Codice Civile art. 1168 - Azione di reintegrazione.

Alberto Celeste

Azione di reintegrazione.

[I]. Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo [634 c.p.].

[II]. L'azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa [1140 2, 1585 2], tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.

[III]. Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.

[IV]. La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione [8 n. 1, 21 2, 703 ss. c.p.c.].

Inquadramento

L'azione prevista dalla norma in commento ha lo scopo di assicurare una tutela sollecita contro la privazione, con violenza o clandestinità, del possesso o della detenzione di un immobile; é esclusa, quindi, l'ammissibilità di tale azione a tutela di un rapporto obbligatorio, mentre, in ordine alle servitù occorre distinguere quelle affermative, rispetto alle quali è concepibile una situazione di possesso, per le quali è ammissibile, e quelle negative, che non danno luogo ad alcuna attività esteriore, per le quali è preclusa. Circa la differenza tra l'azione di rivendicazione e l'azione di reintegrazione nel possesso, è agevole rilevare come quest'ultima, semplicemente finalizzata al ripristino di uno stato di fatto, non presuppone l'accertamento della titolarità di un diritto dominicale sul bene oggetto della pretesa restitutoria; la seconda, invece, è concessa a tutela di qualsiasi possesso (anche se illegittimo o abusivo), purché abbia i caratteri esteriori dell'esercizio della proprietà (o di altro diritto reale); si ribadisce, al riguardo, la ratio pubblicistica della tutela possessoria, nel senso che essa risponde all'esigenza di ordine pubblico che siano prontamente ripristinate situazioni soggettive di fatto, arbitrariamente modificate da un terzo, senza previo accertamento (giudiziale o negoziale) dello stato di diritto. Il capoverso prevede che “l'azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità”. Si distingue, in proposito, la detenzione qualificata da quella non qualificata: nella prima, il detentore detiene la cosa per un interesse proprio — si pensi al conduttore per abitare un appartamento — mentre, nella seconda, il detentore ha un potere diretto sulla cosa in nome e nell'interesse altrui — si pensi al mandatario, al gestore, all'amministratore — per cui, in quest'ultimo caso, la tutela è concessa in funzione dell'interesse di colui per conto del quale la cosa è detenuta, e, quindi, se vi è l'opposizione di quest'ultimo non sarà accordata contro il terzo spogliante. Inoltre, il detentore qualificato può agire anche contro il possessore che l'abbia spogliato (ad esempio, se il locatore vanta un diritto alla restituzione dell'immobile, potrà farlo valere in giudizio, ma non gli è consentito farsi giustizia da sé, oppure l'appaltatore, detentore qualificato del bene, può agire contro il committente con l'azione di reintegrazione per lo spoglio subìto), mentre l'azione di spoglio non è esercitatile dal detentore non qualificato nei confronti del soggetto nel cui interesse detiene (ad esempio, l'amministratore non può agire nei confronti dell'amministrato, ma, nell'interesse di quest'ultimo, solo contro i terzi).

Scopo dell'azione

In quest'ordine di concetti, la dottrina ha messo in luce che la tutela del possesso come stato di fatto tenderebbe a garantire l'interesse sociale allo svolgimento pacifico dei rapporti tra i soggetti, assicurando l'esigenza generica di prevenzione e repressione della violenza (Levoni, 208). La tutela conseguita con le azioni possessorie si configura, in ogni caso, come una tutela a carattere provvisorio, in quanto i suoi effetti, prima o poi, possono venire meno a seguito dell'esito del giudizio petitorio. Si è, inoltre, evidenziato che il possessore, attraverso l'esercizio dei rimedi possessori, riceve una tutela tanto estesa quanto quella che riceve, attraverso le azioni sue proprie, il proprietario; tuttavia, la difesa del possessore denota un'intensità minore, perché, di fronte al convenuto, non è sufficiente provare lo stato di fatto; il possessore deve, invece, svolgere una compiuta contestazione della condotta del convenuto per dimostrare che quest'ultimo si è posto dalla parte del torto (Sacco, in Tr. C. M. 1988, 213).

