Codice Civile art. 1102 - Uso della cosa comune.Uso della cosa comune. [I]. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto [1108; 627 c.p.]. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa. [II]. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso [1164]. InquadramentoL'art. 1102 detta il principio della parità di godimento tra tutti i comproprietari, affermando il potere di servirsi della cosa comune ed i relativi limiti, il diritto di apportarvi modificazioni a proprie spese, nonché l'estensione del compossesso. Limiti all'uso della cosa comuneL'uso della cosa comune è sottoposto dall'art. 1102 ai limiti consistenti nel divieto di ciascun partecipante di alterare la destinazione della stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. È, perciò, illegittima l'occupazione di una parte del bene tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all'usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità (Cass. II, n. 4372/2015). Si è così ritenuto in giurisprudenza che configura un abuso della cosa comune la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un "volume tecnico" dell'edificio condominiale, mediante il collocamento in esso di attrezzature e impianti fissi, funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale, in quanto l'art. 1102 contiene un divieto di alterare la normale ed originaria destinazione del bene in comproprietà se non con l'unanimità dei consensi dei partecipanti (Cass. VI-2, n. 15705/2017). Si è chiarito come le innovazioni di cui all'art. 1120, in tema di condominio negli edifici, si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall'art. 1102, sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102, per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l'aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell'assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Cass. II, n. 20712 /2017). I limiti dettati dall'art. 1102 possono essere resi più rigorosi dal regolamento di comunione, formato a norma dell'art. 1106, da delibere assembleari adottate con i quorum prescritti dalla legge, ai sensi dell'art. 1105, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. II, n. 27233/2013). La regolamentazione dell'uso della cosa comune, in assenza dell'unanimità, deve seguire sempre il principio della parità di godimento tra tutti i condomini stabilito dall'art. 1102, il quale impedisce che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri (Cass. II, n. 26226/2006). Si è comunque affermato che la pattuizione avente ad oggetto l'attribuzione del cd. "diritto reale di uso esclusivo" su una cosa comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, idoneo ad incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del "numerus clausus" dei diritti reali e della tipicità di essi. L'eventuale titolo negoziale che contempli una siffatta attribuzione impone quindi di verificare se le parti abbiano così voluto trasferire la proprietà, ovvero costituire un diritto reale d'uso ex art. 1021 c.c., ovvero, ancora se sussistano i presupposti per la conversione in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria (Cass. S.U., n. 28972/2020). Ove si tratti di modificare la pregressa destinazione della cosa comune, è invece necessaria la maggioranza qualificata ex art. 1108. In particolare, le innovazioni di cui all'art. 1108 non corrispondono alle modificazioni, cui si riferisce l'art. 1102, comma 1, in quanto le prime sono costituite da opere di trasformazione, le quali incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, e perciò impongono il consenso della maggioranza, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà del partecipante in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa da parte dello stesso singolo comunista. Il primo limite al godimento della cosa comune, posto dall'art. 1102, si identifica con riferimento alla destinazione economica attuale della cosa, quale è desumibile anche dall'uso fattone in concreto da tutti i partecipanti alla comunione, senza tener conto di eventuali future modificazioni della destinazione, le quali rientrino nella sfera delle astratte possibilità. È legittima, ai sensi dell'art. 1102, sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo comproprietario con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. II, n. 5666/2000). Si è ancora specificato che la destinazione della cosa comune dev'essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l'uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa. In particolare, in mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria circa l'uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione ex art. 1102, può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini e, cioè, dall'uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (Cass. II, n. 18038/2020). Quanto al secondo limite, la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'art. 1102, non va intesa nei termini di assoluta identità dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l'identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione (Cass. VI-2, n. 11870/2021;Cass. II, n. 7466/2015). Anche alle modificazioni apportate dal singolo condomino si applica poi il divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato previsto in materia di innovazioni dall'art. 1120 (Cass. II, n. 25790/2020). L'art 1102 non pone comunque alcun limite minimo di tempo e di spazio per l'operatività delle limitazioni dell'uso, potendo perciò costituire abuso anche l'occupazione per pochi minuti del cortile comune che impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass. VI, n. 7618/2019). Ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità (Cass. II, n. 6458/2019). Il criterio dell'uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall'art. 1102, richiede che ciascun partecipante abbia il diritto di utilizzare la cosa comune come può e non in qualunque modo voglia: ne consegue che, ove il godimento pregresso non sia possibile per uno dei partecipanti a causa del mutamento elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere nei confronti degli altri una diversa utilizzazione della cosa comune, avendo il singolo condomino l'onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo (Cass. II, n. 15203/2011). L'uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all'art. 1102, non è, peraltro, idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l'occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso (Cass. II, n. 2423/2015). Il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere rilevanza a fini risarcitori ove non risulti provato che i comproprietari che abbiano avuto tale uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. II, n. 24747/2010). Altrimenti, si assume che ove sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri comunisti, deve ritenersi sussistente un danno in re ipsa (Cass. II, n. 11486/2010). Da ultimo, nel senso che