Codice Penale art. 416 bis - Associazioni di tipo mafioso anche straniere 1 2 3 .[I]. Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni 4 [3052, 3062, 4162, 416-ter; 2753, 5, 2992, 3721-bis c.p.p.]. [II]. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni 5 [3051, 3, 3061, 3, 4161, 3; 2753, 5, 2992, 380 c.p.p.]. [III]. L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte [6283 n. 3] si avvalgono [629-bis] della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali [416-ter; 2753, 5, 2992 c.p.p.] 6. [IV]. Se l'associazione è armata [5852-3] si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma 7. [V]. L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti [5852-3], anche se occultate o tenute in luogo di deposito. [VI]. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. [VII]. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca [2402] delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego 8. [VIII]. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla 'ndrangheta 9 e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere 10, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.
[1] Articolo aggiunto dall'art. 1, l. 13 settembre 1982, n. 646. Per l'aumento delle pene, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, che ha sostituito l'art. 71 l. 31 maggio 1965, n. 575. Per la confisca di denaro, beni o altre utilità di non giustificata provenienza, in caso di condanna o applicazione della pena su richiesta, v. ora artt. 240-bis c.p., 85-bis d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 301, comma 5-bis,d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (per la precedente disciplina, v. l'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modif., in l. 7 agosto 1992, n. 356). [2] Rubrica sostituita dall'art. 1 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv., con modif., dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. La rubrica precedente recitava: «Associazione di tipo mafioso». [3] Vedi l'art. 7, comma 1, d.l. 15 settembre 2023, n. 123, conv., con modif., in l. 13 novembre 2023, n.159 che dispone che: «1. Quando, durante le indagini relative ai reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, emerge una situazione di pregiudizio che interessa un minorenne, il pubblico ministero ne informa il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, per le eventuali iniziative di competenza ai sensi dell'articolo 336 del codice civile.» [4] I limiti edittali previsti dal presente comma, originariamente fissati in tre e sei anni, sono stati innalzati dall'art. 12adella legge 5 dicembre 2005, n. 251 a cinque e dieci anni, successivamente a sette e dodici anni dall'art. 1 del d.l. n. 92, cit., conv., con modif., dalla legge n. 125, cit., e da dieci a quindici anni dall'art. 5, l. 27 maggio 2015, n. 69. [5] I limiti edittali stabiliti del presente comma, originariamente fissati in quattro e nove anni, sono stati una prima volta innalzati a sette e dodici anni dalla legge n. 251, cit., e successivamente portati a nove e quattordici anni dal d.l. n. 92, cit., conv., con modif. dalla legge n. 125, cit., e da dodici a diciotto anni dall'art. 5, l. n. 69 del 2015, cit. [7] Le parole «sette» e «quindici» sono state sostituite rispettivamente alle parole «quattro» e «dieci» e le parole «dieci» e «ventiquattro» sono state sostituite rispettivamente alle parole «cinque» e «quindici» dall'art. 12c l. n. 251, cit. Successivamente l'art. 1 del d.l. n. 92, cit., conv. con modif. dalla legge n. 125, cit., ha sostituito le parole «da sette» con le parole «da nove» e le parole «da dieci» con le parole «da quindici». Infine l'art. 5, l. n. 69 del 2015, cit. ha sostituito le parole: «da nove a quindici anni» con le parole: «da dodici a venti anni» e le parole: «da dodici a ventiquattro anni» con le parole : «da quindici a ventisei anni». [8] Comma modificato dall'art. 362l. 19 marzo 1990, n. 55. [9] Le parole «, alla 'ndrangheta» sono state aggiunte dall'art. 6 del d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, conv., con modif. dalla l. 31 marzo 2010, n. 50. Tale articolo 6 del d.l. n. 4 del 2010, risulterebbe abrogato dall'art. 120, comma 1, lett. c, del d.lg. 6 settembre 2011, n. 159. [10] Le parole «anche straniere» sono state aggiunte dall'art. 1 del d.l. n. 92, cit., conv. con modif. dalla legge n. 125, cit.
competenza: Trib. collegiale arresto: obbligatorio; v: art. 380, secondo comma lett. l bis, c.p.p. fermo: consentito custodia cautelare in carcere: consentita (ma v. art. 275, comma 3 c.p.p.) altre misure cautelari personali: consentite procedibilità: d'ufficio InquadramentoIl reato di associazione di tipo mafioso consiste nel promuovere, dirigere, organizzare ovvero partecipare a una struttura associativa composta da tre o più persone, che, sfruttando la condizione di assoggettamento e di omertà dell'ambiente in cui opera (a sua volta determinato dalla forza di intimidazione emanata dal vincolo associativo), si propone lo scopo di commettere delitti, ovvero di acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o di realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. La responsabilità in ordine al reato di associazione di tipo mafioso prescinde ed è del tutto autonoma dalla responsabilità per la commissione dei singoli reati-fine costituenti l'attuazione del programma criminoso dell'associazione. Il trattamento sanzionatorio dei promotori, dei dirigenti e degli organizzatori è più severo di quello previsto per i semplici partecipanti, ed è diversamente inasprito quando i partecipanti, per il conseguimento della finalità dell'associa zione, hanno la disponibilità di armi o di materie esplodenti (anche se occultate o tenute in luogo di deposito), ovvero quando le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti. Nei confronti del condannato per il reato in esame è obbligatoriamente disposta la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. Le disposizioni concernenti le associazioni di tipo mafioso si applicano anche alla camorra, alla 'ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che, valendosi della forza d'intimidazione del vincolo associativo, perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso, pur se non legate a tipologie criminologiche tradizionali legate a specifici ambiti territoriali. Soggetti
Soggetto attivo Il delitto in esame è un reato comune, che può essere commesso da chiunque. È altresì un reato (necessariamente) plurisoggettivo, potendo essere integrato unicamente dall'associazione di tre o più persone. In particolare, l'associazione di tipo mafioso deve ritenersi come un tipico reato a condotta plurima eterogenea, che unifica le diverse condotte poste in essere per la realizzazione degli scopi associativi (Spagnolo, 115). I problemi concernenti l'individuazione, le qualità e le modalità di considerazione dei soggetti computabili nel numero minimo previsto dalla norma per l'integrazione del reato di associazione di tipo mafioso devono ritenersi comuni a quelli propri dell'associazione per delinquere semplice (art. 416), al cui commento, pertanto, può integralmente rinviarsi. Bene giuridicoPur esprimendo ineludibili attitudini plurioffensive — essendo capace di minacciare, oltre al bene dell'ordine pubblico e a quello dell'ordine democratico, anche le condizioni che assicurano la libertà di mercato e d'iniziativa economica (Fiandaca e Musco, 493), l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (Flick, 853) — il reato di associazione di tipo mafioso deve ritenersi fondamentalmente legato alla tutela dell'ordine pubblico (su cui v. sub art. 416), nella duplice dimensione d'indole oggettiva — quale complesso delle condizioni che garantiscono la sicurezza e la tranquillità comune — e soggettiva, come libertà morale della popolazione di determinarsi liberamente nelle decisioni e nelle scelte, al riparo dalla costrizione indotta da qualsivoglia organismo stabilmente costituito per infrangere la legge penale e per trarre da ciò profitto (v. De Liguori, 1717; Ingroia, 89; De Vero, 290; Spagnolo, 103; Turone, 267). Al riguardo, si è segnalato come l'inclinazione a dislocare su piani sempre più elevati il bene giuridico tutelato dall'art. 416-bis comporti inevitabilmente il rischio (oltre che di determinare un'inaccettabile sovrapposizione sistematica di oggetti distinti di tutela) di ingenerare, sul piano applicativo, dilatazioni incongrue dell'area di responsabilità, inducendo a comprovare per via giudiziaria la necessaria connotazione politica della criminalità mafiosa; viceversa, la rivendicazione, al reato di associazione ex art. 416-bis, di una dimensione criminosa più ancorata al contesto della sistematica compressione della libertà morale di una pluralità di consociati, vale a suonare anche come monito all'interprete, affinché si avvalga di questo strumento d'incriminazione penale nel rigoroso rispetto delle garanzie di diritto penale sostanziale e processuale, in vista della tenuta complessiva dell'intero sistema penale (De Vero, 115-117). Le incertezze che caratterizzano una definita identificazione degli interessi tutelati dalla norma in esame paiono ripetersi in relazione alle difficoltà d'individuazione di un soddisfacente punto di equilibrio nel grado di anticipazione della repressione penale, trovando un significativo riscontro nel carattere oscillante di talune interpretazioni giudiziarie, inclini, da un lato, a rimarcare come, al fine di qualificare come mafiosa un'organizzazione criminale, sia necessaria la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all'organismo criminale, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori (Cass., I, n. 5888/2012); e, dall'altro, viceversa, a sottolineare come la qualifica di mafioso di un sodalizio si configuri solo nel momento in cui esso sia in grado di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile capace di piegare ai propri fini la volontà dei destinatari, sì che occorrerà rilevare, sul piano statico, l'attualità, e non la sola potenzialità, della capacità intimidatrice dell'organizzazione alla quale dovrà corrispondere un alone di intimidazione diffuso effettivo e obiettivamente riscontrabile, e sul piano dinamico, quale elemento indefettibile della fattispecie, una condotta rappresentativa della volontà di realizzare il programma sociale perseguito, di servirsi cioè dell'acquisita capacità intimidatrice, ricorrendo nel caso, ove necessario, al compimento di concreti atti intimidativi (Cass., I, n. 25242/2011). L'ineludibilità del riscontro di tali caratteri — espressivi di una capacità d'intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile — è stato inoltre esteso alla verifica della natura mafiosa di eventuali diramazioni geografiche di un'associazione di cui all'art. 416-bis, costituita fuori dal territorio di origine di quest'ultima (Cass., II, n. 34147/2015; Cass., VI, n. 34874/2015). Persona offesa e danneggiato . Si è ritenuto che, ai fini del conseguimento della riabilitazione in relazione al reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, è onere del condannato, per realizzare la condizione dell'avvenuto adempimento delle obbligazioni civili che non risultino già individuate ex actis, sollecitare il Comune nel cui territorio l'organizzazione criminale si è insediata, anche se non costituitosi parte civile, a provvedere alla stima del danno ad esso arrecato, in quanto sicuramente valutabile in modo equitativo in relazione alla gravità della lesione determinata per l'interesse della collettività (Cass. VII, n. 2903/2015). Cfr. anche sub art. 416. Materialità
Caratteri dell'associazione di tipo mafioso L'esistenza di un'associazione mafiosa prevede necessariamente la realizzazione di una struttura organizzativa, intesa come esistenza stabile e permanente di un organismo capace di perpetuarsi nel tempo in modo del tutto autonomo rispetto all'attività preparatoria ed esecutiva dei delitti-fine (De Francesco, 107, 120; De Francesco, 291; Ingroia, 22), nonché idonea a realizzare gli obiettivi criminosi delineati dalla norma in commento (Turone, 159). In termini generali, la configurabilità di un'ipotesi di associazione di tipo mafioso si avrà là dove il sodalizio si sia radicato in uno specifico contesto spaziale, mutuando dai clan mafiosi tradizionali, operanti in altre aree geografiche, i ruoli, i rituali di affiliazione e il relativo livello organizzativo, agendo in concreto, all'interno dell'ambiente in cui opera, attraverso l'esteriorizzazione di un'effettiva forza intimidatrice rivolta verso i propri sodali e verso i terzi vittime dei reati-fine, che si traduce in forme concrete di omertà e di assoggettamento (Cass. II, n. 25360/2015; Cass. VI, n. 30059/2014). La federazione tra gruppi criminali può dar luogo ad una struttura del tutto nuova ed autonoma solo se vi è prova che sia scaturita da un diverso patto criminale oppure che quella originaria abbia cessato di esistere (Cass. II, n. 31541/2017; fattispecie riguardante la “camorra”, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del c.d. "gruppo misto" nell'alleanza insorta tra le famiglie criminali Bidognetti, Mallardo e Licciardi, in considerazione del carattere temporaneo di tale alleanza). Ai fini dell'individuazione di un sodalizio di tipo mafioso, deve ritenersi determinante il ricorso dell'elemento personale (con la distribuzione gerarchica dei ruoli), l'esistenza di una specifica struttura organizzativa e logistica, l'ambito territoriale e la tipologia dei reati-fine in conformità alle descrizioni tipiche della norma (Cass., V, n. 5143/2010). La presenza, tra gli affiliati, di persone già condannate per delitti di mafia, non costituisce un elemento decisivo ai fini della configurazione del sodalizio come mafioso, salvo che la specifica caratura mafiosa del singolo soggetto non si sia trasmessa all'intera struttura associativa (Cass. I, n. 25242/2011). La forza intimidatrice, che costituisce l'aspetto caratterizzante dell'associazione mafiosa, presenta di regola aspetti di durata nel tempo, di sistematicità e di diffusività, differenziandosi in ciò dal timore ingenerato occasionalmente da un'associazione di semplici estorsori (in dottrina Fiandaca, 307). Dall'intimidazione dell'associazione devono conseguire i fenomeni dell'assoggettamento (inteso come la condizione di succubanza, di costrizione, di soggezione in capo ai soggetti estranei all'organismo criminale, i quali, privati della piena libertà di decisione, possono essere indotti, per paura, ad assumere comportamenti conformi alle pretese e alle finalità dell'associazione) e dell'omertà (quale aspetto particolare dell'assoggettamento, consistente nell'indisponibilità a prestare qualsiasi collaborazione a favore degli organi della giustizia). I fenomeni dell'assoggettamento e dell'omertà devono ritenersi collegati all'intimidazione mafiosa da un diretto nesso di derivazione causale (com'è evidenziato dalla locuzione "che ne deriva” utilizzata dal legislatore), sì che in assenza di tale nesso, l'eventuale generalizzata condizione di soggezione sociale e di omertà, pur significativa di un grave malessere sociale, non varrebbe a integrare gli estremi di tipicità della fattispecie (Ingroia, 75). Nel solco dell'interpretazione incline a ravvisare nella fattispecie delittuosa in esame una dimensione concreta ed effettiva della capacità d'intimidazione, si è ribadito come, connotandosi l'associazione di tipo mafioso (rispetto all'associazione per delinquere) per la sua “naturale” tendenza a proiettarsi verso l'esterno (per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande e per l'assoggettamento e l'omertà che è in grado di determinare diffusivamente nella collettività insediata nell'area di operatività del sodalizio), i caratteri dell'assoggettamento e dell'omertà devono essere riferiti ai soggetti nei cui confronti si dirige l'azione delittuosa, in quanto essi vengono a trovarsi, per effetto della convinzione di essere esposti al pericolo senza alcuna possibilità di difesa, in stato di soggezione psicologica e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione. Pertanto, la diffusività di tale forza intimidatrice non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell'associazione, ma dev'essere effettuale e quindi manifestarsi concretamente, con il compimento di atti concreti, sì che è necessario che di essa l'associazione si avvalga in concreto nei confronti della comunità in cui è radicata, come di un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice e intimidatrice del gruppo (Cass. I, n. 35627/2012). In tal senso, dunque, il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione quale forma di condotta positiva, come si evince dall'uso del termine ‘avvalersi' contenuto nell'articolo in commento, ed esso può avere le più diverse manifestazioni, purché l'intimidazione si traduca in atti specifici, riferibili a uno o più soggetti (Cass. II, n. 31512/2012); l'associazione di tipo mafioso si connota, in particolare, per l'utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo che si manifesta internamente attraverso l'adozione di uno stretto regime di controllo degli associati, ma che si proietta anche all'esterno attraverso un'opera di controllo del territorio e di prevaricazione nei confronti di chi vi abita, tale da determinare uno stato di soggezione e di omertà non solo nei confronti degli onesti cittadini, nei riguardi dei quali si dirige l'attività delittuosa, ma anche nei confronti di coloro che abbiano intenti illeciti, costringendoli ad aderire al sodalizio criminale (Cass. II, n. 18773/2017). L'avvalersi della forza intimidatrice può pertanto esplicarsi, sia limitandosi a sfruttare la carica di pressione già conseguita dal sodalizio (rendendo così evidente che il sodalizio già è pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice sulla base del vincolo e del suo manifestarsi, in quanto tale, all'esterno), sia ponendo in essere nuovi atti di violenza e di minaccia (o più compiutamente di intimidazione), che, peraltro, non devono realizzare l'effetto di per sé soli, ma in quanto espressione rafforzativa della precedente capacità intimidatrice già conseguita dal sodalizio (Cass. VI n. 7627/1996). La forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, e che il riflesso esterno dell'attività associativa, in termini di assoggettamento, non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale (Cass. VI, n. 24535/2015); la forza di intimidazione che caratterizza il vincolo associativo non deve necessariamente essere esternata attraverso specifici atti di minaccia e violenza da parte dell'associazione o dei singoli soggetti che ad essa fanno riferimento, potendosi desumere anche dal compimento di atti che, sebbene non violenti, siano evocativi dell'esistenza attuale, della fama negativa e del prestigio criminale dell'associazione, ovvero da altre circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacita attuale del sodalizio, o di coloro che ad essa si richiamano, di incutere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività abbia dell'efficienza del gruppo criminale nell'esercizio della coercizione fisica (Cass. VI, n. 28212/2018, con la precisazione che la violenza e la minaccia rivestono natura strumentale rispetto alla forza d'intimidazione e ne costituiscono un accessorio eventuale, sotteso, diffuso e percepibile). Quanto alla nozione di omertà, è necessario che la stessa risulti sufficientemente diffusa, anche se non generale, e può derivare non solo dalla paura di danni alla propria persona, ma anche dall'attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti, di modo che sia diffusa la convinzione che la collaborazione con l'autorità giudiziaria non impedirà ritorsioni dannose per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell'organizzazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi (Cass. n. 44315/2013). Tra le possibili ritorsioni, che portano a un assoggettamento e alla necessità dell'omertà, vi è anche quella che possa mettere a rischio la pratica possibilità di continuare a lavorare e apra la prospettiva allarmante di dovere chiudere la propria impresa, perché altri, partecipanti all'associazione o da essa influenzati, hanno la concreta possibilità di escludere dagli appalti colui che si è ribellato alle pretese. A tale ultimo fine non è necessario che le conseguenze minacciate si verifichino, ma è sufficiente che esse ingenerino il ragionevole timore che induca al silenzio e all'omertà (Cass., VI, n. 11204/1989). Una decisione ha osservato che la capacità intimidatrice deve essere impersonalmente riferita al gruppo, non potendosi desumere dal prestigio criminale di taluno degli associati (Cass. VI, n. 9001/2020: fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, evidenziando che il sodalizio, composto da soli tre affiliati, non aveva collegamenti con altre organizzazioni criminali operanti sul territorio ed era privo di una propria capacità intimidatrice). Il giudice, pur nell'autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, può dedurre la prova dell'esistenza del sodalizio mafioso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive (atteso che attraverso essi si manifesta in concreto l'operatività dell'associazione medesima: Cass. S.U., n. 10/2001; Cass. II, 19435/2016); peraltro, il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine, purché l'organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino concretamente presagire la prossima realizzazione (Cass. II, n. 4304/2012). La ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso (già prevista dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, ed ora trasfusa - in applicazione del principio della riserva di legge - nel nuovo art. 416-bis.1 c.p.) in relazione a taluni reati-fine di un reato associativo comune, non determina di per sè il carattere mafioso dell'associazione finalizzata alla commissione degli stessi (Cass. VI, n. 40548/2017). Un'associazione a delinquere può avere origine nei vincoli di parentela, amicizia e ‘clientela' che normalmente intercorrono fra i membri di una medesima famiglia e che diventano patologici quando li inducono a ingaggiare faide sanguinarie con famiglie antagoniste, destinate a protrarsi per un tempo indeterminato, dovendosi distinguere fra la vendetta, intesa quale movente di un singolo delitto contro la persona, e la programmazione di una serie indeterminata di delitti contro la persona, da commettere indiscriminatamente in danno di appartenenti all'opposta famiglia, ciascuno dei quali collegato a un precedente delitto attribuito alla famiglia avversaria (Cass. VI, n. 53118/2014). Una recente decisione (Cass. V, n. 12753/2024) ha osservato che la mera "contiguità compiacente", anche caratterizzata da atteggiamenti di fascinazione verso un determinato apparato mafioso o di ammirazione verso i partecipi o i capi del gruppo, non costituisce comportamento sufficiente a integrare la condotta di partecipazione all'organizzazione, ove non sia dimostrato che la vicinanza a soggetti mafiosi si sia tradotta in un vero e proprio contributo, avente effettiva rilevanza causale, alla conservazione o al rafforzamento della consorteria. Non comportano soluzione di continuità nella vita dell'organizzazione criminosa: a) l'eventuale variazione della compagine associativa per la successiva adesione di nuovi membri all'accordo originario o per la rescissione del rapporto di affiliazione da parte di alcuni sodali; b) l'estensione dell'attività criminosa alla commissione di reati di altra specie; c) l'ampliamento dell'ambito territoriale di operatività (Cass. II, n. 28644/2012). Mafie straniere Il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile con riferimento a sodalizi criminosi a matrice straniera che, pur non avendo l'indiscriminato controllo del territorio sul quale operano, siano in grado di esercitare la forza di intimidazione nei confronti degli appartenenti ad una comunità etnica ivi insediata, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione che promana dal vincolo associativo, a nulla rilevando che la percezione di tale potere criminale non sia generalizzata nel territorio di riferimento (Cass. VI, n. 37081/2020: la S.C. ha precisato che la mancanza di attitudine del sodalizio ad estendere la sua capacità di intimidazione nella comunità nazionale e l'acquisizione di un potere impositivo sulla sola comunità nigeriana non escludessero il connotato della "mafiosità"). Detto reato è configurabile anche con riferimento a sodalizi criminosi a matrice straniera costituiti prima dell'entrata in vigore della l. n. 125/2008, di conversione in legge del d.l. n. 92/2008 (che ha introdotto l'inciso « anche straniere » nell'ultimo comma dell'articolo in esame), in quanto essa non ha inserito un elemento di novità nel tessuto legislativo preesistente, ma ha solo adeguato la