Codice Penale art. 513 bis - Illecita concorrenza con minaccia o violenza (1).Illecita concorrenza con minaccia o violenza (1). [I]. Chiunque nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. [II]. La pena è aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un'attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici (2). (1) Articolo aggiunto dall'art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646. (2) Per l'aumento delle pene, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha sostituito l'art. 7 1 l. 31 maggio 1965, n. 575. competenza: Trib. collegiale arresto: facoltativo fermo: non consentito custodia cautelare in carcere: consentita altre misure cautelari personali: consentite procedibilità: d'ufficio InquadramentoTale delitto consiste nel fatto di chi, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o produttiva compie atti di concorrenza usando violenza o minacce, anche se gli atti di concorrenza riguardano attività finanziata dallo Stato o da altri enti pubblici. La norma è stata introdotta dalla l. n. 646/1982 (norme antimafia) per reprimere un tipico comportamento di stampo mafioso che tramite l'intimidazione mira a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive. Infatti, secondo la Suprema Corte "ai fini dell'integrazione del reato d'illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente d'autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura un atto di concorrenza illecita (Cass. III, n. 44169/2008). Il reato non deve necessariamente realizzarsi in ambienti di criminalità organizzata, né l'autore deve appartenere a un'organizzazione criminale, né sono necessari atti di concorrenza nel senso tecnico giuridico di cui all'art. 2595 c.c. Infatti, l'art. 513-bis si riferisce a quei comportamenti che, per essere attuati con minaccia o violenza, configurano una concorrenza illecita e si concretizzano in forme di intimidazione, tipiche della criminalità organizzata, che tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive o, comunque, a condizionarle. Il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l'ambito di applicabilità della norma (restringendolo alle sole operazioni di criminalità organizzata), ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo (Cass. III, n. 450/1995). Bene giuridico protettoIl reato tutela sia l'ordine economico e quindi, il normale svolgimento dell'attività produttiva ad esso inerente, sia la libertà del singolo di realizzare operazioni economiche tramite attività commerciali, industriali o produttive. Soggetto attivoHa natura di reato proprio, in quanto la norma incriminatrice richiede che il soggetto attivo eserciti un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, anche se tale requisito non deve essere inteso in senso meramente formale cioè non occorre la qualifica di commerciante o industriale o produttore, ma è sufficiente, per la sua configurabilità, lo svolgimento di fatto della predetta attività. Elemento oggettivoLa condotta di detto reato è costituita dal compiere atti di concorrenza usando violenza o minaccia. Per concorrenza deve intendersi quel regime nel cui ambito viene garantita ad ogni operatore economico la libertà di intervento e di iniziativa sui mercati. Per violenza deve intendersi qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza «impropria», che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Cass. V, n. 11907/2010). Per minaccia, invece, deve intendersi qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa (Cass. II, n. 3609/2011). Con riferimento agli atti intimidatori di concorrenza, è bene sottolineare che per anni è esistito un contrasto concernente il perimetro applicativo della fattispecie contemplata dall'art. 513-bis ovvero se essa intenda reprimere solamente le condotte tipicamente concorrenziali, come definite dall'art. 2598 c.c., poste in essere con violenza o minaccia nell'esercizio di un'attività commerciale, ovvero se essa contempli anche gli atti intimidatori comunque idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi dell'esercizio della propria attività imprenditoriale. Secondo un primo orientamento, l'art. 513-bis punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali realizzate con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando, invece, nella fattispecie astratta i semplici atti intimidatori (Cass. VI, n. 44698/2015; Cass. II, n. 49365/2016; Cass. II, n. 53139/2016; Cass. II, n. 9763/2015). A tal fine, pertanto, sono rilevanti solo le condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.), realizzate con l'utilizzo di mezzi vessatori e sono escluse le condotte che si limitano al compimento di atti intimidatori finalizzati ad ostacolare o contrastare l'altrui libera concorrenza durante l'esercizio dell'attività imprenditoriale però poste in essere al di fuori dell'attività concorrenziale. Coerente con tale ricostruzione è l'affermazione secondo cui le condotte commesse con atti