Codice Civile art. 1105 - Amministrazione.Amministrazione. [I]. Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune [1106]. [II]. Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente [1137; 259, 872 c. nav.]. [III]. Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione. [IV]. Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore [261, 872 c. nav.]. InquadramentoL'art. 1105 afferma il diritto di tutti i partecipanti di concorrere nell'amministrazione della cosa comune, stabilisce le condizioni di validità e di obbligatorietà delle deliberazioni maggioritarie dell'assemblea dei partecipanti, e contempla, infine, l'intervento dell'autorità giudiziaria per i provvedimenti necessari all'amministrazione della cosa comune. Poteri di amministrazione del singolo partecipante e limitiL'art. 1105 prevede che tutti i partecipanti alla comunione abbiano diritto di concorrere all'amministrazione della cosa comune. L'eventuale nomina di un amministratore, consentita dall'art. 1106, comma 2, non investe il medesimo di tutti i poteri di gestione e dei poteri di rappresentanza dei partecipanti, come avviene nel condominio ai sensi degli artt. 1130 e 1131; l'art. 1106, infatti, prevede che con il conferimento della delega a un amministratore devono essere definiti i poteri e gli obblighi dello stesso; ne consegue che solo con espresso conferimento del relativo potere, l'amministratore può avere la rappresentanza dei partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 4209/2014). Per gli atti di ordinaria amministrazione, l'esercizio da parte del singolo della facoltà di amministrare la cosa comune, statuito dal comma 1 dell'art. 1105, può collidere con quello analogo degli altri, visto che, ai sensi del comma 2 della norma in esame, la potestà di disporre spetta alla maggioranza delle quote, la cui volontà vincola la minoranza, sicché ciascun comunista, se ritiene di esserne pregiudicato, può ricorrere all'autorità giudiziaria. Il potere di concorrere nell'amministrazione della cosa comune, nei confronti dei terzi, può, così, indurre a ritenere che chi agisce per la comunione la rappresenti, ma, per vincolare i comunisti agli atti non stipulati dalla maggioranza, occorre, in ogni caso, che gli stessi vi prestino consenso (Cass. III, n. 14759/2008). Per la tutela del diritto di comproprietà, vigendo tale principio di concorrenza di pari poteri gestori in capo a tutti i comproprietari, ciascuno di essi è legittimato ad agire contro chi vanti diritti di godimento sul bene, attesa la comunanza di interessi tra tutti i contitolari del bene medesimo, tale da lasciar presumere il consenso di ciascuno all'iniziativa giudiziaria volta alla tutela degli interessi comuni, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza degli altri comproprietari, nel qual caso è necessario il preventivo intervento dell'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 1105 (Cass. III, n. 2399/2008). Il potere di ogni condomino di agire per la gestione ordinaria del bene comune, incontra, dunque, il suo limite nell'obbligo di rispettare la volontà della maggioranza con la conseguenza che, ove questa non possa essere raggiunta, nessuno dei condomini può porre in esecuzione, contro la volontà espressa degli altri condomini, il cennato potere di amministrazione con azioni giudiziarie in relazione alle quali la sua carenza di legittimazione attiva deve essere rilevata dal giudice anche di ufficio (Cass. III, n. 2363/1992). In definitiva, per gli atti di ordinaria di amministrazione, consistenti in negozi giuridici come in azioni giudiziali a tutela del diritto di comproprietà, vige la presunzione del consenso degli altri ai sensi dell'art. 1105, comma 1, superabile dimostrando l'esistenza del dissenso degli altri comunisti per una quota maggioritaria o eguale della comunione, senza che occorra che tale dissenso risulti espresso in una deliberazione a norma dell'art. 1105, comma 2 (Cass. III, n. 11553/2013). Diverso è il compimento di atti di straordinaria amministrazione, i quali postulano il rispetto di particolari maggioranze qualificate (art. 1108, comma 2) dei componenti la comunione, atteso che il potere di ogni condomino di agire per la gestione del bene comune, traendo origine dal diritto di concorrere all'amministrazione di tale bene, incontra il suo limite naturale nella circostanza che l'atto da compiere ecceda l'area della ordinaria amministrazione (Cass. III, n. 1662/2005). Convocazione e deliberazioni