normativa a un dato già chiaro e conseguito per via di interpretazione (Cass. I, n. 24803/2010). Delocalizzazione di mafie storiche e nuove mafie In giurisprudenza esistono oscillazioni in ordine al carattere concreto ed effettivo della forza d'intimidazione esteriorizzata dal sodalizio criminoso, che conseguono alle divergenti qualificazioni della natura giuridica (quale reato di danno o di pericolo) della fattispecie di reato in esame: il problema rileva, nella prassi giurisprudenziale, per quanto riguarda la configurazione del reato di cui all'art. 416-bis in riferimento a fenomeni di delocalizzazione di mafie storiche ed a nuove mafie, diverse da quelle storiche. Un orientamento ritiene configurabile il reato di cui all'art. 416-bis — con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell'area tradizionale di competenza —, non solo in difetto della commissione di reati-fine, bensì anche in mancanza di alcuna esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella ‘madre' del sodalizio di riferimento, e il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico (Cass. II, n. 24850/2017; conforme, Cass. V, n. 28722/2018: quest'ultima decisione, con riferimento all'articolazione in una cittadina svizzera di un clan della ‘ndrangheta radicato in Calabria - ha osservato che i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della ‘ndrangheta anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria). Diverso sarebbe, invece, il caso di una neoformazione che si presenti quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie di cui all'art. 416-bis, tra cui la manifestazione all'esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell'ambiente circostante (Cass. II, n. 24850/2017). A parere di altro orientamento, al contrario, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un'associazione ex art. 416-bis, costituita fuori dal territorio di origine di quest'ultima, è necessario che l'articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile (Cass. I, n. 55359/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva qualificato una organizzazione operante in Germania come mafiosa, in assenza di prova dell'esternazione in loco della metodologia mafiosa, ma sulla base soltanto del collegamento degli imputati con esponenti della 'ndrangheta calabrese e dell'adozione dei rituali tipici di quest'ultima). Nell'ambito dello stesso orientamento, si è precisato che la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici, può essere desunta da indicatori fattuali come le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi e il conflitto con le tradizionali associazioni operanti sul territorio, purché detti indici denotino la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione che dimostrano la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva (Cass. VI, n. 27094/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio l'ordinanza che aveva escluso l'esistenza della gravità indiziaria del reato di cui all'art. 416-bis con riferimento ad una nuova formazione delinquenziale, in difetto dell'accertamento che essa si fosse proposta sul territorio ingenerando il clima di generale soggezione che ne giustifica la qualificazione mafiosa). In argomento, si è, da ultimo, condivisibilmente osservato che il reato di cui all'art. 416-bis è configurabile, con riferimento ad un'articolazione territoriale di una mafia storica, allorché la stessa, per effetto del collegamento organico-funzionale con la casa-madre, dotato del carattere della riconoscibilità esterna e non limitato, pertanto, a forme di collegamento che si consumino soltanto al suo interno sul piano dell'adozione di moduli organizzativi e di rituali di adesione, si avvalga di una forza di intimidazione intrinseca che, pur non necessitando di forme di esteriorizzazione del metodo mafioso, non consiste nella mera potenzialità, non esercitata e quindi meramente presuntiva, dell'impiego della forza, ma nell'avvalersi della fama criminale ereditata dalla casa-madre, e da quest'ultimaconseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico e originario insediamento (Cass. II, n. 31920/2021; Cass. II, n. 12362/2021, per la quale, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 416-bis in relazione ad una articolazione periferica – o "locale" - di 'ndrangheta, associazione attiva nel territorio della Calabria, non è necessario dimostrarne in concreto la capacità intimidatoria mafiosa, essendo sufficiente provare che il "locale" appartenga alla più generale struttura di 'ndrangheta, da cui mutua il potere di egemonizzazione criminale sul territorio di pertinenza, riconosciuto ex lege in forza del disposto di cui all'ultimo comma del predetto articolo; (Cass. I, n. 51489/2019, in fattispecie riguardante una cosca tedesca di ‘ndrangheta: la S.C. ha precisato che un raccordo con la casa-madre non definito sul piano funzionale sarebbe insufficiente - proprio perché confinato nei cd. interna corporis del gruppo - a porsi come occasione per la proiezione all'esterno della nuova realtà criminale, impedendone la percezione sul territorio sotto il profilo della capacità di condizionamento mafioso del contesto sociale ed economico). Il reato di cui all'art. 416-bis è configurabile con riguardo a una nuova articolazione periferica (segnatamente un locale di 'ndrangheta) di un sodalizio mafioso operante in un'area caratterizzata da particolare vastità spaziale e sociale (nella specie, la città di Roma), anche laddove non sia replicato il peculiare modello di insediamento dell'associazione mafiosa di riferimento, qualora (Cass. II, n. 47538/2022): - emerga il collegamento della nuova struttura, pur dotata di autonomia organizzativa, con tale sodalizio; - la nuova struttura svolga un'attività destinata ad "occupare" aree produttive e di mercato, inquinando il relativo tessuto sociale-economico e sia mossa dalle stesse logiche dell'associazione di riferimento; - il suo modulo organizzativo replichi i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando presagire il pericolo per l'ordine pubblico; - vi sia dotazione di mezzi idonei a sprigionare nel nuovo contesto una forza intimidatrice propria, dotata di effettività e obiettivamente riscontrabile; - vi sia la spendita, anche nei confronti di altre organizzazioni criminali presenti sul territorio, della fama criminale conseguita nei territori di storico e originario insediamento. Con riguardo alle associazioni di nuova costituzione, si è anche osservato che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 416-bis, è necessario che l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio (Cass. VI, n. 41772/2017, con la precisazione che gli eventuali atti di violenza e minaccia posti in essere da un'associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all'assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all'art. 416-bis). In argomento, si è, infine, ritenuto che il reato previsto dall'art. 416-bis è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette “tradizionali”, anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti, che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare, sia pur in un ambito territoriale circoscritto, una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa (Cass. VI, n. 57896/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza che aveva derubricato il reato di cui all'art. 416-bis in quello di cui all'art. 416, per non aver considerato adeguatamente che l'associazione criminale, pur operando in un ristretto territorio, si caratterizzava per l'indiscussa forza intimidatrice, generata anche mediante il ricorso abituale a condotte violente ed all'uso di armi, tale da indurre un generale atteggiamento omertoso tenuto dai testimoni in dibattimento e desumibile dall'assenza di denunce e di forme di collaborazione da parte delle persone offese). Una successiva decisione (Cass. V, n. 15041/2019) ha ritenuto che, con riferimento a nuove articolazioni di sodalizi mafiosi “storici” formatesi in territori diversi da quello tradizionalmente d'influenza (il fenomeno riguarda le cc.dd. “locali” della ‘ndrangheta), il reato in esame è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora sia dimostrata l'esistenza di un collegamento tra la nuova struttura extraterritoriale ed il sodalizio-madre, e la prima presenti il medesimo modulo organizzativo del secondo (rituali di affiliazione, distinzione in ruoli, imposizione di rigide regole interne, sistematico sostegno ai sodali incarcerati), creando in tal modo il necessario pericolo per l'ordine pubblico. Peraltro, nel caso esaminato, la disquisizione è stata meramente teorica, in quanto la “locale” di ‘ndrangheta operante in Emilia si era resa responsabile di numerose estorsioni in danno di imprenditori, calabresi e non, operanti in zona, ed aveva, quindi, fatto effettivamente impiego del metodo mafioso, esteriorizzandosi. In argomento, la giurisprudenza (Cass. VI, n. 18125/2020, in riferimento a “mafia capitale”) ha anche osservato che, ai fini della qualificazione ai sensi dell'art. 416-bis di una nuova ed autonoma formazione criminale è necessario accertare se il sodalizio: a) abbia conseguito fama e prestigio criminale, autonomi e distinti da quelli personali dei singoli partecipi, in guisa da esser capace di conservarli anche nel caso in cui questi ultimi fossero resi innocui; b) abbia in concreto manifestato capacità di intimidazione, ancorché non necessariamente attraverso atti di violenza o di minaccia, nell'ambito oggettivo e soggettivo, pur eventualmente circoscritto, di effettiva operatività; c) abbia manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale ed abbia conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel "territorio" in cui l'associazione è attiva. Altri indici all'uopo valutabili sono stati considerati: — le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo; — la disponibilità di armi; — l'esercizio di una forza intimidatoria derivante dal vincolo associativo; — il riconoscimento, da parte dell'associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente (Cass. VI, n. 42369/2019: fattispecie in cui, dalle intercettazioni telefoniche, risultava che esponenti del gruppo “storico”, nonostante il consolidato predominio sul territorio, manifestavano preoccupazione per la contrapposizione con il gruppo emergente, attese la capacità di quest'ultimo di subentrare nel controllo delle attività illecite e la comprovata forza intimidatrice della nuova formazione). Va, infine, segnalata una recentissima, articolata decisione (Cass. II, n. 47358/2022), che ha ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 416-bis c.p. con riguardo ad una nuova articolazione territoriale periferica (c.d. locale) della ‘ndrangheta operante nella città di Roma che non replicava il tipico modello di insediamento del sodalizio storico di riferimento, valorizzando all'uopo i seguenti indici: - collegamento della nuova articolazione (pur dotata di autonomia organizzativa) con il sodalizio storico; - svolgimento da parte della nuova articolazione di attività nel settore di aree produttive e di mercato, inquinando il relativo tessuto socio-economico secondo le logiche del sodalizio storico; - adozione da parte della nuova articolazione di un modulo organizzativo che riproduce quello del sodalizio storico, ed ingeneri concreto pericolo per l'ordine pubblico; - disponibilità da parte della nuova articolazione di mezzi idonei ad esercitare, nel contesto territoriale delocalizzato di riferimento, una forza intimidatrice propria, effettiva e riscontrabile, anche a prescindere dal collegamento con il sodalizio storico; - spendita da parte della nuova articolazione, nei confronti degli ulteriori sodalizi criminali operanti nel contesto territoriale delocalizzato di riferimento, della fama criminale conseguita dal sodalizio storico nei luoghi ove esso è tradizionalmente operante. Una più recente decisione (Cass. V, n. 14403/2024) ha osservato che, in relazione alle associazioni di tipo mafioso delocalizzate, costituite cioè al di fuori dei territori di origine delle "mafie storiche", la configurabilità del delitto di cui all'art. 416-bis non richiede necessarie forme di esteriorizzazione della forza intimidatrice, caratterizzanti il sodalizio mafioso, in quanto la forza d'intimidazione posseduta e la tangibile percezione della stessa sul territorio di riferimento, in termini di assoggettamento e omertà, possono desumersi dalla replica del modulo organizzativo e dai tratti distintivi della "casa madre", con la quale mantengono uno stretto legame. Gli scopi dell'associazione mafiosa La struttura tipica del reato associativo in esame prevede che la consorteria criminale sia diretta, tanto alla generica commissione di delitti, quanto (e soprattutto) alla gestione o comunque al controllo di attività economiche appartenenti al settore privato, ovvero governate o coordinate dalla pubblica amministrazione attraverso gli strumenti, provvedimentali (di carattere concessorio o autorizzativo) o negoziali (appalti o servizi pubblici) indispensabili per il relativo esercizio. La finalità perseguita da un'associazione di tipo mafioso, può peraltro consistere anche nella commissione di reati per realizzare “vantaggi ingiusti di natura non economica” (Cass. I, n. 16353/2014). Il termine ‘controllo', in relazione ai provvedimenti amministrativi, deve intendersi come sinonimo della capacità degli associati di condizionare l'attività degli organi della pubblica amministrazione, non soltanto e non tanto con l'esercizio della pressione diretta su questi ultimi, ma soprattutto con lo scoraggiare, attraverso l'aura intimidatoria, la partecipazione di eventuali concorrenti alle gare di appalto o alle richieste di concessioni (Turone, 202). Costituiscono ulteriori finalità dell'associazione mafiosa quelle relative alla realizzazione, per sé o per altri, di profitti o vantaggi ingiusti, esemplificativamente individuabili: negli atti amministrativi illegittimi o inopportuni nel merito, che concedano finanziamenti o comunque erogazioni di denaro pubblico; nelle assunzioni di pubblici dipendenti in base a raccomandazioni di esponenti mafiosi, che ridondano in vantaggio per il sodalizio illecito in virtù dell'accresciuto consenso sociale; nell'esercizio di case da giuoco non autorizzate; nelle rendite di posizione derivanti dalla lesione di previsioni normative a tutela dei diritti dei lavoratori; nelle distorsioni dell'economia di mercato derivanti dal condizionamento della volontà contrattuale altrui o dall'inadempimento di obbligazioni (Turone, 228). La previsione della finalità di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali è stata inserita dall'art. 11-bis, d.l. n. 306/92, conv. nella l. n. 356/1992. Tale ultima disposizione chiede d'essere coordinata con le fattispecie di coercizione elettorale (disciplinato dall'art. 97, d.P.R. n. 361/1957) o di corruzione elettorale (prevista dall'art. 96 dello stesso decreto), nonché con la fattispecie di cui all'art. 416-ter (introdotta con l'art. 11 ter, d.l. n. 306/92 cit.): al riguardo v. sub art. 416-ter. Con riguardo alla dimensione finalistica dell'associazione, peraltro, varrà sottolineare come la tipicità del modello associativo delineato dall'art. 416-bis risieda propriamente nella modalità attraverso cui l'associazione si manifesta in concreto (modalità che si esprimono nel concetto di ‘metodo mafioso') e non già negli scopi che s'intendono perseguire (scopi che la legge descrive in modo esplicito e che devono intendersi in senso alternativo e non cumulativo). Tali scopi abbracciano solo genericamente “i delitti”, comprendendo una varietà indeterminata di possibili tipologie di condotte, che possono essere costituite da attività lecite, tanto che una sola delle possibili finalità dell'associazione mafiosa è comune all'associazione per delinquere ordinaria (la commissione di delitti). Non è, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del delitto, che i predetti scopi siano effettivamente raggiunti (Cass., VI, n. 1612/2000). Una più recente decisione (Cass. II, n. 31920/2021) ha evidenziato che l'associazione di tipo mafioso non è necessariamente destinata alla commissione di delitti, ma può anche essere diretta a realizzare, avvalendosi della particolare forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi indicati dall'art. 416-bis fra i quali quello della realizzazione di profitti ingiusti per sé o per altri; nel caso esaminato, l'associazione mirava a controllare una serie di società coinvolte nella gestione dei rifiuti che rappresentavano lo strumento per acquisire appalti pubblici e privati con illecite modalità). Modalità della condotta: ruoli verticistici Le condotte che integrano il reato in commento consistono, alternativamente, nella promozione, organizzazione, direzione o partecipazione a un'associazione avente come scopo la realizzazione delle condotte illecite richiamate dalla norma in commento, avvalendosi strumentalmente dei mezzi violenti ivi descritti. La norma non contempla l'ipotesi dell'associarsi o della condotta di ‘costituzione', a differenza di quel che accade per altre fattispecie associative (cfr. artt. 305,306, 416). In relazione alla peculiarità del delitto di associazione mafiosa, invero, sarebbe irrealistico ipotizzare il delitto nel contegno di coloro che decidessero di associarsi o di costituire ex novo un'associazione, poiché la mafiosità postula lo sfruttamento di un patrimonio criminale pregresso. In tal senso, si è ritenuto che il momento costitutivo dell'associazione ex art. 416-bis sia, normalmente, indiscernibile (Turone, 291). Le diverse figure criminose indicate devono ritenersi di carattere alternativo e autonome, avendo in comune tra loro il solo riferimento a una associazione di tipo mafioso; da ciò discendendo che le condotte del promotore o del capo (così come quella dell'organizzatore) costituiscono figure autonome di reato e non circostanze aggravanti della semplice partecipazione all'associazione medesima (Cass. II, n. 31775/2023; Cass., V, n. 8430/2014; Cass., II, n. 40254/2014). Vedi sul punto anche sub art. 416. In linea generale, l'identificazione e le questioni interpretative sollevate dalle figure del promotore, dell'organizzatore, del dirigente e del partecipante devono ritenersi comuni a quelle proprie dell'associazione per delinquere semplice (art. 416), al cui commento, pertanto, può integralmente rinviarsi. Ai fini della configurabilità del reato di promozione, di direzione o di organizzazione del gruppo criminale è necessario che un ruolo apicale o una posizione dirigenziale, risultino in concreto esercitati (Cass., I, n. 3137/2014), dovendo escludersi l'attribuibilità della posizione di vertice (pur formalmente assegnata all'imputato all'interno della consorteria) qualora la stessa non sia stata in concreto esercitata (Cass., VI, n. 19191/2013); per l'attribuzione della qualifica di capo, è necessaria la verifica dell'effettivo esercizio del ruolo di vertice che lo renda riconoscibile, sia pure sotto l'aspetto sintomatico, sia all'esterno, che nell'ambito del sodalizio, realizzando un effettivo risultato di assoggettamento interno (Cass. VI, n. 40530/2017). Si è ritenuto che la titolarità di una "piazza di spaccio" per conto di una famiglia criminale confederata in un unitario e più ampio sodalizio mafioso può costituire elemento indicativo della posizione apicale dell'imputato nell'ambito di quest'ultimo, quando risulti che il ruolo egemone dispiegato dall'imputato nella gestione dell'attività di traffico degli stupefacenti si è riflesso sul livello del suo inserimento nel sodalizio mafioso (Cass. V, n. 33186/2019). La giurisprudenza più recente ha chiarito che "capo" è non solo il vertice dell'organizzazione, quando questo esista, ma anche colui che abbia incarichi direttivi e risolutivi nella vita del gruppo criminale e nel suo esplicarsi quotidiano in relazione ai propositi delinquenziali realizzati (Cass. II, n. 7839/2021: in sede cautelare, è stata riconosciuta la qualifica di “capo” all'indagato che risultava svolgere il ruolo di risolutore di controversie di portata rilevante, in materia di assegnazione di zone di competenza, per la realizzazione di lavori edili ed attività di "movimento terra"). Con riferimento alla “camorra”, si è ritenuto che il ruolo direttivo e la funzione di capo vanno riconosciuti solo a chi risulti al vertice di una entità criminale autonoma, sia essa famiglia, cosca o "clan", dotata di propri membri e regole, mentre il ruolo di organizzatore solo a chi sia posto a capo di un settore delle attività illecite del gruppo criminale con poteri decisionali e deliberativi autonomi (Cass. II, n. 20098/2020: la S.C. ha escluso la qualifica di organizzatore al "braccio destro" di un capo-clan camorristico, che, nonostante operasse quale interfaccia con gli esecutori materiali delle estorsioni, non risultava aver in concreto svolto attività volta ad apprestare la struttura operativa di quel settore criminale, individuando le vittime, fissando le somme da richiedere, distribuendo i compiti esecutivi tra gli associati e ricevendo sistematicamente i profitti illeciti realizzati). Risponde del più grave delitto di cui all'art. 416-bis, comma secondo, il reggente di una cosca di 'ndrangheta nominato sostituto dal capo cosca detenuto e da questi incaricato delle trattative con gli esponenti di altri gruppi criminali per la spartizione dei profitti illeciti ovvero di portare a termine le attività estorsive indicategli, rivestendo le funzioni di guida e di comando proprie del capo, nonché quelle dell'organizzatore che provvede ad assicurare il funzionamento e l'operatività del sodalizio criminale (Cass. II, n. 4822/2023). La mera partecipazione Quanto alla figura del partecipe, va sottolineato come il vincolo associativo tra il singolo e l'organizzazione sia destinato necessariamente a instaurarsi nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del carattere permanente della partecipazione soltanto l'avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli dell'età, del subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in luogo in cui si assume non essere operante il sodalizio criminoso (Cass. V, n. 1703/2013). In senso contrario, si è ritento che non è sempre necessario che il vincolo s'instauri nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell'organizzazione stessa, ben potendo, al contrario, assumere rilievo forme di partecipazione destinate, ab origine, a una durata limitata nel tempo e caratterizzata da una finalità che, oltre a comprendere l'obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso in relazione agli scopi propri di quest'ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell'ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della rilevanza penale (Cass. II, n. 16606/2011; Cass. V, n. 18756/2014). Questo orientamento è stato da ultimo ribadito da Cass. I, n. 5445/2020, per la quale integra il reato in oggetto anche una condotta partecipativa in concreto protrattasi per breve periodo. È configurabile il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa nell'ipotesi in cui l'autore della condotta svolga il ruolo di “alter ego” del soggetto di vertice di un gruppo mafioso, ponendo in essere attività di ausilio ed intermediazione nei suoi riguardi, con carattere continuativo e fiduciario, tali da risolversi in un contributo causale alla realizzazione del ruolo direttivo del sodalizio, nonché alla conservazione ed al rafforzamento di quest'ultimo (Cass. V, n. 35277/2017: nella specie, la S.C. ha escluso che la condotta potesse integrare il diverso reato di favoreggiamento personale). Devono ritenersi a tutti gli effetti responsabili del reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso i soggetti che abbiano assunto il ruolo di ‘avvicinati', e cioè che, pur non compartecipando ancora al patrimonio di conoscenze dell'organizzazione e non disponendo di potere deliberativo, si sono messi a disposizione del sodalizio mafioso e svolgono una sorta di apprendistato in attesa della piena affiliazione formale (Cass. I, n. 9091/2010; Cass. V, n. 1703/2013). Peraltro, la messa a disposizione dell'organizzazione criminale non può risolversi nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti di singoli associati, quand'anche di livello apicale, a servizio di loro interessi particolari, ma dev'essere incondizionatamente rivolta al sodalizio ed essere di natura e ampiezza tale da dimostrare l'adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio (Cass. I, n. 26331/2011). In generale, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trova in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo della associazione criminale, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Cass. V, n. 6882/2015; Cass. II, n. 53675/2014 ). In tal senso, ciò