Codice Penale art. 529 - Atti e oggetti osceni: nozione.

Maria Teresa Trapasso

Atti e oggetti osceni: nozione.

[I]. Agli effetti della legge penale, si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore [725].

[II]. Non si considera oscena l'opera d'arte o l'opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto.

Inquadramento

L'ordinamento tutela il “pudore”, cioè il sentimento “che induce alla riservatezza in tutto ciò che attiene alle manifestazioni della vita sessuale”. Esso viene considerato un “sentimento socialmente utile” in quanto costituisce un freno alla soddisfazione dell'istinto della libidine, in assenza del quale potrebbero prodursi eccessi pregiudizievoli per la vita individuale e collettiva (Antolisei, 555).

Nozione di “pudore”

Si tratta di un elemento normativo culturale, la cui individuazione del contenuto è rimessa ad una fonte “extragiuridica” (come ha precisato la Corte. cost. n. 191/1970 nel respingere la censura di illegittimità costituzionale: il ricorso a nozioni proprie dell'intelligenza comune — quali il riferimento al “comune senso del pudore” — non violano il principio di legalità). Come precisato in sede di legittimità, la nozione di “offesa al pudore” che ha mantenuto rilievo penale ai fini della qualifica dell'atto come “osceno” ai sensi dell'art. 529 è unicamente quella che si riferisce al sentimento comune dei minori, atteso che la depenalizzazione del reato di cui all'art. 527, comma 1, rende configurabile il reato di “atti osceni” solo in relazione al possibile coinvolgimento di questi ultimi (Cass. III, n. 49550/2017).

Il pudore, si è osservato in dottrina, è un bene giuridico di valenza psicologica, ma di definizione giuridico-sociale (così Donini, Danno e offesa nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a margine della categoria di "offense" di Joel Feinberg, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 1581 s.).

La mutabilità del comune senso del pudore non è riconducibile, secondo la giurisprudenza, all'art. 2, in quanto il mutamento non elimina la norma incriminatrice di cui all'art. 528 (Cass. VI, n. 878/1971).

A proposito della nozione di “pudore”, è possibile individuare in sede dottrinale e giurisprudenziale, diversi orientamenti.

La concezione storico-relativista

Secondo la concezione storico-relativista, il “pudore” è un dato che muta in relazione all'evoluzione dei costumi, la determinazione del quale può essere individuata soltanto in base a parametri variabili nel tempo, ravvisati nel “pudore della maggioranza” ovvero dell'“uomo medio”. In virtù del suo approccio storicizzante è ritenuta la più compatibile con la struttura pluralistica della società contemporanea (così Fiandaca-Musco, 124).

A tal proposito, in sede applicativa si è osservato come tale nozione imponga la verifica e l'aggiornamento del pubblico pudore nella sua mutevolezza con il divenire dei costumi e con l'evoluzione del pensiero medio dei consociati nel momento storico in cui avviene il fatto incriminato (c.d. criterio storico-evolutivo) (Cass. III, n. 5308/1984).

L'identificazione del “comune sentimento del pudore” secondo il c.d. criterio storico-evolutivo

Secondo il c.d. criterio storico-evolutivo, è affidata alla valutazione del giudice l'identificazione del sentimento del pudore nel periodo storico nel quale egli è chiamato ad esprimere il suo giudizio (Cass. III, n. 484/1978). Il “comune sentimento del pudore” ai fini del concetto di osceno va determinato non in base alla sensibilità di quei cittadini che attribuiscono scarso rilievo ai valori morali o spirituali, ma in relazione a quella dei consociati di normale levatura morale, intellettuale e sociale nell'attuale momento storico (così Cass. III, n. 1780/1986 ). Particolare rilievo viene assegnato all'evoluzione dei costumi, che costituisce il parametro di valori attraverso il quale il giudice integra la norma lasciata appositamente in bianco per essere riempita dal contenuto che solo la valutazione del sentimento medio può dare (Cass. III, n. 484/1978).

La concezione deontologica

Secondo la concezione deontologica (sostenuta da un orientamento giurisprudenziale risalente) il pudore va inteso come “valore fisso sottratto al divenire storico” (Gallisai Pilo, 206). Esso si fonda su una “concezione idealtipica dell'uomo normale” “del bonus pater familias" concepito come soggetto sensibile al riserbo in materia sessuale. In senso critico rispetto a tale concezione si è osservato come essa presupponga “concezioni di aprioristica normalità sessuale” non compatibili con un sistema costituzionale aperto e pluralista (Fiandaca-Musco, 125).

L'identificazione del “comune sentimento del pudore” secondo la concezione deontologica

La giurisprudenza individua il comune sentimento del pudore richiamando il sentimento dell'uomo normale, cioè dell'individuo che ha raggiunto la maturità sul piano etico e psichico e accetta il fenomeno sessuale come dato fondamentale della persone umana (“senza farne un mito”, così Cass. I, n. 5873/1976).