In proposito, la giurisprudenza ha affermato che, allorché il giudice, accogliendo un ricorso possessorio, ordini allo spogliante di reintegrare lo spogliato nel possesso di una servitù di passaggio, coessenziale al provvedimento in questione è l'ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, se la modifica di essi ha reso impossibile l'esercizio del possesso della servitù, non ostando a tale pronuncia il divieto posto dall'art. 705 c.p.c., che concerne il convenuto, e a nulla rilevando che l'accertamento della sussistenza del diritto di servitù formi oggetto di un separato giudizio petitorio (Cass. II, n. 1896/2011).

Ai fini dell'azione di reintegra è sufficiente un possesso qualsiasi, anche illegittimo ed abusivo, purché abbia i caratteri esteriori di un diritto reale: occorre infatti distinguere tra possesso utile ai fini dell'usucapione e situazione di fatto tutelabile in sede di azione di reintegrazione da parte di chi è privato della disponibilità del bene, indipendentemente dalla prova che spetti un diritto (Cass. II, n. 18034/2010).

L'azione di reintegrazione del possesso persegue lo scopo di restituire il possesso della cosa a chi ne sia stato spogliato; pertanto, la relativa domanda non può essere accolta nel caso in cui la cosa sia andata distrutta, difettando in questo caso il presupposto stesso per il ripristino della situazione possessoria precedente (Cass. II, n. 11386/2006).

Nei casi in cui oggetto del possesso sia stata la porzione di uno stabile interamente demolito ma poi ricostruito, non è esperibile l'azione di spoglio poiché difetta il presupposto stesso della tutela e non può esplicarsi la sua funzione recuperatoria; l'ontologica distinzione dei due immobili implica che una pronuncia di condanna alla reintegrazione darebbe luogo all'instaurazione di un potere di fatto nuovo e diverso, non al ripristino di quello che veniva svolto in precedenza (Cass. II, n. 3984/2001).

Rapporti con il giudizio petitorio

Molto importanti si rivelano le precisazioni offerte dai magistrati di Piazza Cavour in ordine alle differenze tra azioni possessorie e petitorie.

Il divieto per il convenuto nel giudizio possessorio di proporre il giudizio petitorio fino a quando il primo non sia stato definito e la decisione eseguita, essendo previsto a tutela degli interessi generali ed ispirato all'esigenza di ordine pubblico del ripristino immediato della situazione possessoria lesa o compromessa, non costituisce una norma disponibile, con la conseguenza che la violazione del divieto può essere fatta valere anche d'ufficio, indipendentemente dall'eccezione di controparte (Cass. II, n. 4728/2011).

Colui che è convenuto con azione possessoria per violazione dei limiti imposti dalle norme in materia di distanze può dimostrare l'insussistenza dell'altrui diritto al fine di negare lo stato di possesso vantato dall'attore, senza con ciò determinare confusione fra giudizio possessorio e giudizio petitorio, poiché tale accertamento rileva per stabilire se esista un possesso tutelabile (Cass. II, n. 6692/2015).

Il divieto per il convenuto in giudizio possessorio di proporre domanda di natura petitoria, finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita, produce effetti già al momento del deposito del ricorso e non soltanto dalla successiva notificazione del provvedimento interinale che fissa l'udienza di comparizione, essendo rilevante, al fine indicato, la formulazione della domanda possessoria e l'individuazione della parte convenuta e non, invece la costituzione del contraddittorio; ne consegue che, nel giudizio possessorio, il convenuto resta tale a partire dal deposito del ricorso in cancelleria e da allora opera il divieto del cumulo fino a che il giudizio possessorio non sia stato definito e la sentenza abbia avuto esecuzione (Cass. II, n. 4728/2011).

In tema di azioni a difesa del possesso, tra causa possessoria e causa petitoria sussiste una forma di connessione impropria, non essendo ravvisabile un vincolo di subordinazione o di garanzia o di pregiudizialità, ne consegue che non va disposta la sospensione del giudizio possessorio in attesa dell'esito definitivo del giudizio petitorio, posto, altresì che la sentenza definitiva che decide la controversia petitoria, escludendo definitivamente la sussistenza del diritto, impone di negare al possesso la protezione giuridica (Cass. II, n. 19384/2009).

