon senso, ricorrendo ai principi generali dell'ordinamento che, se esclude effetti sfavorevoli per «il più» (ovvero per il tentativo idoneo di contravvenzione), non può ragionevolmente ricollegarne al verificarsi «del meno» (ovvero del tentativo inidoneo di contravvenzione), pena una irrimediabile violazione dell'art. 3 Cost., in ossequio al quale l'interprete, attraverso una ineludibile interpretazione adeguatrice, può risolvere agevolmente il problema, nel senso dell'esclusione dell'applicabilità di misure di sicurezza in caso di tentativo inidoneo di contravvenzione.

Priva di fondamento positivo, la concezione realistica risulta, inoltre, priva di rilievo sistematico, e, pertanto, inaccoglibile:; si ritiene, pertanto, indubitabile “che la conformità al tipo correttamente intesa coincide già con il contenuto sostanziale di illiceità secondo la valutazione del legislatore. È dunque impensabile un fatto conforme al tipo, ma inoffensivo: l'art. 49, comma 2, non dice nulla sugli interessi tutelati dalla singola norma incriminatrice, ed è esclusivamente da questa, dagli elementi del fatto, e quindi dalla sua tipicità, che dovrà desumersi l'offesa” (Romano, 514; conformi, Fiandaca- Musco PG 2004, 442).

Nondimeno, anche la dottrina tradizionale non soddisfa, dovendo, in realtà, essere ribadita l'autonomia dell'art. 49, comma 2, ma su basi dogmatiche diverse da quelle suggerite dai fautori della concezione realistica.

Invero, l'art. 49 (non a caso collocato sistematicamente prima dell'art. 56 c.p., nell'ambito di un capo rubricato «del reato consumato e tentato»: l'interprete dovrà, pertanto, preoccuparsi di trovare una giustificazione sistematica dell'art. 56 — norma collocata dopo —, non della norma collocata prima) prende in considerazione la «azione inidonea», e cioè quella che sia stata portata a compimento, esaurita (diversamente dai meri «atti inidonei» che, ai sensi dell'art. 56 c.p., potrebbero anche non essere stati portati a compimento: «se l'azione non si compie»), prevedendo che il suo autore non sia punibile in tutti i casi nei quali l'evento dannoso o pericoloso risulti impossibile per inidoneità dell'azione (od inesistenza dell'oggetto), ma consentendo in tali casi l'applicazione di una misura di sicurezza (che risulterebbe irragionevole per le contravvenzioni tentate non meno che per quelle impossibili). Al contrario, l'art. 56 c.p. delinea i caratteri che gli «atti» (anche incompleti) devono avere ai fini della punibilità dell'autore a titolo di tentativo, e limita la rilevanza penale di quest'ultimo ai soli delitti.

L'art. 49 non risulta, pertanto, un «inutile doppione in negativo» dell'art. 56 c.p., in quanto, dal coordinamento tra le due norme, è dato evincere che la prima “si riferisce ai casi in cui il soggetto ha portato a termine l'intera condotta, che per sue caratteristiche intrinseche non ha realizzato l'offesa al bene protetto” (Mantovani, 457):

a) il soggetto che pone in essere soltanto parzialmente l'azione «inidonea» (e cioè commette soltanto «atti inidonei» diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto) non commette un r.i. (il quale presuppone “che tutta l'azione sia stata posta in essere, ma che, data la sua inidoneità offensiva, renda impossibile il verificarsi dell'offesa all'interesse tutelato”: Mantovani 190 ss.), ma un tentativo non punibile, del tutto irrilevante sotto il profilo penale, poiché ad esso non potrà conseguire neanche l'applicazione della misura di sicurezza (si pensi al caso del soggetto che si sia procurato un'arma e, ponendosi rispetto alla vittima designata ad una distanza di molto superiore a quella della gittata massima dell'arma, abbia preso la mira, senza esplodere alcun colpo);

b) quello che pone in essere l'intera condotta, commette (se essa risulti inidonea ad arrecare offesa al bene protetto) un r.i. per inidoneità dell'azione, cui potrà, al contrario, conseguire l'applicazione della misura di sicurezza (con riferimento all'esempio appena prospettato, questa diversa ipotesi ricorrerebbe nel caso in cui, in quelle medesime condizioni, il soggetto non si sia limitato a prendere la mira, ma abbia portato a compimento la condotta, esplodendo uno o più colpi all'indirizzo della vittima).

L'elemento soggettivo

Conseguenza ulteriore, quanto all'elemento soggettivo, è che, ove la disciplina del r.i. per inidoneità dell'azione costituisse una mera ed inutile anticipazione in negativo di quella del tentativo, dovrebbe affermarsi la sua compatibilità con le sole fattispecie dolose (il tentativo è, infatti, incompatibile con i delitti colposi), laddove, al contrario, la sua ritenuta autonomia rende il r.i. per inidoneità dell'azione compatibile anche con i reati colposi: va, pertanto, ammessa la configurabilità del reato colposo impossibile, ma “solo per inidoneità della condotta, non anche invece per inesistenza dell'oggetto. Ciò in quanto questa seconda ipotesi funge da limite al delitto tentato, che è soltanto doloso, e quindi anche il r.i. per inesistenza dell'oggetto non può che essere doloso. Sul piano soggettivo, il r.i. non è che una particolare ipotesi di reato putativo per errore di fatto sugli elementi costitutivi dell'idoneità della condotta o della esistenza dell'oggetto” (Mantovani, 458).

I rapporti tra tentativo, reato putativo per errore di fatto e reato impossibile per inidoneità dell'azione

Si è posto il problema di distinguere il reato putativo per errore di fatto, dal tentativo e dal reato impossibile (che taluno configura come un reato putativo per errore di fatto sulla idoneità dell'azione o sull'esistenza dell'oggetto).