che rileva – posta l'esistenza, di fatto, della struttura delinquenziale prevista dalla legge – è l'innestarsi del contributo apportato dal singolo agente nella prospettiva del perseguimento dello scopo comune, ovvero dell'attività delittuosa conforme al piano associativo, a nulla valendo la considerazione che del detto soggetto hanno gli altri componenti l'associazione mafiosa (Cass. V, n. 13071/2014). La condotta di partecipazione consiste, pertanto, nel volontario dispiegamento di attività funzionali agli scopi del sodalizio e apprezzabili come concreto e causale contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso, a prescindere dai motivi dell'agire (Cass. VI, n. 3941/2016; Cass. I, n. 17206/2010 ). Peraltro, ai fini dell'integrazione della condotta di partecipazione non è necessario che l'agente si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire quale ‘uomo d'onore' (Cass. II, n. 23687/2012; Cass. V, n. 49793/2013). È senz'altro dominante l'orientamento per il quale integra la condotta di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso l'attività di trasmissione di messaggi tra membri influenti della medesima, in quanto essa inerisce al funzionamento dell'organismo criminale, sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l'attività di questo, sia sotto quello del mantenimento di canali informativi tra i suoi membri, che è incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell'associazione per delinquere (Cass. I, n. 13008/1998: fattispecie relativa alla consegna, da parte dell'imputato, a vari associati, di messaggi segreti); nel medesimo senso, successivamente, si è ritenuto che integra il delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa la condotta del soggetto che assolve il compito di far circolare ordini ed informazioni tra accoliti detenuti ed accoliti in libertà (Cass. II, n. 13506/2013: fattispecie relativa alla moglie del capo di una cosca ristretto da lungo tempo in carcere), nonché l'attività reiterata e non episodica di intermediazione nella trasmissione di messaggi scritti tra un affiliato in posizione di vertice detenuto ed altri associati in libertà, allorché sia identificato il contenuto dei messaggi, attinenti fatti illeciti o altre iniziative criminali, ovvero sia accertato che l'intermediario, pur non conoscendone il contenuto, abbia trasmesso le informazioni e le direttive del capo cosca ad altri affiliati o, comunque, abbia contattato altri sodali al fine di permettere la circolazione delle informazioni e delle direttive provenienti dal carcere. (Cass. II, n. 7872/2020, precisando che l'affermato principio di diritto comporta la necessità di individuare il soggetto autore del messaggio, l'intermediario ed, altresì, colui che riceve l'informazione, poiché, in assenza di tale ultimo anello della catena di trasmissione, potrebbe non ricorrere una condotta idonea a rafforzare il sodalizio criminoso). Si è anche ritenuto - con evidente identità di ratio - che integra il delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa, e non quelli meno gravi di assistenza agli associati o di favoreggiamento personale, la condotta di colui che curi sotto il profilo logistico la latitanza del capo del sodalizio, assicurandogli al contempo in maniera stabile la possibilità, per il suo tramite, di mantenere i contatti con gli altri associati e di continuare a dirigere l'organizzazione, perché detta condotta rende palese la volontà di agevolare non solo il soggetto latitante ma l'intera associazione (Cass. VI, n. 2533/2009). La giurisprudenza più recente (Cass. II, n. 41736/2018) ribadisce che la condotta dell'imputato, resosi non episodicamente, ma stabilmente, disponibile nell'ambito di un sodalizio di tipo mafioso, sia pur essenzialmente su base endofamiliare, a fungere da latore da e per il carcere – dove sia ristretto un prossimo congiunto (in particolare, ove trattisi di soggetto in posizione verticistica nell'ambito del sodalizio) – di messaggi in vario modo riguardanti la vita dello stesso sodalizio, integri la condotta di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, in quanto essa risulta causalmente inerente al funzionamento dell'organismo criminale de quo, sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l'attività di questo, sia sotto quello del mantenimento di canali informativi tra i suoi membri, che è incombenza di primaria importanza per il funzionamento del sodalizio; diversamente, non può ritenersi sufficiente ad integrare la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa la collaborazione episodicaalla trasmissione di messaggi scritti (c.d. pizzini) tra il capo cosca e soggetti affiliati alla stessa, richiedendosi, invece, un'attività di carattere continuativo e fiduciario di “veicolatore abituale di notizie”, idonea a fornire un contributo causale e volontario alla realizzazione dei fini del sodalizio criminale, nonché alla sua conservazione e rafforzamento (Cass. V, n. 26306/2018: fattispecie relativa alla consegna di messaggi in due sole occasioni, in cui la S.C. ha annullato con rinvio per difetto di motivazione l'ordinanza cautelare che non spiegava come aveva tratto da tale dato di fatto il convincimento della stabilità del contributo del ricorrente). Si è successivamente ribadito che integra il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso la condotta di chi offre il proprio contributo materiale, con carattere continuativo e fiduciario, ai fini della trasmissione di messaggi e direttive tra il soggetto in posizione apicale latitante e gli appartenenti alla consorteria in libertà, così da consentire al primo di continuare a dirigere l'associazione mafiosa, in quanto tale attività si risolve in un contributo causale alla realizzazione del ruolo direttivo del sodalizio nonché alla conservazione ed al rafforzamento di quest'ultimo (Cass. VI, n. 3595/2021). Sotto altro profilo, si è sottolineato come, al fine di configurare il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso a carico di un medico (in ragione dell'incondizionata disponibilità dallo stesso manifestata a prestare assistenza sanitaria a esponenti mafiosi), occorre rinvenire ed esplicitare concretamente le ragioni per cui la suddetta attività, lungi da rappresentare l'ottemperanza ineludibile di doveri deontologici e professionali (che impongono al medico l'obbligo di prestare cura ed assistenza a chiunque ne abbia bisogno), si traduca nella piena consapevolezza di prestare – e piegare strumentalmente – la sua istituzionale attività di servizio, in forma organica e funzionale, alle esigenze di una consorteria mafiosa, della quale condivida natura, ispirazione e linee strategiche al perseguimento di obiettivi di potere, da perseguire con ogni mezzo e ad ogni costo (Cass. V, n. 12679/2007). Integra il reato di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso anche la condotta di chi si fa intestare fittiziamente, in ripetute occasioni, beni immobili riconducibili alla compagine criminale (Cass. VI, n. 13444/2016). Integra la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso l'attività di “paciere” , svolta non occasionalmente da parte di esponenti di primo piano di una cosca, in ordine alla composizione di contrasti interni per fatti attinenti all'attività ed al funzionamento dell'organizzazione, avendo essa la funzione di assicurare la stabilità e la tenuta di quest'ultima (Cass. III, n. 25994/2020: fattispecie in cui l'attività di composizione del contrasto, previa convocazione e richiesta di rendiconto, avveniva tra membri di rilievo dell'organizzazione in merito al versamento dei ricavi derivanti dallo spaccio di stupefacenti). Deve viceversa escludersi l'integrazione della fattispecie criminosa di partecipazione ad associazione di tipo mafioso nel caso in cui l'attività spesa dal singolo sia meramente episodica, come quella di chi si limiti a fare da “paciere” o da “tramite” tra soggetti mafiosi in relazione ad una singola controversia (Cass. V, n. 15236/2011); allo stesso modo, la mera ‘contiguità compiacente', così come la ‘vicinanza' o ‘disponibilità' nei riguardi di singoli esponenti, anche di spicco, del sodalizio, non costituiscono comportamenti sufficienti a integrare la condotta di partecipazione all'organizzazione, ove non sia dimostrato che l'asserita vicinanza a soggetti mafiosi si sia tradotta in un vero e proprio contributo, avente effettiva rilevanza causale, ai fini della conservazione o del rafforzamento della consorteria (Cass. I, n. 25799/2015). È stato riconosciuto il ruolo di partecipe al soggetto che, in un momento di fibrillazione delle attività criminali di un sodalizio di tipo mafioso, si presti a raccogliere informazioni necessarie per attuare ritorsioni contro esponenti di sodalizi avversari o per stringere alleanze con altre cosche (Cass. II, n. 10366/2020). Ulteriormente distinto dalla nozione di partecipazione è il concetto di ‘appartenenza' ad una associazione mafiosa, richiesto ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione, poiché la prima comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un'azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale. (Cass. S.U., n. 111/2018). Va segnalato un recente intervento delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 36958/2021), a parere delle quali « La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell'agente nella struttura organizzativa dell'associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla ‘messa a disposizione' del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi »: la decisione, intervenuta nell'ambito del subprocedimento cautelare, ha anche precisato che la “affiliazione rituale” può costituire grave indizio della condotta partecipativa, ove la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime d'esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione, precisando che, tra gli indici all'uopo valutabili dal giudice, rientrano la qualità dell'adesione ed il tipo di percorso che l'ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell'affiliando, la serietà del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali, con riferimento, tra l'altro, ai poteri di chi propone l'affiliando, di chi lo presenta e di chi officia il rito, la tipologia del reciproco impegno preso e la misura della disponibilità pretesa od offerta. Cessazione dell’attività del sodalizio e rescissione del vincolo Si ritiene (Cass. II, n. 1688/2022) che non comportano soluzione di continuità nella vita dell'organizzazione: a ) l'eventuale variazione della compagine associativa per successiva adesione di nuovi membri o per rescissione del rapporto di affiliazione da parte di alcuni sodali; b ) l'estensione dell'attività criminosa alla commissione di reati di altra specie; c ) l'ampliamento dell'ambito territoriale di operatività. La stessa decisione ha precisato che, per affermare che ad un'associazione ne segua una diversa, occorre la prova che la seconda sia scaturita da un diverso patto criminale oppure che quella originaria abbia definitivamente cessato di esistere a causa di un evento traumatico, generatore di discontinuità nel programma associativo, come in caso di faide o scissioni. Secondo la giurisprudenza, il sopravvenuto stato detentivo non esclude la permanenza della partecipazione al sodalizio, che viene meno solo in caso di cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato: la rescissione del legame può essere desunta, a titolo meramente esemplificativo, da un lungo periodo di detenzione in assenza di contatti con la consorteria, dal trasferimento in luogo distante da quello della sua operatività, o da una contrapposizione interna al sodalizio seguita dall'allontanamento di uno dei sodali, elementi in relazione ai quali grava sull'interessato un mero onere di allegazione e che non devono essere contrastati da altri significativi dati di segno contrario (Cass. VI, n. 1162/2022). Anche la sopravvenuta malattia dell'affiliato, che si alleghi essere suscettibile di impedirne, anche definitivamente, la partecipazione personale ai consessi ed alle attività operative dell'organizzazione, non comporta l'automatica rescissione del pactum sceleris, ove tale condizione non determini la totale incapacità, fisica o psichica, di interfacciarsi con gli altri componenti della compagine criminale e, dunque, di prendere parte ai suoi processi decisionali (Cass. VI, n. 3595/2021: fattispecie relativa ad un affiliato che, dopo l'insorgere della malattia, aveva continuato a partecipare alla vita associativa attraverso il proprio figlio, subentrato nel gruppo all'esito di un passaggio di consegne). Appartenenza a più associazioni È possibile che il singolo agente risponda contemporaneamente di distinti reati associativi, qualora agisca per conto di due consorterie criminali, le quali, pur se tra loro federate e funzionalmente collegate, conservino entrambe autonomia decisionale e operativa (Cass., II, n. 27116/2014). Al riguardo, la riconosciuta, reciproca indipendenza fra due associazioni di tipo mafioso non implica che eventuali azioni da esse svolte in comune siano necessariamente da qualificare come una sorta di interventi di ‘mutuo soccorso' posti in essere estemporaneamente, in conformità di un ‘codice d'onore' disciplinante, secondo comune esperienza, i rapporti fra associazioni criminose che non siano in conflitto fra loro, dovendosi al contrario verificare, prima di giungere a una tale conclusione, che non si sia invece in presenza di interventi stabili e programmati posti in essere nell'ambito di quella che possa ritenersi una federazione tra le due associazioni, da riguardare, quindi, come un organismo di natura associativa autonoma, avente una propria struttura e propri autonomi obiettivi (Cass., VI, n. 8565/2005). Risponde di distinti reati associativi colui che agisce per conto di due consorterie criminali, le quali, pur se tra loro federate e funzionalmente collegate, conservano entrambe autonomia decisionale ed operativa (Cass. V, n. 9429/2017, con la precisazione che l'esistenza di un accordo di collaborazione strategica tra due organizzazione criminali non è incompatibile con l'appartenenza dell'imputato ad entrambe le associazioni). Qualora sia riconosciuta l'appartenenza di un soggetto a diversi sodalizi criminosi, è possibile ravvisare il vincolo della continuazione tra i reati associativi solo a seguito di una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo, avuto riguardo ai profili della contiguità temporale, dei programmi operativi perseguiti e del tipo di compagine che concorre alla loro formazione, non essendo a tal fine sufficiente la valutazione della natura permanente del reato associativo e dell'omogeneità del titolo di reato e delle condotte criminose (Cass. V, n. 20900/2021: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la decisione del giudice della esecuzione che aveva escluso il vincolo della continuazione tra reati associativi relativi alla medesima organizzazione criminale sulla base del mutamento nel tempo della compagine associativa e della estensione dell'ambito di operatività, senza accertare l'adesione ad un nuovo "pactum sceleris" ovvero una discontinuità nel programma criminoso;) (Cass. IV, n. 3337/2017: fattispecie relativa all'esclusione del vincolo della continuazione tra il reato di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 e quello di associazione per delinquere di stampo mafioso, finalizzata alla consumazione sia di reati concernenti il traffico di sostanze stupefacenti che di reati diversi, motivata per il rilievo che, nonostante la contiguità geografica e cronologica delle condotte e la loro tendenziale omogeneità, le modalità concrete di consumazione dei vari delitti erano sintomatiche di scelte di vita ispirate alla sistematica consumazione di illeciti, e non all'attuazione di un progetto criminoso unitario; conforme Cass. VI, n. 51906/2017, che, in applicazione del principio, ha confermato l'esclusione del vincolo della continuazione tra il reato associativo accertato con la sentenza impugnata ed altro analogo reato, relativo alla medesimo clan camorristico, accertato con sentenza di condanna emessa vent'anni prima, in quanto dalla sentenza impugnata emergeva che il gruppo criminale, sebbene operante nel medesimo ambito territoriale, era profondamente mutato nel tempo, quanto alla compagine sociale ed al programma delinquenziale, per effetto di circostanze contingenti ed occasionali inimmaginabili al momento dell'iniziale affiliazione del ricorrente). Una decisione (Cass. V, n. 15041/2019) ha ritenuto che, con riferimento a nuove articolazioni di sodalizi mafiosi “storici” formatesi in territori diversi da quello tradizionalmente d'influenza (il fenomeno riguarda le cc.dd. “locali” della ‘ndrangheta), nei casi in cui la nuova “locale” ed il sodalizio-madre restino distinte per circostanze di costituzione, struttura, modalità di partecipazione, sfera di operatività, ma risulti dimostrata l'esistenza di un collegamento tra le predette associazioni, che non influenzi né sopprima la rispettiva autonomia, originando una mera una cooperazione funzionale, i soggetti che risultino far parte contestualmente di entrambi i sodalizi devono rispondere di due reati ex art. 416-bis in concorso, in procedimenti anche separati da attribuire, secondo le ordinarie regole, alla cognizione dei giudici – in ipotesi diversi – territorialmente competenti. In applicazione del principio, è stata riconosciuta l'autonomia di una locale di ‘ndrangheta costituita in Emilia, rispetto alla cosca-madre operante in Calabria cui pure risultava collegata, in particolare con riferimento al ruolo del capo della cosca-madre ed alla destinazione di parte degli introiti, e si è conseguentemente ritenuto che potesse essere configurata la partecipazione di taluni soggetti ad entrambi i sodalizi. Natura della condotta Le condotte dirette a integrare la fattispecie criminosa dell'associazione di tipo mafioso sono tutte attive, non potendo ipotizzarsene la realizzazione in forma meramente omissiva. In tal senso, deve escludersi il carattere propriamente omissivo dell'atteggiamento inerte o del silenzio (dell'agente cui in ipotesi si predichi l'adesione al consorzio criminale) obiettivamente interpretato, alla luce delle circostanze concrete e degli indici di fatto rigorosamente individuabili in concreto, come inequivoca espressione di una manifestazione di volontà di adesione al sodalizio; in tal caso, infatti, il comportamento dell'agente deve comunque intendersi alla stregua di una forma (positiva) di manifestazione concreta (seppur non dichiarativa) della propria volontà criminale. Evento di pericolo Una recente decisione, premesso che, ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, è necessario che il sodalizio abbia conseguito, nel contesto di riferimento, una capacità intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile, che può esteriorizzarsi anche con atti non connotati da violenza o minaccia, essendo sufficienti comportamenti evocativi del prestigio criminale del gruppo, ha ritenuto che il reato in oggetto ha natura di reato di pericolo, e, quindi, che l'organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l'ordine pubblico, l'ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica, non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi (Cass. VI, n. 9001/2020). In particolare, si ritiene che l'associazione di tipo mafioso abbia natura di reato di pericolo in quanto già la mera esistenza del sodalizio pone di per sé a rischio i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice, con particolare riguardo all'ordine pubblico, all'ordine economico ed alla libera partecipazione dei cittadini alla vita politica, ma ciò non consente di ritenere sufficiente ad integrare il reato la mera capacità potenziale del gruppo criminale di esercitare la forza intimidatoria, occorrendo invece che il sodalizio faccia effettivo, concreto, attuale e percepibile uso - ancorché non necessariamente con metodi violenti o minacciosi - della suddetta forza; si precisa che la capacità intimidatoria deve appartenere all'associazione in quanto tale, non potendosi desumere la stessa dalla sola fama criminale del singolo associato (Cass. VI, n. 18125/2020). Quanto alle condotte di promovimento o di costituzione dell'associazione, qualora si ritenga dissociabile da quelle l'evento costituito dall'obiettiva e concreta realizzazione del pericolo per l'ordine pubblico, il reato può intendersi alla stregua di un reato di evento: in tal senso, si è affermato che, dovendo ravvisarsi nel pericolo per l'ordine pubblico un elemento costitutivo del reato associativo, quest'ultimo si consuma solo nel momento, eventualmente successivo alla costituzione, in cui si determina tale pericolo (Boscarelli, 871). Al riguardo, si è già in precedenza evidenziato come i fenomeni dell'assoggettamento e dell'omertà devono ritenersi collegati all'intimidazione mafiosa da un diretto nesso di derivazione causale (com'è evidenziato dalla locuzione "che ne deriva” utilizzata dal legislatore), sì che in assenza di tale nesso, l'eventuale generalizzata condizione di soggezione sociale e di omertà, pur significativa di un grave malessere sociale, non varrebbe a integrare gli estremi di tipicità della fattispecie (Ingroia, 75; in senso più sfumato, Turone, 150). Rapporti tra reato associativo e reati-fine Come si è rilevato in precedenza, il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine, purché l'organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino concretamente presagire la prossima realizzazione (Cass., II n. 4304/2012). Da questa prospettiva, in caso di procedimento per il delitto associativo e di separato procedimento per i reati-fine realizzati, è stata esclusa la preclusione del ne bis in idem ricorrendo l'ipotesi del concorso materiale di reati, perché per il primo la condotta necessaria e sufficiente sta nella prestazione della propria adesione all'organizzazione già costituita, mentre per i secondi la condotta necessaria è quella tipica, fissata nella fattispecie criminosa (Cass., II, n. 52645/2014). Secondo Cass., I, n. 6992/1992, una volta riconosciuta l'esistenza, nell'ambito di un'associazione per delinquere di stampo mafioso, di un organismo collegiale centrale, composto da un ristretto numero di associati e investito del potere di deliberare, con efficacia vincolante, in ordine alla commissione o meno di singoli fatti criminosi da considerare di particolare importanza per la vita dell'organizzazione, deve ritenersi, fino a prova contraria, che i componenti del suddetto organismo siano stati corresponsabili dell'avvenuta perpetrazione di uno di tali fatti ad opera di altri associati, quando risulti che costoro, prima di agire, li avevano informati e non era stato opposto dai primi alcun espresso divieto. Viceversa, in una diversa pronuncia, si è sottolineato come l'omicidio eseguito materialmente da alcuni affiliati in attuazione del programma criminoso non può essere addebitato, sotto il profilo del concorso morale, ai componenti della struttura di vertice in quanto tali, dovendosi verificare per ciascuno di essi la causale, individuabile nel diretto e pressante interesse alla soppressione della vittima del gruppo criminale rappresentato (Cass., V, n. 2381/1992). Ciò posto, si è ritenuto che l'appartenenza di taluno degli associati all'organismo collegiale di vertice può costituire indizio, ma non prova, di responsabilità in ordine a un omicidio di personalità di rilievo (Cass., VI, n. 6221/2005). È stata esclusa la responsabilità del cosiddetto ‘capo famiglia', a titolo di concorso nel reato-fine, qualora questi, ancorché a conoscenza dei progetti in corso e del coinvolgimento operativo di ‘suoi' uomini, non abbia prestato fattiva e concreta collaborazione nell'organizzazione e gestione del reato, decisa dalla struttura di vertice del sodalizio criminale, in quanto l'omessa attivazione di ipotetici provvedimenti interdittivi non potrebbe comunque essere considerata equivalente ad una prestazione di consenso o addirittura alla formulazione di un ordine nei confronti dei propri uomini (Cass., VI, n. 8929/2014; conforme, Cass. V, n. 390/2020). Di regola, deve ritenersi non configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati-fine che, pur rientrando nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al rafforzamento del medesimo, non erano programmabili ab origine perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali o, comunque, non immaginabili al momento iniziale dell'associazione stessa (Cass. VI, n. 4680/2021; Cass., II, n. 13085/2013;). Secondo una successiva decisione, l'appartenenza di un membro del sodalizio di tipo mafioso denominato “cosa nostra” all'organismo centrale dell'organizzazione criminale cui è devoluto – all'interno del sodalizio – il compito di autorizzare la commissione dei cc.dd. “omicidi eccellenti”, costituisce mero indizio di colpevolezza, ma non elemento di prova del contributo alla realizzazione del reato-fine autorizzato, essendo a tal fine necessario che il singolo componente del predetto organismo sia stato messo al corrente della decisione da autorizzare e vi abbia prestato, anche tacitamente, il proprio consenso (Cass. V, n. 40274/2021: fattispecie riguardante la strage di via Amelio); è stato configurato il concorso morale nel delitto di omicidio nei confronti dell'appartenente all'organismo di vertice di un'associazione criminale di tipo mafioso, che abbia prestato tacitamente il proprio consenso in merito all'esecuzione dello specifico delitto, mantenendo un comportamento silente nel corso di una riunione o all'atto della "doverosa" informazione ad opera di altro membro del sodalizio, in quanto la sola presenza ed il solo implicito assenso del capo sono idonei a costituire condizione per la realizzazione del crimine o comunque a rafforzare significativamente il relativo proposito (Cass. V, n. 9395/2022). Elemento soggettivo