Il possesso è tutelato da spogli e molestie indipendentemente dal suo eventuale carattere lesivo di diritti altrui, i quali, pertanto, non possono essere utilmente opposti all'attore in reintegrazione o manutenzione, essendo consentito al convenuto farli valere solo dopo l'esaurimento del giudizio possessorio e l'esecuzione del provvedimento che lo ha concluso (salva l'ipotesi di un pregiudizio irreparabile che ne possa derivare); l'eccezione feci, sed iure feci, pertanto, è ammessa in sede possessoria se investe non già lo ius possidendi, ma lo ius possessionis, dovendo consistere nella deduzione non di un diritto, ma di un altro possesso, incompatibile con quello vantato dall'attore, in quanto lo esclude o lo comprime o lo limita (Cass. II, n. 15322/2001).

Il giudicato formatosi sulla domanda possessoria è privo di efficacia nel giudizio petitorio, avente ad oggetto l'accertamento dell'avvenuto acquisto del diritto di proprietà o di un altro diritto reale per usucapione, in quanto il possesso utile ad usucapire ha requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori, ove l'accoglimento della domanda prescinde dall'accertamento della legittimità del possesso ed offre tutela ad una mera situazione di fatto che ha i caratteri esteriori dei diritti sopra menzionati (Cass. II, n. 27513/2020); in altri termini, posto che nel giudizio possessorio l'accoglimento della domanda prescinde dall'accertamento della legittimità del possesso, perché è finalizzato a dare tutela ad una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale, ne consegue che il giudicato formatosi sulla domanda possessoria è privo di efficacia nel giudizio petitorio avente ad oggetto l'accertamento dell'avvenuto acquisto del predetto diritto per usucapione, in quanto il possesso utile ad usucapire deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori (Cass. II, n. 10925/2024).

Per effetto della sentenza della Corte cost. n. 25/1992, che ha dichiarato l'illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 705 c.p.c., nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria ed alla esecuzione della relativa decisione anche quando da tale esecuzione possa derivare al convenuto pregiudizio irreparabile, il convenuto in giudizio possessorio può opporre le sue ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulla domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, purché l'eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con efficacia di giudicato) e non implichi, quindi, deroga delle ordinarie regole sulla competenza (Cass. II, n. 10862/1998; Cass. II, n. 12579/1995; Cass. II, n. 3825/1994).

Nozione di spoglio

A questo punto, va verificato come la giurisprudenza ha inteso la nozione di spoglio (violento o clandestino) che giustifica l'esperimento dell'azione di reintegrazione.

In termini generali, si è affermato che lo spoglio costituisce atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa e obbliga chi lo commette al risarcimento del danno, sicché la relativa condotta materiale deve essere sorretta da dolo o colpa, la cui prova incombe, secondo i principi generali in tema di ripartizione dell'onere probatorio, su chi propone la domanda di reintegrazione (Cass. II, n. 21475/2018; Cass. II, n. 3955/2008).

L'apposizione di una ringhiera su un muro divisorio che, avendo funzione di parapetto, consentiva di esercitare il diritto di veduta sull'altrui proprietà, integra uno spoglio parziale, in quanto modifica, rendendole più difficili, le modalità dell'ispicere e del prospicere in alienum in cui si sostanziava l'esercizio del diritto di servitù in presenza del solo muretto (Cass. II, n. 13216/2006).

In tema di tutela possessoria, non ogni modifica apportata da un terzo alla situazione oggettiva in cui si sostanzia il possesso costituisce spoglio o turbativa, essendo sempre necessario che tale modifica comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l'esercizio del possesso (Cass. II, n. 1743/2005).

Configura un atto di spoglio la sostituzione della serratura della porta di accesso all'immobile da parte dei detentori se ad essa non sia seguita la consegna di copia delle chiavi ai proprietari che ne avevano fatto richiesta, qualificandosi tale azione come privazione del possesso fino ad allora esercitato dai proprietari e, al tempo stesso, come primo inequivoco atto di interversione del possesso compiuto dai detentori (Cass. II, n. 1426/2004).