La “fissità” di un nucleo immutabile di pudore emerge anche dall'irrilevanza che, in talune pronunce, si assegna al fatto che vi siano individui con differenziata sensibilità non offesa da oggetti o spettacoli osceni, oltre che all'indifferenza presso taluni che determinati soggetti fruiscano dell'osceno (Cass. III, n. 1977/1988, in tal senso di è affermato come non sia penalmente irrilevante la circolazione di pubblicazioni e spettacoli osceni presso un pubblico adulto ed avvertito). Si è altresì precisato come ai fini dell'indagine sul comune sentimento del pudore assuma rilevanza il pensare dell'intera comunità nazionale: quindi è irrilevante la circostanza che il fatto sia avvenuto in un piccolo centro in cui sopravvivono mentalità e costumi superati dall'evoluzione dei tempi (Cass. III, n. 11696/1985).

La concezione “personalistica” del pudore

La concezione personalistica intende il pudore quale forma di tutela della libertà personale, vale a dire il “diritto ad essere protetti dalle molestie provocate dal dover assistere, contro la propria volontà, ad atti o rappresentazioni di contenuto sessuale” (Fiandaca-Musco, 125). L'offesa è dunque alla riservatezza sessuale; oggetto della tutela penale è la libertà del singolo individuo a non essere coinvolto contro la propria volontà nel contatto con atti, immagini o rappresentazioni aventi contenuto osceno (Donini, 1581 ss.). Si tutela dunque il pudore di soggetti che potrebbero venir coinvolti in manifestazioni per loro indesiderate, così che l'interesse tutelato potrebbe sintetizzarsi nella formula: libertà a non essere esposti a contatti sgraditi (Bacco, 300).

In tale prospettiva non rileva penalmente la fruizione riservata, ed il consenso previo alla visione dell'atto o dell'immagine oscena esclude la configurabilità del reato. La misura di illiceità dell'osceno è data dalla capacità offensiva del fatto verso altri, capacità che deve ritenersi insussistente nelle ipotesi in cui l'accesso alle immagini pornografiche non sia indiscriminatamente aperto al pubblico, ma sia riservato solo alle persone adulte che ne facciano richiesta (Corte cost. n. 368/1992; nello stesso senso, con riguardo al commercio dell'osceno, Cass. S.U., n. 5606/1995, secondo la quale la riservatezza e le cautele idonee a prevenire la lesione del pubblico pudore escludono la configurabilità del reato di cui all'art. 528).

Relazione tra: “oscenità” e “pornografia”; “pudore” e “pubblica decenza”

La sola nozione legalmente prevista di “pornografia” è quella di cui all'art. 600 ter, comma 5, concernente la pornografia minorile. Tale definizione tuttavia risente della finalità che anima la norma, quella cioè di tutelare lo sviluppo del minore con riguardo alla sessualità, mentre, ai fini dell'applicazione degli artt. 527 e ss., ciò che rileva non sono le condotte, quanto l'esplicitezza delle rappresentazioni sessuali (Bacco, 305).

La giurisprudenza ha osservato come la pornografia — avente ad oggetto la descrizione o illustrazione di soggetti erotici mediante scritti disegni fotografie — sia un termine più ristretto di quello di oscenità, tale da far venir meno il senso della continenza sessuale così da offendere il pudore (Cass. III, n. 1197/1970, secondo la quale il concetto di pornografia è compreso in quello più ampio di oscenità, la quale si obiettiva in fatti che offendono in modo turpe e grave il senso della riservatezza che deve presiedere alle manifestazioni sessuali).

La distinzione tra atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono il pudore sessuale, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza (Cass. III, n. 5478/2013; in tal senso Cass. III, n. 26388/2004 ha precisato come i primi abbiano un contenuto più specifico che richiama la verecondia sessuale, mentre i secondi richiamano l'offesa al sentimento collettivo di compostezza).

La giurisprudenza, quanto alla qualificazione di oscenità di cui all'art. 529, ha affermato l'equivalenza tra atti ed oggetti, definendo “arbitraria” l'utilizzazione di un criterio meno restrittivo nel giudizio di oscenità di un “oggetto”, rispetto a quello che dovrebbe darsi di un “atto” parimenti offensivo del pubblico pudore (Cass. III, n. 3494/1985). Si v. altresì sub art. 528.

Causa di non punibilità per l'opera d'arte o di scienza

Il capoverso dell'art 529 esclude che possa considerarsi oscena l'opera d'arte o di scienza; la ratio di tale esclusione viene ravvisata nel rilievo che il legislatore attribuisce ai valori di cui l'arte è espressione, conformemente alla tutela accordata dall'art. 33 Cost. (Fiandaca-Musco, 125). Fra il valore dell'arte o della scienza, e quello del pubblico pudore il legislatore ha stabilito la prevalenza del primo (Cass. III, n. 5349/1973).