di violenza e minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza costituisce solo la mira teleologica dell'agente devono propriamente ricondursi ad altre fattispecie di reato (come, ad es., il delitto di cui all'art. 629 c.p.). A sostegno di tale orientamento si afferma che una diversa e più ampia interpretazione farebbe sorgere problemi di violazione del principio di legalità e di tassatività, non potendosi eliminare dall'elemento oggettivo dell'incriminazione il nucleo fondamentale, cioè, la realizzazione di un atto di concorrenza. Secondo un diverso orientamento, invece, il delitto previsto dall'art. 513-bis c.p. è configurabile ogni qualvolta sia realizzato un comportamento che, attraverso l'uso strumentale della violenza o della minaccia, sia idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi dell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva e ai fini della configurazione del delitto, sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia "attivi" che "impeditivi" dell'altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell'imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Cass. n. 9513/2018). Questa scelta interpretativa si base essenzialmente sul rilievo che l'interesse tutelato consiste nel buon funzionamento dell'intero sistema economico che viene leso da comportamenti violenti o minacciosi idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. Dunque, qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura l'atto di concorrenza illecita prevista dalla norma in questione. Nell'ambito di tale interpretazione, con lo scopo di superare la contrapposizione tra i due orientamenti, si è sviluppato un terzo indirizzo finalizzato a valorizzare le prospettive di una meno restrittiva e più completa definizione del concetto di "atti di concorrenza" attraverso il riferimento non solo alla ratio della norma incriminatrice, ma anche alla necessità di integrarne il precetto alla luce della normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza. Secondo tale indirizzo è stato, altresì, affermato che la condotta materiale del delitto ex art. 513-bis può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c., tra i quali vi rientrano quelli diretti non solo a distruggere l'attività del concorrente, ma anche ad impedire che possa essere esercitato un atto di libera concorrenza, come quello della ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato, con l'ulteriore precisazione che l'art. 2598 c.c. deve interpretarsi alla luce della normativa comunitaria e della l. n. 287/1990, che prevede ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre al n. 3) una norma di chiusura secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda (Cass. VI , n. 50094/2018; Cass. III, n. 3868/2016 e Cass. II, n. 18122/2016). Assumono rilievo, quindi, sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano "idonei a falsare il mercato" e a consentire l'acquisizione, in danno dell'imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa, sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come "qualunque comportamento violento o minatorio" posto in essere nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacità operativa dell'impresa o comunque diretto ad alterare l'ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato. Con Cass., n.13178/2020 le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto stabilendo che "ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia, è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell'impresa concorrente”. Le Sezioni Unite osservano, preliminarmente, che l''origine del contrasto giurisprudenziale va ricercata nella ambiguità della formulazione del testo dell'art. 513-bis c.p., la cui introduzione risale alla l. n. 646/1982 (cd. Rognoni-La Torre), e la cui ratio era quella di contrastare forme di compenetrazione fra organizzazioni criminali e settori dell'imprenditoria mediante nuovi e specifici strumenti di tutela attraverso la previsione di una fattispecie ad hoc, finalizzata a colmare la lacuna normativa esistente tra il delitto di estorsione e la contigua fattispecie di turbata libertà dell'industria o del commercio; peraltro, la struttura della fattispecie incriminatrice è stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dal peculiare contesto in cui ha visto la luce, delineandone un ambito di applicazione generale. Ciò premesso, la Corte, ai fini della corretta soluzione del quesito rimessole, ha preso in esame il terzo orientamento, partendo dal presupposto che il principio di libera concorrenza sia tutelato a livello costituzionale dall'art. 41, comma 1, Cost. (“l'iniziativa economica privata è libera”) dal quale deriva che ogni individuo è libero di esercitare un'attività economica, con l'eccezione dei limiti enunciati nel comma 2, per poi ampliare il suo sguardo alla crescente importanza e pervasività delle regole di concorrenza stabilite dall'Unione europea, cui spetta a titolo