Tenuto conto che a tutela del possesso relativo al passaggio esercitato su strada vicinale ad uso pubblico è esperibile, nei rapporti fra privati, ai sensi dell'art. 1145, comma 2, l'azione di spoglio, e ciò indipendentemente dalla titolarità da parte del privato di un uso speciale od eccezionale sul bene, integrano la lesione del possesso, tutelabile con l'azione di reintegrazione, non soltanto la privazione del possesso ma anche gli atti che determinino l'ostacolo o l'impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio (Cass. II, n. 17889/2003).

Lo spoglio che consiste nella privazione del possesso, si atteggia diversamente a seconda che questo abbia ad oggetto una cosa, o un diritto, sostanziandosi, nel primo caso, in un'azione che toglie al possessore il potere di fatto sulla cosa, e nel secondo caso in un comportamento che impedisce al possessore l'esercizio del diritto, e che può estrinsecarsi in un atto positivo, rivolto a porre in essere un ostacolo materiale all'esercizio dell'altrui diritto, sia in un contegno negativo, con il quale lo spoliator si opponga all'eliminazione di un ostacolo non creato da lui, contro l'espressa volontà del possessore di riportare la situazione di fatto allo status quo ante; da tanto consegue che se un'opera (cosa o manufatto) necessaria all'esercizio di una servitù viene asportata, distrutta o resa inservibile per una qualsiasi causa non imputabile al possessore del fondo servente, questo commette spoglio della servitù qualora si opponga arbitrariamente al ripristino dell'opera che il possessore del fondo dominante chieda di eseguire a sua cura e spesa (Cass. S.U. , n. 2416/1975; cui adde, da ultimo, Cass. II, n. 11369/2019).

Spoglio violento

In particolare, per la configurabilità dello spoglio non è necessario che la privazione del possesso abbia carattere definitivo o permanente, essendo sufficiente che si manifesti con carattere duraturo, ossia che essa non si riveli di per sé come mero impedimento di natura provvisoria o transitoria, ma si presenti come destinata a permanere per una durata apprezzabile di tempo (Cass. II, n. 7887/1994; Cass. II, n. 4628/1993).

La violenza, quale presupposto dell'azione di spoglio ex art. 1168, implica che lo spoglio venga commesso con atti arbitrari, i quali contro la volontà espressa o tacita del possessore tolgano a questo il possesso o gliene impediscano l'esercizio, con la consapevolezza, da parte di chi commette lo spoglio, di agire proprio per privare il possessore della cosa posseduta (animus spoliandi); la clandestinità va riferita, invece, allo stato di ignoranza di chi subisce lo spoglio, il quale deve essersi trovato nell'impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene posto in essere (Cass. II, n. 11453/2000).

La sostituzione del muro divisorio tra due fondi contigui con un cancello suscettibile di essere aperto e forzato, ha struttura e funzione diversa da quella propria del muro sovrastato da un cancello; tale alterazione dello stato di fatto eseguita contro la volontà del possessore o compossessore, anche soltanto presunta, integra uno spoglio violento (Cass. II, n. 6807/2000).

In tema di spoglio, il requisito della violenza non deve necessariamente consistere in un'attività materiale, essendo sufficiente a integrarlo anche atti di costringimento morale diretti contro la volontà espressa o presunta del possessore al fine di sottrarre al medesimo il possesso o impedirgliene l'esercizio (Cass. II, n. 3896/1985; Cass. II, n. 1101/1981).

La dottrina ha precisato che non possono realizzare lo spoglio azioni prive del requisito della violenza, sul rilievo che, considerando violento anche lo spoglio compiuto contro una volontà non effettiva, ma solo presunta, lo spoglio qualificato dalla violenza non risulterebbe distinguibile dallo spoglio semplice previsto dall'ultimo comma (Protettì, 327).

Spoglio clandestino

Inoltre, il requisito della clandestinità dello spoglio, che va riferito allo stato di ignoranza di chi lo subisce, postula che quest'ultimo si sia trovato nell'impossibilità di averne conoscenza nel momento in cui lo stesso viene posto in essere; peraltro, poiché tale inconsapevolezza non deve essere determinata da negligenza del possessore, che va accertata anche alla stregua delle circostanze in cui è stato commesso lo spoglio e mantenuto lo spossessamento, la clandestinità è esclusa dalla presenza di persone che in qualsiasi modo rappresentino il possessore, o dalla conoscenza del fatto da parte delle medesime (Cass. II, n. 12740/2006). Il requisito della clandestinità cui risulta subordinata l'azione di reintegrazione ex art. 1168 importa che la privazione del potere di fatto sul bene accada all'insaputa del possessore, il quale ne venga, così, a conoscenza solo in un momento successivo (Cass. II, n. 3674/1999).

