Codice Penale art. 318 - Corruzione per l'esercizio della funzione 1 2 .[I]. Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni 3.
competenza: Trib. collegiale arresto: facoltativo fermo: consentito custodia cautelare in carcere: consentita altre misure cautelari personali: consentite procedibilità: d'ufficio [1] Articolo così sostituito dall'art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190. Il testo recitava: «Corruzione per un atto d'ufficio. [I]. Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. [II]. Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino ad un anno». Precedentemente l'articolo era già stato sostituito dall'art. 6 l. 26 aprile 1990, n. 86. [2] Per la confisca di denaro, beni o altre utilità di non giustificata provenienza, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta, v. ora artt. 240-bis c.p., 85-bis d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 301, comma 5-bis,d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (per la precedente disciplina, v. l'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modif., in l. 7 agosto 1992, n. 356). [3] Le parole «da tre a otto anni» sono state sostituite alle parole «da uno a sei anni» dall'art. 1, comma 1, lett. n), l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 31 gennaio 2019. Precedentemente l'art. 1 l. 27 maggio 2015, n. 69, aveva sostituito le parole «da uno a cinque anni» con le parole «da uno a sei anni». InquadramentoIl delitto di corruzione per l'esercizio della funzione consiste nel fatto del pubblico ufficiale che indebitamente riceve, per se o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa per esercitare le sue funzioni o i suoi poteri. Modifiche legislativeLa norma in esame ha subito una riscrittura ad opera della l. n. 190/2012 e un inasprimento punitivo ad opera della l. n. 69/2015. Nella formulazione previgente, l'art. 318 c.p., rubricato “corruzione per un atto d'ufficio”, puniva, con la reclusione da sei mesi a tre anni, il pubblico ufficiale che per compiere un atto del suo ufficio, riceveva, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli era dovuta, o ne accettava la promessa. Un trattamento più mite (reclusione fino ad un anno) era riservato al pubblico ufficiale che riceveva la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto. Il fenomeno colpito era quello della corruzione impropria, ossia l'accordo tra soggetto pubblico e privato avente ad oggetto la “compravendita” di un atto conforme ai doveri d'ufficio; essa si distingueva in antecedente (comma 1) e susseguente (comma 2), a seconda che la retribuzione fosse stata pattuita prima o dopo il compimento dell'atto medesimo. La distinzione era essenziale perché nella corruzione impropria susseguente la pena prevista per il pubblico ufficiale era significativamente più mite ed era esclusa la punizione del soggetto che dava o prometteva la remunerazione. La nuova formulazione dell'art. 318, ora etichettato “corruzione per l'esercizio della funzione”, svincolando l'ipotesi delittuosa dal compimento di uno specifico atto d'ufficio, va a colpire anche la generica messa a disposizione retribuita del soggetto pubblico (c.d. “messa a libro paga”), che la giurisprudenza aveva ricondotto, non senza qualche forzatura, alle norme penali vigenti, nonostante l'evidente legame fra corruzione e atto tracciato dal legislatore. È evidente che una volta eliminato il riferimento ad un atto determinato, il disvalore del fatto finisce per ruotare tutto intorno all'indebita remunerazione per l'esercizio delle funzioni, all'asservimento della funzione pubblica ad interessi privati, senza che assuma più rilevanza una distinzione fra atto già compiuto o da compiere (salvo in tema di dosimetria della pena ex art. 133), neppure dal punto di vista del corruttore, ora punibile anche per la corruzione susseguente ex art. 321. “Sembra infatti chiaro che l'esercizio della funzione o dei poteri può prospettarsi come scopo del pagamento o della promessa (corruzione antecedente), ma anche come presupposto di essi, per essere la funzione già stata esercitata (corruzione susseguente). Il «per» del nuovo articolo 318 del codice penale deve certamente esser letto indifferentemente in chiave finale o in chiave causale” (Padovani, 9). La distinzione fra corruzione antecedente e susseguente è rimasta per gli atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319), ma si tratta di una differenziazione priva di conseguenze pratiche stante la previsione di un medesimo trattamento punitivo e della punibilità del corruttore in entrambi i casi. Dal punto di vista intertemporale (a parte quanto si dirà infra sulla estensione soggettiva del delitto in esame e sul mercimonio della funzione in sé considerata senza riferimenti ad un atto specifico), rispetto alle ipotesi prima rientranti nella corruzione impropria si tratta di una successione di legge meramente modificatrice, con conseguente applicazione della disciplina più favorevole al reo ex art. 2, comma 4, c.p. Bene giuridico tutelatoCon riferimento all'oggettività giuridica, parte della dottrina ritiene che la fattispecie in esame tuteli il corretto funzionamento della pubblica amministrazione, con specifico riguardo al prestigio ed alla legittimità dell'agere dei pubblici poteri (F. Antolisei, PS II 1999, 227); altro orientamento, muovendo dall'impossibilità di identificare il bene giuridico nel