di competenza esclusiva la loro definizione secondo criteri immediatamente vincolanti per le politiche economiche degli Stati membri (ex art. 3, § 1, lett. b), TFUE); il favor per la tutela della libertà di concorrenza si manifesta, in particolare, nell'insieme di divieti posti dagli artt. 101 e 102 TFUE (unitamente alla netta scelta di campo espressa in favore di "un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza" (ex artt. 119 § 1 e 120 TFUE, in relazione all'art. 3, § 3, TUE); si tratta di regole che hanno sensibilmente inciso sulla portata del principio stabilito nell'art. 41, comma 1, Cost., imprimendogli connotazioni in parte nuove, che il legislatore ordinario da tempo si è fatto carico di recepire e filtrare nell'ordinamento interno sin dalla l. n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato. Attraverso la nuova disposizione di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost., introdotta nell'ordinamento a seguito della modifica operata dall'art. 3 l. cost. n. 3/2001, la libertà di concorrenza si è imposta quale bene costituzionalmente rilevante, la cui tutela viene assegnata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. I segni di questa nuova dimensione comunitaria si riscontrano nell'evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 97/2014; Corte cost. n. 125/2014; Corte cost. n. 325/2010; Corte cost. n. 401/2007), secondo la quale la nozione di «concorrenza» riflette quella operante in ambito comunitario comprendendo sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati (con la disciplina delle relative modalità di controllo, eventualmente anche sul piano sanzionatorio), sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza "nel mercato"), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza "per il mercato”). Dunque, secondo le Sezioni Unite, il principio cardine della legislazione europea, pienamente recepito anche nell'ordinamento interno, è quello secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione fra le imprese non possono tradursi in atti e comportamenti pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato, facendo ricorso a strumenti "sleali", in contrasto con l'obbligo di comportarsi in conformità "ai principi della correttezza professionale" (art. 2598, comma 3, c.c.). Del tutto conformi alle regole stabilite dalla disciplina europea della concorrenza risultano le disposizioni contenute nell'ordinamento interno, ed in particolare nella l. n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, i cui artt. 2 e 3 dettano analoghe previsioni in tema di intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese, volte a preservare il regime concorrenziale del mercato a livello nazionale ed a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono esclusivamente sul mercato italiano. L'art. 1, comma 4, poi, enuncia espressamente che le regole interne vanno interpretate « in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza». Pertanto, in assenza di una definizione, anche penalistica, del concetto giuridico di "concorrenza", il termine "atti di concorrenza" deve essere interpretato alla luce della normativa euro-unitaria ed interna che disciplina i presupposti e le regole di funzionamento della libertà di concorrenza; la tipicità della fattispecie va inquadrata alla luce sia del divieto di ordine costituzionale posto dall'art. 41, comma 2, Cost., secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell'iniziativa economica privata non può svolgersi "in modo da recare danno" ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di libertà, sicurezza e dignità umana), sia dell'esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 c.c.) per lo svolgimento della libera concorrenza, che sono quelli specificamente risultanti dal raccordo fra i diversi livelli della normativa euro-unitaria e delle disposizioni contenute nel codice civile e nella successiva legislazione speciale (l. n. 287/1990). L'art. 513-bis c.p. opera verso qualsiasi attività economicamente orientata alla predisposizione ed offerta di prodotti o servizi su un certo mercato, e la delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l'espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell'imprenditore; inoltre, non si ritiene necessario che gli atti di concorrenza illecita siano diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente. Ai fini della individuazione della condotta punibile è rilevante il contenuto e le finalità del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in esame; la volontà del soggetto passivo della condotta di illecita concorrenza con minaccia o violenza non opera infatti liberamente, in quanto viene condizionata, rispettivamente, dalla prospettazione di un male ingiusto ovvero dalla costrizione fisica a determinarsi nel senso impostogli dall'agente. Per tale ragione la norma fa riferimento ad una condotta di illecita concorrenza, ossia ad un atto di concorrenza non