Il dolo Nel delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, il contributo causale del partecipante, destinato al rafforzamento del sodalizio (così come connotato dal suo programma delinquenziale), è oggetto di dolo generico, che deve atteggiarsi come diretto e non come meramente eventuale, nel senso che lo stesso può non aver rappresentato l'obiettivo unico o primario della condotta dell'imputato, ma questi deve averlo previsto, accettato e perseguito come risultato, non solo possibile o probabile, bensì certo o comunque altamente probabile della medesima condotta (Cass., V, n. 15727/2012). Ai fini della sussistenza del dolo di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, occorre che l'agente, pur sprovvisto dell'affectio societatis e cioè della volontà di fare parte dell'associazione, sia consapevole dei metodi e dei fini della stessa, rendendosi conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della struttura organizzativa, all'interno della quale i membri effettivi devono poter contare sull'apporto vantaggioso del concorrente esterno (Cass., II, n. 34979/2012); a tal fine, è sufficiente che egli abbia previsto e accettato tale effetto come risultato non solo possibile, bensì certo, o comunque altamente probabile, della propria condotta (Cass. II, n. 18132/2016). In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, non può ritenersi sussistente il dolo diretto di conservazione e rafforzamento del sodalizio criminale, necessario ad integrare la fattispecie, nella condotta di colui il quale, partecipe di altra organizzazione mafiosa, agisca con l'unica finalità di recare vantaggio a quest'ultima, anche se dalla sua attività possano derivare vantaggi comuni ai due organismi criminali (Cass. I, n. 8316/2016). La colpa Il reato di associazione di tipo mafioso non è punibile a titolo di colpa. Consumazione e tentativo
Consumazione Ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 416-bis, è necessario che l'associazione abbia conseguito, in concreto, nell'ambiente nel quale essa opera, e sia pure limitatamente a un determinato settore, un'effettiva ed esteriorizzata capacità d'intimidazione che si traduce in omertà e assoggettamento; con la conseguenza che, nel caso di un'autonoma consorteria delinquenziale, pur se la stessa mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche (in relazione ai ruoli, ai rituali di affiliazione e al livello organizzativo, etc.), occorre comunque accertarne il radicamento in loco con quelle peculiari connotazioni (Cass. VI, n. 34874/2015; Cass, II, n. 25360/2015). Il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell'organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata, poichè, trattandosi di reato di pericolo presunto, per integrare l'offesa all'ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio con la c.d. « messa a disposizione », in quanto idonea ad accrescere, per ciò solo, la potenziale capacità operativa ed intimidatoria dell'associazione criminale (Cass. II, n. 27394/2017). Segue . Il carattere permanente del reato. Conseguenze in tema di bis in idem
Il reato di partecipazione ad associazione mafiosa è di natura permanente, benché ciascun atto di partecipazione sia da solo sufficiente a integrarlo (Cass. VI, n. 53118/2014). La condotta criminosa del partecipante cessa con lo scioglimento del vincolo associativo o per recesso volontario del singolo, per cui soltanto in tali ipotesi potrà configurarsi l'eventuale reato continuato rispetto alla partecipazione alla medesima organizzazione delinquenziale contestata in separato procedimento e relativa a epoca immediatamente successiva; mentre, in assenza di soluzione di continuità, la partecipazione al medesimo sodalizio criminoso, anche se contestata in tempi diversi, realizza un unico reato permanente (Cass. II, n. 41727/2014). L'accertamento contenuto nella sentenza di condanna delimita la protrazione temporale della permanenza del reato con riferimento alla data finale cui si riferisce l'imputazione ovvero alla diversa data ritenuta in sentenza, o, nel caso di contestazione c.d. aperta, alla data della pronuncia di primo grado; ne consegue che la successiva prosecuzione della medesima condotta illecita oggetto di accertamento può essere valutata esclusivamente quale presupposto per il riconoscimento del vincolo della continuazione tra i vari episodi (Cass. VI, n. 3054/2018: in applicazione del principio, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso con il quale l'imputato aveva eccepito l'insussistenza della continuazione tra reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, relativi al medesimo sodalizio ed oggetto di separate pronunce di condanna, ritenendo che, in difetto di prova del suo recesso nel periodo temporale di riferimento delle due sentenze, si trattava di un unico reato permanente ; conforme, Cass. II, n. 680/2020, con la precisazione che a preclusione derivante dal giudicato con riferimento ad un reato associativo non presuppone soltanto che il sodalizio oggetto dei diversi procedimenti sia identico sotto il profilo storico-naturalistico, occorrendo anche la sovrapponibilità dei periodi rispetto ai quali è contestata la partecipazione dell'associato e la perdurante operatività dell'organizzazione). Il sopravvenuto stato detentivo del membro del sodalizio (così come l'esercizio dell'azione penale: Cass. II, n. 8027/2013) non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura — caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine — accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue attività e, dall'altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento (Cass. II, n. 2143/2023; conforme, Cass. II, n. 8461/2017: nella specie, la S.C. ha confermato la decisione con la quale il tribunale del riesame aveva reputato sussistere la permanenza del vincolo associativo in capo all'indagato — “braccio destro” del capoclan — nonostante la sofferta detenzione, sottolineando come i suoi contatti con il medesimo, e con l'intero gruppo, fossero nel frattempo continuati anche in ragione della periodica erogazione di somme di denaro da parte del sodalizio; conforme, Cass. I, n. 46103/2014). Il principio secondo cui l'identità del disegno criminoso del reato continuato viene meno per fatti imprevedibili come la detenzione o la condanna non si può automaticamente applicare a contesti delinquenziali, come quelli determinati dalle associazioni mafiose, nei quali detenzioni e condanne definitive sono accettate come prevedibili eventualità, sicché, in tali casi, il vincolo della continuazione non è incompatibile con un reato permanente, ontologicamente unico, come quello di appartenenza ad un'associazione di stampo mafioso, quando il segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo — costituito da fasi di detenzione o da condanne — trovi la sua spinta psicologica nel pregresso accordo per il sodalizio (Cass. I, n. 38486/2011). Peraltro, là dove uno dei sodali abbia patito uno stabile isolamento dal gruppo in forza di detenzione prolungata e senza soluzione di continuità, occorre, ai fini dell'accertamento della permanenza all'interno del sodalizio, la prova della persistente sussistenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita e all'organizzazione del gruppo stesso, anche se solo a carattere morale (Cass. II, n. 6819/2013). Sul piano processuale, l'imputazione di associazione di tipo mafioso, ex art. 416-bis, limitata temporalmente con l'espressione 'fino a data odierna' si estende fino alla data del decreto che dispone il giudizio e, ove questo manchi (come nel caso del rito abbreviato), fino alla data della richiesta di rinvio a giudizio (Cass. V, n. 21294/2014). Viceversa, nel caso in cui la contestazione sia formulata senza alcuna specificazione del termine finale della condotta, la pronuncia della sentenza di primo grado segna il termine ultimo e invalicabile della protrazione della permanenza del reato, in quanto la condotta futura dell'imputato trascende necessariamente l'oggetto del giudizio (Cass. VI, n. 13085/2013). Peraltro, al fine di non incorrere nel divieto di bis in idem, nel caso in cui la sentenza già irrevocabile riguardi un reato permanente contestato con l'indicazione soltanto della data di accertamento, spetta al giudice dinanzi al quale sia stata sollevata l'eccezione di giudicato verificare, attraverso l'interpretazione della sentenza, quando si sia interrotta la permanenza (Cass. I, n. 31479/2013). Con riguardo al principio del ne bis in idem, si è ritenuto che la contestata appartenenza a una sottosezione della ndrangheta (cosiddetta “locale”) non costituisse ‘medesimo fatto' della contestata appartenenza diretta all'organo di vertice del medesimo sodalizio criminale (cosiddetta “provincia”), come tale preclusivo della possibile emissione di una successiva ordinanza di misura coercitiva per il secondo addebito (Cass. VI, n. 17700/2014). Al riguardo, al fine di escludere la ‘medesimezza' del fatto, non rilevano né, dal punto di vista del soggetto, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione (attività e ruoli), né, dal punto di vista dell'organizzazione, eventuali mutamenti in ordine ai suoi equilibri interni in relazione al numero dei componenti, ma è necessario accertare che il soggetto sia passato a una diversa organizzazione criminale ovvero che si sia verificata una successione nelle attività criminali tra organismi diversi, sia pure con lo stesso nome ed operanti nello stesso territorio (Cass. I, n. 2260/2013). In particolare, si è escluso che potesse invocarsi il principio del ne bis in idem quando la partecipazione all'associazione venga desunta anche dalla commissione di altro reato per il quale sia già intervenuta condanna definitiva, in quanto l'inammissibilità di un secondo giudizio impedisce al giudice di procedere contro lo stesso imputato per il medesimo fatto, già giudicato con sentenza irrevocabile, ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso reato (nella specie, del delitto di cui all'art. 416-bis) (Cass. II, n. 26725/2013). Al contrario, comporta una violazione del principio ne bis in idem la contestazione dell'appartenenza all'associazione con funzioni di promozione, direzione od organizzazione nei confronti di un soggetto il quale, con riferimento allo stesso periodo ed alla medesima organizzazione criminale, sia già stato giudicato quale mero partecipe, poiché le accuse concernono uno stesso fatto (l'appartenenza ad un dato gruppo delinquenziale), per quanto diversamente considerato per il titolo (Cass. VI, n. 6262/2003). Tentativo Si è ritenuto inammissibile il tentativo in relazione al reato di cui all'art. 416-bis, tenuto conto delle caratteristiche criminologiche in cui si forma il sodalizio mafioso, che trae origine da una realtà delinquenziale preesistente (Turone, 117). Secondo taluno, il tentativo sarebbe ammissibile in relazione alle condotte di violenza o minaccia dirette a far acquisire al sodalizio la caratteristica forza di intimidazione (De Francesco (1), 310). In giurisprudenza, si è esclusa la configurabilità del tentativo con riferimento ai delitti di partecipazione, promozione, direzione o organizzazione di un'associazione di tipo mafioso in fase di costituzione, ma non ancora costituita (Cass. VI, n. 4294/2014). Forme di manifestazione
Le circostanze aggravanti dell’art. 416- bis A) La circostanza aggravante della disponibilità di armi è prevista dai commi quarto e quinto dell'art. 416-bis, ed è integrata dalla mera disponibilità delle armi da parte dell'associazione, indipendentemente dal fatto che essa configuri le ipotesi delittuose di porto e detenzione, sia perché la disponibilità non necessariamente corrisponde all'attuale ed effettiva detenzione, e tanto meno al porto, sia perché essa può riguardare perfino armi legalmente detenute, con la conseguenza che l'associazione mafiosa armata non è un reato complesso nel quale possono restare assorbiti l'illegale detenzione o porto di armi (Cass. II, n. 2833/2012); ha natura oggettiva, e, in quanto tale, è configurabile a carico dei partecipi che siano consapevoli del possesso delle stesse da parte della consorteria criminale (Cass. V, n. 1703/2013) ovvero che, pur non avendone effettiva consapevolezza, ignorino per colpa il possesso di armi da parte degli associati (essendo, per Cass. II, n. 31541/2017, fatto notorio non ignorabile che la camorra sia un'associazione criminale armata: il principio è mutuabile anche per le altre mafie “storiche”); per l'accertamento del possesso di armi, può, dunque, assumere rilievo il fatto notorio della detenzione di strumenti di offesa in capo ad un determinato sodalizio mafioso (Cass. II, n. 50714/2019: fattispecie in cui la S.C. ha, peraltro, ritenuto la configurabilità dell'aggravante in oggetto non soltanto ritenendo notorio che i sodalizi di matrice camorristica, come quello de quo, hanno disponibilità di armi, ma anche per essere stato l'imputato arrestato unitamente ad altro esponente del sodalizio per detenzione illegale di armi da fuoco), a condizione che detta detenzione sia desumibile da indicatori concreti (quali fatti di sangue ascrivibili al sodalizio o risultanze di titoli giudiziari, intercettazioni, dichiarazioni od altre fonti, elementi dai quali è desumibile anche la stessa esistenza delle armi, pur se non esattamente individuate: Cass. I, n. 14255/2017) di cui il giudice deve specificamente dare conto nella motivazione del provvedimento (Cass. I, n. 55748/2017e Cass. n. 7392/2018). Si è ritenuto che l'aggravante è configurabile anche nel caso in cui la disponibilità delle armi sia provata a carico di un solo appartenente, quando il delitto associativo sia contestato agli appartenenti di una ‘famiglià mafiosa aderente all'organizzazione denominata « cosa nostra » (Cass. V, n. 18837/2013); anche la prova della disponibilità di armi da parte di un solo appartenente a un sodalizio mafioso, che sia anche componente di un'associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, è idonea a fornire dimostrazione della simultanea sussistenza delle aggravanti di cui all'art 416-bis, comma 4, e di cui all'art. 74, comma 4, d.P.R. n. 309/1990 nei confronti degli altri soggetti che partecipano contestualmente a entrambe le consorterie, in quanto la dotazione di strumenti di offesa è connaturata al perseguimento degli scopi di un sodalizio di tipo mafioso, ed è quindi ragionevole presumere la conoscenza di tale disponibilità anche in capo agli altri associati; tale dato, però, non è sufficiente per ritenere accertata, nei confronti degli altri membri della sola associazione dedita al narcotraffico, l'aggravante prevista dalla legge speciale, atteso che il possesso e l'uso di armi non è caratteristica indefettibile di tale struttura illecita, né, nei confronti dei concorrenti esterni alla cosca mafiosa, l'aggravante contemplata dal codice penale, non essendo tali soggetti organici al gruppo delinquenziale (Cass. VI, n. 36198/2014). Una successiva decisione (Cass. V, n. 15041/2019), premesso che per le cc.dd. “mafie storiche” (camorra, cosa nostra, ‘ndrangheta) la stabile dotazione di armi costituisce “fatto notorio non ignorabile”, ha ribadito che la relativa circostanza aggravante (integrata anche dalla disponibilità di armi legalmente detenute), avente natura oggettiva, è certamente configurabile nei confronti di ciascun partecipe del sodalizio, anche nei casi in cui la disponibilità delle armi risulti provata nei confronti di un solo soggetto; sempre con riguardo alla cc.dd. “mafie storiche”, si è, infine, ritenuto che l'aggravante della disponibilità di armi è configurabile a carico dei partecipi di una "locale" di mafia storica (nella specie 'ndrangheta), quando sia riscontrata l'effettiva disponibilità delle armi e l'uso delle stesse per il conseguimento delle finalità dell'associazione, non essendo sufficiente il solo riferimento alla notoria dotazione di armi in capo al sodalizio storico (Cass. II, n. 31920/2021). B) Ai fini della configurabilità dell'aggravante del c.d. “reimpiego finanziario”, di cui all'art. 416-bis, comma sesto, è sufficiente che il prezzo, il profitto o il prodotto derivanti dai delitti posti in essere in esecuzione del programma criminoso dell'associazione a delinquere di stampo mafioso siano destinati a finanziare le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo, in modo da prevalere, nell'ambito del territorio controllato, sulle altre attività che offrano beni o servizi analoghi (Cass. VI, n. 4115/2020), non essendo, peraltro, necessario che tale controllo sia effettivamente assunto o mantenuto, ma solo che il finanziamento alimentato dalle fonti di provenienza illecita sia idoneo a conseguire tale risultato (Cass. V, n. 24661/2013); peraltro, per configurare detta aggravante occorre una particolare dimensione dell'attività economica, nel senso che essa va identificata, non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio d'insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. (Cass. V, n. 49334/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l'aggravante nei confronti dell'imputato, soggetto depositario dei proventi di un traffico di droga gestito dal sodalizio camorristico di riferimento, senza tuttavia investirli in attività economiche). Sotto altro profilo, è altresì necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Cass. V, n. 12251/2012); in tal senso, l'aggravante è configurabile nei confronti dell'associato autore del delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego da parte sua, atteso che la ratio dell'aggravante in parola è da ravvisarsi nella necessità di sanzionare più efficacemente l'inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell'economia legale, in quanto espressione di una ‘progressione-criminosà rispetto al reato-base che denota la maggiore pericolosità dell'organizzazione (Cass. S.U., n. 25191/2014). Trattasi di aggravante di natura oggettiva che va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni c.d. storiche come mafia, camorra e 'ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che - appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando ed investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del suo programma criminoso - un'ignoranza al riguardo in capo ad un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Cass. II, n. 23890/2021), ed è, configurabile in presenza di un apporto di capitale corrispondente ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Cass. V, n. 9108/2020: in applicazione del principio, è stata annullata la decisione del giudice di merito che aveva configurato l'aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); essa è, conseguentemente, valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa (Cass. S.U., n. 25191/2014). Essa si differenzia dalla fattispecie di cui all'art. 12-quinquies d.l. n. 306/1992, conv. con modif. in l. n. 356/1992, ed ora trasfusa, in attuazione del principio della c.d. riserva di codice, nel nuovo art. 512-bis c.p., con la quale può concorrere, in quanto, mentre l'aggravante è integrata dal reinvestimento dei proventi illeciti dell'organizzazione criminale in attività economiche qualificate delle quali il sodalizio intende assumere o mantenere il controllo, e non implica la necessaria interposizione di soggetti terzi, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 512-bis occorre una condotta di interposizione fittizia soggettiva nella titolarità di un bene, e non è richiesto che il cespite sia di provenienza illecita e “mafiosa” (Cass. II, n. 2833/2012). Una successiva decisione (Cass. V, n. 15041/2019) ha precisato che, ai fini della configurabilità dell'aggravante, occorre: - che l'attività economica della quale gli associati intendono assumere il controllo abbia una dimensione particolare, essendo l'aggravante integrata non da singole operazioni commerciali o dalla mera gestione di singoli esercizi commerciali, bensì dall'intervento in strutture produttive dirette a prevalere nel territorio d'insediamento sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi; - che l'apporto di capitale fornito all'attività economica de qua si concretizzi in un reinvestimento delle utilità procurate dalle condotte criminose, poiché – nelle intenzioni del legislatore - è proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. Una più recente decisione (Cass. II, n. 8790/2024) ha affermato che l'aggravante di cui all'art. 416-bis, comma sesto, ricorre nel solo caso in cui i proventi delle attività delittuose sono impiegati in attività economiche legali e non può essere configurata sulla base della mera constatazione del reimpiego dei proventi illeciti in attività economiche, dovendo il giudice descriverne le specifiche modalità e la destinazione di tali introiti al finanziamento delle attività produttive, anche con riguardo alla dimensione degli investimenti eseguiti; di conseguenza, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva ritenuto configurabile l'aggravante anche nell'ipotesi di reimpiego del denaro nelle medesime attività illecite perseguite dal sodalizio criminale, valorizzando il generico richiamo al "reimpiego del denaro ricavato nei più disparati settori merceologici"). C) Quanto alla disciplina, secondo la giurisprudenza (Cass. II, n. 7155 /2021 ), nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste dall'art. 416-bis, commi 4 e 6, la pena è determinata secondo la disciplina speciale di cui all'art. 416-bis, comma 6, che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata; ne consegue che, quando concorre anche l'aggravante ad effetto speciale della recidiva reiterata, ai fini dell'individuazione della più grave tra le dette circostanze, sulla quale operare l'eventuale ulteriore aumento di pena, previsto dalla regola generale di cui all'art. 63, comma 4, c.p., rileva quella unitariamente considerata, a fini sanzionatori, dall'art. 416-bis,, comma 6. Le circostanze comuni L'aggravante del numero delle persone prevista dall'art. 112 n. 1, benché compatibile con i reati a concorso necessario, non si applica all'ipotesi specifica prevista dall'art. 416-bis, in quanto l'associazione per delinquere di stampo mafioso, caratterizzata dalla forza di intimidazione, di assoggettamento e di omertà descritti dalla legge, dalla radicata e invasiva presenza sul territorio e all'interno dei relativi cicli produttivi di tipo economico, presuppone, già sul piano logico, un portato soggettivo di tipo partecipativo di assoluto rilievo, tanto da prescindere, quanto alla gravità della relativa ipotesi di reato, dal dato numerico dei singoli sodali (fatto salvo, ovviamente, il minimo legale) (Cass. VI, n. 39923/2014). La c.d. “transnazionalità” Secondo la giurisprudenza, la c.d aggravante della transnazionalità (art. 61-bis c.p.) può trovare applicazione anche quando il gruppo criminale organizzato, operante in più di uno Stato, presti il suo contributo alla commissione di un reato associativo, ma solo a condizione che non ricorrano elementi di "immedesimazione" fra le due strutture criminose (Cass. VI, n. 37081/2020: fattispecie riguardante gruppi di origine nigeriana denominati "Maphite" ed "Eiye" operanti in Italia che, pur mantenendo un collegamento con la corrispondente associazione operante in Nigeria nota come "Secret cults", sono state ritenute autonome, essendo sorte spontaneamente nel corso di ordinari fenomeni migratori ed essendo dotate di un coordinamento nazionale senza ingerenze nigeriane, nonché di una propria forza intimidatrice), e può applicarsi ai reati-fine consumati dai membri di un'associazione per delinquere anche in caso di immedesimazione tra tale associazione e il gruppo criminale organizzato transnazionale (Cass. III, n. 10116/2021).