Quando lo spoglio sia stato clandestino, l'onere dell'attore in possessoria si esaurisce nella dimostrazione della clandestinità dell'atto violatore del processo e della data della sua scoperta da parte dello spogliato, ricade invece sul convenuto l'onere di fornire la dimostrazione del fatto estintivo del diritto costituito dall'intempestività dell'azione per decorso del termine di decadenza (Cass. II, n. 1036/1995).

Ad avviso della dottrina, la clandestinità ricorre tutte le volte in cui lo spossessamento sia avvenuto mediante atti che non possano in alcun modo venire a conoscenza di colui che è stato privato del possesso: l'accertamento della possibilità per lo spogliato di avere conoscenza dell'avvenuto spoglio deve essere compiuto dal giudice di merito attraverso la valutazione delle circostanze in cui è stato commesso lo spoglio ed è stato mantenuto lo spossessamento, nonché dalle particolari condizioni in cui si sia trovato il possessore.

Tale accertamento, avendo carattere discrezionale, in quanto nel concetto di “media diligenza” tende ad essere estremamente elastico, e attenendo al merito, risulta sottratto al sindacato in sede di legittimità (Nardelli, 2033).

Animus spoliandi

Sul versante psicologico, i giudici di legittimità hanno evidenziato che l'elemento soggettivo che completa i presupposti dell'azione di spoglio risiede nella coscienza e volontà dell'autore di compiere l'atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio, indipendentemente dalla convinzione dell'agente di operare secondo diritto (Cass. II, n. 2316/2011).

In tema di spoglio la violenza e la clandestinità dell'azione, che implicano l'animus spoliandi, non sono insiti in ogni fatto materiale che determini la privazione dell'altrui possesso ma conseguono solo alla consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva del terzo (Cass. II, n. 24673/2013).

È passibile di azione di reintegrazione, ai sensi dell'art. 1168, colui che, consapevole di un possesso in atto da parte di altro soggetto, anche se ritenuto indebito, sovverta, clandestinamente o violentemente, a proprio vantaggio la signoria di fatto sul bene nel convincimento di operare nell'esercizio di un proprio diritto reale, essendo, in tali casi, l'animus spoliandi in re ipsa, e non potendo invocarsi il principio di legittima autotutela, il quale opera soltanto in continenti, vale a dire nell'immediatezza di un subito ed illegittimo attacco al proprio possesso (Cass. II, n. 13270/2009; Cass. II, n. 2667/2001).

Lo spoglio costituisce atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa e obbliga chi lo commette al risarcimento del danno, sicché la relativa condotta materiale deve essere sorretta da dolo o colpa, la cui prova incombe, secondo i principi generali in tema di ripartizione dell'onere probatorio, su chi propone la domanda di reintegrazione (Cass. II, n. 3955/2008; Cass. II, n. 15130/2001).

In tema di azione di reintegrazione, l'animus spoliandi non è escluso dalla presenza di un titolo amministrativo astrattamente idoneo a pretendere il rilascio dell'immobile, atteso che tale provvedimento non fa venir meno l'intenzione di attentare al possesso altrui (Cass. II, n. 13218/2005). Al contempo, la produzione del titolo da cui il deducente trae lo ius possidendi può solo integrare la prova del possesso, al fine di meglio determinare e chiarire i connotati del suo esercizio, ma non può sostituire la prova richiesta nel relativo giudizio, avendo il ricorrente l'onere di dimostrare di avere effettivamente esercitato, con carattere di attualità, la signoria di fatto sul bene che si assume sovvertita dall'altrui comportamento violento o occulto (Cass. II, 2032/2019).