semplicemente sleale, ma necessariamente caratterizzato dalla peculiare natura dei mezzi adoperati, che a loro volta ne accompagnano la realizzazione e ne giustificano, al contempo, il giudizio di meritevolezza della tutela penale: la violenza o la minaccia, all'interno di un rapporto di concorrenzialità legato allo svolgimento di un'attività d'impresa in competizione, anche solo potenziale, con l'omologa attività di uno o più soggetti egualmente interessati ad esercitarla in uno spazio di mercato dove le condizioni della libertà di concorrenza siano rispettate e ne garantiscano la possibilità di una lecita attuazione. La libertà di concorrenza, infatti, non si traduce solo nella libertà di svolgere la propria attività d'impresa in competizione con una pluralità di soggetti operanti sul mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l'esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti utilizzano anche in favore della collettività, e dove quella libertà non solo viene generalmente regolata e promossa, ma deve anche lecitamente attuarsi. Entro tale prospettiva, dunque, assumono rilievo penale, alla luce della richiamata normativa interna ed euro-unitaria, quei comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell'esercizio dell'altrui libertà di concorrenza, che si prestino ad essere realizzati in forme violente o minatorie, così da favorire o consentire l'illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva. È, dunque, il libero svolgimento delle iniziative economiche ad essere tutelato, attraverso la sanzione di comportamenti costrittivi o induttivi che possono orientarsi anche sulla libertà di iniziativa delle persone, non più solo sulle cose, come nella condotta contemplata dalla previsione dell'art. 513, che di contro richiede, in alternativa all'uso della violenza, il ricorso a mezzi fraudolenti con il fine di cagionare, in entrambi i casi, l'impedimento o il turbamento dell'esercizio di un'attività industriale o commerciale. L'idoneità a recare un pregiudizio all'impresa concorrente, contrastandone od ostacolandone la libertà di autodeterminazione, connota la fattispecie dell'art. 513-bis nella sua materialità, poiché costituisce un elemento oggettivo della condotta, a sua volta accompagnata dalla coscienza e volontà di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialità illecita che rischia obiettivamente di alterare o compromettere l'ordine giuridico del mercato. Infine, le Sezioni Unite non trascurano di precisare che gli elementi che concorrono a descrivere la tipicità del reato di illecita concorrenza impediscono di ritenerne assorbita la condotta nella più grave fattispecie della estorsione (consumata o tentata) in base al criterio di specialità. I due reati, rientranti in una diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi, incidendo nel secondo caso sul patrimonio del soggetto passivo, con la previsione dell'elemento di fattispecie relativo all'ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell'attività economica concorrente. Ne discende, altresì, che il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non può essere assorbito nel delitto di estorsione, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ove ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i delitti, si ha il concorso formale degli stessi. Elemento soggettivoL'elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo specifico in quanto è incluso il fine di eliminare o scoraggiare l'altrui concorrenza (Cass. III, n. 27681/2010). Consumazione, continuazione e tentativoConsumazione Il reato si consuma nel momento e nel luogo in cui all'atto della concorrenza viene tenuta la condotta di violenza o di minaccia. Continuazione Il reato è complesso di pericolo e può essere integrato anche da un solo atto di concorrenza illecita caratterizzato da violenza o minaccia perché il nucleo fondamentale del suo elemento oggettivo è costituito dalla realizzazione di un atto di illecita concorrenza. Ne consegue che, quando gli atti di concorrenza illecita siano plurimi e sussista l'identità del disegno criminoso, trova applicazione l'istituto della continuazione e il termine di prescrizione decorre dalla data di consumazione di ciascuno dei reati che compongono la sequenza (Cass. III, n. 39784/2013). Tentativo Il tentativo non è configurabile in quanto si tratta di un reato di pericolo. Circostanze aggravantiIl comma 2 prevede una circostanza aggravante quando gli atti di concorrenza riguardano un'attività finanziata in tutto o in parte e in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici. La fattispecie prevista dall'art. 513-bis può essere aggravata dalla circostanza prevista dall'art. 416-bis.1, comma 1 (originariamente prevista dall'art. 7 d.l. n. 152/1991 conv., con modif., in l. n. 203/1991, abrogata dal d.lgs. n. 21/2018) (metodo mafioso). Tale circostanza non è assorbita nella fattispecie materiale del delitto di illecita concorrenza