dell'assembleaL'assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, è validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione purché idonea allo scopo, in quanto gli artt. 1105 e 1108 non prevedono l'assolvimento di particolari formalità, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell'ordine del giorno e la decisione a maggioranza dei partecipanti (Cass. II, n. 29747/2017; Cass. n. 26408/2008). Sempre diversamente da quanto statuito per il condominio degli edifici, — gli artt. 1105 e 1108 non prevedono la costituzione formale dell'assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare, la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell'amministratore per decidere su oggetti di comune interesse (Cass. II, n. 14162/2000). La validità e vincolatività, nei confronti della minoranza dissenziente, della decisione adottata dalla maggioranza dei partecipanti, secondo la previsione dell'art. 1105, postula soltanto che tale decisione venga espressa mediante una formale deliberazione assembleare, previo avviso di convocazione a tutti i condomini. L'indicazione, nell'avviso di convocazione dell'assemblea dei partecipanti ad una comunione, dell'elenco delle materie da trattare, allo scopo di rendere edotti i comunisti degli argomenti sui quali essi dovranno deliberare (art. 1105, comma 3, c.c.), può esser anche sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica, in maniera da consentire la discussione e l'adozione da parte dell'assemblea delle eventuali deliberazioni conseguenziali ed accessorie. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell'amministratore per decidere su oggetti di comune interesse (Cass. II, n. 29747/2017). Spetta all'assemblea dei comproprietari ogni determinazione relativa alle spese ed all'amministrazione delle cose comuni (in questa compresi gli atti di conservazione), sia che si tratti di spese voluttuarie o utili, che di spese necessarie: prima che venga sollecitata e provocata una deliberazione dell'assemblea in argomento, non sono proponibili azioni giudiziarie (Cass. S.U., n. 4213/1982) È consentito ai partecipanti alla comunione, in forza del principio dell'autonomia negoziale, di modificare il contenuto degli obblighi di taluno di loro in ordine alle cose comuni, sempre che ciò avvenga con una convenzione stipulata da tutti i comunisti e non con una deliberazione di maggioranza della loro assemblea (Cass. II, n. 697/1980). Il condominio minimoSi è affermato che l'art. 1105, che stabilisce le regole di amministrazione della cosa comune è applicabile, in forza del rinvio contenuto nell'art. 1139 in materia condominiale, sarebbe applicabile nell'ipotesi di condominio minimo, costituito di due soli condomini. In tutte le altre ipotesi le deliberazioni condominiali vengono assunte mediante le modalità e le maggioranze indicate nell'art. 1136 (Cass. II, n. 16075/2007). Ricorre, tuttavia, anche nell'ipotesi di condominio con due condomini, la tipica relazione di utilità strumentale che connota l'accessorietà tra beni esclusivi e parti comuni, la quale è a fondamento della disciplina posta negli artt. 1117 ss. Del resto, l'esistenza della situazione di condominio non dipende dal numero delle persone che ad esso partecipano, né alcuna norma esclude le norme stabilite per il condominio negli edifici nell'eventualità di condominio costituito da due proprietari. Unicamente l'art. 1129 sulla nomina dell'amministratore e l'art. 1138 sul regolamento di condominio condizionano l'operatività dei loro precetti ad un numero minimo di partecipanti. Quindi, altresì nel condominio minimo devono operare le norme organizzative procedimentali sul funzionamento dell'assemblea, con conseguente soggezione al metodo collegiale ed al principio maggioritario delle delibere di approvazione e ripartizione delle spese necessarie alla conservazione o riparazione delle cose comuni (Scarpa, 30 ss.). L'art. 1136 guarda alla deliberazione come portato del principio maggioritario, che, consentendo di superare i voti di dissenso, contraddice il principio di unanimità, coessenziale ai canoni dell'autonomia privata, laddove la regola della maggioranza, a base della vita dell'assemblea condominiale, è, per contro, chiaramente ispirata dal bisogno di funzionalità nella gestione delle cose comuni. Già il concetto stesso di deliberazione implica una riunione dell'assemblea. Il mero avvertimento all'altro condomino dell'esigenza di procedere a determinati lavori nel condominio non può, quindi, rappresentare un valido