Ai fini dell'esistenza dello spoglio o della turbativa del possesso non è necessaria la prova dell'animus spoliandi o turbandi in quanto gli artt. 1168 e 1170 prescindono del tutto dal riferimento psicologico, sicché va escluso che dalla natura di atto illecito della molestia o dello spoglio derivi che il possessore debba altresì provare la consapevolezza dell'autore dell'aggressione di aver violata la norma posta a tutela del pieno e libero esercizio del possesso (Cass. II, n. 15381/2000).

L'animus spoliandi consiste nell'intenzione di attentare alla posizione possessoria altrui e non è escluso dall'essere l'autore dello spoglio assistito da un titolo negoziale, poiché il suo esercizio non elimina quell'intento che sorregge la condotta pregiudizievole di quel possesso per la cui tutela è apprestata l'azione di reintegrazione (Cass. II, n. 8489/2000).

L'animus spoliandi può ritenersi insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore contro la sua volontà, espressa o tacita, indipendentemente dalla convinzione dell'agente di operare secondo diritto o di ripristinare la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto, mentre la volontà contraria allo spoglio da parte del possessore può essere esclusa soltanto da circostanze univoche ed incompatibili con l'intento di contrastare il fatto illecito come il suo consenso, l'onere della cui prova grava sul soggetto autore dello spoglio medesimo (Cass. II, n. 8486/2000).

In caso di spoglio perpetrato da un condomino, che si impossessi del bene condominiale trasformandone l'uso uti condominus in uso uti dominus, l'animus spoliandi non è escluso dalla mancata utilizzazione della cosa comune da parte degli altri condomini, questa essendo una manifestazione delle facoltà comprese nel diritto di proprietà e nel relativo possesso (Cass. II, n. 18281/2014).

Eccezione feci sed iure feci

Nel giudizio possessorio, quando è fornita la prova del possesso di colui che sostiene di essere stato molestato, l'esame dei titoli può essere consentito soltanto ad colorandam possessionem, cioè al solo fine di individuare il diritto al cui esercizio corrisponde il possesso o di determinare meglio i contorni del possesso già altrimenti dimostrato (Cass. II, n. 4279/2011).

Il possesso è tutelato da spogli e molestie indipendentemente dal suo eventuale carattere lesivo di diritti altrui, i quali, pertanto, non possono essere utilmente opposti all'attore in reintegrazione o manutenzione, essendo consentito al convenuto farli valere solo dopo l'esaurimento del giudizio possessorio e l'esecuzione del provvedimento che lo ha concluso (salva l'ipotesi di un pregiudizio irreparabile che ne possa derivare); l'eccezione feci, sed iure feci, pertanto, è ammessa in sede possessoria se investe non già lo ius possessionis (cioè l'esistenza di un possesso nello spogliatore), ma lo ius possidendi (cioè il diritto di possedere dello spogliatore medesimo). dovendo consistere nella deduzione non di un diritto, ma di un altro possesso, incompatibile con quello vantato dall'attore, in quanto lo esclude o lo comprime o lo limita (Cass. II, n. 7621/2002; Cass. II, n. 15322/2001).

Termine di decadenza

Sotto il profilo temporale, si è sottolineato che, nell'ipotesi in cui lo spoglio sia stato clandestino, colui che agisce in possessoria — sul quale incombe, di regola, l'onere di provare la tempestività della proposizione dell'azione — deve dimostrare soltanto la clandestinità dell'atto violatore del possesso e la data della scoperta di esso da parte sua, iniziando a decorrere il termine annuale di decadenza dal momento in cui cessa la clandestinità e lo spossessato viene a conoscenza dell'illecito, o sia in condizione di averne conoscenza facendo uso della normale diligenza; resta, invece, a carico del convenuto spoliatore l'onere di provare l'intempestività dell'azione rispetto all'epoca di conoscenza o di conoscibilità dello spoglio (Cass. II, n. 20228/2009; Cass. II, n. 1036/1995).