Quanto al primo problema, la dottrina osserva che “nel tentativo (inidoneo o idoneo che sia) l'assenza di consumazione dipende dalla non riuscita (= mancata) realizzazione della situazione voluta dall'agente, mentre nel reato putativo l'assenza di consumazione dipende dalla non corrispondenza tra la situazione voluta e realizzata dall'agente e le qualificazioni normative da lui ritenute operanti. Da ciò deriva la considerazione separata, nell'art. 49, comma 2, di ipotesi tradizionalmente denominate di tentativo inidoneo, malgrado il loro inserimento nella medesima disposizione del reato putativo per errore sul fatto..., al quale sono peraltro accomunate dalla (conclusiva) non punibilità” (Romano, 511).

Quanto al secondo problema, nel ribadire la diversità concettuale tra le due figure (l'una caratterizzata da una condotta non corrispondente al tipo legale, nonostante la diversa convinzione dell'agente; l'altra caratterizzata al contrario dalla corrispondenza al tipo legale accompagnata, peraltro, dall'impossibilità pratica di realizzazione dell'offesa al bene giuridico protetto, e da una diversa disciplina sostanziale, per la possibilità dell'applicazione della misura di sicurezza), è opportuno ricordare che:

a) in presenza di un r.p., il fatto realizzato è punibile (ai sensi dell'art. 49, comma 3, c.p.) soltanto ove integri gli estremi di un diverso reato, ovvero del tentativo punibile del medesimo reato (non punibile come reato consumato perché putativo);

b) al contrario, nel r.i. (dove la condotta deve essere risultata per definizione inidonea), il fatto realizzato potrà in ipotesi integrare soltanto gli estremi di un reato diverso, mai del tentativo del medesimo reato.

Si tratta di problemi non meramente teorici, né riconducibili ad astratti casi di scuola, ma sicuramente rilevanti in relazione a possibili fattispecie concrete. Ad esempio, in presenza di un furto maldestro di cosa propria perpetrato in un contesto spaziale in cui esistano insieme cose proprie del soggetto agente e cose altrui (si pensi ad un magazzino per la custodia e lo stoccaggio di merci), esclusa la sussistenza del reato consumato (per difetto dell'altruità della cosa sottratta), occorrerà procedere ad un giudizio di prognosi postuma (ex ante ed in concreto) onde verificare se gli atti posti in essere fossero o meno idonei a porre in pericolo il bene interesse tutelato (le res altrui):

a) se l'esito di questa valutazione sarà positivo, il soggetto agente (non punibile per il reato putativo consumato) risponderà del tentato furto della cosa altrui (il che non sarebbe possibile se il reato consumato, invece che putativo, fosse impossibile, e cioè se la condotta posta in essere fosse «inidonea»);

b) in caso contrario, se anche il tentativo di furto della cosa altrui risulterà inidoneo, la punibilità andrà esclusa (salva l'applicazione della misura di sicurezza, ove la condotta, pur inidonea, sia comunque stata portata a compimento).

Secondo la giurisprudenza, ai fini della configurabilità del tentativo, l'idoneità degli atti non va valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell'art. 49, in presenza di un'inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, di modo che l'azione, valutata ex ante ed in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall'agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso (Cass. I, n. 36726/2015)

Tendenze giurisprudenziali più recenti

Va necessariamente segnalata una sorprendente ed evolutiva decisione, Cass. V, n. 4011/2019.

Dopo aver ricordato che la Corte costituzionale ha più volte precisato che il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente quello della previsione normativa — donde il legislatore deve prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale ("offensività in astratto") — e, per quanto di specifico interesse in questa sede, quello dell'applicazione giurisprudenziale ("offensività in concreto"), quale criterio interpretativo/applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato (così da ultimo Corte cost., n. 265 del 2005), e che il principio ha trovato ripetuta applicazione anche nella giurisprudenza di legittimità in tema di furto (Cass. IV, n. 23093/2017 ha escluso l'offensività della condotta quanto al furto di un vecchio cartello arrugginito di segnaletica stradale, ormai sostituito dall'amministrazione; Cass. IV, n. 16894/2004 ha sostenuto che, alla luce del principio di offensività, non possono configurare l'ipotesi delittuosa comportamenti solo minimamente incidenti sulla cosa — nella specie l'asporto di quantità irrilevanti di sabbia per attività ricreative — che non ledono il bene giuridico tutelato), la citata decisione ha annullato una sentenza di condanna per il furto pluriaggravato di alberi di leccio di proprietà di un Comune, per il rilievo che la Corte di appello non aveva valutato la concreta offensività della condotta accertata, avendo in particolare riguardo al valore del bene sottratto (il valore del legname sottratto era stato stimato in sette euro) in rapporto al bene giuridico tutelato, vale a dire il patrimonio dell'ente comunale.

Il reato impossibile per inesistenza dell'oggetto

L'ultima parte dell'art. 49, comma 2, esclude la punibilità del soggetto agente nel caso in cui l'evento dannoso o pericoloso sia impossibile per inesistenza dell'oggetto (resta salva la possibilità di applicare la misura di sicurezza).

Per delimitare il campo di operatività della previsione rispetto a quello dell'art. 56, occorre distinguere:

a) l'inesistenza dell'oggetto del reato acquista rilevanza giuridica e rende impossibile il reato soltanto quando l'oggetto non sia mai esistito in natura, ovvero sia estinto, oppure l'inesistenza sia assoluta (cioè quando manchi qualsiasi possibilità che, nel momento in cui si verifica la condotta, l'oggetto possa trovarsi in un determinato luogo, e conseguentemente sia impossibile che la condotta arrechi offesa al bene giuridico tutelato), attuale ed originaria (cioè risalga a prima del momento in cui l'agente intraprende la sua opera delittuosa), e non anche quando si sia in presenza di una mancanza accidentale, eventuale o temporanea (Cass. I, n. 22722/2007: fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto sussistente il tentativo di omicidio, nonostante la vittima designata fosse assente, nel luogo del progettato agguato organizzato dagli appartenenti ad un clan camorristico, in quanto tempestivamente avvertita del pericolo dalle forze dell'ordine; conforme, Cass. III, n. 26505/2015: fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto sussistente il tentativo di importazione di sostanze stupefacenti, nonostante il mancato reperimento di queste ultime, in virtù sia degli accordi presi per la fornitura di un grande quantitativo di droga, sia dell'invio, da parte degli acquirenti, di una «garanzia umana» richiesta dai fornitori, sia della predisposizione delle operazioni di sdoganamento): il relativo accertamento potrà essere utilmente effettuato soltanto ex post, “tenendo conto cioè di tutte le circostanze esistenti, anche se non conosciute o non verosimili ex ante” (Mantovani, 458);