mediante violenza o minaccia (Cass. VI, n. 6055/2015). Responsabilità dell'ente: sanzioneIn relazione alla commissione del delitto ex art. 513-bis, è prevista la responsabilità amministrativa da reato dell'ente; infatti, l'art. 25-bis.1 lett. b) d.lgs. n. 231/2001, introdotto dall'art. 15, comma 7, l. n. 99/2009, così recita: "in relazione alla commissione dei delitti contro l'industria e il commercio previsti dal codice penale, si applica all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:.....b) per i delitti di cui agli artt. 513-bis e 514 la sanzione pecuniaria fino a ottocento quote. Nel caso di condanna per i delitti di cui alla lett. b) del comma 1 si applicano all'ente le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2 che sono costituite da «a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi». Concorso di persone nel reatoIl reato di illecita concorrenza perpetrato con minaccia e violenza, previsto dall'art. 513-bis, pur avendo natura di reato proprio, è configurabile, a titolo di concorso, a carico dell'«extraneus» che contribuisce con la sua condotta alla commissione del fatto e che ha la conoscenza della qualità di «intraneus» del soggetto agente (Cass. II, n. 20182/2015). Rapporto con altri reatiLa natura di reato complesso consente l'assorbimento in esso di altri reati concorrenti come la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.), le percosse (art. 581 c.p.), il danneggiamento (art. 635 c.p.). Invece, il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, può concorrere con quello di estorsione trattandosi di fattispecie differenti, la cui diversità si misura valutando le modalità con cui si esprime l'azione violenta: integra il delitto di cui all'art. 513-bis la condotta tesa a sovvertire il normale svolgimento delle attività imprenditoriali attraverso comportamenti violenti che incidono direttamente sul funzionamento dell'impresa; si configura, invece, il delitto di estorsione nel caso in cui l'azione violenta si risolva in coazione fisica e psichica dell'imprenditore e non si traduca in una manipolazione violenta e diretta dei meccanismi di funzionamento dell'attività economica concorrente. (Cass. V, n. 40803/2022; Cass. II, n. 53139/2016 - In motivazione, la Corte ha precisato, altresì, che nella sola estorsione si ritrova l'elemento di fattispecie dell'ottenimento del profitto ingiusto). Non è assorbito nemmeno dal reato di concussione (art. 317), quindi, quando ne ricorrano gli elementi costitutivi, si ha concorso formale tra gli stessi. Concorre, inoltre, con il delitto di cui all'art. 416-bis (associazioni di tipo mafioso anche straniere) anche nell'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, stante la diversità delle due fattispecie incriminatrici; quella ex art. 513-bis è caratterizzata dall'alterazione della libera concorrenza con violenza e minaccia, e quella ex art. 416-bis all'accordo collusivo tra l'«extraneus» e l'associato, volto al mantenimento ed al rafforzamento del potere criminale dell'associazione mafiosa (Cass. VI, n. 37528/2007). CasisticaDelitto presupposto del reato di riciclaggio In tema di reati contro il patrimonio, il delitto presupposto del reato di riciclaggio può essere costituito anche dal reato di illecita concorrenza con minaccia e con violenza (Cass. I, n. 1439/2009). Aggiudicazione di appalto La fraudolenta aggiudicazione di una gara d'appalto a favore di un'impresa contigua ad un'associazione criminosa, resa possibile in virtù del clima di intimidazione creato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso, integra il reato previsto dall'art. 513 bis (illecita concorrenza con minaccia o violenza), il quale mira a reprimere con la sanzione penale tutti quei comportamenti che, attraverso l'uso strumentale della violenza o della minaccia, incidano su quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza non solo libera ma anche lecitamente attuata (Cass. II, n. 131/98). Integra il reato di illecita concorrenza previsto dall'art. 513 bis la formazione di un accordo collusivo mirante alla fraudolenta predisposizione di offerte attraverso le quali realizzare un atto di imposizione esterna nella scelta della ditta aggiudicatrice di un appalto, reso possibile da un intervento intimidatorio dell'organizzazione criminale «Cosa Nostra», giacché si è in presenza di un comportamento che arreca pregiudizio alla libertà di concorrenza (Cass. I, n. 4836/2005). Imprenditore collegato ad un sodalizio mafioso Integra il delitto di concorrenza sleale l'imprenditore che tenga una condotta, violenta o intimidatoria, idonea ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale e, quindi, anche quando imponga sul mercato la propria attività, in via esclusiva o prevalente, avvalendosi della forza intimidatrice del sodalizio mafioso cui risulta contiguo (Cass. II, n. 9513/2018). Integra il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, l'acquisizione di una posizione dominante