Segue . Il concorso “eventuale” nell’associazione di tipo mafiosoSulla base del combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p. deve ritenersi configurabile, nel nostro ordinamento, il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, allorché taluno, con il dolo tipico dell'art. 416-bis, ponga in essere un atto di valenza ‘morale', di carattere istigatorio, diretto a favorire il rafforzamento del sodalizio (v., in generale, Spagnolo, 135). La giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 48/2015) ha ribadito che il “concorso esterno” non è un reato di creazione giurisprudenziale, ma scaturisce « dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all'art. 416-bis c.p. e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all'art. 110 c.p. ». La dottrina ha tradizionalmente evidenziato l'insussistenza di astratti ostacoli di tipo dogmatico alla configurabilità del concorso eventuale nelle fattispecie plurisoggettive necessarie, pur ammettendo la necessità di valutare se la struttura del singolo reato plurisoggettivo sia compatibile, in concreto, con il concorso eventuale (Padovani 2012, 310); il problema riguarda, in particolare, il solo concorso materiale, poiché non si è mai dubitato della configurabilità del concorso morale (Fiandaca e Musco 2004, 492); la pacifica ammissibilità del concorso morale esterno in associazione di tipo mafioso fu ritenuta in riferimento ad un caso giudiziario nel quale un anziano capo-mafia, da tempo ritiratosi a vita privata, aveva istigato il figlio, dipendente di un istituto di credito, ad abbandonare il posto di lavoro per assumere un ruolo verticistico in Cosa nostra (Cass. I, 30 giugno 1994, in Cass. pen. 1994, 2685). Una dottrina ha inizialmente sostenuto, che, « risultando (...) decisivo ai fini della configurabilità di una partecipazione “interna” punibile soltanto lo spessore del contributo materiale fornito dal soggetto — a prescindere dalla sua formale affiliazione all'associazione — potranno essere punibili come associati anche soggetti “esterni” all'associazione criminosa, purché autori di comportamenti che obiettivamente l'avvantaggiano e purché sia presente il relativo elemento soggettivo di partecipazione » (Fiandaca e Musco 2004, 493); la stessa dottrina ha, in seguito, auspicato, per evitare eccessi di discrezionalità giurisprudenziale, « un intervento legislativo diretto a precisare, mediante la configurazione di una o più fattispecie incriminatrici di parte speciale, le forme di contiguità davvero intollerabili, e perciò meritevoli di repressione penale » (Fiandaca e Musco 2014, 559). Altra dottrina , premesso che la condotta di « partecipazione all'associazione » richiede: (a) una permanente messa a disposizione del proprio apporto ... (b) ... e una accettazione da parte dell'associazione, che non richiede forme espresse o addirittura rituali, ma può aver luogo anche per facta concludentia, ha evidenziato che « così intesa la partecipazione all'associazione, appare chiaro che residua uno spazio per la valutazione di comportamenti che, per il loro carattere episodico, oppure perché provenienti da parte di soggetti non inseriti nell'associazione, non possono essere ricondotti al paradigma della partecipazione interna, ma che pure presentano un rilevante significato per la vita dell'associazione » (M. Romano e G. Grasso 2012, 201 s.). Nel medesimo senso, si è anche osservato che il c.d. concorso esterno è sicuramente configurabile in presenza dei tre requisiti essenziali del concorso eventuale ex art. 110 c.p., ovvero (Mantovani 2015, 547): (a) « l'atipicità della condotta concorsuale rispetto alla fattispecie associativa »; (b) « il contributo, morale o materiale, necessario o agevolatore, occasionale o continuativo, per la costituzione, conservazione o rafforzamento dell'associazione »; (c) « il dolo di concorso, per l'esistenza del quale non è necessario il dolo specifico di perseguire il programma criminoso, ma sufficiente la coscienza e volontà di contribuire alla costituzione, conservazione o rafforzamento dell'associazione, stante il principio della possibilità del concorso con dolo generico nel reato a dolo specifico, purché almeno un altro concorrente agisca con la finalità richiesta dalla norma incriminatrice ». Alcune dottrine ritengono che non vi sia spazio alcuno per configurare un concorso esterno nei reati associativi fuori dei casi espressamente previsti dagli artt. 307 e 418 c.p.; a tale obiezione, altra dottrina (Beltrani, 530) replica che le predette disposizioni speciali confermano la configurabilità del concorso esterno anche nei reati associativi, perché trovano la loro giustificazione quali “norme di disciplina”, prevedendo un trattamento sanzionatorio meno severo di quello che sarebbe ordinariamente applicabile ai concorrenti esterni (il medesimo previsto per gli associati) in relazione a condotte connotate da un disvalore minimo (fornire vitto, assicurare rifugio o mezzi di comunicazione et c.). Conferme testuali della configurabilità del concorso materiale esterno nei reati associativi sono fornite dallo stesso legislatore: invero, sia l'art. 307 c.p. (assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) che l'art. 418 c.p. (assistenza agli associati exartt. 416 e 416-bis c.p.) contengono una iniziale clausola di riserva (« fuori dei casi di concorso nel reato ») che ammette inequivocabilmente la possibilità di un mero concorso eventuale, « esterno », nei reati associativi, lasciando all'interprete soltanto il compito di stabilire in quali casi un tal concorso sia configurabile, ovvero consentendo all'interprete unicamente la valutazione del quomodo, non anche dell'an, del concorso esterno nel reato associativo. L'orientamento che svaluta la rilevanza dei predetti riferimenti testuali, ed in particolare del riferimento di cui all'art. 418 c.p., ritiene che l'espressione « al di fuori dei casi di concorso nel reato » si riferirebbe al solo concorso necessario e non anche al concorso eventuale (l'espressione è interpretata come se dicesse « al di fuori dei casi di concorso necessario », evocando quindi la partecipazione al sodalizio). Tuttavia, come già osservato da parte della dottrina, e della giurisprudenza (Cass. S.U., n. 16/1994, e Cass. II, n. 34147/2015), l'art. 418, comma 1, c.p. contiene due diverse espressioni, « concorso nel reato » e « persone che partecipano all'associazione », che vanno necessariamente interpretate come evocanti fattispecie differenti, poiché, per evocare la medesima fattispecie, sarebbe stata logicamente impiegata la medesima locuzione: ciò impone di ritenere che il riferimento ai casi di « concorso nel reato » non indichi la partecipazione necessaria ad esso, ma il concorso eventuale, “esterno”, nel reato associativo, la cui configurabilità viene in tal modo testualmente ammessa; “ed, invero, il citato dato letterale, ovvero le diverse espressioni adoperate nel medesimo contesto (esse confluiscono, infatti, nello stesso comma dell'art. 418), rivela la trasparente intenzione del Legislatore di fare riferimento a due fattispecie diverse: in caso contrario, sarebbe davvero incomprensibile l'impiego, all'interno della medesima disposizione, di due distinti termini per evocare il medesimo concetto” (Beltrani, 533). La giurisprudenza è ormai ferma nell'ammettere la generale configurabilità del concorso esterno nei reati associativi, con riguardo alle condotte consapevolmente volte a vantaggio dell'associazione, ma poste in essere da soggetto che non è, e non vuole essere, organico ad essa. A tal fine, si richiede che il concorrente esterno: a) sia privo della c.d. affectio societatis e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio (Cass. S.U., n. 22327/2003), del quale, altrimenti, farebbe parte a pieno titolo, come partecipe “interno”; b) fornisca, ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione, un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, dotato di un'effettiva rilevanza causale, e che quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative del sodalizio o, per le associazioni operanti su larga scala, di un suo particolare settore o ramo d'attività, o di una sua articolazione territoriale (Cass. S.U., n. 22327/2003 e n. 33748/2005). Può ritenersi ormai superato l'iniziale, e più riduttivo, orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 16/1994), per il quale, ferma la configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso il partecipe all'associazione è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l'associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza, è, insomma, colui che agisce nella “fisiologia”, nella vita corrente quotidiana dell'associazione, mentre il concorrente eventuale materiale è, per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama a “far parte”, ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la “fisiologia” dell'associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase “patologica” che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno, insomma è il soggetto che occupa uno spazio proprio (soltanto) nei momenti di emergenza della vita associativa; c) si rappresenti, nella forma del dolo diretto, l'utilità del contributo fornito alla societas sceleris, ai fini della realizzazione anche parziale del programma criminoso: « ai fini della configurabilità del concorso esterno occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell'agente alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, agendo l'interessato nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. (...) Deve escludersi la sufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell'evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti » (Cass. S.U., n. 33748/2005; Cass. V, n. 26589/2018). La differenza fra il partecipe all'associazione (c.d. intraneus) ed il concorrente esterno (c.d. extraneus) va individuata (Cass. II, n. 18797/2012): — sotto il profilo oggettivo, « nel fatto che il concorrente esterno — benché fornisca un contributo che abbia una rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione — non sia inserito nella struttura criminale »; — sotto il profilo soggettivo, « nel fatto che il concorrente esterno — differentemente da quello interno il cui dolo consiste nella coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione dell'accordo e quindi del programma delittuoso in modo stabile e permanente — sia privo dell'affectio societatis ». Peraltro, nella consapevolezza che detti canoni, astrattamente ineccepibili, possono in concreto risultare di nebulosa applicazione, la citata decisione ha ritenuto di precisare che « l'art. 416-bis c.p. incrimina chiunque partecipi all'associazione, indipendentemente dalle modalità attraverso le quali entri a far parte dell'organizzazione criminosa. Infatti, non occorrono atti formali o prove particolari dell'ingresso nell'associazione che può avvenire nei modi più diversi. La mancata legalizzazione — cioè l'atto formale di inserimento nell'ambito dell'organizzazione criminosa — non esclude, pertanto, che il partecipe sia di fatto in essa inserito e contribuisca con il suo comportamento ai fini dell'associazione: questa Corte, infatti, da tempo, ha chiarito che la prova dell'appartenenza, come intraneus, al sodalizio criminoso può essere dato anche attraverso significativi facta concludentia ove siano idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo ». (...) Ai fini del raggiungimento degli scopi associativi, risultano non meno importanti le attività poste in essere da soggetti in apparenza al di sopra di ogni sospetto, dotati di specifiche competenze professionali (la c.d. “borghesia mafiosa”), strumentalizzate al fine di consentire al sodalizio mafioso di “dilagare” nel campo della società civile per incrementare ulteriormente le propria potenzialità operative: « questi soggetti — siano essi politici, pubblici funzionali, professionisti o imprenditori — devono ritenersi far parte a pieno titolo (come concorrenti interni) all'associazione mafiosa quando rivestano, nell'ambito della medesima, una precisa e ben definita collocazione, uno specifico e duraturo ruolo — per lo più connesso e strumentale alle funzioni ufficialmente svolte — finalizzato, per la parte di competenza, al soddisfacimento delle esigenze dell'associazione. In questi casi, ove l'attività svolta da questa particolare categoria di soggetti presenti i caratteri della specificità e continuità e sia funzionale agli interessi e alle esigenze dell'associazione alla quale fornisce un efficiente contributo causale, la partecipazione dev'essere equiparata a quella di un intraneus tanto più ove il soggetto, per la sua stabile attività, consegua vantaggi e benefici economici o altre utilità ». Andrà, pertanto, considerato a pieno titolo come partecipante alla societas sceleris, e non come mero concorrente esterno, il soggetto (appartenente alle categorie suddette) che si sia messo a disposizione del sodalizio assumendo stabilmente, nel suo ambito, il ruolo di elemento di collegamento tra i membri del sodalizio criminale e gli ambienti istituzionali, politici e imprenditoriali. Questi principi appaiono ormai pacifici (cfr., da ultimo, Cass. II, n. 34147/2015 en. 37185/2020 ; Cass. V, n. 2653/2016); anche la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 48 del 2015) focalizza la distinzione tra le due figure del partecipante e del concorrente esterno nei medesimi termini. Può concludersi che “il contributo adesivo del partecipe all'associazione mafiosa deve, oggettivamente, configurarsi come tendenzialmente stabile e durevole, ovvero concretizzarsi nella continuativa disponibilità, per apprezzabile lasso di tempo, del proprio apporto, e, sotto il profilo soggettivo, essere connotato dalla coscienza e volontà di entrare a far parte stabilmente ed organicamente dell'associazione ed operare per il raggiungimento delle finalità della stessa. Appare, di conseguenza, evidente che le condotte che si concretizzano in un ausilio occasionale all'associazione, poste in essere senza entrare a farne parte stabilmente, senza essersi messi più o meno durevolmente a disposizione del sodalizio, senza assumere all'interno di esso un ruolo od una funzione ben determinati, non possono rilevare come condotte di partecipazione ex art. 416-bis c.p., perché atipiche rispetto alla previsione tassativa della predetta norma incriminatrice” (Beltrani, 532); la stessa dottrina ha anche precisato che la ratio della rilevanza penale da attribuire al c.d. concorso « esterno » va, pertanto, rinvenuta, senza alcun dubbio, nell'esigenza di attrarre nell'ambito del “penalmente rilevante” anche le condotte di chi, pur non essendo organico all'associazione (non facendone e non volendo farne organicamente e stabilmente parte), abbia fornito — anche solo occasionalmente — un contributo causalmente rilevante alla esistenza ed operatività di essa, ovvero al raggiungimento delle sue finalità, con ciò esponendo ugualmente a pericolo di lesione il bene protetto, l'ordine pubblico. La frequente evanescenza, nell'esperienza pratica, della distinzione tra atto partecipativo rilevante direttamente ai sensi dell'art. 416-bis ed atto partecipativo rilevante sotto il profilo concorsuale ex art. 110 (difficoltà accentuata dal frequente comune richiamo al criterio condizionalistico utilizzato al fine di qualificare la rilevanza dell'atto) ha talora indotto la dottrina a dubitare della sufficiente discernibilità della figura del concorrente esterno, rispetto a quella del partecipante, dovendo ritenersi insufficiente, a fini discriminatori, siccome assai astratto, il rilievo per cui la nozione di partecipazione andrebbe interpretata in modo restrittivo, come stabile inserimento all'interno della compagine sociale (Iacoviello, 862; Spagnolo, 138; Visconti, 570). Secondo la giurisprudenza più recente, la distinzione tra le figure del partecipe e del concorrente esterno « non ha natura meramente quantitativa, ma è collegata alla organicità del rapporto tra il singolo e la consorteria, per cui deve essere qualificato come contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, anche se lo stesso non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre, al contrario, va qualificato come contributo concorsuale “esterno” quello dell'extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate sulla base di autonome determinazioni » (Cass. II, n. 34147/2015). La giurisprudenza sovranazionale Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso ha costituito oggetto di una decisione della Corte EDU (sentenza 14 aprile 2015, Contrada c. Italia), nella quale si legge (§ 66) che « non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale ». E l'interprete, superato un attimo di sgomento per la condotta processuale del Governo italiano, [che aveva chiesto la rimessione del caso dinanzi alla Grande Chambre della Corte EDU, proprio per ridiscutere con riguardo a tale premessa, ma in data 14 settembre 2015 la richiesta è stata rigettata, e la sentenza in esame è divenuta definitiva] non può che prendere atto che tanto bastava alla Corte di Strasburgo (che rimette tendenzialmente al principio dispositivo, e quindi all’iniziativa delle parti, la ricostruzione del quadro normativo interno e dei relativi orientamenti giurisprudenziali di volta in volta rilevanti, pur fruendo di poteri officiosi, peraltro raramente attivati) ai fini della ricostruzione del “diritto interno”, costituente base dalla quale partire per le ulteriori determinazioni inerenti al caso in decisione. Sulla base di questa premessa, e ritenuta l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla configurabilità del concorso esterno, che sarebbe stato superato soltanto da una decisione delle Sezioni Unite intervenuta nel 1994 (e considerata fonte dell'anzidetta “creazione giurisprudenziale” dell'istituto), la Corte EDU ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 7 Conv. EDU, poiché ha ritenuto che per il ricorrente non fosse prevedibile che le condotte contestategli ed accertate (concretizzatesi, tra l'altro, nel favoreggiamento della latitanza di un mafioso), al momento della loro commissione, in data antecedente rispetto al 1994, potessero integrare gli estremi del concorso esterno piuttosto che di altra fattispecie di reato (art. 378 c.p.). Parecchi errori ed omissioni inficiano questa decisione (Beltrani, 533 ss.): a) è, innanzi tutto, evidente l'erroneità della premessa, che accredita l'origine giurisprudenziale dell'istituto in esame, trascurandone l'incontestabile base legale ex art. 110 c.p.; né può dirsi che si tratti di un errore innocuo in quanto l'in sé della decisione della Corte EDU risiederebbe nella riaffermazione del principio di irretroattività degli orientamenti giurisprudenziali sfavorevoli, e la creazione giurisprudenziale di norme penali incriminatrici non troverebbe ostacolo nella Convenzione EDU: nella Convenzione EDU no, ma nell'art. 25, comma, 2 della Costituzione (che afferma il principio di legalità/riserva di legge e non consente la creazione giurisprudenziale di norme penali incriminatrici) sì; b) è stata, inoltre, equivocata la portata della questione controversa devoluta all'esame delle Sezioni Unite nel 1994: il contrasto non riguardava l'astratta configurabilità del concorso esterno exartt. 110 e 416-bis c.p., che era pacifica, quanto piuttosto la compatibilità dell'estensione ex art. 110 c.p. con la struttura delle singole norme incriminatrici aventi ad oggetto i reati associativi di volta in volta in questione (questo, e non altro, il contrasto devoluto per la prima volta all'esame delle Sezioni Unite, e risolto dalla sentenza n. 16/1994: « La sezione feriale, investita della questione, rilevata l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza, anche recentissima, di questa suprema corte sulla compatibilità del concorso eventuale con il reato associativo, con ordinanza in data 30 agosto 1994 rimetteva il ricorso alle sezioni unite »); c) è stata, infine, del tutto trascurata la qualifica professionale del ricorrente (funzionario di vertice della Questura di Palermo, con pluriennale esperienza di indagini di mafia, anche riguardanti il c.d. “maxiprocesso”, nell'ambito del quale l'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo aveva fatto massiccio ricorso all'istituto del “concorso esterno”), che, in ossequio alla stessa giurisprudenza della Corte EDU (V 6 ottobre 2011, Soros c. Francia) — peraltro non presa in considerazione dalla sentenza in esame —, andava valutata, onde verificare se le conoscenze tecnico-giuridiche che necessariamente ne conseguivano potessero consentire al ricorrente di prevedere i possibili sviluppi — in termini di rilevanza penale e qualificazione giuridica — della condotta posta in essere, ed in particolare la sua qualificazione come concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Secondo la giurisprudenza di legittimità, « i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 nel procedimento Contrada c. Italia, in ordine alla natura di fattispecie di creazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa, non possono essere estesi a casi diversi, in quanto, fermi restando gli obblighi di conformazione imposti dall'art. 46 Conv. EDU, che operano limitatamente al caso di cui si controverte, il sistema penale nazionale è ispirato al modello della legalità formale in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività » (Cass. I, n. 8661/2018: la S.C. ha ribadito, ancora una volta, che le Sezioni unite penali, con la sentenza n. 33478/2005, non hanno dato vita ad una nuova fattispecie incriminatrice, ma, attraverso la clausola generale prevista dell'art. 110 c.p., hanno riconosciuto la responsabilità per l'apporto che l'agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità). Le questioni di costituzionalità L'incriminazione del “concorso esterno” nei reati associativi fonda, quindi, su una base legale pacifica ed indiscutibile. Per tale ragione, è stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis c.p., sollevata per asserito contrasto con l'art. 25, comma 2, della Costituzione e con gli artt. 117 della Costituzione e 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità (nella parte in cui, secondo l'interpretazione giurisprudenziale in atto dominante, incriminano il c.d. “concorso esterno” in associazioni di tipo mafioso): « il c.d. “concorso esterno” in associazioni di tipo mafioso non è un istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato in forza della generale (perché astrattamente riferibile a tutte le norme penali incriminatrici) funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p., che estende l'ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, ricomprendendovi quelle nelle quali un soggetto non abbia posto in essere la condotta tipica, ma abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti, secondo una tecnica normativa ricorrente; la sua matrice legislativa trova una conferma testuale nella disposizione di cui all'art. 418, comma 1, c.p. » (Cass. II, n. 34147/2015 e n. 18132/2016). Natura giuridica e disciplina Il concorso esterno nei reati associativi ha, di regola, al pari della partecipazione, natura giuridica di reato permanente (Cass. V, n. 15727/2012, e Cass. VI, n. 542/2008); peraltro, nulla vieta che, come il partecipe possa, a un certo punto, decidere di non far più parte del sodalizio criminale cui aveva aderito, del pari, il concorrente esterno possa cessare di essere a disposizione — sia pure ab estrinseco della struttura malavitosa (Cass. V, n. 35100/2013). La dottrina, premesso che vi è ampia condivisione sull'assunto che « un contributo punibile a titolo di concorso nel reato associativo possa consistere anche in una condotta singola ed occasionale, purché dotata di effettiva efficacia eziologica nell'avvantaggiare l'associazione », ha osservato che « quel che dovrebbe subito desumersene è che il concorso esterno non può rientrare nel novero dei reati permanenti in senso necessario o stretto, quali ad esempio il sequestro di persona o appunto l'associazione per delinquere (semplice o mafiosa). Potrebbe allora apparire più pertinente, per le ipotesi concrete nelle quali invece (...) il contributo dell'estraneo (non si esaurisce in una prestazione puntuale, bensì) consti di più prestazioni eseguite in una prospettiva di continuità, riproporre quel concetto di reato eventualmente permanente che larga parte della dottrina in generale utilizza (pur nel dubbio della sia effettiva utilità dogmatica) in relazione — appunto — ai vari casi in cui ci si trova di fronte a condotte produttive in concreto di offese di una certa durata, senza che però ciò sia necessario per l'esistenza del reato » (G. Fiandaca e C. Visconti, 512). Quanto al trattamento sanzionatorio, nessuna apprezzabile conseguenza deriva in astratto dall'aver qualificato una condotta come di partecipazione ad un reato associativo ovvero di concorso esterno ad essa, poiché il codice penale vigente accoglie il principio della pari responsabilità dei concorrenti; ciò non esclude tuttavia, la possibilità di una diversa graduazione, in concreto, della pena, tenendo