b) in caso di inesistenza soltanto relativa dell'oggetto (esistente, ma non nel luogo ed al tempo della condotta), il soggetto agente è punibile a titolo di tentativo, sempre che, nel momento in cui pose in essere la condotta, l'esistenza dell'oggetto appariva verosimile: questo accertamento va operato con giudizio di prognosi postuma (operato secondo le consuete modalità, ex ante ed in concreto), nel senso che il giudice deve porsi nella stessa condizione in cui era l'agente, ed escludere, in relazione alle concrete circostanze ed alle maggiori conoscenze dell'agente stesso, la sussistenza del reato, soltanto quando l'esistenza dell'oggetto appariva improbabile al momento dell'azione (Cass. V, n. 84/1997).

Può concludersi che, ai fini della sussistenza di un tentativo idoneo (come tale punibile, ove concorra l'ulteriore requisito della «univocità» degli atti posti in essere) è necessario che gli atti posti in essere siano «idonei», e che l'oggetto materiale della condotta esista. Il giudice dovrà, pertanto, operare un primo giudizio di prognosi postuma sull'idoneità degli atti posti in essere:

a) se l'esito sarà negativo, si avrà un tentativo non punibile (penalmente irrilevante) se la condotta non è stata portata a compimento, ovvero r.i. per inidoneità dell'azione (cui potrà conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza) se la condotta è stata portata a compimento;

b) se l'esito sarà positivo, si avrà un tentativo idoneo, ma di per sé ancora privo di rilevanza penale, poiché il giudice dovrà effettuare un secondo giudizio di prognosi postuma quanto alla verosimiglianza o meno dell'esistenza dell'oggetto: soltanto il positivo esito di questa seconda valutazione consentirà di configurare un tentativo suscettibile di assumere penale rilevanza (in caso contrario, si avrà, a seconda del completamento o meno della condotta, tentativo non punibile ovvero r.i. per inesistenza dell'oggetto, con le possibili conseguenze dianzi indicate).

Si è da ultimo ribadito che l'inesistenza dell'oggetto del reato dà luogo a reato impossibile solo qualora l'oggetto sia inesistente in rerum natura o si tratti di inesistenza originaria ed assoluta, non anche quando l'oggetto sia mancante in via temporanea o per cause accidentali (Cass. I, n. 12407/2020: la S.C. la Corte ha ritenuto sussistente il tentativo di lesioni aggravate dall'uso di un'arma in relazione alla condotta dell'imputato il quale, dopo un litigio con la persona offesa, armato di una katana prelevata dalla propria abitazione, si era recato presso il pronto soccorso del locale ospedale alla ricerca della persona offesa, al momento assente, ma veniva bloccato da un addetto alla vigilanza).

Casistica

La disamina di alcune applicazioni giurisprudenziali chiarisce la concreta portata del principio:

a) costituisce tentativo punibile e non r.i. “il comportamento di chi si introduce in una vettura per commettere furto di cose nella stessa contenute posto che, con valutazione ex ante, nella vettura sono normalmente contenute cose che possono essere oggetto di furto” (Cass. V, n. 84/1997);

b) “è responsabile di furto tentato colui che, avendo aperto la borsetta di una donna ed infilato dentro una mano, non abbia poi portato a compimento l'azione criminosa per mancanza di danaro” (Cass. II, n. 11227/1976);

c) sussiste il tentativo di furto, se i ladri abbiano “tentato di asportare una cassaforte, nella quale momentaneamente non era conservato denaro” (Cass. II, n. 8496/1985);

d) sussiste il tentativo di sequestro di persona, in caso di assenza momentanea ed accidentale della vittima designata (Cass. II, n. 10362/1987);

e) non integra gli estremi del r.i. l'inesistenza meramente accidentale della sostanza stupefacente dal luogo in cui essa era stata in precedenza occultata (Cass. VI, n. 3854/2003).

Appostamento delle Forze dell'ordine ed agente provocatore

Appostamento delle Forze dell'ordine

Alla luce di quanto osservato con riguardo ai rapporti tra tentativo e r.i. per inidoneità dell'azione ovvero per inesistenza dell'oggetto, è possibile valutare la rilevanza o meno, ai fini penali, della predisposizione di servizi di polizia in vista della commissione di un reato.

La giurisprudenza ritiene configurabile il tentativo anche nel caso in cui il mancato raggiungimento del risultato criminoso sia dovuto alla presenza delle Forze dell'ordine che, preventivamente informate, abbiano adottato le dovute misure per impedire la consumazione del delitto e siano successivamente intervenute per assicurare i responsabili alla giustizia, in quanto il requisito dell'idoneità dell'azione va, come detto, accertato con giudizio ex ante, mentre la predisposizione di misure preventive — non rientrando tra le circostanze conosciute dall'agente o conoscibili dall'uomo medio — sarebbe accertabile soltanto ex post e non incide, pertanto, in alcun modo sull'intrinseca adeguatezza della condotta a produrre in astratto la consumazione del reato: “l'idoneità degli atti, valida per l'integrazione della figura del delitto tentato, deve essere considerata nella sua potenzialità in quanto causalmente atta a conseguire il risultato progettato, e prescinde dal contemporaneo inserimento di interventi esterni che abbiano impedito la realizzazione dell'evento. Mentre, per la configurabilità del r.i., l'inidoneità deve essere assoluta per inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato, tale da non consentire neppure in via eccezionale l'attuazione del proposito criminoso” (Cass. II, n. 7630/2004: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto configurabile un tentativo di ricettazione, e non un r.i. per inesistenza dell'oggetto, in un caso nel quale soltanto il casuale intervento preventivo dei Carabinieri aveva impedito all'imputato di acquisire la disponibilità della refurtiva; conforme, Cass. VI, n. 35511/2013, per la quale la consumazione del reato di acquisto di sostanze stupefacenti — art. 73 d.P.R. n. 309/1990 — non è esclusa dal fatto che la ricezione della droga si sia svolta sotto il diretto controllo della polizia giudiziaria, posto che, ai fini della configurabilità del reato impossibile, l'inidoneità dell'azione deve risultare già «ex ante» assolutamente priva di potenzialità per la determinazione causale dell'evento; in applicazione del principio, è stata confermata la condanna del venditore che, a seguito di un accordo già in precedenza intercorso con l'acquirente, aveva consegnato una partita di droga sotto il controllo della P.G., che, precedentemente intervenuta, aveva sequestrato lo stupefacente ed organizzato l'appostamento).