prestigio dell'amministrazione pubblica, riconduce l'oggetto giuridico al generale principio di imparzialità (Fiandaca-Musco, PS I, 2002, 227). SoggettiSoggetto attivo Soggetti attivi della corruzione per l'esercizio della funzione sono il pubblico ufficiale e, in forza dell'estensione operata dall'art. 320 (così come modificato dalla l. n. 190/2012), anche l'incaricato di un pubblico servizio (a prescindere che rivesta anche la qualifica di pubblico impiegato), nonché colui che dà o promette al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio il denaro o altra utilità (art. 321), che può essere un privato oppure un altro pubblico ufficiale estraneo all'ufficio. Nel sistema previgente l'ambito soggettivo del delitto in esame era più ristretto: soggetto attivo della corruzione impropria antecedente e susseguente non poteva essere l'incaricato di un pubblico servizio che non rivestisse la qualità di pubblico impiegato (ex art. 321 vecchia formulazione); la corruzione impropria susseguente non poteva essere commessa dal privato, posto che l'art. 321 richiamava (e richiama tuttora per un evidente difetto di coordinamento) soltanto il comma 1 dell'art. 318. È appena il caso di rilevare che per tali soggetti, trattandosi di nuove incriminazioni, l'art. 318 troverà applicazione solo per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore della riforma ex art. 2, comma 1. L'ambito soggettivo del delitto in esame comprende anche i soggetti indicati all'art. 322-bis, al cui commento si rinvia. Soggetto attivo può essere anche il funzionario di fatto, ossia colui che esercita le funzioni pubbliche senza una qualifica formale. Il delitto di corruzione può essere realizzato anche attraverso l'intermediazione di un terzo che metta in comunicazione il pubblico funzionario ed il privato corruttore. La giurisprudenza ritiene infatti che ai fini della sussistenza del delitto di corruzione non occorra un accordo attraverso una presa di contatto diretto tra il pubblico ufficiale ed il privato, in quanto il patto corruttivo può essere stretto anche attraverso l'attività di terzi intermediari che, concorrendo nel reato, realizzano tale collegamento e portano così ad esecuzione il perfezionamento del pactum sceleris, purché risulti che anche il pubblico ufficiale sia consenziente al patto corruttivo (Cass. VI, n. 33435/2006). Ai fini dell'integrazione del delitto di corruzione non ha rilevanza l'individuazione dell'identità del funzionario corrotto, che può restare ignoto, purché non sussistano dubbi circa l'effettivo concorso di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio nel fatto di corruzione (Cass. VI, n. 34929/2018; Cass. VI, n. 1/2014). Non risponde a titolo di concorso il soggetto che, non essendo stato parte dell'accodo corruttivo, intervenga nella sola fase esecutiva adoperandosi alla sua realizzazione (Cass. VI, n. 46404/2019). MaterialitàCondotta L'elemento materiale che caratterizza la corruzione per l'esercizio della funzione consiste in un accordo espresso o implicito avente ad oggetto la compravendita dell'esercizio delle funzioni o dei poteri di un funzionario pubblico. L'accordo deve intervenire fra un intraneus, che riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o accetta la relativa promessa, e un extraneus, che dà o promette il denaro o altra utilità. La corruzione per l'esercizio della funzione è un reato a forma libera, in quanto la ricezione e l'accettazione, infatti, non richiedono una particolare forma sacramentale né una dichiarazione espressa, ben potendo risultare, al contrario, anche da un comportamento concludente delle parti. Il termine promessa non va inteso in un'accezione civilistica, bensì nel suo significato comune di impegno ad eseguire, in futuro, una specifica prestazione. È sufficiente un impegno qualsiasi ad eseguire in futuro la «controprestazione» purché questa sia ben individuata e suscettibile di attuazione (Cass. VI, n. 10092/1990; in dottrina Segreto-De Luca, 300). Con la riformulazione operata dal legislatore del 2012 è sparito il riferimento alla retribuzione. Tale termine evocava l'esistenza di un rapporto sinallagmatico tra il privato ed il pubblico funzionario, nonché un rapporto di proporzionalità tra le due prestazioni. Il criterio di accertamento della suddetta proporzionalità era ritenuto di tipo oggettivo-soggettivo, cioè fondato su valutazioni di adeguatezza sociale (Fiandaca-Musco, PS I 2002, 228; Pagliaro, PS I 2000, 149.). Proprio in applicazione dei principi appena esposti si era escluso che integrassero il delitto di corruzione i c.d. munuscula, vale a dire i piccoli doni occasionali offerti dal privato per usanza o cortesia (Cass. VI, n. 2804/1995). L'eliminazione del riferimento al carattere “retributivo” della dazione o promessa sembra funzionale alla inclusione nell'alveo della nuova fattispecie di qualsiasi ipotesi di asservimento della funzione pubblica, compresa la disponibilità del funzionario “a libro paga” ad adottare atti contrari ai propri doveri. Vi è da chiedersi, però, se la modifica implichi uno svincolamento della dazione o promessa dal requisito della proporzionalità anche per gli atti conformi ai doveri d'ufficio. A nostro avviso, il problema potrebbe essere affrontato in termini di idoneità della condotta e in tal senso recuperarsi l'orientamento che tradizionalmente escludeva i piccoli doni dall'alveo del penalmente