conto degli indici (oggettivi, ma anche soggettivi) di cui all'art. 133 c.p., ed in concreto del grado di inserimento nella societas sceleris, sicuramente più profondo, oggettivamente, ed animato da un dolo più intenso, nel compartecipe intraneus, piuttosto che nel concorrente extraneus. È stata, per tale ragione, dichiarata manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 110-416-bis c.p. sollevata per violazione del principio di determinatezza e di ragionevolezza della pena, sia perché la pena non sarebbe prevista dalla legge, sia perché, comunque, al concorrente esterno — nonostante il diverso e minore apporto alla consorteria criminale — è applicata la stessa pena prevista per i concorrenti interni: si è, in senso contrario, osservato che le dedotte violazioni sono, in realtà, insussistenti, poiché la pena per il concorso esterno non è indeterminata, essendo prevista dall'art. 416-bis c.p. (ovvero, come di consueto in tema di concorso eventuale, dalla disposizione che, in unione all'art. 110, origina la fattispecie di reato concorsuale corrispondete a quella di reato monosoggettivo) e, quanto al secondo profilo, il giudice, applicando le norme generali (ad es., artt. 62-bis, 132 e 133 c.p.), può comunque irrogare una pena adeguata al concreto disvalore della condotta tenuta dall'agente (Cass. II, n. 18132/2016). Nei confronti dell'indiziato di concorso esterno in associazione mafiosa possono essere disposte le misure di prevenzione patrimoniale, in quanto anch'egli rientra tra gli appartenenti alle associazioni indicate nell'art. 1, l. 31 maggio 1965, n. 575 ed ora nell'art. 4, comma 1, lett. a), D. Lgs. n. 159 del 2011 (Cass. VI, n. 4926/2017). I punti controversi. Il concorso esterno dei professionisti Pacifica dovendo ritenersi la configurabilità del concorso esterno, permangono alcuni nodi da sciogliere. Prima di ritenere il concorso esterno di soggetti che esercitino una professione (magistrati, avvocati, imprenditori, politici), è necessario stabilire quali condotte debbano essere considerate legittime perché rientranti nell'ambito delle facoltà o dei doveri professionali: solo conseguentemente sarà possibile individuare quelle che ne fuoriescano. Secondo la giurisprudenza: — per l'avvocato è legittimo fornire al proprio cliente-associato consigli, pareri etc., mantenendosi nell'ambito di quanto legalmente consentito, ma è configurabile il concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso quando egli si trasformi in un “consigliori” della cosca, ed assicuri un'assistenza tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge (Cass. II, n. 17894/2014: nel caso di specie, i consigli forniti erano diretti a far acquisire illegalmente agli esponenti del sodalizio il controllo di una società); una successiva decisione, premesso che integra la condotta di "concorso esterno" l'attività del professionista che fornisca un concreto, specifico e volontario contributo idoneo a conservare ovvero a rafforzare le capacità operative del sodalizio, nella consapevolezza di favorirne, in tal modo, la realizzazione del programma criminoso, ha ritenuto integrato il reato di concorso esterno dalla condotta di due avvocati che, travalicando i limiti del mandato difensivo, avevano, l'uno, assunto il ruolo di consigliere strategico del clan e del suo "leader" e, l'altro, recapitato a più membri del sodalizio un'informativa riservata di polizia giudiziaria, nonché garantito ai sodali detenuti suoi assistiti, attraverso lo strumentale utilizzo dell'istituto dei colloqui, la possibilità di incontrarsi e di intrattenere indebite conversazioni tra loro e quella di comunicare, suo tramite, con sodali non detenuti (Cass. V, n. 18020/2022); - per il professionista non inserito stabilmente nel tessuto organizzativo del sodalizio, che presti la propria attività nell'interesse di esso, ai fini della prova dell'efficienza causale del predetto contributo non si richiede la compiuta realizzazione del risultato illecito finale perseguito dall'associazione, ma assume rilievo la mera messa a disposizione dei sodali delle proprie competenze professionali e l'esecuzione puntuale delle prestazioni richieste, trattandosi di attività che comunque consolida e rafforza le capacità operative dell'organizzazione (Cass. VI, n. 32902/2021: fattispecie in cui si è ritenuta la responsabilità del professionista che, nell'interesse del sodalizio mafioso, alterava i bilanci e costituiva rapporti lavorativi simulati per ottenere indebiti finanziamenti, veicolando, inoltre, messaggi intimidatori tipicamente mafiosi nella gestione di un rapporto negoziale controverso, ed individuando una possibile testa di legno per l'amministrazione di una impresa di interesse del gruppo); — deve ritenersi “colluso” l'imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale ed essendo privo dell'affectio societatis, instauri con la cosca un rapporto costituente fonte di reciproci vantaggi (Cass. VI, n. 30346/2013: nel caso di specie, l'imprenditore operava nell'ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso un'attività di illecita interferenza, che comportava, a suo vantaggio, il conseguimento di commesse, e, in favore del sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di influenza nel settore economico, controllando appalti ad imprese contigue, e conseguendo risorse, servizi ed utilità varie). Integra il reato di di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta dell'imprenditore “colluso” che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi, consistenti, per l'imprenditore, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l'organizzazione mafiosa, nell'ottenere risorse, servizi od utilità (Cass. VI, n. 25261/2018: fattispecie in cui un imprenditore, che si occupava del trasporto dei rifiuti presso un termovalizzatore, poneva in essere una sistematica sovrafatturazione mediante la quale veniva occultato il “pizzo” pagato dalla società che gestiva il termovalizzatore e che era successivamente riversato all'associazione criminosa, ottenendone in cambio il monopolio del servizio di trasporto; conforme, Cass. V, n. 30133/2018: fattispecie relativa ad un imprenditore che si era accordato con i vertici di Cosa Nostra al fine di ottenere il monopolio, nei quartieri di rispettivo controllo, nelle attività di gestione dei videopoker e degli apparati di intrattenimento elettronici, in cambio del versamento di corrispettivi fissi o a percentuale sulle entrate). Si è successivamente ritenuto che integra il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta dell'imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e pur privo della affectio societatis, instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l'imprenditore, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l'organizzazione mafiosa, nell'ottenere risorse, servizi o utilità, anche in forma di corresponsione di una percentuale sui profitti percepiti dal concorrente esterno (Cass. I, n. 47054/2021: fattispecie riguardante un imprenditore del settore delle onoranze funebri che, in cambio della garanzia di operare in regime di sostanziale monopolio, aveva messo a disposizione dell'associazione mafiosa la propria attività commerciale, corrispondendo periodicamente alla stessa somme di denaro, così da consentire la pianificazione delle attività di controllo illecito dello specifico segmento imprenditoriale). Segue. Il rapporto di causalità L’elaborazione giurisprudenziale relativa alla rilevanza causale del contributo del concorrente esterno riprende, più o meno pedissequamente, i principi affermati dalla sentenza Franzese, senza considerare Beltrani, 537) che in quest’ultima si discorreva di reati con evento in senso naturalistico, laddove, al contrario, nei reati associativi vi è un mero evento in senso giuridico, necessariamente consistente nella mera offesa del bene giuridico tutelato. La dottrina ha osservato che « il concorso di persone è essenzialmente, e prima di tutto, concorso di condotte e tra condotte: l’efficacia causale, qualora il reato commesso in concorso preveda un evento tipico, si riferisce all’insieme delle condotte, e non a ciascuna di esse singolarmente considerate. Ma nei reati associativi un evento tipico non è contemplato. Occorrerà dunque acconciarsi a riconoscere la necessità che il concorso si dislochi lungo l’asse delle condotte associative tipiche; non solo, ovviamente, quelle di partecipazione, ma anche quelle di organizzazione o di direzione. Così, ad esempio, il commercialista che cura la mimetizzazione di imprese controllate dalle cosche potrà risultare semplicemente (ma sufficientemente) un concorrente “esterno” rispetto a condotte “intratipiche” di organizzazione, e così via dicendo » (T. Padovani, 497, per il quale, inoltre, « costituisce opera vana lo sforzo di impostare il rapporto tra la condotta tipica e quella del concorrente eventuale sul piano della causalità. Il nesso che le condotte debbono presentare per assumere una dimensione concorsuale dovrebbe piuttosto essere colto su un piano diverso, quello della strumentalità »). Altra dottrina osserva, in particolare, che, « prescindendo da qualunque valutazione in termini eziologici (...) ci si dovrebbe invero concentrare sulla sola circostanza che dell’apporto del concorrente ci si sia “serviti” per la commissione del reato: nella relazione tra comportamenti umani — e non più tra una condotta ed un puro evento naturalistico — il tratto saliente sarebbe, insomma, quello della scelta di “utilizzare” il contributo (ad es., quello consistente nel fornire mezzi, informazioni, suggerimenti “strategici”, e così via dicendo) di altri soggetti, finalizzandolo al perseguimento del piano criminoso di volta in volta deliberato » (G.A. De Francesco 2012, 2500 ss.) Si è, infine, evidenziato che « la strumentalità, implicando la prova dell’effettiva utilizzazione del contributo esterno (per commettere una, o più, delle condotte tipiche associative, e, al limite, un intero “comparto” di tali condotte) ha una portata selettiva ignota ai tautologismi di cui talora sembra pervasa la giurisprudenza proclive a identificare la rilevanza concorsuale in una idoneità ex ante dagli enigmatici confini » (Padovani, 498). Le circostanze aggravanti. La giurisprudenza reputa di massima configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, comma 4, c.p. a carico di ogni partecipe del sodalizio di tipo mafioso che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa; ai fini del relativo accertamento, si attribuisce rilievo anche al fatto notorio della stabile detenzione di tali strumenti di offesa da parte del sodalizio mafioso (Cass. II, n. 50714/2019; Cass. I, n. 44704/2015). Un orientamento (Cass. II, n. 31775/2023; Cass. VI, n. 36198/2014) ha, peraltro, evidenziato che tale impostazione non può essere automaticamente estesa al concorrente "esterno" poiché, se la dotazione di strumenti di offesa è connaturata al perseguimento degli scopi di un sodalizio di tipo mafioso, ed è quindi ragionevole presumere la conoscenza di tale disponibilità anche in capo agli altri associati, tale dato, però, non è sufficiente per ritenere accertata l'aggravante anche nei confronti dei concorrenti esterni alla cosca mafiosa, non essendo tali soggetti organici al gruppo delinquenziale Casistica Integra la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta di colui che, pur restando al di fuori del sodalizio criminale, assicura allo stesso, nell'arco di un periodo di tempo pluriennale, la costante consegna di cospicue somme di denaro quale corrispettivo della ‘tranquillità' personale ed economica assicuratagli, in esecuzione di un accordo stipulato tra le due “parti” (anche per effetto della mediazione dell'agente), poiché tale comportamento configura un contributo causale determinante alla realizzazione, almeno parziale, del programma criminoso dell'organizzazione delinquenziale, diretto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione (Cass. I, n. 28225/2014). Il rafforzamento del sodalizio, quale evento del contributo causale del concorrente, può peraltro consistere, oltre che nell'incremento della potenza finanziaria della cosca, anche nel solo aumento del prestigio e dell'importanza di quest'ultima nell'ambito dei rapporti con le altre consorterie criminali, indipendentemente dai risultati economici conseguiti (Cass. II, n. 17894/2014). Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è stato altresì configurato nell'ipotesi della promessa di un esponente politico di favorire, in cambio del sostegno elettorale, il sodalizio nei futuri rapporti con la pubblica amministrazione (Cass. I, n. 8531/2013), non rilevando peraltro che l'impegno assunto sia stato successivamente rispettato o gli obiettivi del sodalizio effettivamente raggiunti (Cass. S.U., n. 33748/2005; Cass. II, n. 45402/2018). Allo stesso modo, integra la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta di chi, anche avvalendosi della collaborazione di altre persone, pone in essere un'attività di avvicinamento al mondo politico-istituzionale in un'ottica di vantaggio per la cosca di riferimento, offrendo appoggio elettorale attraverso la creazione di circoli di partito in aree di dominio della consorteria, con il manifesto interesse di ottenere mitigazioni del regime carcerario e cariche onorifiche in favore di esponenti della stessa, così da contribuire ad accrescerne l'egemonia rispetto ad un sodalizio rivale operante sul medesimo territorio (Cass. VI, n. 19191/2013). La condotta reiterata e continuativa di rivelazione a membri del sodalizio criminale di notizie relative a indagini svolte nei loro confronti dall'autorità costituisce una condotta di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, e non di favoreggiamento continuato (Cass. V, n. 22582/2012; Cass. II, n. 15583/2011); il soggetto che svolga, per conto della cosca criminale, attività d'interlocuzione con un'infiltrato (o agente provocatore), al fine di ‘assicurare la pace sociale' a talune imprese aggiudicatarie di lavori pubblici, risponde di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, qualora l'azione criminosa non derivi esclusivamente dagli spunti e dalle sollecitazioni istigatrici dell'infiltrato, ma costituisca l'effetto di stimoli ed elementi condizionanti autonomamente riferibili all'agente: in tal caso deve escludersi la configurabilità di un ‘reato impossibile', posto che l'inidoneità della condotta (ex art. 49 c.p.) dev'essere valutata oggettivamente con giudizio ex ante, nel suo valore assoluto e non di relazione con la simultanea azione dell'infiltrato (Cass. VI, n. 39216/2013). È stata esclusa la configurabilità del concorso ‘esterno' nella condotta dell'imputato che abbia preso in consegna e custodito un'arma di pertinenza dell'organizzazione e destinata all'esecuzione di un agguato già programmato, in assenza della dimostrazione dell'effettiva e significativa incidenza della circostanza sull'attività del sodalizio (Cass. VI, n. 31345/2011). Risponde di concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis il professionista esperto in materia finanziaria che offra consapevolmente al sodalizio il proprio contributo tecnico per il perseguimento degli scopi sociali, mettendo a disposizione la propria specifica capacità professionale di tipo economico- finanziario, poiché in tal modo rafforza il sodalizio assicurandogli il reimpiego dei profitti illeciti. Integra un'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa la condotta di appartenenti a forze di polizia giudiziaria che, in cambio del pagamento di una somma mensile da parte di un'organizzazione mafiosa, si rendono disponibili a fornire notizie in ordine a indagini in corso, operazioni preventive in preparazione e iniziative di polizia in danno dei sodali, in tal modo rendendo più sicuri i piani criminali del sodalizio e favorendone l'ideazione e l'esecuzione (Cass. VI, n. 11898/2013). Integra il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso la condotta di un appartenente alla polizia di Stato che, consapevole della caratura criminale di alcuni affiliati a una cosca, pur non essendo organicamente inserito nella struttura organizzativa di essa, compia, anche in forza di un patto corruttivo, una serie di atti diretti a favorire tali soggetti, tra cui la rivelazione di notizie riservate, trattandosi di contributi causalmente idonei alla conservazione e al rafforzamento della operatività del sodalizio criminale (Cass. II, n. 39774/2022). Risponde del reato di concorso esterno nel reato associativo e non di procurata inosservanza di pena, colui che, esterno al sodalizio, agisce con la finalità di fornire non un aiuto episodico al singolo associato per sottrarsi all'esecuzione della pena, ma un contributo causalmente diretto alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio (Cass. I, n. 21642/2016). Segue. Gli effetti della decisione della Corte EDU nel caso Contrada
Il caso Contrada nella giurisprudenza di legittimità Una decisione ha ritenuto che l'incidente di esecuzione regolato dagli artt. 666 e 670 c.p.p. costituisce strumento appropriato per l'attuazione di una decisione della Corte EDU quando questa non impone la riedizione del processo per violazione dell'art. 6 della Conv. EDU, realizzabile con lo strumento della “revisione europea” introdotta dalla Corte cost. (sentenza n. 113 del 2011), ma la mera rimozione degli effetti pregiudizievoli della condanna, alla quale il giudice dell'esecuzione è senz'altro abilitato fino a quando non si sia esaurito il rapporto esecutivo (Cass. I, n. 43112/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato ineseguibile ed improduttiva di effetti penali la sentenza irrevocabile di condanna emessa nei confronti dell'interessato). La dottrina (Beltrani, 2017), ha manifestato perplessità sulla correttezza della predetta soluzione, che proprio la Corte costituzionale nel dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 630 c.p.p. nella aprte in cui non prevedeva, tra i casi di revisione, quello in cui la Corte EDU abbia accertato che la condanna è stata pronunciata in violazione delle regole sull'equo processo, aveva evidenziato che il ricorso allo strumento fornito dall'incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p. si rivela inadeguato, perché “congela” il giudicato, impedendone l'esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”, e non fornisce risposta all'esigenza primaria della riapertura del processo in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione EDU (tutte, non solo quella di cui all'art. 6). L'unico strumento a disposizione dell'interessato per far valere le proprie eventuali ragioni era dunque la richiesta di revisione, proponibile ex art. 630 c.p.p. a seguito della citata sentenza “additiva” della Corte costituzionale. Peraltro, nel caso in esame, lo strumento di cui all'art. 670 c.p.p. è stato attivato d'ufficio, in difetto di una richiesta della parte (che si era limitata a chiedere la revoca della sentenza di condanna, essendosi a suo avviso in presenza di una situazione equiparabile a quella prevista dall'art. 673 c.p.p. — abolitio criminis); andava, inoltre, valutata l'opportunità di qualificare i fatti come favoreggiamento personale (lo aveva chiesto la stessa difesa dell'imputato, sia pure in via gradata, nell'ambito del processo di cognizione). I cc.dd. “fratelli minori" di Contrada Secondo la giurisprudenza ha inizialmente ritenuto che la decisione della Corte EDU del 14 aprile 2015, caso Contrada contro Italia non può essere estesa a casi diversi da quello che ne forma direttamente oggetto, in relazione al quale soltanto vigono gli obblighi di conformazione imposti dall'art. 46 Conv. EDU, in quanto l'assunto per il quale il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituirebbe reato di “creazione giurisprudenziale” non corrisponde alla realtà dell'ordinamento penale nazionale che si ispira al modello della legalità formale (Cass. I, n. 36509/1018: in motivazione, la S.C. ha osservato che le Sezioni unite penali, nelle decisioni che affermano la configurabilità del reato in parola, osservano i principi di legalità e tassatività delle fattispecie incriminatrici e delle relative sanzioni, fondandosi sulla combinazione tra la norma incriminatrice speciale e l'art. 110 c.p.). Con la sentenza Cass S.U. n. 8544/2020, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno affermato che <<i principi affermati dalla Corte EDU, sentenza 14 aprile 2015, caso Contrada c. Italia, non si estendono a coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, perché la predetta sentenza della Corte EDU non è una “sentenza pilota”, e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata, in presenza di orientamenti della stessa Corte EDU di segno contrario>>, in particolare quanto all’accezione della “prevedibilità” ex art. 7 Conv. EDU (che la sentenza Contrada ha – sia pur implicitamente - inteso in senso oggettivo, mentre plurime ulteriori decisioni, precedenti e successive, hanno inteso in senso soggettivo). Segue. I rapporti con la decisione quadro 2008/841/GAINon sussiste contrasto tra l'art. 416-bis cod. pen. e le prescrizioni contenute nella decisione quadro 2008/841/GAI. La questione è stata posta in riferimento all'art. 2 della citata DQ, che consente la configurazione della partecipazione ad una associazione per delinquere alternativamente a carico di chi: a) prenda parte attiva alla commissione di reati fine con la consapevolezza che la sua partecipazione a dette condotte criminali contribuirà alla realizzazione del programma del sodalizio; b) pur non commettendo materialmente reati-fine, si accordi con gli autori di un numero indeterminato di reati al fine di favorirne la realizzazione nell'interesse dell'associazione. La giurisprudenza (Cass. VI, n. 55748/2017) ha osservato che nessun inconciliabile contrasto della normativa nazionale con la decisione-quadro in esame è ipotizzabile in relazione all'art. 416-bis, che definisce “una fattispecie astratta che da un lato esula dalle prescrizioni della Decisione Quadro e, dall'altro, è pienamente in linea con quella fonte normativa dell'Unione Europea, tanto per quanto attiene alla descrizione delle condotte punibili che in ordine al relativo trattamento sanzionatorio”. Invero, la fattispecie in esame contiene elementi specializzanti rispetto all'associazione per delinquere ordinaria (l'avvalersi della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, nonché la finalità di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali) che devono ritenersi autorizzati dal § 4 del Preambolo della Decisione Quadro, secondo il quale “Gli obblighi derivanti dall'articolo 2, lettera a), non dovrebbero pregiudicare la libertà degli Stati membri di classificare altri gruppi di persone come organizzazioni criminali”; risulta, di conseguenza, giustificato anche il relativo trattamento sanzionatorio. Rapporti con altri reatiL'elemento che caratterizza l'associazione di tipo mafioso rispetto all'associazione dedita al narcotraffico, in presenza del quale può configurarsi il concorso tra i due delitti, è costituito non tanto dal fine di commettere altri reati, quanto dal profilo programmatico dell'utilizzo del metodo, che, nell'associazione di cui all'art. 416-bis, ha una portata non limitata al traffico di sostanze stupefacenti, ma si proietta sull'imposizione di una sfera di dominio in cui si inseriscono la commissione di delitti, l'acquisizione della gestione di attività economiche, di concessioni, appalti e servizi pubblici, l'impedimento o l'ostacolo al libero esercizio di voto, il procacciamento del voto in consultazioni elettorali (Cass. VI, n. 563/2015). È ipotizzabile il concorso del reato di associazione di tipo mafioso con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti (Cass. I, n. 4071/2020): invero, la disposizione di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (che punisce l'associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti) non si pone in rapporto di specialità con l'art. 416-bis in quanto i due reati si distinguono nettamente, essendo caratterizzato il secondo dal metodo mafioso, assente nel primo, il quale contiene un elemento costituito dalla natura dei reati-fine, specializzante solo rispetto al delitto di cui all'art. 416; ciò significa che fra le predette norme incriminatrici esiste un rapporto di specialità reciproca, che non consente l'applicazione del principio sancito dall'art. 15, ma rende configurabile il concorso formale fra i due reati. Pertanto, se l'esistenza un sodalizio criminoso non mafioso finalizzato esclusivamente al traffico di sostanze stupefacenti configura il reato di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 e non anche quello di cui all'art. 416, il fatto di un'organizzazione mafiosa che si dedichi a detto traffico rientra nell'ambito applicativo di entrambe le fattispecie criminose (Cass. II, n. 9961/1995), anche nel caso in cui la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di traffici di sostanze stupefacenti e reati diversi (Cass. S.U., n. 1149/2008; Cass. VI, n. 46301/2013; Cass. II, n. 36692/2012). Nel caso in cui il traffico di stupefacenti sia oggetto