Né potrebbe ritenersi che l'evento sia impossibile per inesistenza dell'oggetto, in quanto le misure preventive non rendono l'oggetto assolutamente mancante ab origine.

In un interessante caso pratico, si è ritenuto che la predisposizione di un servizio di polizia per la sorpresa in flagranza degli estortori nel luogo stabilito per la consegna del denaro, da un canto non rende impossibile il delitto, potendo l'evento sempre verificarsi per un errore nell'attuazione del servizio, ovvero per un'astuzia o per la violenza dell'agente; dall'altro, degrada il reato da consumato a tentato non solo nell'ipotesi in cui si riesca ad impedire la consegna del danaro, ma anche nel caso in cui questa avvenga e l'imputato resti solo per brevi istanti — occorrenti agli agenti per intervenire — nella detenzione del danaro (Cass. II, n. 8572/1983).

Agente provocatore

Perché sia configurabile un reato impossibile per inidoneità della condotta, occorre che la condotta, per la sua natura in sé considerata, risulti, secondo una valutazione ex ante, non idonea a cagionare l'evento, non essendo sufficiente che essa risulti tale solo per l'incidenza di un fattore esterno (Cass. IV, n. 16474/2008, che ha configurato alla stregua di un siffatto fattore esterno l'attività prestata dall'agente provocatore che acquisti la sostanza stupefacente da colui che ne abbia la disponibilità).

Non è configurabile il reato impossibile, in presenza dell'attività di agenti «infiltrati» o «provocatori», quando l'azione criminosa non derivi esclusivamente, dagli spunti e dalle sollecitazioni istigatrici di questi, ma costituisca l'effetto di stimoli ed elementi condizionanti autonomamente riferibili all'agente, posto che l'inidoneità della condotta deve essere valutata oggettivamente con giudizio ex ante, nel suo valore assoluto e non di relazione con la simultanea azione dell' «infiltrato» (Cass. V, n. 11915/2010; conforme, Cass. VI, n. 39216/2013, in fattispecie relativa a condotta di concorso esterno in associazione di tipo mafioso consistita nell'attività di interlocuzione con l'«infiltrato» per conto della cosca criminale al fine di «assicurare la pace sociale» alle imprese aggiudicatarie dei lavori per i treni ad alta velocità).

È stata affermata l'idoneità della condotta in un caso nel quale il simulato acquirente di sostanze stupefacenti era, in realtà, un agente di polizia sotto copertura (Cass. VI, n. 1739/1996); inoltre, in un caso nel quale vi era stato l'accertamento dell'intervenuta promessa della dazione di una somma di denaro, e l'intervento della polizia soltanto dopo la promessa, ma prima della consegna del denaro, la S.C. ha configurato una concussione consumata (per effetto dell'intervenuta promessa), e non soltanto tentata, osservando che “non è escluso che, nonostante l'intervento degli agenti, il reo riesca a conseguire l'intento e a farla franca, né può ravvisarsi la figura dell'agente provocatore in chi non sollecita né agevola l'azione del colpevole, ma segue semplicemente l'iter dell'azione criminosa lasciando che la parte offesa si comporti come imposto dal colpevole medesimo” (Cass. VI, n. 8585/1987).

In tema di reati in materia di stupefacenti, la giurisprudenza ha ritenuto non configurabile la scriminante di cui all'art. 97 d.P.R. n. 309/1990 (che richiama l'art. 9 l.  n. 146/2006) nel caso in cui l'agente coinvolto in operazioni sotto copertura compia attività che si caratterizzino per determinare taluno a commettere illeciti penali prima inesistenti, atteso che l'esimente è configurabile solo in relazione all'acquisizione di prove relative ad attività illecite già in corso (Cass. III, n. 31415/2016: fattispecie riguardante condotte di importazione di diversi quantitativi di sostanze stupefacenti da parte di agenti di polizia giudiziaria, con riguardo alla quale la S.C. ha precisato che requisito essenziale per la liceità delle operazioni e per l'applicazione della esimente era la prova, nella specie mancante, dell'esistenza di accordi, tra fornitori e destinatari della droga, precedenti all'intervento dell'agente sotto copertura).

In tema di operazioni sotto copertura, un successivo orientamento ha ritenuto inutilizzabile la prova acquisita dall'agente infiltrato che abbia determinato l'indagato alla commissione di un reato, ed utilizzabile quella acquisita con l'azione di mero disvelamento di una risoluzione delittuosa già esistente, rispetto alla quale l'attività dell'infiltrato si presenti solo come occasione di estrinsecazione del reato (Cass. VI, n. 12204/2020: fattispecie nella quale gli agenti operanti sotto copertura si erano limitati a fingersi interessati all'acquisto di droga, concordando luogo, tempo e modalità della consegna di sostanza stupefacente già nella disponibilità dell'imputato).

Secondo l’orientamento più recente (Cass. II, n. 45852/2023)  il reato impossibile, in presenza dell'attività di agenti "infiltrati" o "provocatori", non è configurabile nel caso in cui l'azione criminosa non derivi soltanto dagli spunti e dalle sollecitazioni istigatrici di questi ultimi, ma costituisca l'effetto di stimoli ed elementi condizionanti autonomamente riferibili all'agente, posto che l'inidoneità della condotta deve essere valutata oggettivamente, con giudizio ex ante, nel suo valore assoluto e non di relazione con la simultanea azione dell'infiltrato.