Nel caso di azione di spoglio esperita denunziando più atti materiali distanziati nel tempo, qualora il giudice li colleghi tra loro teleologicamente, ritenendoli espressione di un unico disegno teleologico, il relativo termine di decadenza decorre dal primo di tali atti, a meno che il ricorrente stesso non provi che si tratta comportamenti autonomi e non avvinti dal medesimo disegno; ove, successivamente, il convenuto deduca — proponendo eccezione di decadenza dall'azione — l'esistenza di un atto di spoglio precedente a quello denunziato dal ricorrente, affermando il collegamento tra i due, spetta al resistente che lo allega fornire la prova del collegamento (Cass. II, n. 13116/2007; Cass. II, n. 636/2003).

Nel caso di spoglio o turbativa posti in essere con una pluralità di atti, il termine utile per l'esperimento dell'azione possessoria decorre dal primo di essi soltanto se quelli successivi, essendo strettamente collegati e connessi, devono ritenersi prosecuzione della stessa attività; altrimenti, quando ogni atto — presentando caratteristiche sue proprie — si presta ad essere considerato isolatamente, il termine decorre dall'ultimo atto (Cass. II, n. 16239/2003).

Il termine annuale, previsto a pena di decadenza dall'art. 1168 per la proposizione dell'azione di reintegrazione nel possesso, va determinato con riferimento alla data di deposito del ricorso, che individua con certezza la reazione all'atto illecito, mentre irrilevanti sono al riguardo la data della sua notifica o quella in cui sia stato notificato l'atto di chiamata in causa del terzo, successivamente individuato, in base alle difese del convenuto o alle risultanze processuali, quale autore dello spoglio (Cass. II, n. 7617/2006; Cass. II, n. 5154/2003).

In tema di spoglio, il decorso del termine di decadenza di cui all'art. 1168 non è rilevabile d'ufficio dal giudice, giacché, vertendosi in materia di diritti disponibili, deve essere eccepito, ai sensi dell'art. 2969, dalla parte interessata, la quale, nel sollevare l'eccezione, deve manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell'effetto estintivo dell'altrui pretesa, ricollegato dalla legge al decorso dell'anno dall'asserito spoglio (Cass. II, n. 1455/2018: nella specie, si era confermata la decisione di merito, che aveva escluso la ricorrenza di tale eccezione nella difesa con cui il convenuto genericamente assumeva di avere da sempre esercitato il proprio diritto di proprietà; Cass. II, n. 5841/2006; Cass. II, n. 7481/1997; Cass. II, n. 10968/1994).

L'esperibilità dell'azione di reintegrazione è soggetta al termine di un anno — decorrente dal sofferto spoglio o, se questo è clandestino, dalla scoperta dello spoglio — che, essendo perentorio, deve essere osservato a pena di decadenza; ne consegue che la tempestività costituisce un presupposto necessario dell'esercizio dell'azione che, se posto in discussione dal convenuto con l'eccezione di decadenza, deve essere provato dall'attore (Cass. II., n. 6428/2014; Cass. II, n. 6055/1996).

Il termine annuale per chiedere la reintegrazione nel possesso a seguito di spoglio, di cui all'art. 1168, ha natura sostanziale, atteso che il suo inutile decorso estingue il relativo diritto, e, pertanto, non è soggetto alla sospensione nel periodo feriale, disposta dalla l. 7 ottobre 1969, n. 742 con riguardo ai termini processuali (Cass. II, n. 2530/1981).

Risarcimento dei danni

Sotto l'aspetto risarcitorio, i giudici di legittimità hanno ritenuto che lo spoglio costituisca atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa e obbliga chi lo commette al risarcimento del danno, sicché la relativa condotta materiale deve essere sorretta da dolo o colpa, la cui prova incombe, secondo i principi generali in tema di ripartizione dell'onere probatorio, su chi propone la domanda di reintegrazione (Cass. II, n. 3955/2008).

L'azione ex art. 1168 ha la finalità di reintegrare il possesso nelle condizioni di esercizio anteriori allo spoglio, sicché il risarcimento del danno da spoglio deve includere i costi di ripristino del bene (nella specie, azienda alberghiera), se questo, per gli interventi compiuti dallo spogliatore, non sia possedibile con le modalità anteriori allo spoglio (Cass. II, n. 7741/2014). 