di una delle attività di un'associazione di tipo mafioso e venga gestito attraverso un'associazione all'uopo finalizzata e appositamente costituita e diretta dai componenti di quella mafiosa, non solo questi ultimi, ma altresì coloro che abbiano operato esclusivamente nell'ambito del traffico di stupefacenti rispondono di entrambi i reati associativi (di tipo mafioso ed ex art. 74 cit.), qualora siano consapevoli che il ridetto traffico di stupefacenti sia gestito dal sodalizio mafioso (Cass. VI, n. 4651/2009). Il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività dell'associazione o a perseguirne i partecipi, mentre nel secondo egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell'attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa (Cass. I, n. 33243/2013); il delitto di favoreggiamento personale risulta, quindi, strutturalmente incompatibile con il reato associativo, in quanto presuppone che il soggetto attivo non sia stato coinvolto, né oggettivamente, né soggettivamente, nella realizzazione del reato presupposto (Cass. II, n. 18376/2013); peraltro, i due reati possono concorrere nei casi in cui la condotta di favoreggiamento si riferisce alla copertura di un singolo reato-fine ovvero di un reato totalmente estraneo alle finalità dell'associazione o quando esso sia posto in essere dopo lo scioglimento dell'associazione medesima (Cass. I, n. 48190/2013). Il delitto di associazione di tipo mafioso può costituire il presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali, in quanto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando negli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso. Non è peraltro configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni; viceversa, può configurarsi il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale (Cass. S.U., n. 25191/2014). La norma incriminatrice dei fatti di illecita concorrenza mediante violenza o minaccia (art. 513-bis) non è speciale rispetto a quella incriminatrice dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, sicché i due reati, attesa l'episodicità del primo e la struttura associativa del secondo, possono concorrere (Cass. II, n. 12785/2011). Il reato di procurata inosservanza di pena deve ritenersi assorbito in quello di partecipazione ad un'associazione per delinquere di stampo mafioso, salvo che la condotta di ausilio posta in essere dal partecipe riguardi la copertura di un solo specifico fatto di reato, ovvero condotte criminose estranee al fenomeno associativo (Cass. VI, n. 8657/2013). Associazione di tipo mafioso e associazione a delinquere Tra le figure dell'associazione di tipo mafioso e quella dell'associazione a delinquere comune deve ritenersi esistente un rapporto di specialità, atteso che l'esercizio del metodo mafioso costituisce un requisito aggiuntivo rispetto ai connotati dell'associazione comune (Ingroia, 128; Spagnolo, 174; Marini, 576). Contra, nel senso che il metodo mafioso rivesta un ruolo sostitutivo e non aggiuntivo, Neppi Modona, 51; Antonini, 289; Flick, 858). Qualora la condotta di appartenenza a un'associazione per delinquere di tipo mafioso, caratterizzata cioè dai requisiti propri della figura delittuosa di cui all'art. 416-bis, sia stata posta in essere fin da prima dell'entrata in vigore della legge 13 settembre 1982, n. 646, che tale ipotesi criminosa ha introdotto, si configura un unico reato associativo di natura permanente, con esclusione della continuazione fra i reati previsti dagli artt. 416 e 416-bis ed applicazione, anche per il periodo precedente all'entrata in vigore della predetta legge n. 646/1982, della pena prevista dall'art. 416-bis (Cass. I, n. 40203/2010; Cass. V, n. 45860/2012). La giurisprudenza ammette la configurabilità del concorso tra un'associazione di stampo mafioso, che operi secondo il paradigma di cui all'art. 416-bis e un'associazione per delinquere, dotata di un'autonoma struttura organizzativa, che, avvalendosi del contributo dei propri sodali, anche diversi dagli affiliati al sodalizio mafioso, persegua un proprio programma delittuoso dalla cui attuazione discende il concomitante conseguimento dell'interesse del clan, nella specie, nel settore del gioco d'azzardo (Cass. VI, n. 11356/2018). Una recente decisione (Cass. II, n. 8790/2024) ha ritenuto configurabile il concorso tra un'associazione di tipo mafioso e un'associazione per delinquere dotata di un'autonoma struttura organizzativa che, avvalendosi del contributo di sodali anche diversi dai soggetti affiliati al sodalizio mafioso, persegua un proprio programma delittuoso, dalla cui attuazione discende il concomitante conseguimento dell'interesse del clan, escludendo la violazione del principio del ne bis in idem per il rilievo dell'insussistenza, nel rapporto tra le fattispecie associative, di piena coincidenza degli elementi costitutivi, difettando nell'associazione per delinquere generica il profilo programmatico del metodo mafioso. Associazione di tipo mafioso e favoreggiamento E' configurabile il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, e non quello di favoreggiamento reale, nel caso in cui l'agente non si limita ad aiutare gli associati a conservare il denaro provento dell'attività del sodalizio, ma collabora costantemente e stabilmente alla sua gestione (Cass. I, n. 9021/2024: fattispecie in cui è stata qualificata come partecipazione ad associazione mafiosa la condotta dell'imputata, che aveva ricevuto, detenuto e occultato, con continuità, i guadagni del sodalizio, destinati agli associati detenuti e ai capi latitanti). Trattamento sanzionatorio e successione di leggiIn presenza di una contestazione del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in forma “chiusa”, che abbracci un lungo arco temporale nel corso del quale sia intervenuta una modifica in peius del trattamento sanzionatorio (nella specie, la l n. 69/2015), è specifico onere dell'accusa dimostrare che la condotta si sia protratta per tutto il periodo contestato e, comunque, anche dopo detta modifica, con conseguente illegittimità, in difetto, della sentenza di condanna alla pena determinata sulla base delle deteriori previsioni sanzionatorie sopravvenute (Cass. I, n. 14823/2020). In presenza di plurimi aggravamenti, nel tempo, del regime sanzionatorio, quello in concreto applicabile al reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. deve determinarsi con riferimento alla data di cessazione della permanenza così come contestata. Ove la contestazione del reato di associazione di tipo mafioso rechi la sola indicazione del termine iniziale della condotta, e, prima della cessazione della permanenza, sopravvenga una legge che inasprisca il trattamento sanzionatorio, può essere applicata la lex mitior previgente soltanto nel caso in cui sia acquisita la prova del recesso dell'associato prima dell'entrata in vigore della legge sopravvenuta (Cass. II, n. 1061/2021). Nelle ipotesi di contestazione in forma c.d. aperta, quando cioè il capo di imputazione contesti la partecipazione "in permanenza attuale", vale quale momento finale consumativo della condotta associativa quello coincidente con la sentenza di primo grado, alla cui data, pertanto, va individuata la pena prevista (Cass. II, n. 20098/2020). In presenza di una contestazionein forma c.d. "chiusa", che abbracci un lungo arco temporale nel corso del quale sia intervenuta una modifica in peius del trattamento sanzionatorio, l'applicazione della nuova cornice sanzionatoria non richiede la dimostrazione da parte dell'accusa che la condotta si sia protratta anche dopo detta modifica, in quanto, accertata l'esistenza dell'"offerta di contribuzione permanente" dell'affiliato all'associazione, questa deve ritenersi valida e produttiva di effetti fino alla dimostrazione del recesso (spontaneo o provocato ab externo) (Cass. II, n. 34615/2021). Segue. La confiscaLa confisca disciplinata dall'articolo in esame (comma 7) differisce da quella prevista in generale dall'art. 240, essendo sempre obbligatoria; avendo per oggetto anche le cose che costituiscono l'impiego del prezzo, del prodotto o del profitto; e non contenendo l'espressa riserva in ordine all'inapplicabilità per il caso che la cosa appartenga a persona estranea al reato (Marini, 576). Il carattere d'inderogabile obbligatorietà ha indotto parte della dottrina ad accostare la confisca ex art. 416-bis, comma 7, alla categoria più delle pene accessorie che non delle misure di sicurezza (Spagnolo, 194; Turone, 367). La confisca disposta ai sensi dell'art. 416-bis, comma settimo, con riguardo ai beni strumentali alla realizzazione del delitto associativo e a quelli che ne costituiscono il prezzo, il prodotto, il profitto o il reimpiego, ha natura di misura di sicurezza patrimoniale speciale (Cass. S.U., n. 6/1985); pur conseguendo automaticamente alla condanna, impone una motivazione rigorosa sul quantum da sottoporre ad ablazione, la quale, salvo il caso in cui si ravvisi la esistenza di un'impresa mafiosa, deve evidenziare in modo puntuale il nesso di pertinenza fra cespiti oggetto di vincolo reale e attività illecita (Cass. VI, n. 39911/2014). Ai fini del sequestro funzionale alla confisca ex art. 416-bis, comma 7, dei beni di un'azienda intestata ad un soggetto terzo non indagato del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare che l'indagato o imputato sia l'effettivo titolare del bene e che il bene sia stato stabilmente asservito all'attività dell'associazione mafiosa per la realizzazione del suo progetto criminale (Cass. II, n. 33806/2018). Sono assoggettabili in via cautelare a sequestro preventivo, finalizzato alla confisca in esame, le partecipazioni a società conferite in un trust, allorché sussistano elementi indiziari sintomatici della persistente disponibilità dei beni in capo ai precedenti amministratori indagati per reati di associazione di tipo mafioso, e, quindi, del carattere fittizio dell'operazione negoziale di trasferimento fiduciario (Cass. VI, n. 21621/2014 ); si è, in proposito, precisato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 416-bis, comma 7, può avere ad oggetto un'intera impresa allorché questa sia qualificabile come mafiosa, ovvero quando vi sia totale sovrapposizione tra le compagini associativa e criminale, il che si verifica quando l'intera attività d'impresa sia inquinata da risorse di provenienza delittuosa che abbiano determinato una contaminazione irreversibile dell'accumulo di ricchezza, rendendo impossibile la distinzione tra capitali leciti ed illeciti, o, infine, quando l'impresa sia asservita al controllo della consorteria, condividendone progetti e dinamiche e divenendone lo strumento operativo, con conseguente commistione tra le attività d'impresa e mafiosa (Cass. I, n. 13043/2020). Una successiva decisione ha ritenuto che, ai fini della confisca ex art. 416-bis, comma 7, di un intero patrimonio aziendale è necessario che la società sia qualificabile come mafiosa, ovvero che sussista correlazione, specifica e concreta, tra la gestione e le attività dell'impresa e le attività riconducibili all'associazione, essendo di per sé insufficiente la mera partecipazione al sodalizio criminale dell'amministratore (Cass. VI, n. 21741/2021). La declaratoria di estinzione del reato di associazione di tipo mafioso per morte del reo, non comporta la restituzione, in favore degli eredi, dei proventi delle attività illecite dell'associazione dei quali sia stata disposta la confisca nel corso del giudizio di merito, difettando lo jus possidendi sia nel de cuius, sia nei suoi successori (Cass. I, n. 24843/2010). Profili processuali
Gli istituti
Il reato di associazione di tipo mafioso è reato procedibile d’ufficio e di competenza per materia del Tribunale collegiale, con citazione all’esito di udienza preliminare; nel corso delle indagini preliminari, è prevista la competenza distrettuale. Per tale reato: a) l’arresto in flagranza è obbligatorio; b) il fermo è consentito; c) l’applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali è consentita.
La competenza per territorio Cfr. sub art. 416, § 11.2. In tema di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso con il ruolo di capo, nell'ipotesi di organizzazione radicata in un particolare territorio che estenda la propria forza operativa attraverso strutture periferiche ubicate in altre zone, si è ritenuto che la competenza per territorio vada individuata con riferimento al luogo ove si trova la cosca madre, da cui dipende il conferimento e la ratifica delle cariche delle articolazioni satelliti, anche se dotate di una certa autonomia di azione (Cass. II, n. 29189/2020: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto corretta l'individuazione della competenza territoriale del giudice di Reggio Calabria, ove aveva sede l'organizzazione di stampo mafioso appartenente alla 'ndrangheta, a capo della quale vi era l'imputato, da cui dipendevano cellule operative in Lombardia). Nel caso in cui il reato di cui all'art. 416-bis c.p. riguardi una c.d. “mafia delocalizzata”, ovvero un sodalizio costituito fuori dal territorio di origine della “mafia storica” della quale il predetto sodalizio costituisca derivazione, la competenza per territorio va determinata avendo riguardo al luogo nel quale risultano concretamente programmate, ideate e dirette le attività del sodalizio, e nel quale il sodalizio si è esteriorizzato attraverso l'esecuzione dei delitti-finee l'esercizio della riserva di violenza di cui il sodalizio stesso risulta portatore, così manifestandosi, secondo un criterio di effettività, l'operatività della struttura e, conseguentemente, la messa in pericolo del bene protetto (Cass. II, n. 5584/2022). Misure cautelari In tema di applicazione di misure cautelari personali nei confronti dell'indagato/imputato per il delitto di associazione di tipo mafioso, i gravi indizi di colpevolezza possono dedursi anche dalla precedente condanna del soggetto per l'adesione al medesimo sodalizio e dal ruolo assunto all'interno dell'organizzazione, valutati congiuntamente agli ulteriori elementi acquisiti a sostegno della perdurante partecipazione relativamente al periodo successivo a quello cui è riferita la condanna ( Cass. VI, n. 3508/2020 ). Anche a seguito delle modifiche introdotte con l. n. 47/2015, l'art. 275, comma 3, c.p.p. continua a prevedere una doppia presunzione, relativa quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari ed assoluta con riguardo all'adeguatezza della misura carceraria; ne consegue che, in presenza di gravi indizi di colpevolezza del delitto di partecipazione ad un'associazione mafiosa, il giudice non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis, ma deve soltanto apprezzare l'eventuale sussistenza di segnali di rescissione del legame del soggetto con il sodalizio criminale tali da smentire, nel caso concreto, l'effetto della presunzione, in mancanza dei quali trova applicazione in via obbligatoria la sola misura della custodia in carcere (Cass. II, n. 19283/2017; Cass. V, n. 57580/2018, con la precisazione che, tra le ragioni di esclusione suddette, la sola rescissione dei legami con il sodalizio di appartenenza ha valore determinante, mentre il fattore “tempo trascorso dai fatti” deve essere parametrato alla gravità della condotta); la predetta presunzione relativa di pericolosità sociale può essere superata anche quando, dagli elementi a disposizione del giudice, emerga una situazione che, pur, se non risulti la dissociazione dell'indagato dal sodalizio, dimostri – in modo obiettivo e concreto – l'effettivo ed irreversibile allontanamento dell'indagato dal gruppo criminale e la conseguente mancanza delle esigenze cautelari (Cass. VI, n. 28821/2020;Cass. I, n. 13593/2017, per la quale, inoltre, la mancanza di prova di rapporti dell'indagato con altri esponenti della cosca non costituisce elemento idoneo al superamento della presunzione di pericolosità). La presunzione relativa in oggetto viene naturalmente meno anche nei casi in cui emerga ex actis, o sia convincentemente fornita dall'interessato, la prova che il sodalizio enucleato non è più operativo (Cass. II, n. 7837/2021). Qualora intercorra un considerevole o comunque apprezzabile lasso di tempo - il c.d. tempo silente - tra l'emissione della misura ed i fatti contestati in via provvisoria all'indagato, il giudice ha l'obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o anche d'ufficio, in ordine alla possibile incidenza del tempo trascorso sull'esistenza e sull'attualità delle esigenze cautelari, ed in particolare sul pericolo di recidiva, anche nel caso in cui non risulti una dissociazione espressa dal sodalizio; il c.d. tempo silente non può, di per sé, dimostrare l'irreversibile recesso dell'indagato dal sodalizio, ma vavalutato unitamente agli altri elementi che possono contribuire ad evidenziare il sopravvenuto venir meno dell'attualità della predetta esigenza cautelare, di natura oggettiva ( le connotazioni della consorteria e il ruolo rivestito dall'indagato) e soggettiva (l'inizio di un'attività di collaborazione con la giustizia dell'indagato e/o il suo trasferimento in altra zona teritlraie) (Cass. II, n. 7837/2021; Cass. V, n. 31614/2020: fattispecie relativa all'applicazione della custodia cautelare in carcere per il reato di omicidio aggravato dalla finalità agevolativa di consorzio associativo mafioso nei confronti di persona detenuta da lungo tempo in regime speciale di cui all'art. 41-bis ord. pen., in cui la S.C. ha annullato, con rinvio al tribunale del riesame, l'ordinanza impugnata rilevando che il tempo trascorso dal fatto, pari ad oltre venticinque anni, doveva essere valutato alla luce di tutte le condotte, coeve e successive al fatto, poste in essere dal soggetto, che, per gravità, entità e ruolo rivestito nel sodalizio criminoso, tuttora esistente in vita, fossero indicative della partecipazione pregressa e della perdurante adesione allo stesso; Cass. VI, n. 16867/2018: fattispecie in cui la S.C. ha escluso la rilevanza del c.d. “tempo silente” in considerazione dal fatto che il ricorrente era stato già condannato in via definitiva per il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso e che la misura custodiale impugnata era stata applicata in relazione ad indizi di reità relativi al successivo conseguimento da parte del ricorrente di un “grado” superiore all'interno della medesima consorteria; Cass. VI, n. 25517/2017, in fattispecie relativa a contestazione dell'associazione “in forma chiusa”, risalente a circa sette anni prima; Cass. VI, n. 20304/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale del riesame di conferma della misura custodiale emessa dal G.u.p., successivamente alla condanna del ricorrente per il reato di cui all'art. 416-bis, rilevando che il lungo periodo di custodia cautelare – nella specie circa cinque anni – subito dal ricorrente per altro reato doveva essere valutato, unitamente all'epoca risalente dei fatti ed alla genericità della dedotta permanenza della condotta associativa, quale elemento incidente sulla valutazione, in termini di concretezza ed attualità, del pericolo di fuga e di quello di reiterazione che non divengono concreti ed attuali per effetto dell'intervenuta condanna). Un orientamento ritiene che, quando la custodia cautelare in carcere sia disposta per il reato previsto dall'art. 416-bis, ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., occorre distinguere tra associazioni mafiose storiche o comunque caratterizzate da particolare stabilità, in relazione alle quali è necessaria la dimostrazione del recesso dell'indagato dalla consorteria, ed associazioni mafiose non riconducibili alla categorie delle mafie “storiche”, per le quali possono rilevare anche la distanza temporale tra la applicazione della misura ed i fatti contestati, nonché elementi che dimostrino la instabilità o temporaneità del vincolo (Cass. II, n. 26904/2017; Cass. V, n. 36389/2019); altro orientamento, al contrario, ritiene che, ai fini della predetta valutazione, la distinzione tra mafie “storiche” e formazioni di nuova costituzione non assume rilevanza, in quanto in entrambi i casi la presunzione è superata a fronte della prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio criminale, a prescindere dalla perdurante stabilità dell'associazione (Cass. VI, n. 15753/2018: fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio l'ordinanza cautelare, non essendo stata adeguatamente valutata l'incidenza del tempo trascorso dalla commissione del fatto e l'allontanamento del soggetto dal territorio in cui l'organizzazione operava). In seno a quest'ultimo orientamento, si è, da ultimo, ritenuto che a presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. opera allo stesso modo anche con riferimento alle associazioni mafiose cd. “nuove” e può essere, quindi, superata solo con il recesso dell'indagato dall'associazione o con l'esaurimento dell'attività associativa, mentre il cd. “tempo silente” (ossia il decorso di un tempo considerevole tra l'emissione della misura e i fatti contestati) può essere valutato solo in via residuale, facendo stretto riferimento alla natura non stabile dell'associazione e alla sua scarsa forza attrattiva e intimidatrice (Cass. II, n. 7260/2020). Si è ritenuto, inoltre, che, nei confronti del condannato in primo grado per il delitto di associazione di tipo mafioso, valgono le presunzioni previste dall'art. 275, comma 3, c.p.p., sicché sussistono sia la presunzione relativa di pericolosità sociale, la quale può essere superata solo quando risulti che l'imputato abbia rescisso i vincoli che lo legavano al sodalizio criminale o se ne sia irreversibilmente allontanato, sia la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, che, in caso di mancato superamento della presunzione relativa, impone l'applicazione della misura di maggior rigore (Cass. V, n. 47401/2017). Ai fini dell'operatività della presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso non è assimilabile alla partecipazione ad associazione mafiosa, in quanto l'art. 275, comma 3, c.p.p., come modificato dall'art. 4, comma 1, l. n. 47/2015 deve essere interpretato conformemente alla sentenza della Corte costituzionale n. 48/2015 che, nel vigore della previgente disciplina, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'equiparazione del concorso esterno alla partecipazione al reato associativo (Cass. VI, n. 14803/2020); la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari potrà essere superata attraverso una valutazione prognostica, ancorata ai dati fattuali emergenti dalle risultanze investigative acquisite, della ripetibilità della situazione che ha dato luogo al contributo dell'extraneus alla vita della consorteria, tenendo conto in questa prospettiva dell'attuale condotta di vita e della persistenza o meno di interessi comuni con il sodalizio mafioso senza necessità di provare la rescissione del vincolo, peraltro in tesi già insussistente (Cass. VI, n. 18015/2018). In tema di rinnovazione dell'ordinanza cautelare a seguito della perdita di efficacia della misura ai sensi dell'art. 309, comma 7, c.p.p., il presupposto delle “eccezionali esigenze cautelari” deve essere valutato anche nel caso in cui si proceda per il reato di associazione mafiosa (Cass. II, n. 26904/2018). Ai fini del sequestro funzionale alla confisca ex art. 416-bis, comma 7 , dei beni di un'azienda intestata ad un soggetto terzo non indagato del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare che l'indagato o imputato sia l'effettivo titolare del bene e che il bene sia stato stabilmente asservito all'attività dell'associazione mafiosa per la realizzazione del suo progetto criminale (Cass. II, n. 33806/2018). È stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 309 e 127 c.p.p., sollevata con riferimento agli artt. 3, 111 e 117 Cost. e 6Conv. EDU, nella parte in cui non prevedono la celebrazione dell'udienza di riesame in forma pubblica, qualora richiesta dall'interessato, in quanto, nel procedimento incidentale de libertate, il giudice non è chiamato ad assumere prove o ad accertare o ricostruire fatti, bensì a decidere, nel rispetto di termini assai stringenti, questioni prospettate dalle parti sulla base degli atti depositati nel fascicolo (Cass. V, n. 2737/2017, con la precisazione che, nella fattispecie, trattandosi di vicenda cautelare relativa ad un procedimento per il delitto di cui all'art. 416-bis, il dato testuale dell'art. 6, § 1, Conv. EDU giustificava la deroga al generale principio della pubblicità delle udienze a tutela dell'ordine pubblico). Si è, da ultimo, ritenuto che, ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., occorre distinguere tra ( Cass. V, n. 36389/2019): - associazioni mafiose storiche o comunque caratterizzate da particolare stabilità , in relazione alle quali è necessaria la dimostrazione del recesso dell'indagato dalla consorteria, non rilevando, ai fini dell'attualità delle esigenze cautelari, la distanza temporale tra l'applicazione della misura ed i fatti contestati; – associazioni mafiose non riconducibili alla categorie delle mafie “storiche”, per le quali può rilevare a tali fini anche il decorso del tempo.