Falso grossolano, innocuo od inutile

Occorre premettere che:

a) falso grossolano è quello tanto macroscopico, da risultare riconoscibile ictu oculi per la generalità della persone, senza che occorra possedere particolari cognizioni tecniche, ovvero essere particolarmente diligenti: ove la contraffazione, pur imperfetta e riconoscibile da una cerchia di esperti, sia tale ciononostante da comportare, per la media delle persone, la possibilità (e non solo la probabilità) di inganno, la condotta sarà penalmente rilevante (Cass. I, n. 8414/2004). In proposito, si è anche osservato che “il principio secondo il quale, in tema di falso, la valutazione della inidoneità assoluta dell'azione, che dà luogo al reato impossibile, dev'essere fatta ex ante, vale a dire sulla base delle circostanze di fatto conosciute al momento in cui l'azione viene posta in essere, indipendentemente dai risultati, e non ex post, riguarda i casi in cui il falso sia stato scoperto e si discuta se lo stesso fosse così grossolano da dover essere riconoscibile ictu oculi per la generalità delle persone ovvero sia stato scoperto per effetto di particolari cognizioni o per la diligenza di determinati soggetti. Il suddetto principio non riguarda invece i casi in cui il falso non sia stato scoperto ed abbia prodotto l'effetto di trarre in inganno; e nei quali, quindi, la realizzazione dell'evento giuridico esclude in radice l'impossibilità dell'evento dannoso o pericoloso di cui all'art. 49 c.p.” (Cass. V, n. 2629/1993); in tema di falso documentale, ai fini dell'esclusione della punibilità per inidoneità dell'azione ai sensi dell'art. 49, si richiede che appaia in maniera evidente la falsificazione dell'atto e non solo la sua modificazione grafica: di conseguenza, le abrasioni e le scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni, non possono considerarsi, di per sé e senz'altro, un indice di falsità talmente evidente da impedire la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, giacché esse possono essere o apparire una correzione irregolare, ma non delittuosa, di un errore materiale compiuto durante la formazione del documento alterato dal suo stesso autore. Spetta, poi, al giudice di merito stabilire, fornendo congrua motivazione, se le peculiarità della specifica alterazione siano da ritenere un'innocua correzione oppure l'espressione di un'illecita falsificazione grossolanamente compiuta (Cass. V, n. 3711/2012: in applicazione del principio, la S.C. ha censurato la decisione con cui il giudice di appello aveva confermato la responsabilità — in ordine al reato di falso in certificazioni o autorizzazioni amministrative ex art. 482 — dell'imputato, il quale aveva esibito documenti — carta di identità e patente di guida — recanti sovrascritturazione a penna della data di nascita, modificata da 1966 a 1968, mentre il passaporto sull'omologo dato presentava l'applicazione di una striscia di carta con data ritrascritta a macchina, senza indicare quali concrete modalità di esecuzione dei falsi avessero consentito di escludere che si trattasse di alterazione grossolana e cioè agevolmente percepibile da chiunque). Da ultimo, si è ritenuto che, ai fini dell'esclusione della punibilità per inidoneità dell'azione ai sensi dell'art. 49, comma 2, la modificazione grafica dell'atto con abrasioni o con scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni non è indice univoco di una falsità talmente evidente da escludere la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, potendo costituire mera correzione, irrituale ma non delittuosa, di un errore materiale compiuto durante la formazione di un documento veridico (Cass. V, n. 32414/2019: fattispecie relativa alla correzione degli orari riportati in una cartella clinica, operata al fine di sollevare l'imputato da responsabilità per la morte di un paziente).

In relazione ad una fattispecie ormai estremamente diffusa, la giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che integra il delitto di cui all'art. 474 la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione in ipotesi grossolana, considerato che l'art. 474 tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno non ricorrendo quindi l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti immediati siano tratti in inganno (Cass. V, n. 5260/2014).

In tema di falso nummario, si è ritenuto che la grossolanità della contraffazione, che dà luogo al reato impossibile, si apprezza solo quando il falso sia ictu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza, tenendo conto non solo delle caratteristiche oggettive della banconota, ma altresì del suo normale uso e delle modalità e circostanze del suo scambio (Cass. V, n. 15122/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto la sussistenza del reato con riguardo ad una banconota pur oggetto di rudimentale falsificazione, siccome consistente in una fotocopia priva di filigrana e tagliata in modo irregolare, rilevando come nondimeno le modalità della consegna – per strada, frettolosamente, in precarie condizioni di luce – al fattorino di una pizzeria cui erano state precedentemente fornite generalità false fossero in concreto idonee ad ingannare l'accipiens; conforme, Cass. V, n. 16952/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso la sussistenza del reato con riguardo all'inserimento in una slot machine di banconote grossolanamente contraffatte mediante un rudimentale assemblaggio con nastro adesivo di una parte autentica ad una copia, ritenendo che la radicale insussistenza della possibilità di lesione della fede pubblica non venga meno quando il controllo sia affidato ad una macchina piuttosto che ad un uomo).

Si è inoltre ritenuto che, per escludere la punibilità nel caso di creazione di permessi di soggiorno interamente falsi o di alterazione di permessi veri occorre che la falsificazione sia grossolana e, cioè, immediatamente riconoscibile ictu oculi da chiunque, senza necessità di particolari indagini (Cass. V, n. 10331/2019);