dall'abuso della cosa comune discende un danno patrimoniale in re ipsa, mentre altrettanto non avviene quanto al danno non patrimoniale, Cass. VI, n. 17460/2018). Non è certamente legittima l'utilizzazione delle cose comuni che renda le stesse, sia pure temporaneamente, inservibili (Cass. II, n. 9393/2005). L'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può, tuttavia, essere consentito per accordo fra i partecipanti e sempre che l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102, rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che — ove si tratti di beni immobili — deve essere espresso in forma scritta «ad substantiam» (Cass. II, 18929/2020). Si è affermato però che la delibera assembleare che, in considerazione dell'insufficienza dei posti auto compresi nel garage comune in rapporto al numero dei condomini, preveda il godimento turnario del bene e vieti ai singoli partecipanti di occupare gli spazi ad essi non assegnati, anche se gli aventi diritto non occupino in quel momento l'area di parcheggio loro riservata, non si pone in contrasto con l'art. 1102, ma costituisce corretto esercizio del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte dell'assemblea. La volontà collettiva espressa in assemblea, la quale, preso atto dell'impossibilità del simultaneo godimento in favore di tutti i comproprietari, escluda l'utilizzazione, da parte degli altri condomini, degli spazi adibiti a parcheggio eventualmente lasciati liberi dai soggetti che beneficiano del turno, non impedisce, invero, il godimento individuale del bene comune, ed evita, piuttosto, che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli condomini, venga meno, per i restanti, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa durante i rispettivi turni, senza subire alcuna interferenza esterna, tale da negare l'avvicendamento nel godimento o da indurre all'incertezza del suo avverarsi (Cass. II, n. 12485/2012). Ove non sia possibile o ragionevole l'uso promiscuo della cosa comune e questa non sia tale da permettere una ancorché approssimativa (ma giammai definitiva) divisione del suo godimento tra i vari partecipanti alla comunione, sia nello spazio sia nel tempo, per l'utilizzazione della cosa comune da parte dei vari partecipanti alla comunione sorge l'esigenza di ricorrere al cosiddetto godimento indiretto (ad esempio, mediante locazione concessa a terzi), che tende appunto a sopperire all'impossibilità di procedere ad una conveniente utilizzazione diretta da parte dei vari comproprietari. Il godimento indiretto postula, peraltro, non solo che il godimento diretto, sia esso promiscuo o frazionato, sia impossibile o non ragionevole e dannoso, ma anche che esso sia stato deliberato consensualmente — sia pure col sistema maggioritario, in quanto atto di ordinaria amministrazione, come nel caso della locazione — ovvero stabilito mediante un provvedimento del giudice (cfr. Cass. II, n. 29747/2017). L'obbligo, da parte dei vari partecipanti alla comunione di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell'art 1102, sorge quindi solo se ed in quanto e solo dal momento in cui venga deliberato, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione col sistema del godimento indiretto (Cass. II, n. 22435/2011). Profili processualiIl singolo comproprietario è legittimato ad esercitare, senza necessità di litisconsorzio con gli altri comunisti, l'azione a difesa della cosa comune ex art. 1102 nei confronti di ogni altro partecipante alla comunione. Sicché, quando tra alcuni partecipanti insorga controversia sulle modalità di uso della cosa comune, ancorché riguardanti una modificazione che, non incidendo sull'estensione dei diritti degli altri partecipanti (art. 1102, comma 2) né eccedendo l'ordinaria amministrazione (art. 1108), tende al suo migliore godimento, nel giudizio instaurato fra i comunisti in disaccordo, non sussiste il litisconsorzio necessario di tutti gli altri partecipanti alla comunione, trattandosi di azione di natura meramente dichiarativa (Cass. II, n. 3435/2003). Il mutamento del compossesso in possesso esclusivoAi sensi del comma 1 dell'art. 1102, l'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è legittimo purché non ne alteri la destinazione e non impedisca il pari uso da parte degli altri, sicché la compromissione da parte di un comproprietario dell'uso da parte degli altri configura un atto illecito. Il secondo comma dell'art. 1102, peraltro, prevede che il mutamento del compossesso in possesso esclusivo determina una situazione di fatto idonea all'acquisto per usucapione. Il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei comproprietari non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri comproprietari, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla «res communis» da parte dell'interessato attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cass. II, n. 17462/2008). Così il coerede che, dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi, senza che sia necessaria l'interversione del titolo del possesso (art. 1102, 1141 e 1164), attraverso l'astensione del possesso medesimo in termini di esclusività, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso comune della cosa, occorrendo altresì che il coerede ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziale una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus; poiché, peraltro, tale volontà non può desumersi dal fatto che il coerede abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario, provvedendo fra l'altro al pagamento delle imposte e alla manutenzione (sussistendo al riguardo una presunzione iuris tantum che egli abbia agito nella qualità e che abbia anticipato le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi), il coerede che invochi l'usucapione ha l'onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato in modo da escludere, con palese manifestazione del volere, gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene ereditario (Cass. II, n. 24214/2014; Cass. II, n. 10734/2018). La disposizione dell'art. 1102, comma 2, secondo la quale il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, impedisce al compossessore che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota non solo l'usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato fino a quando questo non si riveli incompatibile con l'altrui possesso (Cass. II, n. 12231/1995). BibliografiaBranca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. S.B., artt. 1100 - 1139, Bologna-Roma, 1982; Fragali, La comunione, in Tr. C.M., XIII, t. 1, Milano, 1973; Palazzo, Comunione, in Dig. civ., III, Torino, 1988, 158 ss., 168 s.; Scozzafava, voce Comunione, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, 2 ss.; Fedele, La comunione, Torino, 1986; Scarpa, Disciplina del “condominio minimo”: duo faciunt collegium?, in Immobili & diritto, 2005, 30 ss.; Busnelli, L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974. |