in un determinato settore economico a seguito dell'accordo intercorso tra l'imprenditore ed un clan di stampo mafioso, che si sia manifestato con condotte violente e minatorie, anche di carattere implicito o "ambientale" non essendo necessarie manifestazioni "eclatanti" (purché idonee ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alle condizioni soggettive della vittima ed alle situazioni in cui opera) , sia a livello della domanda, che a carattere diffuso, determinando l'interposizione di barriere all'ingresso di altri concorrenti su un certo mercato o su una zona "contrattualmente" stabilita. Rientra, quindi, nel paradigma del delitto di cui all'art. 513-bis la condotta dell'imprenditore che acquisisca posizioni dominanti di mercato attraverso l'intervento dei clan che controllano le zone ove insistono gli esercizi commerciali destinatari delle sue prestazioni. In tal caso, infatti, si verifica un'alterazione dell'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza, in quanto i rapporti commerciali che ne conseguono non sono frutto di una libera scelta dei singoli esercenti, ma della minaccia anche implicita scaturente dalla notorietà dell'apparentamento dell'imprenditore con i clan di stampo mafioso, con danno anche di altri imprenditori operanti nel medesimo settore i cui prodotti finiscono per essere forzatamente boicottati. La libertà di concorrenza, infatti, non si traduce solo nella possibilità di svolgere la propria attività d'impresa in competizione con una pluralità di soggetti operanti sul mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l'esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti utilizzano anche in favore della collettività, e dove quella libertà non solo viene generalmente regolata e promossa, ma anche lecitamente ad attuarsi. In questa prospettiva, l'acquisizione di una posizione dominante in un determinato settore economico, dovuta all'accordo con i clan e alle condotte violente o minatorie che l'hanno tradotto in atto, integra un comportamento anticoncorrenziale, in quanto conseguita senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva e preclusiva tanto dell'accesso nel settore di altri imprenditori quanto della libertà dell'esercente al dettaglio di scegliere liberamente il contraente (Cass. II, n.34214/2020 - L'installazione in via esclusiva da parte di un imprenditore di "slot machine" presso pubblici esercizi insistenti sul territorio d'influenza di un'associazione di stampo mafioso, resa possibile proprio grazie all'intermediazione del clan nei confronti degli esercenti, integra l'elemento oggettivo della condotta sanzionata dall'art. 513-bis c.p., determinando tale illecita concorrenza "ambientale" un'occupazione forzosa da parte dell'imprenditore colluso di tutti gli spazi di mercato relativi a tale attività, non in considerazione delle qualità dell'imprenditore nell'offrire il prodotto, ma proprio in quanto "riservati" per intervento del clan). Compimento di atti tipicamente concorrenziali Il delitto previsto dall'art. 513-bis punisce soltanto le condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) realizzate con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, ma non anche le condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare o coartare l'altrui libera concorrenza, e però poste in essere al di fuori dell'attività concorrenziale, ferma restando l'eventuale riconducibilità di queste ad altre fattispecie di reato (Cass. II, n. 29009/2014). Profili processualiL'illecita concorrenza con minaccia o violenza è un reato procedibile d'ufficio, e di competenza del Tribunale collegiale. Per tale reato: a) è possibile disporre intercettazioni; b) è consentito arresto in flagranza; c) non è consentito il fermo; d) è consentita l'applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali. Sequestro preventivo di quote di società appartenenti a persone estranee al reato È legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società appartenenti a persona estranea al reato, qualora sussista un nesso di strumentalità tra detti beni ed il reato contestato ed il vincolo cautelare sia destinato ad impedire, sia pure in modo mediato e indiretto, la protrazione dell'ipotizzata attività criminosa, ovvero la commissione di altri fatti penalmente rilevanti, attraverso l'utilizzo delle strutture societarie (Cass. II, n. 31914/2015 - Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente il nesso di strumentalità tra le quote di due società in sequestro, appartenenti a prossimi congiunti degli indagati, ed i reati di estorsione ed illecita concorrenza commessi da questi ultimi avvalendosi delle predette società) BibliografiaBerenini, Delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio: Titolo VIII del libro II del Codice penale, Milano, 1937; di Amato, Codice di diritto penale delle imprese e delle società, Milano, 2011; Guariniello, Codice della sicurezza degli alimenti, Milano, 2015. |