La seconda parte del capoverso dell'art. 529 prevede tuttavia che la clausola di esclusione non operi nel caso in cui l'opera sia procurata ad un minorenne per motivi che non siano di studio, in ragione della prevalenza che viene riconosciuta al sano sviluppo psico-fisico del minore (in tal senso Cass. III, n. 3257/1973, secondo la quale maxima debetur puero reverentia, nonostante che il livello culturale del minore degli anni diciotto sia talvolta superiore a quello di un adulto).

Quanto alla natura giuridica della clausola di esclusione dell'oscenità, la giurisprudenza dominante e parte della dottrina richiama una fictio iuris, cioè una finzione normativa secondo la quale l'osceno obiettivo “non si considera tale” quando esso rivesta dignità artistica (Cass. III, n. 5349/1973): ove si ritenga inesistente l'opera d'arte, il cui riconoscimento funziona come condicio sine qua non di quella fictio iuris che rende non punibile l'osceno, riprende intero il valore il giudizio sull'oscenità dell'opera (Cass. III, n. 4309/1976).

Altra parte della dottrina la considera quale causa di giustificazione, in cui l'offesa penalmente rilevante verrebbe meno perché, in sede di bilanciamento tra i contrapposti interessi del buon costume e la libertà dell'arte o di scienza, il legislatore avrebbe accordato la prevalenza a quest'ultimo. Altri orientamenti richiamano per l'art. 529 cpv la qualificazione di limite interno o esegetico alla stessa norma incriminatrice, per cui il fatto non sarebbe incriminabile in quanto “non osceno” (Bricola, 746) ovvero la adeguatezza sociale dei prodotti artistici (per una rassegna delle varie posizioni, Fiandaca-Musco, 126).

Nozione di “opera d'arte o di scienza”

L'individuazione della qualificabilità di un'opera in termini di opera “d'arte” non è agevole; dottrina osserva come si renda opportuna a tal fine la richiesta di perizia da parte del giudice ex art. 220 c.p.p. (Fiandaca-Musco, 126).

La giurisprudenza ha tuttavia elaborato alcuni criteri per escludere il valore artistico: la mancanza di corrispondenza tra le tematiche che l'opera si propone e i mezzi prescelti per l'espressione delle stesse; l'assenza di idee nuove o originali; l'estremo compiacimento per l'osceno fine a se stesso (Cass. III, n. 4309/1976). A ciò si è aggiunto il soverchio compiacimento delle evocazioni oscene; la sproporzione tra le parti sicuramente oscene e le rimanenti, la non necessità funzionale delle prime nell'economia dell'opera: in tali ipotesi la negazione del valore artistico dell'opera non avviene a causa dell'osceno di per se stesso, ma perché tale elemento non si armonizza in una complessiva visione superiore e ideale del reale o dell'immaginario di cui l'opera è sostanziata (così Cass. III, n. 5349/1973, nel rigettare il ricorso del P.M. contro l'assoluzione che ha ritenuto il film “opera d'arte”).

Distinzione tra opera d'arte e opera oscena

La giurisprudenza ha elaborato nei termini che seguono l'iter logico che deve seguire il giudice nella valutazione di oscenità di un'opera che si assuma “artistica”:

1) se l'opera sia obiettivamente oscena;

2) se essa sia opera d'arte o di scienza (Cass. III, n. 3257/1973).

L'indagine sull'oscenità di un'opera s'incentra sul suo contenuto, mentre il giudizio sul suo valore artistico deve essere formulato in modo complessivo ed indipendente dal contenuto osceno dell'opera stessa (Cass. III, n. 3257/1973). Il criterio distintivo tra l'opera oscena e opera d'arte, si basa pertanto su una diversa caratterizzazione dell'osceno: nel caso di opera artistica, l'elemento osceno, pur rimanendo tale, si compone in una sintesi armonica e quindi di giusto equilibrio in cui l'eccitamento erotico viene superato dal godimento artistico che l'opera procura (Cass. III, n. 5349/1973).

Profili processuali

La giurisprudenza ha affermato come in tema di opera d'arte, il giudice possa ritenere opportuno prendere in considerazione i pareri espressi da fonti qualificate al fine di accertare la consistenza artistica del prodotto incriminato (così Cass. III, n. 4309/1976, che ha però ritenuto non censurabile la scelta del giudice di merito di ritenere non necessaria la perizia; in tale sede si è chiarito come, benché vi sia l'obbligo per il giudice di disporre la perizia quando sia necessaria un'indagine che richieda cognizione di determinate discipline, rientri nei poteri discrezionali del giudice di merito stabilire la necessità di un ricorso ad essa).

Bibliografia

V. sub art. 527.

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Sommario