b) falso innocuo è quello, ideologico o materiale, che «determina un'alterazione irrilevante ai fini dell'interpretazione dell'atto, non modificandone il senso» (Cass. V, n. 38720/2008) e che risulta, quindi, sempre e comunque inidoneo ad offendere concretamente il bene tutelato, perché non in grado di incidere sulla situazione giuridica sottostante: ad es., si è ritenuto che “il registro di classe degli istituti di istruzione riconosciuti o parificati costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni ivi contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall'insegnante incaricato dell'insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale” (Cass. V, n. 421/1997); si è successivamente osservato che, in tema di falsità in atti, il falso innocuo si configura solo in caso di inesistenza dell'oggetto tipico della falsità, di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. V, n. 28599/2017: nella specie, relativa alla contraffazione di documenti abilitanti alla guida rilasciati dalla Repubblica Dominicana, la S.C. ha escluso che ricorresse un'ipotesi di falso innocuo, invocato dall'imputato per la mancanza di prova circa la validità dei predetti documenti nel territorio dello Stato). Un successivo orientamento ha chiarito che, in tema di falsità in atti, ricorre il cosiddetto "falso innocuo" nei casi in cui l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto e non esplichino effetti sulla sua funzione documentale, non dovendo l'innocuità essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto (Cass. V, n. 5896/2021: fattispecie relativa alla dichiarazione non veritiera resa da un geometra, in qualità di direttore dei lavori, in ordine alle caratteristiche dell'impianto di riscaldamento di una struttura produttiva, in riferimento alla quale la S.C. ha escluso che ricorresse un’ipotesi di "falso innocuo", invocata dall'imputato per la mancanza di specifici titoli in materia che non avrebbe consentito di attribuire alcuna valenza alla sua dichiarazione, rientrando comunque le opere energetiche nell'ambito della propria abilitazione professionale);

c) falso inutile è quello che non incide, in modo assoluto, né sull'esistenza né sull'efficacia di un determinato atto, ed è quindi indirettamente insuscettibile, a sua volta, di incidere sulla situazione giuridica sottostante. Nei casi pratici di volta in volta sottoposti al suo esame, la S.C. ha sempre escluso che ricorressero gli estremi del falso inutile.

La giurisprudenza più recente ribadisce, in tema di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.), che, per considerare il falso innocuo o grossolano e, conseguentemente, il reato impossibile, è necessario avere riguardo all’attitudine ingannatoria del marchio in sé, non alle modalità di vendita ed alle altre circostanze esterne, che attengono, invece, alla tutela del consumatore (Cass. V, n. 30539/2021).

La ratio della non punibilità

La giurisprudenza di legittimità desume tradizionalmente l'irrilevanza penale delle condotte che si concretizzano in falsificazioni grossolane od innocue dalla disciplina del r.i. per inidoneità dell'azione; diversamente, l'irrilevanza penale delle falsità inutili è tendenzialmente desunta dalla disciplina del r.i. per inesistenza dell'oggetto, poiché in tali casi il falso riguarda un atto, od una parte di esso, assolutamente privo di valenza probatoria: “falsità inutile, penalmente irrilevante, è quella che in modo assoluto non incide sulla esistenza ed efficacia di un determinato atto: è ipotizzabile quindi solo se il documento conserva le originarie caratteristiche, senza tener conto di una parte accessoria vera o falsa che sia” (Cass. V, n. 7931/1983).

I fautori della concezione realistica giustificano, in tali casi, la non punibilità delle condotte di falso grossolano, innocuo od inutile, in relazione alla loro inoffensività, pur non negando la loro corrispondenza a fattispecie di reato tipiche. Una volta individuato il bene protetto dai reati di falso nell'aspettativa di certezza quanto alla genuinità di determinati valori fidefacienti, grandemente diffusi ed estremamente rilevanti per la collettività (bolli, documenti, monete), occorre verificare caso per caso se il falso posto in essere possa arrecar danno a quella aspettativa di certezza dei consociati, tenendo anche conto del particolare contesto di formazione: risulta, ad esempio, intrinsecamente inoffensivo il falso grossolano, che, per la sua agevole riconoscibilità, non può in alcun modo nuocere all'aspettativa di certezza; ugualmente inoffensivi risultano il falso innocuo (ad es., perché formatosi in un contesto ludico o didattico, ioci o docendi causa) e quello inutile (che non altera la fidefacienza dell'oggetto falsificato). In tutti questi casi, si dice, la condotta realizzata dall'agente corrisponde a quella tipizzata in astratto dalla norma incriminatrice che si assume di volta in volta violata, ma risulta tuttavia inidonea ad offendere significativamente il bene interesse tutelato.

Diversamente, l'orientamento che appare preferibile giunge alle medesime conclusioni, ma sulla base di premesse sistematiche senz'altro più accettabili: “cade pertanto in un equivoco la giurisprudenza quando ricorre all'art. 49, comma 2 ed alla nozione di reato impossibile per affermare la non punibilità di casi come quelli del falso grossolano (o anche innocuo o irrilevante). In tali casi è in realtà la stessa interpretazione teleologica delle singole norme incriminatici a segnalare l'assenza di tipicità. L'attitudine ingannatoria della falsità (...) [è elemento costitutivo] di una fattispecie interpretata alla luce di una semplice «significatività», o «non inconsistenza» del fatto storico rispetto all'interesse che ess[a] v[uole] tutelare. La soluzione della non punibilità è dunque da condividere, ma non si hanno qui fatti inoffensivi conformi al tipo” (Romano, 515).

La disputa non è meramente astratta: ove alla non punibilità delle condotte in esame dovesse pervenirsi (come sostengono i fautori della concezione realistica) in applicazione della disciplina del reato impossibile, dovrebbe gioco forza ammettersi l'applicabilità della misura di sicurezza (art. 49, comma 4) all'agente, se ritenuto pericoloso. Ciò, al contrario, sarà non consentito, ove si sostenga — come sembra dogmaticamente più corretto (poiché una disamina dell'oggettività giuridica dei reati di falso in relazione alla ratio della loro incriminazione, da individuare nella possibilità che l'immutatio veri leda o ponga in pericolo il bene protetto della fede pubblica, induce a ritenere che i falsi grossolani, innocui od inutili siano dei non-falsi, proprio perché non producono alcuna immutatio veri, e che, pertanto, come tali, esulano dalle fattispecie di reato tipizzate in astratto dal legislatore, anche, nei casi di falsi ioci o docendi causa, per evidente assenza del necessario dolo generico), e comunque, nel dubbio, più favorevole per l'imputato — il difetto di tipicità tout court della condotta.

La coltivazione non autorizzata di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti.

La giurisprudenza è stata a lungo divisa in merito alla possibilità di configurare un r.i. per inidoneità dell'azione nei casi in cui, per la minima presenza di principio attivo, la sostanza stupefacente oggetto di traffico nelle molteplici ipotesi di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 fosse incapace di produrre un concreto effetto drogante.

