Codice Civile art. 230 bis - Impresa familiare 1 2 .

Giuseppe Buffone
aggiornato da Annachiara Massafra

Impresa familiare 1 2.

[I]. Salvo che sia configurabile un diverso rapporto [2094, 2251 ss., 2549], il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato [36 Cost.]. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi [316] 3.

[II]. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo [37 Cost.].

[III]. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo [76 ss.]; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo 4.

[IV]. Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.

[V]. In caso di divisione ereditaria [713 ss.] o di trasferimento dell'azienda [2556] i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'articolo 732.

[VI]. Le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.

 

[1] Articolo inserito dall'art. 89 l. 19 maggio 1975, n. 151.

[2] In materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, v. art. 21 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81.

[3] Sull'impresa familiare coltivatrice v. art. 48 l. 3 maggio 1982, n. 203.

[4] La Corte cost. 25 luglio 2024, n. 148, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter c.c.

Inquadramento

L'impresa familiare appartiene solo al suo titolare (Cass. n. 24560/2015), e ciò anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell'impresa di cui all'art. 230-bis, gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione (ma alla quantità e qualità del lavoro prestato) e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell'azienda o all'acquisto di beni (v. Cass. n. 5448/2011, Cass. n. 16477/2009). Pertanto, l'esclusione di una società implica l'inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci. L'art. 230-bis prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell'impresa familiare ha diritto, al momento della cessazione, a partecipare agli utili e agli incrementi di produttività dell'azienda («beni acquistati» con gli utili ed «incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento») in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; ne consegue che, da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare), mentre, dall'altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass. n. 20574/2008).

Regime giuridico

È comune l'opinione che l'istituto dell'impresa familiare, introdotto con la riforma del diritto di famiglia (art. 89 l. n. 151/1975), in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile: come si evince dallo stesso incipit dell'art. 230-bis (salvo che sia configurabile un diverso rapporto).

Sicchè l' impresa familiare mira a disciplinare situazioni di apporto lavorativo all'impresa del congiunto che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all'archetipo della subordinazione e a confinare in un'area limitata il lavoro gratuito (Cass. n. 11533/2020) Diversi precedenti giurisprudenziali hanno lumeggiato aspetti dell'impresa familiare rilevanti sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie: quali, la natura individuale dell'impresa familiare (Cass. n. 874/2005; Cass. n. 7223/2004; Cass. n. 1917/1999) ed il regime fiscale dei reddito dei familiari collaboratori (definito di lavoro, e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa: Cass. V, n. 28558/2008; Cass. n. 34222/2019).

Competenza

In materia di impresa familiare, sussiste competenza del giudice del lavoro ex art. 409 che non è circoscritta all'accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall'art. 230-bis, ma comprende la domanda con la quale un coniuge, previo accertamento della partecipazione all'impresa familiare con l'altro coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l'attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell'impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell'art. 409 n. 3 c.p.c., il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna (Cass. n. 7007/2015).

Impresa familiare in forma societaria

Con la sentenza (Cass. S.U., n. 23676/2014), le Sezioni Unite hanno aderito alla tesi predicativa della incompatibilità dell'impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo. Secondo il giudice nomofilattico, nel contesto letterale della disposizione in esame, la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell'attività economica organizzata, piuttosto che far riferimento all'imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, lasciando adito alla possibile inclusione anche dell'impresa collettiva, esercitata in forma societaria: pur se già la rilevanza riconosciuta contestualmente al lavoro svolto nella famiglia fornisce un primo elemento semantico plausibilmente riferibile ad un imprenditore-persona fisica. Ma ciò che secondo le Sezioni Unite davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché' agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone, (art. 2262, che però ammette il patto contrario) — mentre, solo una mera aspettativa compete al socio di società di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (art. 2433 e art. 2479, comma 2, n. 1) — nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate. Ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare, per le SU, poi, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio: tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario — integrato con la presenza dei familiari dei soci — nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell'impresa stessa: disciplina, in insanabile contrasto con le relative modalità di assunzione all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale (Cass. n. 20552/2015).

Comunioni tacite familiari

Ai sensi dell'art. 230-bis ultimo comma, “le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme”. Questa disposizioni (che assoggetta la comunione tacita familiare nell'esercizio dell'agricoltura alla disciplina dell'impresa familiare ed agli usi con essa compatibili) non ha, in mancanza di espressa previsione, efficacia retroattiva, e non trova pertanto applicazione con riguardo ai rapporti di collaborazione familiare nell'ambito dell'agricoltura svoltasi in epoca anteriore all'entrata in vigore della disposizione stessa, con la conseguenza che detti rapporti ricadono nella disciplina dell'abrogato art. 2140, il quale li sottopone integralmente alla regolamentazione fissata degli usi locali (Cass. n. 7981/2013).

Prescrizione

I crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall'art. 2946 (Cass. n. 20273/2010)

Prelazione

Ai sensi dell'art. 230-bis comma 5, in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'art. 732.

Questa norma va interpretata coerentemente con le finalità dell'istituto, che è quella di predisporre una più intensa tutela del lavoro familiare; ne consegue che la prelazione prevista dalla norma in favore del familiare, nel caso di alienazione dell'impresa familiare, è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente (fino al momento in cui sia liquidata la quota del partecipe), senza che all'applicazione di tale istituto possa essere d'ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell'impresa familiare, avendo il legislatore inteso tutelare il lavoro più che la circolazione dei beni (Cass. n. 27475/2008).

Unione civile

In virtù dell'art. 1 comma 20, l. n. 76/2016, questa disposizione è applicabile anche all'unione civile.

Bibliografia

Cian, Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015.

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