equipollente di una rituale convocazione dell'assemblea dei condomini, né la semplice comunicazione all'altro partecipante dell'avvenuto riparto delle spese può sostituire il necessario atto presupposto, ovvero la specifica delibera di approvazione; infine, neppure il pagamento di acconti può costituire prova di una delibera di approvazione radicalmente inesistente, perché non adottata nel rispetto dell'art. 1136. Rimane possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 (cfr. Cass. VI, n. 15075/2020; Cass. II, n. 5288/2012; Cass. S.U., n. 2046/2006, secondo la quale nel c.d. “condominio minimo”, il rimborso delle spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da uno dei condomini è regolato dall'art. 1134, mentre è inapplicabile l'art. 1110). Nell'ipotesi di condominio costituito da due solicondomini titolari di quote diseguali, ove si debba procedere all'approvazione di deliberazioni che richiedano comunque sotto il profilo dell'elemento personale, l'approvazione con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti, ex art. 1136, comma 2, c.c., impone la partecipazione di entrambi i condomini e la decisione "unanime", non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass. VI, n. 16337/2020). Il ricorso all'autorità giudiziariaCome visto, l'art. 1105 premette che tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune e che, per l'ordinaria amministrazione di essa, basta che si esprima conformemente la maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, purché tutti i comproprietari siano stati informati dell'oggetto della deliberazione. Se contro le decisioni della maggioranza il comproprietario dissenziente ha tutela mediante l'impugnazione avanti al giudice, occorre altresì evitare il pregiudizio che deriva alla cosa comune in presenza di una paralisi gestionale. Perciò il comma 4 dell'art. 1105 dice che se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria. Sembra, allora, che se l'amministrazione della cosa comune è un “diritto” che spetta congiuntamente ai comunisti, i provvedimenti che a tal fine appaiano “necessari” sono oggetto, altresì, di un reciproco obbligo che intercorre fra i partecipanti, obbligo non nell'interesse dell'uno o dell'altro, quanto nell'interesse della res, tant‘è che in nome di questo può richiedersi l'intervento sostitutivo del giudice per ovviare all'incuria dei singoli. Il precetto dell'art. 1105, ultimo comma, è inderogabile, sicché non può esservi accordo valido tra i comproprietari, né efficace deliberazione, seppur unanime di costoro, che decidano di rinunziarvi preventivamente. Tra i provvedimenti che il giudice può rendere vi è l'autorizzazione di riparazioni straordinarie (anche senza che occorra l'attributo della necessità delle opere, stabilito dall'art. 1110 per l'iniziativa del singolo comunista). È consentita anche la nomina di un amministratore, del quale il decreto deve determinare i poteri (sempre nei limiti dell'ordinaria amministrazione): questo strumento, essendo espropriativo delle normali facoltà gestorie dei partecipanti, suppone una particolare gravità della loro incuria. Tale amministratore della comunione di nomina giudiziale è, tuttavia, privo della legittimazione ad agire nei confronti di uno dei comunisti in rappresentanza degli altri, mancando, in materia di comunione, una disposizione analoga a quella posta, per l'amministratore del condominio, dall'art. 1131 (Cass. II, n. 15684/2006). L'oggetto dei provvedimenti invocati ex art. 1105, comma 4, mediante i quali il giudice si sostituisce all'attività manchevole dei comproprietari parti nella gestione dell'interesse comune, non può incidere sulla consistenza dei diritti individuali di ciascuno, necessitando tale questione la tutela in sede contenziosa. Viceversa, la stessa previsione, ad opera dell'art. 1105, comma 4, preclude al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa per il caso tipico in cui non si formi una maggioranza ai fini dell'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune. Ovviamente, tale preclusione concerne soltanto i rapporti interni tra i comunisti, e non opera, per converso, in relazione ad iniziative giudiziarie contenziose promosse dal comunista in qualità di terzo, come avviene nel caso in cui il comproprietario intenda far in giudizio la posizione di proprietario di cose estranee alla comunione, che dalla rovina della cosa di cui è comproprietario abbia subito pregiudizio (Cass. II, n. 8876/1998). Il decreto emesso dal tribunale