L'orientamento tradizionale (Cass. S.U., n. 9973/1998) aveva osservato che <<il legislatore non ha fornito una definizione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, essendosi limitato ad individuarle e catalogarle. Il riferimento fatto dal medesimo alla struttura chimica delle stesse ed agli effetti, diretti ed indiretti, che producono in danno dell'assuntore in caso di dosaggio drogante, se rileva al fine della loro individuazione per la composizione delle tabelle, non rileva invece al fine dell'individuazione delle condotte penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990. Nel nostro ordinamento, invero, in mancanza di una definizione farmacologica, la nozione di stupefacente non può che avere natura legale nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti. Il fatto che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta "soglia drogante", in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del fatto. L'inidoneità dell'azione, relativamente alle fattispecie previste dall'art. 73 legge stupefacenti va dunque valutata unicamente avuto riguardo ai beni oggetto della tutela penale, individuabili, come già si è detto in quelli della salute pubblica della sicurezza e dell'ordine pubblico nonché della salvaguardia della giovani generazioni. Tali beni sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante, sia per le considerazioni già svolte concernenti la salute pubblica, ulteriormente minacciata dal possibile impiego antigienico di determinati mezzi di assunzione, sia perché trattasi di attività riconducibile al mercato della droga, alimentato dalla cessione al consumatore finale, qualunque sia il quantitativo di volta in volta ceduto, ed attorno al quale prospera il fenomeno della criminalità organizzata>>. Era stato, per tali ragioni, disatteso l'assunto del ricorrente (a parere del quale l'illecita detenzione e vendita di sostanza stupefacente contenente mg. 13,4 di eroina base sarebbe stata priva di rilevanza penale per inidoneità dell'azione, trattandosi di principio attivo al di sotto della soglia che assicura l'effetto drogante, appare infondato).

Il principio, a lungo ribadito (cfr., ad es., Cass. V, n. 5130/2011), è stato superato dalla giurisprudenza più recente, ormai orientata nel senso di ritenere che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, pur potendosi prescindere dall'accertamento dell'entità del principio attivo presente nella sostanza oggetto di contestazione, è necessario dimostrare che detta sostanza abbia in concreto effetto drogante ovvero sia in grado di produrre alterazioni psico-fisiche (Cass. IV, n. 4324/2016; Cass. III, n. 47670/2014).

Il problema si è posto, in particolare, con riguardo al reato di coltivazione non autorizzata di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti (rientrante tra le distinte fattispecie previste e punite dall'art. 73 d.P.R. n. 309/ 1990).

La Corte costituzionale (n. 360/1995) ha ritenuto non fondata, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede la illiceità penale della condotta di coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale, indipendentemente dalla percentuale di principio attivo contenuta nel prodotto della coltivazione stessa, sollevata sotto il profilo della violazione del principio della necessaria offensività della fattispecie penale nell'ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di inflorescenze dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l'effetto (stupefacente) potenzialmente lesivo nel caso di successiva assunzione, osservando quanto segue: <<l'astratta fattispecie del delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti, nei suoi elementi essenziali, e depurata dai singoli possibili comportamenti concreti, implica una legittima valutazione di pericolosità presunta, in quanto inerente a condotta oggettivamente idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima, e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga, nonché di accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività, non essendo irragionevole la valutazione prognostica di attentato al bene giuridico protetto. La configurazione di reati di pericolo presunto non è poi incompatibile con il principio di offensività; né nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione>>.

In quella occasione, si precisò, peraltro, che <<diversa dal principio della offensività, come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore penale ordinario, è la offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49)>>, e si affermò conclusivamente che <<la mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario>>.

Sulla scia di tale orientamento, la giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 28605/2008) ha affermato che, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

La giurisprudenza più recente è orientata nel medesimo senso, apparendo ormai ferma nel ritenere che, ai fini della configurabilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente l'accertamento della loro conformità al tipo botanico previsto e della loro attitudine futura a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente, dovendosi invece verificare l'offensività in concreto della condotta, intesa come prova della effettiva ed attuale capacità a produrre un effetto drogante rilevabile nell'immediatezza: risulta, infatti, inoffensiva la condotta così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa (Cass. VI, n. 2618/2016).

Sono state ritenute prive della necessaria offensività, e, pertanto, costituenti r.i. per inidoneità dell'azione, le seguenti condotte:

- coltivazione domestica di una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa (Cass. IV, n. 25674/2011);

- coltivazione di due piantine di marijuana contenenti un principio attivo inferiore al quantitativo massimo detenibile (Cass. VI, n. 33835/2014);

- coltivazione di due piante di canapa indiana e detenzione di 20 foglie della medesima pianta, in presenza di una produzione che, pur raggiungendo la soglia drogante, era "assolutamente minima" (Cass. VI, n. 5254/2016);

- coltivazione di una pianta di cannabis indica, da cui sono risultati ricavabili gr. 0,345 di principio attivo (Cass. VI, n. 8058/2016).

Un orientamento ha, peraltro, correttamente precisato che, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta « consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo » (Cass. VI, n. 35654/2017), e non è esclusa dal mancato  compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il "coltivare" è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico (Cass. VI, n. 10169/2016, riguardante la coltivazione cd. domestica di nove piantine di marijuana che avevano già prodotto 60 mg di sostanza, pari a poco più di due dosi singole, ed in cui la S.C. ha precisato che la quantità di produzione potenziale avrebbe potuto essere di non modesta entità, a nulla rilevando la dedotta circostanza della destinazione della sostanza ad uso personale terapeutico; Cass. VI, n. 25057/2016 che, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione pronunciata in una fattispecie relativa a coltivazione di piante di marijuana in fase di iniziale fioritura e dunque prive di principio attivo; conforme, Cass. III, n. 23881/2016).