Correlazione tra accusa e sentenza Non integra violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso con riferimento ad una condotta nella quale il contributo dell'imputato alla vita ed al rafforzamento della compagine criminosa sia costituito da fatti costituenti autonome fattispecie criminose (nella specie, estorsioni) allo stesso non contestate autonomamente (Cass. I, n. 53601/2017). Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l'imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia condannato per concorso esterno alla stessa associazione, trattandosi non di due diverse ipotesi delittuose, ma di distinte modalità della partecipazione criminosa, sempre che il fatto materiale per cui vi è stata condanna risulti sufficientemente descritto nell'imputazione (Cass. II, n. 29248/2018). E’ stata, infine, ritenuta la legittimità della riqualificazione, nell’ambito di un reato associativo, della condotta di direzione in quella di mera partecipazione (Cass. II, n. 1061/2021). Si è, infine, ritenuto che non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l'imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia condannato per aver preso parte ad un diverso sodalizio, pur dotato di autonomia operativa, in rapporto di subordinazione con la stessa organizzazione criminale, non determinandosi una trasformazione radicale o sostituzione delle condizioni che integrano gli elementi costitutivi dell'addebito associativo (Cass. I, n. 15560/2022). Ricusazione Non sussistono i presupposti per la ricusazione del giudice, ex art. 37, comma 1, lett. a), c.p.p., qualora il GUP, investito di un procedimento per il delitto di cui all'art. 416-bis nei confronti dell'imputato ricusante, abbia in precedenza, nel corso di altro procedimento relativo a differenti soggetti, convalidato decreti di intercettazione afferenti ad uno stesso contesto criminale mafioso e basati su identici elementi di prova, senza esprimere valutazioni di merito in ordine alle responsabilità dello stesso ricusante (Cass. V, n. 11982/2018 ). Cfr. anche sub art. 416. La prova ed i gravi indizi di colpevolezza del reato
La prova della partecipazione all'associazione, stante l'autonomia del reato associativo rispetto ai reati-fine, può essere fornita con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, sicché non rileva, a tal fine, il fatto che l'imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati-fine dell'associazione (Cass. II, n. 24194/2010; Cass. IV, n. 11470/2021, per la quale, in particolare, la commissione dei “reati-fine”, di qualunque tipo essa sia, non è necessaria né ai fini della configurabilità dell'associazione né ai fini della prova della sussistenza della condotta di partecipazione). Peraltro, deve ritenersi consentito al giudice, pur nell'autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, dedurre la prova dell'esistenza del sodalizio mafioso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, atteso che attraverso essi si manifesta in concreto l'operatività dell'associazione medesima (Cass. S.U., n. 10/2001; Cass. II, n. 2740/2012). In tal senso, secondo un orientamento, la non estemporanea partecipazione dell'imputato ai reati-fine che connotano il programma criminoso dell'associazione costituisce indice sintomatico della partecipazione dell'agente al sodalizio criminoso (Cass. I, n. 29959/2013); altro orientamento ha, al contrario, sostenuto che commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti può non risultare essenziale ai fini della prova della partecipazione, rilevando piuttosto la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica ma unitaria degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all'interno dello stesso che emergono emergere anche da significativi facta concludentia (Cass. V, n. 4864/2017): la partecipazione è, pertanto, integrata anche dalla mera dichiarata adesione al sodalizio con la c.d. « messa a disposizione », in quanto idonea ad accrescere, per ciò solo, la potenziale capacità operativa ed intimidatoria dell'associazione criminale (Cass. II, n. 27394/2017), non essendo necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma criminoso, ma essendo sufficiente che egli assuma (o gli venga riconosciuto) il ruolo di componente del sodalizio e aderisca consapevolmente al programma criminoso (Cass. II, n. 56088/2017). La prova della partecipazione all'associazione di stampo mafioso può essere desunta, con metodo logico-induttivo, anche dall'accertata sussistenza di un rapporto gerarchico dell'interessato rispetto ai soggetti ritenuti sicuramente partecipi del sodalizio (Cass. VI, n. 1162/2022). La permanente disponibilità' al servizio dell'organizzazione a porre in essere attività delittuose, anche di bassa manovalanza (ma pur sempre necessarie per il perseguimento dei fini dell'organizzazione) rappresenta univoco sintomo — indipendentemente dalla prova di una formale iniziazione — di inserimento strutturale nel sodalizio e, quindi, di vera e propria partecipazione, seppur a un livello minimale, all'associazione; mentre, invece, la “legalizzazione” e la conseguente qualifica di “uomo d'onore” costituisce uno stadio più evoluto nella progressione carrieristica del mafioso nell'organigramma piramidale criminoso (Cass. V, n. 48676/2014). Peraltro, la sola circostanza che un soggetto si sia reso disponibile a fungere da formale intestatario di un'impresa a favore di un esponente del sodalizio criminale (effettivo titolare e gestore dell'attività economica) non vale di per sé a integrare la prova della partecipazione a una associazione di stampo mafioso, trattandosi di un espediente utilizzabile anche al solo fine di eludere divieti di natura civilistica o di celare interessi illeciti non riconducibili alla cosca (Cass. I, n. 43901/2013). In presenza di rapporti di parentela tra i presunti partecipanti ad una associazione per delinquere di tipo mafioso, deve escludersi l'idoneità di semplici relazioni di parentela o di affinità a costituire, di per sé, prova od anche soltanto indizio dell'appartenenza di taluno all'associazione; tuttavia, ai fini dell'adozione di misure cautelari, una volta accertata, da un lato, la probabile esistenza di un'organizzazione delinquenziale a base familiare e, dall'altro, una non occasionale attività criminosa di singoli esponenti della stessa famiglia (intesa in senso lato), alla quale fa capo l'organizzazione stessa, nel medesimo campo nel quale questa opera, può essere considerato come non privo di valore indiziante, in ordine alla partecipazione dei suindicati soggetti al sodalizio criminoso, anche il fatto che vi siano legami di parentela o affinità fra essi e coloro che in quel sodalizio occupano posizioni di vertice o, comunque, di rilievo (Cass. II, n. 19177/2013 e Cass. n. 49855/2017). La condotta di colui che contribuisce ad un fondo di solidarietà (cosiddetta colletta) in favore dei sodali detenuti in carcere, pur rivestendo valenza indiziante, necessita di ulteriori elementi che confermino l'adesione del predetto al sodalizio (Cass. II, n. 53477/2017); qualora non sia stata acquisita la dimostrazione dell'inserimento formale del singolo all'interno della cosca, la prova della partecipazione può essere ricavata dal compimento di una o più attività significative nell'interesse dell'associazione mafiosa (Cass. II, n. 56088/2017). Ai fini dell'integrazione della condotta di partecipazione ad un'associazione mafiosa, l'affiliazione rituale può non essere sufficiente qualora alla stessa non si correlino concreti indici fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto con ruolo attivo nel sodalizio (Cass. V, n. 38786/2017; conforme, Cass. I, n. 55359/2016, in fattispecie relativa all'associazione di stampo mafioso denominata “ndrangheta”, con riferimento alla quale la S.C. ha precisato che, a differenza dell'affiliazione, il conferimento della cd. “dote” implica per massima di esperienza l'avvenuta attivazione del soggetto nell'ambito associativo). Diversamente, la presenza e la partecipazione attiva ad una cerimonia di affiliazione costituiscono comportamento concludente idoneo, sul piano logico, a costituire indizio di intraneità al sodalizio criminale, essendo illogico ritenere che il rito di affiliazione o di conferimento di un grado gerarchico all'interno di un'organizzazione mafiosa possa essere officiato da soggetti estranei (Cass. II, n. 27428/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato l'ordinanza impugnata, per la quale l'appartenenza dell'indagato alla ‘ndrangheta era dimostrata, in particolare, dalla sua presenza al pranzo di affiliazione di altri sodali). In proposito, va, peraltro, segnalato il recente intervento delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 36958/2021), a parere delle quali, in ossequio ai principi di materialità ed offensività della condotta, «l'affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l'espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione». In tema di valutazione della prova, un fatto ”notorio”, quale l'esistenza e il radicamento territoriale di un'associazione mafiosa, può essere desunto, ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p., dalle decisioni irrevocabili dell'autorità giudiziaria, a condizione che: — il nuovo giudizio verta su fatti avvenuti nelle medesime realtà territoriali; — non emerga una variazione delle finalità perseguite dal sodalizio; — vi sia una, quanto meno parziale, identità soggettiva tra la formazione storica e la attuale; — il tempo trascorso non sia di entità tale da aver determinato nella memoria dei consociati l'oblio della connotazione mafiosa del gruppo storico (Cass. I, n. 55359/2016: fattispecie relativa all'associazione di stampo mafioso denominata “ndrangheta”, in cui la S.C. ha escluso che dalle precedenti decisioni irrevocabili potesse ricavarsi la prova dell'esistenza di un radicato potere di infiltrazione — rilevante ex art. 416-bis — in territori diversi rispetto a quelli oggetto del precedente accertamento). In tema di chiamata di correo, non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni de relato quelle con le quali un intraneo riferisca notizie assunte nell'ambito associativo, costituenti un patrimonio comune, in ordine ad associati ed attività propri della cosca mafiosa (Cass. I, n. 28239/2018); pur essendo escluso che le “frequentazioni” possano autonomamente essere poste a fondamento di una affermazione di responsabilità, è possibile che, a fronte di una intrinsecamente valida chiamata di correità, le relazioni qualificate con altri esponenti della stessa organizzazione criminale, tra cui quelle con soggetti posti in posizione verticistica, valgono da riscontro esterno ex art. 192, comma 3, c.p.p. e siano, pertanto, idonee ad essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità per il delitto di associazione mafiosa (Cass. II, n. 31541/2017); qualora una chiamata in correità riguardi la condotta di partecipazione al sodalizio o di direzione dello stesso, un riscontro esterno individualizzante - idoneo, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p. a conferire alla chiamata valore di prova -, è costituito dalla partecipazione del singolo chiamato alla consumazione dei delitti fine dell'associazione, atteso che, attraverso tale condotta, si manifesta il ruolo effettivo e dinamico del singolo nel gruppo criminale, e, quindi, la sua adesione ad esso (Cass. II, n. 18940/2017). Gli elementi indiziari raccolti nel corso di conversazioni telefoniche intercettate, a cui non abbia partecipato l'imputato, possono costituire fonte diretta di prova, senza necessità di reperire riscontri esterni, a condizione che siano gravi, precisi e concordanti, costituendo espressione di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all'interno del sodalizio di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune agli associati (Cass. II, n. 10366/2020); le intercettazioni andranno valutate verificando che (Cass. VI, n. 5224/2020): a ) il contenuto della conversazione sia chiaro; b ) non vi sia dubbio che gli interlocutori si riferiscano all'imputato; c ) per il ruolo ricoperto dagli interlocutori nell'ambito dell'associazione di cui fanno parte, non vi sia motivo per ritenere che parlino non seriamente degli affari illeciti trattati; d ) non vi sia alcuna ragione per ritenere che un interlocutore riferisca il falso all'altro. Si è, peraltro, precisato che, nel caso in cui una conversazione intercettata, intercorsa tra soggetti affiliati ad un'associazione di tipo mafioso, sia relativa, in parte, a dati appresi da altre persone, il giudice, pur non essendo tenuto ad applicare la disciplina di cui all'art. 195 c.p.p., deve valutare rigorosamente la genuinità delle affermazioni captate e, laddove persistano dubbi, deve individuare elementi di riscontro (Cass. II, n. 32569/2023). La giurisprudenza (Cass. II, n. 7872/2020) ha recentemente chiarito che, in presenza della successione di contestazioni al medesimo imputato di condotte meramente partecipative od anche di rango verticistico, è possibile, nell'ambito dei procedimenti successivi, rivalutare elementi probatori acquisiti nell'ambito dei procedimenti precedenti, pur se conclusisi con sentenze di proscioglimento, a condizione che la prova oggetto di rivalutazione riguardi specificamente la condotta riguardante la contestazione relativa al successivo periodo temporale in ordine alla quale attualmente si proceda.La medesima decisione ha anche osservato che, con riguardo alla contestazione di prosecuzione della condotta di partecipazione al sodalizio da parte di soggetto già condannato e detenuto per lo stesso fatto relativo ad un ambito temporale precedente, è possibile valorizzare il contenuto di colloqui svolti in carcere dai quali si evinca la trasmissione di messaggi da parte del detenuto ad altri sodali riguardanti le attività delinquenziali del sodalizio o, comunque, il persistere di rapporti con gli altri esponenti del sodalizio stesso, tali da far ritenere il perdurare dell'inserimento del detenuto all'interno del clan. Si è, da ultimo, evidenziato che la condotta tipica deve essere provata con puntuale riferimento al periodo temporale considerato dall'imputazione, sicché, in caso di successione di condotte contestate a titolo di partecipazione o di direzione dell'organizzazione criminale, la rivalutazione delle prove acquisite e valutate nel corso di un precedente procedimento per il delitto di cui all'art. 416-bis, conclusosi con sentenza assolutoria in relazione ad un differente arco temporale, è subordinata alla circostanza che quegli elementi riguardino comunque il nuovo periodo temporale oggetto di contestazione e non attengano, invece, al periodo coperto dal giudicato assolutorio (Cass. II, n. 7870/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che la chiamata in correità, quale elemento di prova principale, deve avere ad oggetto un'accusa relativa al periodo oggetto di successiva contestazione, rispetto al quale vanno, altresì, ricercati i riscontri individualizzanti, e che le intercettazioni attinenti a condotte associative comprese nel giudicato assolutorio rilevano solo in quanto siano indicative anche della progettazione di precise condotte future). La latitanza assume una valenza indiziaria della partecipazione qualificata a tale genere di sodalizio, necessitando la stessa di significativi appoggi e di una rete di omertà e protezione saldamente radicata nel territorio controllato: si è, infatti, osservato che la latitanza assume un particolare rilievo sintomatico della forza intimidatrice del vincolo associativo, giacché contribuisce a rafforzare la diffusa sensazione di impunità dell'attività della consorteria e di pericolo in chiunque pensi di ostacolare il raggiungimento dei fini associativi (Cass. V, n. 2640/2022). Rappresenta comportamento concludente, idoneo a costituire indizio di intraneità al sodalizio criminale, l'essere posto a conoscenza dell'organigramma e della struttura organizzativa delle cosche della zona, dell'identità dei loro capi e gregari, dei luoghi di riunione, degli argomenti trattati, nonchè l'essere stato ammesso a partecipare ad incontri deputati all'inserimento di nuovi sodali (Cass. V, n. 25838/2020: fattispecie relativa alla assunzione, da parte dell'affiliato, del grado di "capo bastone giovane" all'interno di una cosca locale di 'ndrangheta). In una interessante applicazione, premesso che, per la prova del reato di associazione di tipo mafioso, è necessario che sia dimostrata l'esistenza di una forza di intimidazione accumulata attraverso la consumazione di delitti a base violenta idonei ad ingenerare timore, ma tali azioni violente non devono essere necessariamente contestuali alle condotte di partecipazione, potendo preesistere alle stesse, né è necessario che il singolo partecipe abbia posto in essere direttamente le azioni che hanno contribuito a consolidare il capitale criminale del sodalizio, si è ritenuto – in riferimento all'articolazione locale Pesha Nest della associazione nigerianaEiye – che, per le mafie a base etnica, la forza di intimidazione del gruppo non deve essere necessariamente diretta all'assoggettamento della popolazione di un territorio, ma può anche essere funzionale al controllo ed alla sottomissione di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità (Cass. II, n. 14225/2021). Per quanto, infine, riguarda il concorso c.d. “esterno”, si è osservato che esso non rappresenta un minus rispetto alla condotta partecipativa sicché non richiede un canone probatorio meno stringente e, trattandosi di una condotta diversa, non può prescindere dalla prova del contributo causale alla conservazione o al rafforzamento della capacità operativa della consorteria criminale, proprio in ragione dell'assenza della affectio societatis che connota, invece, la partecipazione (Cass. V, n. 2640/2022). Un recente orientamento (Cass. II, n. 48448/2023) ha ritenuto che i contenuti informativi provenienti da soggetti intranei alla consorteria, espressione di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all'interno della stessa di informazioni e di notizie relative a fatti di interesse comune degli associati, sono utilizzabili in modo diretto e non come mere dichiarazioni de relato, soggette alla verifica di attendibilità della fonte primaria. Divieto di bis in idem (art. 649 c.p.p.) Nell'ipotesi in cui l'originario gruppo di tipo mafioso vari una nuova strategia criminale, concretizzatasi nell'acquisizione, in tempi brevi, di un territorio molto più vasto rispetto a quello controllato dalla precedente organizzazione, nella instaurazione di nuove alleanze con diversi sodalizi criminosi e nell'arruolamento di nuovi affiliati, in modo da conseguire il rovesciamento delle passate alleanze, il monopolio delle attività criminali e la successione ai gruppi in precedenza egemoni nel controllo dei predetti territori, si configura un autonomo reato associativo e deve escludersi la medesimezza del fatto contestato e la violazione del principio del ne bis in idem (Cass. VI, n. 9956/2017). Non può invocarsi il divieto di bis in idem quando la partecipazione all'associazione venga desunta anche dalla commissione di altro reato per il quale sia già intervenuta condanna definitiva, in quanto l'inammissibilità di un secondo giudizio impedisce al giudice di procedere contro lo stesso imputato per il medesimo fatto, già giudicato con sentenza irrevocabile, ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso reato (Cass. I, n. 31828/2019: fattispecie relativa a condanna per il reato di cui all'art. 416-bis emessa sulla base di elementi già utilizzati per affermare, in altri procedimenti, la responsabilità degli imputati in relazione a condotte di intestazione). Il divieto non opera, per diversità del fatto, nel caso in cui un soggetto faccia parte, anche in coincidenza temporale, di due diverse associazioni criminose, risultando esso violato solo ove risultino sovrapponibili i segmenti di condotta presi in esame dalle singole sentenze passate in giudicato (Cass. VI, n. 36555/2020: fattispecie in cui è stata esclusa l'identità dei due sodalizi cui avevano aderito i ricorrenti, siccome aventi un differente programma delittuoso, operavano in aree geografiche ed epoche solo parzialmente coincidenti, nonché con compagini soggettive in parte diversificate). Più di recente, la giurisprudenza (Cass. I, n. 4984/2022), con riferimento ai divieti di "bis in idem" e di un secondo giudizio, al fine di escludere la medesimezza del fatto, ha affermato che non rilevano i mutamenti delle modalità di partecipazione associativa, la modifica dell'oggetto del programma criminoso o del numero degli affiliati, ma ciò che risulta dai suoi elementi costitutivi, rappresentati dalla condotta, dall'evento e dal nesso di causalità, ed ha conseguentemente escluso la sussistenza di un'ipotesi di identità processuale rilevante ai sensi dell'art. 649 c.p.p. in relazione alla condotta di partecipazione, in tempi diversi, allo stesso sodalizio camorristico, connotato da differente composizione soggettiva e da programma associativo non sovrapponibile. Sospensione dei termini processuali in periodo feriale La deroga prevista dall'art. 240-bis, comma 2, disp. coord. c.p.p., nella parte in cui prevede l'esclusione, operante anche per i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di cautela personale, della sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità organizzata (nozione che identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma qualsiasi tipo di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse) non è applicabile al mero concorso di persone nel reato, ancorché aggravato ai sensi dell'art. 416-bis.1, comma 1, c.p., nel quale manca il requisito dell'organizzazione (Cass. II, n. 6996/2020: fattispecie in tema di concorso in omicidio e tentato omicidio aggravati dal fine di agevolare un clan mafioso). La revisione Per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, di tutti gli altri imputati cui si contestava la partecipazione ad un sodalizio di tipo mafioso, diviene suscettibile di revisione la sentenza irrevocabile di condanna del soggetto imputato di partecipazione al medesimo sodalizio nel medesimo contesto spazio-temporale, in considerazione della evidente inconciliabilità logica tra le diverse decisioni, oltre che, con specifico riferimento al caso concreto, dell’impossibilità di configurare un'associazione di tipo mafioso composta un solo soggetto (Cass. II, n. 24324/2022). La nuova causa di improcedibilità ex art. 344- bis c.p.p. Il nuovo art. 344-bis c.p.p., che inserisce la previsione di termini da rispettare per la definizione dei giudizi di impugnazione a pena di improcedibilità, prorogabili per una sola volta per tutti i reati, per la particolare complessità dell'impugnazione, consente per il delitto di cui all'art. 416-bis ulteriori proroghe, che possono essere disposte senza limiti, salvo unicamente l'onere di motivazione, del quale non è, peraltro, agevolmente possibile desumere l'oggetto: ragionevolmente andranno indicate le ragioni per le quali permangono le condizioni che avevano inizialmente legittimato la proroga. Le modifiche sopravvenute nel 2023 L'art. 7, comma 1, d.l. 15 settembre 2023, n. 123, conv., con modif., in legge 13 novembre 2023, n. 159 (c.d. “decreto Caivano, pubblicato in G. U. n. 216 del 15 settembre 2023 e recante "Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonche' per la sicurezza dei minori in ambito digitale"), rubricato "Misure anticipate relative a minorenni coinvolti in reati di particolare allarme sociale", ha stabilito che, «1. Quando, durante le indagini relative ai reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, emerge una situazione di pregiudizio che interessa un minorenne, il pubblico ministero ne informa il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, per le eventuali iniziative di competenza ai sensi dell'articolo 336 del codice civile». Il provvedimento è entrato in vigore il 16 settembre 2023. È stata pubblicata in G.U. n. 162 del 29 giugno 2020, ed è in vigore dal 30 giugno 2020, la legge25 giugno 2020, n. 70, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, recante: “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazionidi conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l'introduzione del sistema di allerta Covid-19”. L'art. 1, comma 3, della legge di conversione ha abrogato il decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 (recante: Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell'esecuzione della pena, nonché' in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all'emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati), stabilendo che restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e facendo salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29. È stato introdotto, quindi, nel d.l. n. 28 del 2020, il nuovo art. 2-bis (recante: Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all'emergenza sanitaria da COVID-19), corrispondente all'abrogato art. 2 d.l. n. 29/2020 (v. supra), con disposizioni riguardanti l'esecuzione della pena nei confronti dei condannati e degli internati per i reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, per il reato di cui all'art. 74, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, per delitti aggravati ex art. 416-bis.1 del c.p. o commessi con finalità di terrorismo ex art. 270–sexies del codice penale. È stato, inoltre, introdotto nel d.l. n. 28 del 2020 il nuovo art.2-ter (recante: Misure urgenti in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all'emergenza sanitaria da COVID-19), corrispondente all'abrogato art. 3 d.l. n. 29/2020 (v. supra), a norma del quale: 1. Quando, nei confronti di imputati per delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione mafiosa, o per un delitto commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell' articolo 270-sexies del c.p., nonché' di imputati sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, è stata disposta la sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all'emergenza sanitaria da COVID-19, il pubblico ministero verifica la permanenza dei predetti motivi entro il termine di quindici giorni dalla data di adozione della misura degli arresti domiciliari e, successivamente, con cadenza mensile, salvo quando il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell'imputato. Il pubblico ministero, quando acquisisce elementi in ordine al sopravvenuto mutamento delle condizioni che hanno giustificato la sostituzione della misura cautelare o alla disponibilità di strutture penitenziarie o reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell'imputato, chiede al giudice il ripristino della custodia cautelare in carcere, se reputa che permangono le originarie esigenze cautelari. 2. Il giudice, fermo quanto previsto dall'articolo 299, comma 1, del c.p.p., prima di provvedere sente l'autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della regione, sulla situazione sanitaria locale e acquisisce dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria informazioni in ordine all'eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui l'imputato può essere nuovamente sottoposto alla custodia cautelare in carcere senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. Il giudice provvede valutando la permanenza dei motivi che hanno giustificato l'adozione del provvedimento di sostituzione della custodia cautelare in carcere nonché' la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute dell'imputato. Quando non e' in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice può disporre, anche d'ufficio e senza formalità, accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell'imputato o procedere a perizia, nelle forme di cui agli articoli 220 e seguenti del c.p.p., acquisendone gli esiti nei successivi quindici giorni. 3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai provvedimenti di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari adottati successivamente al 23 febbraio 2020. Le statuizioni civili: danno risarcibile ed onere della prova.La giurisprudenza più recente ha chiarito che, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell'"an debeatur", atteso che è rinviata al separato giudizio civile la sola determinazione quantitativa del danno (Cass. II, n. 31574/2023: fattispecie relativa alla costituzione di parte civile di associazioni rappresentative di interessi collettivi, in relazione alla quale la S.C. ha osservato che la prova della sussistenza del danno, che può sostanzialmente presumersi nel caso in cui la parte civile sia la persona offesa dal reato, deve essere, invece, specificamente fornita dall’attore, allorquando il rapporto tra azione e danno risulti indiretto, come accade, di regola, nel caso in cui la pretesa civilistica sia avanzata dal mero danneggiato). Il reato associativo come reato-presupposto della responsabilità da reato degli enti immateriali. RinvioIn argomento si rinvia sub art. 416, § 12. BibliografiaAntonini, Le associazioni per delinquere nella legge penale italiana, in Giust. pen. 1985, II; Beltrani, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2017; Beltrani, Caso Contrada, un esito che non convince, in ilpenalista.it, 13 novembre 2017; Boscarelli, Associazione per delinquere, in Enc. dir., III, Milano, 1958; De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto pen., I, Torino, 1987; De Francesco, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992; De Francesco, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa torna alla ribalta del sindacato di legittimità, in Cass. pen., 2012, 2500 ss.; De Liguori, L'oggetto giuridico della tutela penale nell'art. 416-bis: limiti e funzioni, in Cass. pen. 1990; De Vero, Tutela penale dell'ordine pubblico, Milano, 1988; De Vero, Tutela dell'ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen. 1993; Fiandaca, L'associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it. 1985; Fiandaca e Musco, Diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2012; Fiandaca e Visconti, Il concorso esterno come persistente istituto “polemogeno”, in Arch. pen. 2012, 499 ss.; Flick, L'associazione a delinquere di tipo mafioso: interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall'art. 416-bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen. 1988; Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen. 1995; Ingroia, L'associazione di tipo mafioso, Milano, 1993; Marini, Ordine pubblico (delitti contro l'), in Nss. D.I., app., V, Torino, 1984; Neppi Modona, Il reato di associazione mafiosa, in Dem. e dir. 1983; Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, in Arch. pen. 20121, 487 ss.;Spagnolo, L'associazione di tipo mafioso, 5a ed. agg., Padova, 1997; Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995; Visconti, Il tormentato cammino del concorso «esterno» nel reato associativo, in Foro it. 1994. |