rilevante, in quanto ritenuti incapaci, stante il loro modico valore, di influenzare il compimento dell'atto d'ufficio. Sembra avvalorare questa soluzione anche l'inserimento nel codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni del divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l'espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, “fatti salvi i regali d'uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia” (art. 1, comma 44, l. n. 190/2012) (Pulitanò, 8). È interessante rilevare come il codice di comportamento dei dipendenti pubblici approvato dal Consiglio dei Ministri in data 8 marzo 2013, all'art. 4 (rubricato “regali, compensi e altre utilità”), dopo aver stabilito che il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità, né li accetta, salvo quelli d'uso di modico valore (cioè non superiori a 150 euro) effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali relazioni di cortesia, pone il divieto per il pubblico ufficiale di chiedere, per sé o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore, a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all'ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell'ufficio ricoperto. Oggetto della dazione o promessa deve essere il denaro o altra utilità, identificandosi, quest'ultima, in qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale (Cass. VI, n. 45847/2014); vi rientrano, dunque, anche le onorificenze o l'uso gratuito di un immobile. La ricezione della dazione o l'accettazione della promessa devono, infine, essere indebite, cioè prive di una qualsiasi giustificazione da parte dell'ordinamento, sia nell'an che nel quantum. Il denaro o le utilità indebite non devono essere dati o promessi per il compimento di uno specifico atto del pubblico ufficiale, ma è sufficiente che vengano corrisposti o promessi in relazione all'esercizio delle funzioni pubbliche di cui il pubblico ufficiale è titolare. La nuova norma svincola la punibilità dalla puntuale individuazione di uno specifico atto o di una specifica condotta oggetto del pactum sceleris. Ne consegue che la pubblica accusa non avrà l'onere di identificare lo specifico atto per il quale è intervenuta la remunerazione, dovendo soltanto dimostrare che il mercimonio trova causa (illecita) nell'esercizio delle funzioni pubbliche (Spadaro-Pastore, 41). Viene a cadere così uno degli elementi della fattispecie di maggiore difficoltà probatoria, specialmente in settori dell'attività amministrativa ove l'illegalità è più diffusa e si manifesta non già in termini di compimento od omissione di uno specifico atto, quanto piuttosto di generica disponibilità ad adottare od omettere tutti quegli atti che sono utili al corruttore (Davigo, 27). Di tale difficoltà la giurisprudenza era ben consapevole e in tale ottica va inquadrato l'orientamento, criticato dalla dottrina per le frizioni con il principio di legalità, che tendeva a prescindere dall'individuazione, nei suoi connotati specifici, dell'atto di ufficio oggetto dell'accordo illecito, ritenendo sufficiente che esso fosse individuabile in funzione della competenza e della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non preventivamente fissati o programmati, ma appartenenti al genus previsto (Cass. fer., n. 32779/2012). Tale indirizzo ermeneutico, assolutamente prevalente, consentiva di colpire anche fenomeni corruttivi di indubbia (e forse maggiore) gravità, in cui oggetto del mercimonio non era uno specifico atto, ma addirittura la messa a disposizione della funzione pubblica asservita agli interessi del corruttore. Secondo la giurisprudenza, infatti, integrava il reato di corruzione, in particolare di quella c.d. propria, non solo l'accordo per il compimento di un atto non necessariamente individuato ab origine ma almeno collegato ad un genus di atti preventivamente individuabili, ma anche l'accordo che avesse ad oggetto l'asservimento — più o meno sistematico — della funzione pubblica agli interessi del privato corruttore, che si realizza nel caso in cui il privato promette o consegna al soggetto pubblico, che accetta, denaro od altre utilità, per assicurarsene, senza ulteriori specificazioni, i futuri favori (Cass. fer., n. 34834/2009). Tale orientamento, che prescindeva da uno specifico atto e collegava il mercimonio all'esercizio della funzione pubblica, risulta adesso recepito dal legislatore nel nuovo art. 318, con il conseguente superamento delle discrasia fra diritto vivente e dato normativo evidenziata dalla dottrina. Rimane, però, da vedere a quale fattispecie la giurisprudenza riconduce i casi di sistematico asservimento della funzione pubblica agli interessi privati. In passato tali ipotesi, pur in assenza di un atto contrario ai doveri d'ufficio, venivano inquadrate nell'ambito della corruzione propria (art. 319) enfatizzando la violazione dei generali doveri di fedeltà, imparzialità, onestà ed esclusivo perseguimento dell'interesse pubblico. Dopo la riforma, considerato il carattere speciale di tale fattispecie, i casi di pubblici ufficiali “a libro paga”, in mancanza di un atto specifico, dovrebbero ricadere nell'ambito della corruzione per l'esercizio delle funzioni. Ed infatti, la giurisprudenza ritiene che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, sia sussumibile nella previsione dell'art. 318, e non in quella, più severamente punita, dell'art. 319, salvo che la messa a disposizione della funzione abbia in concreto prodotto il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio (Cass. VI, n. 18125/2020). Tale assento, però, crea qualche dubbio di congruità ed equilibrio del sistema sanzionatorio: il mercimonio della funzione finalizzato al compimento di una pluralità indeterminata di atti contrari ai doveri di ufficio viene punito ai sensi dell'art. 318 c.p., ossia in modo meno grave rispetto alla compravendita di un solo specifico atto contrario ai doveri d'ufficio. Rispetto alle ipotesi di “corruzione senza atto” si pone anche un problema di successioni di leggi nel tempo. In estrema sintesi, due sono i ragionamenti possibili: ritenere che la nuova formulazione dell'art. 318 sia indicativa di una precisa volontà legislativa di punire condotte prima sottratte a qualsiasi sanzione, appunto perché svincolate da uno specifico atto pubblico, e quindi ritenere applicabile l'art. 2, comma 1 (Grosso, 3277); oppure ritenere che la riscrittura dell'art. 318 abbia inteso sottrarre all'ambito applicativo dell'art. 319, così come interpretato univocamente dalla giurisprudenza, l'ipotesi in cui il mercimonio abbia ad oggetto non uno specifico atto ma l'esercizio della funzione pubblica, in modo da attribuire all'elemento normativo “atto” contenuto nella struttura dell'art. 319 un significato più ristretto; in tal caso l'art. 318, in quanto disciplina più favorevole, dovrà trovare applicazione anche per i fatti consumati prima dell'entrata in vigore della riforma (Spadaro-Pastore, 46). Recentemente, la Suprema Corte ha statuito che fra la corruzione propria (art. 319, nella formulazione previgente alla riforma del 2012) e la corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318, nella formulazione attuale) vi è continuità normativa, con la conseguenza che, in assenza di atti contrari ai doveri di ufficio, l’accordo corruttivo perfezionatosi prima dell'entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, ma consumatosi dopo, va ricondotto all’innovata fattispecie prevista dall'art. 318 (Cass. VI, n. 1863/2021). Nel caso in cui il pubblico ufficiale simuli l'accettazione di danaro o altra utilità, ovvero della sua promessa con l'intenzione di denunciare il fatto e di assicurare alla giustizia il corruttore, non può parlarsi di accettazione rilevante ai sensi degli artt. 318 e 319 e il privato risponderà di istigazione alla corruzione (Cass. VI, n. 11680/1988). Anche dopo la riforma la distinzione fra atto conforme ed atto contrario ai doveri d'ufficio mantiene comunque una sua rilevanza ai fini dell'inquadramento del caso nella fattispecie generale (art. 318) o speciale (art. 319) e, quindi, ai fini del trattamento sanzionatorio e del termine di prescrizione. Va, infatti, chiarito che la l. n. 190/2012, facendosi carico delle tensioni interpretative manifestatesi durante la vigenza del precedente testo dell'art. 318, che ricollegava la sanzione esclusivamente al compimento di uno specifico atto dell'ufficio, ha inteso estendere la tutela penale alle ipotesi di corruzione sistemica, quelle, cioè, non legate ad una specifica prestazione da parte del pubblico agente, ma, piuttosto, alla messa a disposizione della propria funzione per gli interessi di terzi (il c.d. "pubblico ufficiale a libro paga"), avendo il legislatore preso atto che già solo tale distorsione potenziale del concreto esercizio della funzione è sufficiente a ledere il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione. In alcun modo, però, la novella ha inteso escludere dal perimetro della norma le ipotesi, già sanzionate in precedenza, in cui il patto corruttivo fosse diretto ad un specifico atto del pubblico agente o ne costituisse la remunerazione successiva: infatti, la formula testuale utilizzata («per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri») è volutamente ampia, nell'esplicito intento di ricomprendervi la vendita sia del singolo atto che, più in generale, della funzione, come pure tanto la corruzione antecedente quanto quella susseguente (nel precedente testo, invece, tenute distinte e diversamente sanzionate, ma oggi condivisibilmente ritenute espressive di un identico disvalore, poiché entrambe idonee a minare la fiducia dei cittadini nella pubblica amministrazione) (Cass. VI, n. 33251/2021). Per atto d'ufficio deve intendersi l'atto legittimo, rientrante nella competenza del pubblico ufficiale (o dell'incaricato di pubblico servizio che possegga la qualità di impiegato) e che rappresenta l'esplicazione dei poteri inerenti all'ufficio (o al servizio) (Cass. II, n. 3264/1983). Ne consegue che non configura "atto di ufficio" la condotta commessa "in occasione" dell'ufficio che non concreta l'uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente (Cass. VI, n. 7731/2016 che ha annullato la sentenza di condanna emessa nei confronti di un amministratore comunale che aveva redatto ricorsi amministrativi, nell'interesse di privati, finalizzati all'annullamento di sanzioni irrogate da altri funzionari comunali, ritenendo tale attività del tutto estranea alle competenze funzionali del suo ufficio). Non è necessario che si tratti di un formale atto amministrativo, legislativo o giudiziario, né è richiesto che l'atto rientri nella competenza specifica del funzionario, essendo sufficiente che esso inerisca alla competenza dell'ufficio al quale egli appartiene, anche se non è espressamente devoluto alle specifiche mansioni che il pubblico ufficiale o l'incaricato assolvono (Cass. VI, n. 23355/2016), purché il funzionario possa esercitare, in relazione a tale atto, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (Cass. VI, n. 20502/2010). In altre parole, la nozione di atto di ufficio comprende una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente riconducibili all'incarico del pubblico ufficiale, e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, la formulazione di richieste o di proposte, l'emissione di pareri, ma anche la tenuta di una condotta meramente materiale (come, ad esempio, la sostituzione o l'occultamento di una pratica) o il compimento di atti di diritto privato (Cass. VI, n. 38698/2006). Ne consegue che non ricorre il delitto di corruzione se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, e invece sia destinato a incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale (Cass. VI, n. 33435/2006; Cass. VI, n. 17973/2019). Alla nozione di “atto d'ufficio" vengono ricondotti anche i comportamenti materiali che siano esplicazione di poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata (Cass. VI, n. 17586/2017). Alla corruzione per l'esercizio della funzione sono stati ricondotti anche i casi, non infrequenti, in cui il pubblico ufficiale, dietro compenso, si impegna ad agevolare e velocizzare un procedimento amministrativo, poiché l'accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, configura comunque una violazione del principio d'imparzialità (Cass. VI, n. 22707/2014). La corruzione relativa ad un atto conforme ai doveri d'ufficio è configurabile non soltanto con riguardo agli atti vincolati del pubblico ufficiale, ma anche con riguardo a quelli discrezionali (ossia quelli rispetto ai quali viene lasciato un margine di scelta in ordine all'an, quid, quomodo, quando), sempre che questi non siano contrari ai doveri d'ufficio (Cass. VI, n. 10851/1996). L'indebita dazione o promessa, infatti, di per sé comportano soltanto la violazione del dovere “esterno” che impone di non accettarle, e non anche del dovere “interno”, che impone di rispettare le regole che presiedono all'emanazione dell'atto, e pertanto non implica necessariamente contrarietà dell'atto medesimo ai doveri d'ufficio, ben potendo esso risultare comunque idoneo alla miglior soddisfazione dell'interesse pubblico, sì da poter essere considerato, in effetti, al pari dell'atto vincolato, come l'unico possibile. Tuttavia, quando l'indebita dazione o promessa sono finalizzate a far sì che la facoltà discrezionale sia esercitata in modo difforme da quello altrimenti suggerito dall'equilibrata e disinteressata valutazione della situazione concreta, si sarà in presenza di una corruzione propria, cioè per atti contrari ai doveri d'ufficio; mentre si avrà corruzione per l'esercizio della funzione quando sia dimostrato che l'atto adottato dal pubblico ufficiale nell'ambito di attività amministrativa discrezionale è stato determinato dall'esclusivo interesse della pubblica amministrazione e che pertanto sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla indebita retribuzione (Cass. VI, n. 6083/2009). Esulano dalla corruzione soltanto le ipotesi in cui l'atto sia emanato in difetto assoluto di competenza. Ed infatti, ai fini della sussistenza dell'illecito è necessario che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso che occorre che siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata da quest'ultimo; non ricorre invece il delitto di corruzione se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, risultando destinato ad incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale (Cass. VI, n. 33435/2006). Elemento psicologicoDolo Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di ricevere la dazione o di accettare la promessa di denaro o altra utilità, per il corrotto, e di dare o promettere il denaro o l'utilità allo scopo di comprare la funzione, per il corruttore. Consumazione e tentativoConsumazione Riguardo alla consumazione, si deve osservare che il delitto in esame si perfeziona nel momento e nel luogo in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio riceve il denaro o altra utilità o ne accetta la promessa (in termini più espliciti, nel tempo e nel luogo in cui si perfeziona il pactum sceleris). Il delitto di corruzione è infatti reato di evento e si connota per il fatto che si consuma, alternativamente, o con l'accettazione della promessa o con il ricevimento dell'utilità promessa. È opportuno chiarire che il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non appartiene alla struttura del reato e non assume rilievo ai fini della determinazione del momento consumativo, sicché, ove vi sia un solo accordo corruttivo che preveda una pluralità di atti da compiere, si configura un unico reato rispetto al quale gli atti posti in essere dal pubblico ufficiale costituiscono momenti esecutivi, che non danno luogo a continuazione, essendo quest'ultima ipotizzabile solo nel caso di pluralità di accordi corruttivi (Cass. VI, n. 29549/2020). Esso è pertanto reato a duplice schema, potendosi manifestare in forma “ordinaria” (o principale) con la promessa seguita da dazione, in cui le due attività essenziali, dell'accettazione della promessa e del ricevimento dell'utilità, si realizzano entrambe: in tal caso il ricevimento dell'utilità assorbe, facendogli perdere di autonomia, l'atto di accettazione della promessa, con la conseguenza che l'illecito si consuma al momento dell'effettiva prestazione; ovvero in forma “contratta” (o sussidiaria), allorquando alla promessa non segue la dazione: in ipotesi di questo tipo la consumazione coincide con l'accettazione della promessa medesima (Cass. S.U., n. 15208/2010). Qualora in esecuzione dell'accordo corruttivo siano stati corrisposti compensi in tempi diversi, il momento di consumazione del reato va individuato nella corresponsione dell'ultimo di essi (Cass. VI, n. 35118/2007). In tal caso la fattispecie assume natura di reato eventualmente permanente in quanto le plurime dazioni trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica (Cass. VI, n. 3043/2015). È indifferente, ai fini del perfezionamento di questa figura delittuosa, il compimento di un atto, come pure l'inadempimento della promessa (Cass. I, n. 4177/2003). Qualora, però, alla “messa a libro paga” del funzionario pubblico (di per sé già integrativa dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 318) segua, in adempimento del pactum sceleris, l'adozione di un atto contrario ai doveri d'ufficio, dovrebbe configurarsi un concorso con la corruzione impropria, che non può dirsi assorbita dal meno grave reato in commento o sbrigativamente liquidata come un post factum non punibile, altrimenti si verrebbe irragionevolmente a “premiare” il funzionario che adotta un comportamento contra legem perché a stipendio del corruttore rispetto al medesimo soggetto che “vende” un singolo atto. Tentativo In riferimento alla configurabilità del tentativo, si ritiene che esso non sia configurabile rientrando nell'ambito applicativo dell'art. 322 (istigazione alla corruzione). Forme di manifestazioneCircostanze In caso di deliberazione di un organo collegiale, ai fini della contestazione della circostanza aggravante di cui all'art. 112, n. 1, devono essere computati anche i membri dell'organo collegiale. Infatti tali persone devono concorrere necessariamente alla formazione della volontà dell'organo, ma non sono concorrenti necessari del reato di corruzione, essendo possibile che sia corrotto anche uno solo dei suoi concorrenti (Cass. I, n. 10371/1995). Al delitto di corruzione per l'esercizio della funzione è applicabile la circostanza attenuante speciale della particolare tenuità del fatto prevista dall'art. 323-bis, comma 1, che prevede una diminuzione della pena fino ad un terzo quando i fatti sono di particolare tenuità. L'attenuante richiede una valutazione globale del fatto e non solo una verifica delle conseguenze di carattere patrimoniale. Al riguardo, la giurisprudenza è dell'avviso che possa configurarsi un concorso tra l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, e quella di cui all'art. 323-bis, in quanto quest'ultima si riferisce al fatto di reato nella sua globalità (condotta, elemento psicologico, evento), mentre la prima prende in esame il solo aspetto del danno o del lucro, che deve essere connotato da speciale tenuità (Cass. VI, n. 7919/2012). Il concorso va invece escluso quando la circostanza attenuante speciale in esame venga riconosciuta esclusivamente in ragione della ritenuta esiguità del danno economico cagionato dal reato, poiché in essa rimane assorbita quella comune del danno patrimoniale di speciale tenuità (Cass. VI, n. 34248/2011). La specifica attenuante in commento, quindi, non è correlata alla (modesta) entità del danno o del vantaggio patrimoniale, bensì alla particolare tenuità dell'intera fattispecie di reato. Il giudice deve quindi valutare il fatto nella sua globalità al fine di stabilire se presenti una gravità contenuta, dovendo considerare ogni caratteristica della condotta, dell'atteggiamento soggettivo dell'agente e dell'evento da questi determinato (Cass. VI, n. 190/2011). Si applica anche la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui al capoverso dell'art. 323-bis, che prevede una diminuzione della pena da un terzo a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili, ovvero per il sequestro delle somme o delle altre utilità trasferite. Si tratta di una misura premiale finalizzata a favorire la rottura del patto corruttivo, che rappresenta uno degli strumenti più efficaci per l'accertamento dei fatti corruttivi, soprattutto di fronte alle peculiari caratteristiche assunte dalle nuove forme di manifestazione della corruzione sistemica. L'attenuazione del trattamento sanzionatorio trova fondamento nella minore capacità a delinquere dimostrata dal colpevole che, successivamente alla commissione del reato, si sia efficacemente adoperato per conseguire, in via alternativa, uno dei risultati previsti dalla norma. Poiché la norma richiede che l'autore del reato si adoperi «efficacemente», occorre che l'ausilio fornito sia sostanziale, determinante e decisivo per conseguire i risultati indicati dalla norma, prima che gli stessi siano autonomamente conseguiti dalle autorità inquirenti. In altri termini, è richiesta la realizzazione di un risultato che torni utile e proficuo agli organi giudiziari, nel senso che, senza la collaborazione del colpevole, valutando il complesso degli elementi processuali sussistenti al momento del suo sorgere, non si sarebbe innescato quel processo conducente alla raccolta delle prove o all'individuazione degli altri responsabili o al sequestro delle somme o delle altre utilità trasferite all'intraneus. Va osservato che la collaborazione processuale in esame, a differenza di altre disposizioni premiali, non è sottoposta ad alcun limite temporale (es. prima del giudizio o prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna): essa, quindi, potrà essere utilmente prestata in qualsiasi fase del processo, ma non oltre il giudizio di primo grado, potendo il giudice di appello conoscere del procedimento limitatamente ai punti della decisione cui si riferiscono i motivi proposti dall'appellante. Poiché il delitto di corruzione è determinato da motivi di lucro, ad esso è applicabile la circostanza aggravante comune inerente alla gravità del danno patrimoniale prevista dall'art. 61, n. 7, (Cass. VI, n. 10303/1982). Non è invece applicabile la circostanza attenuante comune del danno patrimoniale di speciale tenuità (art. 62, n. 4), trattandosi di un reato bilaterale che non permette di identificare un soggetto danneggiato e un soggetto danneggiante (Cass. VI, n. 23776/2009). Sanzioni accessorieAl reato in esame si applicano le sanzioni accessorie previste dall’art. 317-bis, al cui commento si rinvia. La causa di non punibilità della collaborazioneAl reato in esame si applica la causa di non punibilità prevista dall’art. 323-ter, al cui commento si rinvia. Rapporti con altri reatiConcussione Sulle differenze con il delitto di concussione si veda il commento all'art. 317. Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio Poiché la dizione normativa (“per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”) è talmente ampia e generica (non vi è alcun riferimento alla legittimità o meno dell'esercizio della funzione o del potere) da poter abbracciare sia l'attività conforme ai doveri d'ufficio e alle finalità istituzionali, sia quella che si svolga in violazione di tali doveri o frustrando lo scopo per cui potere e funzione sono attribuiti, la riforma del 2012 sembra aver superato il classico binomio corruzione propria/impropria in favore di un rapporto di genere a specie fra la fattispecie di cui all'art. 318 e quella, immutata nella struttura, dell'art. 319 (così avvicinando il nostro ordinamento a modelli rinvenibili in altri Paesi, come, ad esempio, la Germania), che rispetto alla prima presenta gli elementi di specializzazione del modo di esercizio della funzione o del potere (che si concretizzano in un atto specifico) e la qualificazione antidoverosa della condotta dell'agente pubblico (Padovani, 10). Conferma di tale soluzione sembra derivare anche dall'eliminazione del riferimento alla “retribuzione” nella struttura del nuovo art. 318. Come noto, il legislatore, utilizzando per la corruzione impropria il predetto concetto, richiedeva una proporzionalità fra utilità data o promessa ed atto pubblico conforme ai doveri d'ufficio compiuto o da compiere, in quanto ciò che si voleva tutelare era la gratuità della funzione pubblica. Nella corruzione impropria, invece, venendo in gioco la correttezza dell'attività pubblica, ogni dazione indebita risultava sufficiente ad integrare la fattispecie (Padovani, 10). Fra le due ipotesi delittuose si è venuto a creare anche un rapporto di sussidiarietà, nel senso che una volta accertato l'asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato — ipotesi che integra la fattispecie generale di cui all'art. 318 — il ricorso alla più grave fattispecie di cui all'art. 319 richiederà l'individuazione di un atto in senso formale quale oggetto dell'accordo corruttivo (Cass. VI, n. 49226/2014, che ritiene il delitto exart. 319 in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quello previsto dall'art. 318; in dottrina Padovani, 10). Allo stesso modo, in caso di stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, la giurisprudenza ritiene configurabile l'unico reato, permanente, previsto dall'art. 319, con assorbimento della meno grave fattispecie di cui all'art. 318 (Cass. VI, n. 40237/2016; Cass. VI, n. 51126/2019; Cass. VI, n. 16781/2021). Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa. Per finire occorre rilevare come il nuovo assetto crei qualche incongruenza punitiva: il mercimonio della funzione finalizzato al compimento di una pluralità indeterminata di atti contrari ai doveri di ufficio viene punito ai sensi dell'art. 318, ossia in modo meno grave rispetto alla compravendita di un solo specifico atto contrario ai doveri d'ufficio. Va inoltre segnalato che la differenza di pena prevista per le due ipotesi, se appare ragionevole rispetto al compimento di singoli atti (non essendovi dubbi che il mercimonio di un atto contrario ai doveri d'ufficio è fatto più grave rispetto alla retribuzione di un atto d'ufficio), desta qualche perplessità rispetto alle ipotesi di funzionari pubblici “a libro paga”: è davvero più grave accettare una retribuzione per compiere un atto non dovuto (magari di scarsa rilevanza) che asservire, sistematicamente e in modo mercenario, le proprie funzioni agli interessi, di volta in volta mutevoli e differenziati, di uno o più soggetti privati, magari per un tempo indeterminato? Diversa soluzione è stata prospettata in dottrina nel caso in cui la dazione o la promessa di utilità avvenga in relazione ad atti contrari ai doveri di ufficio non determinati al momento dell'accordo ma determinabili, in quanto rientranti in un genus concordato. In tale evenienza il trattamento punitivo sensibilmente più mite previsto dall'art. 318 risulta insufficiente, in quanto il disvalore del fatto non si esaurisce nel patto corruttivo, ma investe anche l'esercizio disfunzionale del potere che si esprime nell'atto, anche se si tratta di un atto indeterminato, purché sia determinabile (Bartoli, 353; Pulitanò, 7; Cingari, 410). Induzione indebita a dare o promettere utilità Per quanto attiene ai rapporti tra il delitto in esame e quello previsto dall'art. 319-quater, l'elemento differenziatore risiede nella presenza o meno di una soggezione psicologica dell'extraneus nei confronti dell'agente pubblico. Solo l'induzione indebita è caratterizzata da uno stato di soggezione psicologica e da un processo volitivo che non è spontaneo ma è innescato dall'abuso del funzionario pubblico, che prende l'iniziativa e convince l'extraneus alla dazione indebita. Soggezione psicologica e abuso di potere/qualità sono dunque i due elementi differenziali tra induzione indebita e corruzione. Ed è vero, come riconoscono le Sezioni Unite, che l'abuso non è estraneo alle fattispecie corruttive; in quelle, tuttavia, si atteggia a connotazione di risultato: solo nell'induzione indebita svolge invece il ruolo di strumento indefettibile per ottenere, con efficienza causale, la prestazione indebita (Cass. S.U., n. 12228/2014). Concorso di reatiUnità e pluralità di reati L'unicità o la pluralità di reati dipende dalla unicità o pluralità di accordi corruttivi. Se uno solo, il reato rimane unico perché unico è il pactum sceleris; se, invece, più sono gli accordi, saremo in presenza di una pluralità di reati. Ne consegue che se l'accettazione della promessa e la ricezione dell'utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato rimane unico e la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto non dà luogo alla continuazione del reato, che è legata soltanto alla pluralità delle pattuizioni (Cass. VI, n. 33435/2006). Omissioni di atti d'ufficio Cfr. sub art. 328. Millantato credito Cfr. sub art. 346. Responsabilità dell'enteL'art. 25 d.lgs. n. 231/2001 prevede, per il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione, la sanzione pecuniaria fino a duecento quote. Non si applicano, invece, le sanzioni interdittive previste dall'art. 9 d.lgs. n. 231/2001. ConfiscaL'art. 318 è incluso nell'elenco tassativo delle fattispecie che consentono sia l'applicazione della confisca «diretta» che della confisca «per equivalente» di cui all'art. 322-ter, comma 1, c.p., al cui commento si rinvia. Occorre segnalare che in relazione ai beni sequestrati in vista della confisca di cui all’art. 322-ter, diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie, l’art. 322-ter.1, al cui commento si rinvia, prevede la possibilità di affidarli in custodia giudiziale agli organi della polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative. Al riguardo, va segnalato che le Sezioni Unite hanno ritenuto di includere nella nozione di «profitto» anche il bene immobile acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando l'impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all'autore di quest'ultimo (Cass. S.U., n. 10280/2008). Anche per la corruzione è stata prevista la possibilità di disporre la confisca allargata dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito (art. 240-bis). La sospensione condizionale della penaCfr. sub art. 317. Profili processualiGli istituti La corruzione per l'esercizio della funzione è un reato procedibile d'ufficio e di competenza del Tribunale in composizione collegiale. Per il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione: a) è possibile disporre intercettazioni(anche tramite captatore informatico); b) è consentito l'arresto facoltativo in flagranza, e il fermo; c) è consentita l'applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali. L'applicazione della pena su richiesta delle parti Il comma 1-ter dell'art. 444 c.p.p., aggiunto dall'art. 6 l. n. 69/2015, subordina l'ammissione della richiesta di patteggiamento per il delitto in esame alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. Le operazioni sotto copertura Cfr. sub art. 317. La concessione dei benefici penitenziariCfr. sub art. 317. BibliografiaAndreazza-Pistorelli, Relazione sulla Legge 6 novembre 2012, n. 190, in cortedicassazione.it; Bartoli, Il nuovo assetto della tutela a contrasto del fenomeno corruttivo, in Dir. pen. e proc. 2013, 353; Cingari, La corruzione per l'esercizio della funzione, in Mattarella-Pelissero (a cura di), La nuova legge anticorruzione, Torino, 2013, 410; Davigo, Falso in bilancio, concussione e corruzione: l'esperienza giurisprudenziale, Bari, 1998; Gatta, Riforme della corruzione e della prescrizione del reato: il punto sulla situazione, in attesa dell’imminente approvazione definitiva, in Dir. pen. cont., 17 dicembre 2018; Grosso, Nodi controversi in tema di riforma dei delitti di corruzione e concussione, in Cass. pen. 1999, 3277; Padovani, La messa “a libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir. 2012, n. 48, 9; Pulitanò, Legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190), in Cass. pen., supplemento al volume LII, 2012; Pulitanò, Legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190), in Cass. pen., 2012, suppl. n. 11; Segreto-De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999; Spadaro-Pastore, Legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), Milano, 2012. |