Sembra invero doversi ritenere che si ha r.i. per inidoneità dell'azione nel caso in cui la coltivazione, anche al culmine del processo di maturazione, sia assolutamente inidonea a produrre quantitativi di sostanze stupefacenti dotati di un apprezzabile effetto drogante; al contrario, si ha azione idonea, che concorre ad integrare (unitamente all'univocità) la materialità del tentativo punibile del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, nel caso in cui la coltivazione venga scoperta in una fase iniziale di maturazione, e non abbia ancora prodotto sostanze stupefacenti dotate di un apprezzabile effetto drogante, che sia peraltro capace di produrre al culmine della fase di maturazione (con certezza, ovvero soltanto probabilmente).

Il reato in esame rientra, infatti, tra i reati di pericolo presunto (Corte cost. n. 360/1995), per i quali il tentativo è sicuramente configurabile.

La giurisprudenza sembrava ormai ferma nel ritenere che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (Cass. S.U., n. 28605/2008; Cass. VI, n. 49528/2009).

La Corte costituzionale (Corte cost. n. 109/2016)  aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, impugnato, in riferimento agli artt. 3, 13, comma 2, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva all'uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis, osservando che <<non sussiste disparità di trattamento tra il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente "raccolto" e il coltivatore "in atto" poiché (…) rispondono entrambi penalmente: infatti la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l'ultima fase della coltivazione stessa, ossia la "raccolta" del coltivato (o può essere, comunque, considerata un post factum non punibile, in quanto ordinario sviluppo della condotta penalmente rilevante). Non era inoltre ravvisabile la violazione del principio della necessaria offensività del reato in quanto la condotta è idonea a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato>>. Ed ha concluso ricordando che, quanto alla offensività in concreto, <<spetta al giudice comune la verifica della idoneità a mettere a repentaglio il bene giuridico protetto, facendo leva sulla figura del reato impossibile di cui all'art. 49 , oppure, secondo altra prospettiva, tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio>>.

Nondimeno, in presenza di voci dissonanti, sono da ultimo nuovamente intervenute le Sezioni Unite, le quali, superando il proprio precedente orientamento (condivisibile, perché – come in precedenza illustrato - testualmente ineludibile, oltre che corroborato dalla stessa giurisprudenza costituzionale), premesso che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza ad effetto stupefacente, hanno inopinatamente e contraddittoriamente ritenuto che non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto (Cass. S.U., n. 12348/2020).

Altra casistica

Alimenti

Non ricorre la figura del reato impossibile per inidoneità dell'azione quando il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari, palese ed evidente, sia facilmente percepibile dal consumatore (Cass. III, n. 21797/2007: fattispecie nella quale il prodotto risultava esposto negli appositi banchi di vendita ed il cui prelevamento solitamente — soprattutto nei supermercati — non induce il consumatore ad esercitare una verifica attenta del prodotto).

Carte di credito clonate

Non si ha reato impossibile, in riferimento alla fattispecie criminosa di cui all'art. 12 d.l. n. 143/1991, nel caso in cui la carta di credito clonata venga «bloccata» dal titolare, essendo sufficiente, per l'integrazione del reato, il semplice possesso della carta clonata a prescindere dall'utilizzazione, in considerazione della natura di reato di pericolo della fattispecie criminosa in oggetto (Cass. II, n. 37016/2011).

Contraffazione di opere d'arte

L''inidoneità della condotta, tale da rendere configurabile il reato impossibile, sussiste solo quando, per la grossolanità della contraffazione, il falso risulti così evidente da escludere la stessa possibilità, e non soltanto la probabilità, che lo stesso venga riconosciuto come tale non già da un esperto d'arte, ma da un normale aspirante compratore (Cass. III, n. 26710/2011); si è poi precisato, in tema di detenzione, per farne commercio, di opere d'arte contraffatte, ex art. 178, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 42/2004, che la grossolanità della contraffazione, la quale integra il reato impossibile, si apprezza solo quando il falso sia ictu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza, senza che si possa far riferimento né alle particolari cognizioni ed alla competenza specifica di soggetti qualificati, né alla straordinaria diligenza di cui alcune persone possono essere dotate (Cass. III, n. 42122/2019).

Reati tributari

In tema di reati tributari, si è osservato che i principi giurisprudenziali in materia di falso innocuo o grossolano non trovano applicazione in relazione alla fattispecie di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. n. 74/2000), in quanto l'indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi inesistenti nella dichiarazione annuale, da cui discende il non corretto calcolo dell'imposta e la sua mancata corresponsione, non richiede alcun carattere ingannatorio, essendo sufficiente che sia stata posta in essere al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto (Cass. III, n. 8969/2020).

Profili processuali

Il procedimento per l'applicazione della misura di sicurezza

Allorché si debba applicare una misura di sicurezza perché si è in presenza di un «quasi reato» (ex art. 49), è necessario accertare la responsabilità del prevenuto in ordine al fatto contestato e la sua pericolosità sociale; il relativo procedimento deve concludersi con l'emanazione di una sentenza (ex art. 205), emessa a seguito di contraddittorio fra le parti ed assistita dagli ordinari mezzi di impugnazione. In simili ipotesi, il pubblico ministero è tenuto ad avviare l'azione penale chiedendo al giudice la fissazione dell'udienza preliminare, in modo da pervenire, a conclusione del procedimento, alla pronuncia di una sentenza la quale, nei casi di commissione di fatti costituenti «quasi —reato», non può non essere che di non luogo a procedere perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato, ma che consente, essendo stata emessa a seguito di procedimento con pienezza di contraddittorio, di applicare, in presenza dei presupposti richiesti dall'art. 229, n. 2, la misura di sicurezza prevista dalla legge (Cass. III, n. 6234/1995).

Contro detta sentenza è ammessa impugnazione da parte dell'imputato ex art. 428 c.p.p.; il relativo appello, ai sensi degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, c.p.p., è deciso dal Tribunale di Sorveglianza.

Anche con riferimento ai procedimenti relativi al quasi reato di cui all'art. 49 si applica la disposizione di cui all'art. 11 c.p.p. in tema di competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, che è volta a garantire il principio dell'imparzialità del giudice (Cass. I, n. 4823/1993).

Bibliografia

Cerase, sub art. 49, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, V, Aggiornamento, Milano, 2015; Gallo, voce Dolo, in Enc. dir., Milano, 1964, vol. XII, 751 ss.; Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont. 2012, 99 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario