Codice Civile art. 5 - Atti di disposizione del proprio corpo.

Giuseppe Buffone
aggiornato da Annachiara Massafra

Atti di disposizione del proprio corpo.

[I]. Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume [1343, 1418; 579 c.p.]1.

 

[1] In deroga al presente articolo, v. art. 1 l. 19 settembre 2012, n. 167, recante « Norme per consentire il trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino tra persone viventi ».

Inquadramento

Il corpo umano è la struttura fisica dell'uomo, in tutte le sue parti; come tale, è la principale dimensione oggetto di autodeterminazione da parte della persona fisica, il principale strumento attraverso cui l'essere umano sceglie e comunica la propria identità. Il corpo umano è, come detto, una struttura fisica ma che inerisce l'essere umano, protetto dall'ordinamento, a livello costituzionale: in particolare, la protezione della integrità fisica della persona costituisce un corollario del presidio costituzionale accordato alla salute, dall'art. 32 Cost. e alla libertà, dall'art. 13 Cost. Ecco perché questa posizione giuridica di vantaggio ha natura anfibologica: diritto fondamentale dell'individuo, da un lato, ma anche “valore” presidiato dallo Stato, dall'altro. Ciò vuol dire che lo Stato conserva il potere/dovere di limitare finanche atti posti in essere dallo stesso titolare della situazione giuridica soggettiva. Questo regime trova espressione nel vigente articolo 5 che vieta gli atti di disposizione del corpo in due casi: 1) quando cagionano una diminuzione permanente della integrità fisica; 2) quando sono contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.

Questa breve cornice è necessaria per comprendere il regime giuridico che discende dall'art. 5 ove, da un lato, è disciplinato un precipuo aspetto del “diritto sul proprio corpo”, ossia quello alla integrità fisica; dall'altro è abilitata l'ingerenza dello Stato in questo rapporto intimo tra titolare e suo corpo.

Il diritto alla integrità fisica tutela l'interesse dell'essere umano al godimento del proprio organismo, nella sua interezza e sanità (Bianca C. M., 2014, 96). Ciò comporta innanzitutto,  il divieto per i terzi di incidere sull'integrità del corpo altrui: ove ciò avvenga, si consuma un fatto illecito; le sevizie del corpo, peraltro, oggi sono anche sanzionate penalmente attraverso il reato di tortura, previsto dall'art. 613-bis c.p., introdotto dalla l.  n. 110/2017  e il reato di deformazione  dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, previsto dall'art. 583-quinquies c.p., introdotto dalla l. n. 69/2019. Il diritto sul proprio corpo è  un  irrinunciabile caratterizzato da un regime di indisponibilità (atteso che, come detto, gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume). Sono, ad esempio, vietate tutte le mutilazioni genitali (infibulazioni) — finanche sanzionate penalmente (art. 583-bis c.p., introdotto dalla l. n. 7/2006) — poiché strappano, in modo severo e grave, l'integrità fisica della donna. L'art. 5 enuclea, in particolare, uno «statuto del corpo» con una scelta innovativa da parte del legislatore del 1942, sia rispetto al Code civil napoleonico, che al codice civile del 1865, i quali si caratterizzavano per l'assenza di qualsiasi riferimento ad una disciplina dei rapporti che, a vario titolo, coinvolgessero la sfera corporea degli individui (Rossi S., 222). La nascita dell'articolo fu certamente influenzata dal celebre caso Voronoff, affrontato dalla Cassazione penale nel 1939 (ossia della cessione, dietro corrispettivo, di una ghiandola sessuale maschile a fini di trapianto). Questa genesi influenzò, invero, anche la dimensione culturale — giuridica entro cui fu collocata la disposizione in esame, foriera di una visione normativa in cui il corpo non appartiene solo al proprio titolare, imperando anche interessi pubblici difesi dallo Stato.

Lo sfondo culturale e sociale di riferimento è, oggi, grandemente mutato ed occorre tenerne conto anche nel momento di interpretazione dell'art. 5. In particolare, proprio dai riferimenti costituzionali citati (art. 32 Cost., in combinato disposto con artt. 3 e 13) è riconosciuto, oggi, un diritto soggettivo all'autodeterminazione che prevale finanche sui ranghi pubblicistici che sovrintendono alla norma in commento: quanto meno nella misura in cui è possibile (si ha diritto a) rifiutare le cure, anche quando il rifiuto è idoneo a compromettere gravemente la salute e a condurre finanche alla morte. Giova, infatti, ricordare che, ai sensi dell'art. 1, comma 5, l.  n. 219/2017, «ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, (…), qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso». Quale logico corollario, il «medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6, l. n. 219/2017).

È storico e risalente nel tempo il dibattito che ha attraversato l'Italia in materia di suicidio assistito e, in generale, eutanasia cd. passiva. Si fa riferimento alla questione  relativa alla liceità o meno delle attività di chi, in esecuzione di una valida volontà di altra persona, agevoli una condotta suicidaria. La questione ha registrato, in tempi recenti, un innesto giurisprudenziale “storico” con  la  sentenza della Consulta n. 242/2019. Questa decisione ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 l. n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Trattasi di sentenza che segue a precedente pronuncia  della Corte  costituzionale che aveva rilevato una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (Corte cost., n. 207/2018).

In virtù del nuovo quadro dei principi, come delineato dalla Corte costituzionale, sussiste una circoscritta area di liceità nel contesto delle condotte suicidarie, che si estende anche a chi presta il necessario aiuto alla persona che abbia deciso di interrompere il suo ciclo di vita.

Regime giuridico

Ancora oggi, è ricorrente l'idea, in dottrina, che l'art. 5 costituisca l'espressione di una inedita convivenza tra il riconoscimento al singolo di una titolarità sul proprio corpo modellata sull'istituto proprietario e l'attribuzione al diritto alla integrità fisica di un fondamento pubblicistico (Lipari, 556). L'innesto del pubblico nella più intima dimensione dell'individuo conduce la manualistica classica a escludere che il corpo umano possa divenire oggetto di scambio (Santoro Passarelli, 1985). L'art. 5 individua limiti di carattere generale agli atti di disposizione del corpo. Muovendo dal primo limite, secondo la dottrina prevalente, il concetto di diminuzione permanente deve essere letto alla luce di un criterio qualitativo, avendo riguardo alla persona considerata unitariamente e nei rapporti con i suoi simili (ex multis, Dogliotti, in Tr. Res., 1982, 93). Il ricorso ai criteri medico-legali, tuttavia, costituisce un decisivo strumento di verifica: sulla scorta di questi parametri, è stata risolta in senso affermativo la questione relativa alla ammissibilità di atti dispositivi del corpo come tatuaggi, piercing e innesti sottocutanei modificativi della sagoma del viso. 

È appena il caso di ricordare, tuttavia, come l'atto dispositivo del corpo richieda la piena capacità di agire, a prescindere dal fatto che non sia vietato dall'art. 5: la Suprema Corte, ad esempio, ha stimato penalmente illecito il tatuaggio eseguito su una persona minore di età senza il consenso dei genitori (v. Cass. pen. n. 45345/2005).

Quanto alla contrarietà alla legge, esso si configura come vaglio generale degli atti di autonomia privata; anche la clausola dell'ordine pubblico, secondo i commentatori, opera come un limite all'autonomia dei privati per il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo (Rossi S., 228). Con riguardo al limite del buon costume, la dottrina ritiene che esso sanzioni il possibile contrasto con il complesso di regole deontologiche e pregiuridiche e con la coscienza morale collettiva (Trabucchi, 700). Il corpo non può essere oggetto di scambio (si pensi al cd. contratto di schiavitù): tuttavia, possono esserlo le parti staccate dal corpo umano, in difetto di condotte violative di legge, ordine pubblico o buon costume. Lo scambio può tradursi in una compravendita: ad es., è considerato certamente lecito il contratto con cui si cedano i capelli o le unghia dietro pagamento di un corrispettivo.

In realtà, sul fatto che il corpo possa costituire oggetto di contratto, vi sono opposte visioni; in gioco c'è il possibile sfruttamento e la commercializzazione di parti del corpo umano là dove esso non produca alcuna diminuzione permanente dell'integrità fisica. Le tesi ormai prevalenti sono affermative: i contratti che non minano l'efficienza psico-fisica dell'organismo umano dovrebbero ritenersi validi.

L'art. 5 è in ciò grandemente influenzato dall'evoluzione dei costumi sociali. Si pensi ad alcuni casi in cui è in gioco il proprio corpo o parti del medesimo: la donna  che provveda all'allattamento del bambino figlio di altra persona che per problemi propri non può allattare; i soggetti che aderiscano alla sperimentazione di un farmaco; la persona che voglia sottoporsi a modificazioni del corpo, mediante l'inserimento di impianti o altri materiali sintetici.

E' invece certamente vietato l'atto dispositivo che infranga un espressa previsione di legge: ad es. è illecito il contratto con cui una donna si presti ad avere una gravidanza e a partorire per un'altra donna (cd. surrogazione di maternità), poiché vietato dall'art. 12 comma 6, l. n. 40/2004; divieto non travolto dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale parziale dell'analogo divieto di fecondazione eterologa, di cui all'art. 4, comma 3, l. n. 40/2004, pronunciata Corte costituzionale con la sentenza Corte cost. n. 162/2014 (Cass. n. 24001/2014).

La Corte costituzionale ha rimarcato l'illiceità della gestazione per conto d'altri, affermando che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” (Corte cost. n. 272/2017). Per le Sezioni Unite, inoltre, il divieto della surrogazione di maternità ex art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, è qualificabile come principio di ordine pubblico in quanto posto a tutela di valori fondamentali (Cass. S.U., n. 12193/2019).

Normative speciali

La indisponibilità della integrità fisica può essere derogata da previsioni normative speciali. Spicca, in questo ambito, l'attività medico-chirurgica. L'attività sanitaria, infatti, perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare — in tal modo — la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall'art. 2 Cost., ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell'individuo.

Se di scriminante si vuol parlare, allora è una sorta di “scriminante costituzionale” (Cass. pen. S.U., n. 2437/2009).

L'attività medica si regge, però, su un presupposto legittimante che è il consenso del paziente. E' ormai acquisito al patrimonio giurisprudenziale italiano che il diritto al consenso informato del paziente è un “diritto irretrattabile della persona”; esso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l'intervento "absque pactis" sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale "deficit" di informazione, il paziente non è stato messo in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (Cass. n. 10423/2019).

Un'altra rilevante ipotesi derogatoria è rinvenibile nella legislazione che regola il trapianto di organi tra persone viventi (es., l. n. 458/1967 in materia di trapianto del rene; l. n. 167/2012 in materia di polmone, pancreas, intestino). Il trapianto da cadavere, invece, fuoriesce dall'ambito di possibile applicazione dell'art. 5 Per quanto riguarda le emotrasfusioni, è pacifico che esse non trovino alcun ostacolo nell'imperativo di cui all'art. 5.

La dottrina menziona anche la legge in materia di interruzione della gravidanza (v. l. n. 194/1978). Un'altra ipotesi di rilevante importanza è quella risultante dall'applicazione delle norme di cui alla l. n. 164/1982: si tratta della normativa che consente la rettificazione di attribuzione del sesso mediante intervento chirurgico demolitorio.

Sul punto, tuttavia, va ricordato il più recente orientamento della Suprema Corte: alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla giurisprudenza della Cedu degli artt. 1 l. n. 164/1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, l'adeguamento dei caratteri sessuali non implica necessariamente l'intervento chirurgico demolitorio quando, all'esito di un'accurata indagine giudiziaria, venga accertata la serietà ed univocità del percorso scelto dall'individuo e la compiutezza dell'approdo finale (Cass. n. 15138/2015).

Proprio la protezione del “corpo” e il diritto alla integrità fisica escludono che esso debba essere necessariamente oggetto di demolizione se la persona fisica ha già compiutamente realizzato una transizione da un sesso all'altro, sul piano della identità psicologia (sia consentito richiamare: Buffone, 2015, 31, 14).

Di quest'avviso è il giudice costituzionale avendo affermato che «la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l'adeguamento dei caratteri sessuali» (Corte cost. n. 221/2015).

Il d.lgs. n. 7/2017- adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'art. 1, comma 28, lett. a) e c), l. n. 76/2016 - all'art.  31 d.lgs. n. 150/2011, dopo il comma 4 ha inserito il comma 4-bis ove oggi si prevede che fino alla precisazione delle conclusioni la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso ed il coniuge possono, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di costituire l'unione civile, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti la scelta del cognome ed il regime patrimoniale. Il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordina all'ufficiale dello stato civile del comune di celebrazione del matrimonio o di trascrizione se avvenuto all'estero, di iscrivere l'unione civile nel registro delle unioni civili e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale.

L'art. 4 l. n. 219/2017 "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento"  disciplina le disposizioni anticipate di trattamento sanitario, le c.d. DAT.  Il citato articolo prevede, infatti,  che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Il fiduciario  deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere e l'incarico del fiduciario può essere revocato dal disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalità previste per la nomina e senza obbligo di motivazione. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, se ricorrano i presupposti di cui al comma 7 dello stesso articolo. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l'assistenza di due testimoni.

Disposizioni anticipate di trattamento (cd. DAT)

L'art. 5 va, oggi, letto anche alla luce dell'istituto delle cd. “DAT”, disposizioni anticipate di trattamento, introdotto dalla l. n. 219/2017. Per quanto qui di interesse, in virtù delle nuove norme (v. art. 4 l. l. 22 dicembre 2017, n. 219), «ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata “fiduciario”, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie». La legislazione vigente intende, dunque, per DAT il negozio giuridico con cui una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprime le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, («fiduciario») che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.  Si tratta di un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale, unilaterale, non recettizio; è soprattutto un negozio sottoposto a condizione sospensiva: produrrà i suoi effetti solo se lo stato di incapacità si verificherà.

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