ai sensi dell'art. 1105, comma 4, ha natura di provvedimento di volontaria giurisdizione: con esso l'autorità giudiziaria adotta o esegue un atto di amministrazione. Essendo provvedimento suscettibile di revoca e modifica ex art. 742 c.p.c., è privo del carattere di definitività e, quindi, neppure impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., a meno che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi (Cass. II, n. 4616/2012). Più in particolare, si è affermato che il provvedimento con cui l'autorità giudiziaria nomina, ex art. 1105, comma 4, c.c., un amministratore della cosa comune, al fine di supplire all'inerzia dei partecipanti alla comunione, ha natura di atto di giurisdizione volontaria, perciò privo di carattere decisorio o definitivo, in quanto revocabile e reclamabile ai sensi degli artt. 739, 742 e 742-bis c.p.c. e, conseguentemente, non ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., nella specie dichiarandosi inammissibile il ricorso con il quale si lamentava l'irregolare costituzione del contraddittorio nel giudizio di reclamo innanzi alla corte di appello, in virtù delle concrete modalità di notifica dell'atto introduttivo di detta fase processuale (Cass. VI, n. 15548/2017). Il ricorso all'autorità giudiziaria ex art. 1105 presuppone, dunque, ipotesi tassative, tutte riconducibili ad una situazione di assoluta inerzia in ordine alla concreta amministrazione della cosa comune per mancata assunzione dei provvedimenti necessari o per assenza di una maggioranza o per difetto di esecuzione della deliberazione adottata. Il singolo comproprietario non è allora legittimato ad agire in sede di volontaria giurisdizione ai sensi dell'art. 1105 senza avere, in precedenza, provocato la convocazione dell'assemblea, ovvero la riunione dei partecipanti alla comunione per la decisione a maggioranza dei partecipanti sul punto; solo infatti la mancata convocazione dell'assemblea, la mancata formazione di una volontà maggioritaria, o l'adozione di una delibera poi ineseguita legittimano il ricorso alla tutela di cui all'art. 1105. Per poter adire giudice al fine di rimuovere l'inerzia di gestione della cosa comune, occorre, in sostanza, che sia stata vanamente indetta un'assemblea con specifico ordine del giorno, o che i partecipanti si siano almeno riuniti informalmente. La convocazione dell'assemblea può avvenire ad opera del comproprietario più diligente e la comunicazione dovrà riferirsi nell'ordine del giorno all'esecuzione dell'atto di amministrazione che si reputa necessario. Poiché il presupposto dell'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria ex art. 1105 è l'inerzia per mancata assunzione dei provvedimenti necessari o per assenza di una maggioranza o per difetto di esecuzione della deliberazione adottata, esso non è ipotizzabile quando la maggioranza dei comproprietari abbia approvato un atto di amministrazione necessario per il bene comune, ed esso sia contestato dai restanti compartecipanti, in quanto l'intervento del giudice in tal caso si risolverebbe in un'ingerenza nella gestione collettiva ed in una sovrapposizione della volontà dei comunisti. Si dice abitualmente che, poiché la comproprietà è regolata dal principio della concorrenza di pari poteri gestori in capo a tutti i partecipanti, ciascuno di essi è pure legittimato ad agire contro chi vanti diritti di godimento sul bene, attesa la comunanza di interessi tra tutti i contitolari del bene medesimo, tale da lasciar presumere il consenso di ciascuno all'iniziativa giudiziaria volta alla tutela degli interessi comuni, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza degli altri comproprietari, nel qual caso è necessario il preventivo intervento dell'autorità giudiziaria proprio ai sensi dell'art. 1105 (Cass. II, n. 2399/2008; v. però Cass. S.U., n. 11135/2012). BibliografiaBranca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. S.B., artt. 1100 - 1139, Bologna-Roma, 1982; Fragali, La comunione, in Tr. C.M., XIII, t. 1, Milano, 1973; Palazzo, Comunione, in Dig. civ., III, Torino, 1988, 158 ss., 168 s.; Scozzafava, voce Comunione, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, 2 ss.; Fedele, La comunione, Torino, 1986; Scarpa, Disciplina del “condominio minimo”: duo faciunt collegium?, in Immobili & diritto, 2005, 30 ss.; Scarpa, Il ricorso al giudice per l’amministrazione della cosa comune, in Immobili e proprietà, 2021, 279 ss.; Busnelli, L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974. |