Resta inteso (ad avviso di Cass. II, n. 34540/2023) che, ai fini della configurabilità di un danno da lesione del possesso conseguente ad un'attività di spoglio rilevante ai sensi dell'art. 1168, integrante una fattispecie di illecito extracontrattuale, non ha rilievo l'insussistenza dello ius possidendi in capo alla parte illecitamente privata del possesso, in quanto l'azione di responsabilità extracontrattuale non postula necessariamente una identità tra il titolo al risarcimento e il titolo giuridico di proprietà o di godimento, essendo sufficiente che l'attore dimostri di trovarsi in una relazione di fatto con la cosa e di avere subìto un danno patrimoniale per la mancata disponibilità di essa.

In tema di reintegrazione nel possesso, il venir meno della ragion d'essere della tutela possessoria per intervenuta decadenza rende inammissibile anche il risarcimento del danno derivante da un comportamento lesivo che tragga origine dallo spoglio, che è in tal caso soltanto un profilo della tutela accordata dall'ordinamento al diritto soggetto del leso al fine di assicurarne la piena reintegrazione; ne consegue che l'azione per il risarcimento del danno ha natura possessoria quando il danno consista nella sola lesione del possesso, e quindi soggiace alle regole dettate per quella tutela in ordine al termine di decadenza per proporla, mentre non ha natura possessoria, e rientra nella previsione generale dell'art. 2043, sottraendosi quindi a quelle regole, quando si lamenti anche la lesione di altri diritti del possessore, sicché la privazione del possesso non esaurisca il danno, ma si presenti come causa di altre lesioni patrimoniali subite in via derivativa dallo spogliato (Cass. II, n. 25899/2006; Cass. II, n. 1093/1989).

In tema di azioni possessorie, non costituisce domanda nuova, perché inclusa nella originaria domanda di reintegrazione in forma specifica del possesso, la successiva richiesta di risarcimento dei danni in forma generica proposta a seguito della sopravvenuta indisponibilità del bene (Cass. II, n. 25241/2006).

Posto che il possesso costituisce una situazione di fatto avente propria rilevanza giuridica, la cui compromissione dà luogo di per sé all'insorgenza di un obbligo risarcitorio, la conseguente domanda risarcitoria può essere proposta congiuntamente all'azione di reintegra o di manutenzione, senza, tuttavia, che trovi applicazione rispetto ad essa il termine annuale di decadenza di cui all'art. 1168, poiché i danni arrecati al possesso dallo spoglio o dalle molestie integrano gli estremi dell'illecito extracontrattuale, e sono come tali soggetti alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947 c.c. (Cass. II, n. 26985/2013).

Al fine della configurabilità dello spoglio, il quale costituisce un atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa, obbligando chi lo commette al risarcimento del danno, con l'atto materiale deve coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di reintegrazione, mentre rappresenta apprezzamento di fatto — riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente — l'accertamento dell'esistenza dell'indicato elemento soggettivo, ed il possessore non deve debba provare anche la consapevolezza dell'autore della lesione di aver violato l'altrui diritto (Cass. II, n. 15130/2001).

In tema di azione di reintegrazione per spoglio, la privazione del possesso costituisce un fatto potenzialmente produttivo di effetti pregiudizievoli per il possessore, il che giustifica in suo favore la pronunzia di condanna generica al risarcimento del danno a carico dell'autore dello spoglio, la quale, costituendo una semplice declaratoria iuris, non impedisce che, nel successivo autonomo giudizio, sia accertata non solo la misura, ma la stessa esistenza in concreto di un danno risarcibile (Cass. II, n. 31353/2018). Di contro, non può essere accolta la domanda di risarcimento del danno derivante dalla privazione del possesso di un immobile - nella specie, tre posti auto all'interno di un cortile condominiale - in modo violento o clandestino (che si configura come fatto illecito), qualora la parte non abbia fornito la prova dell'esistenza e dell'entità materiale del pregiudizio e la domanda non sia limitata alla richiesta della sola pronuncia sull'an debeatur, non essendo allora ammissibile il ricorso al potere officioso di liquidazione equitativa del danno (Cass. II, n. 7871/2019).

Legittimazione attiva

I giudici di legittimità hanno compiutamente delineato i contendenti nella domanda di reintegrazione del possesso.

Sotto il profilo attivo, si è ritenuto che il conduttore che perda il godimento dell'immobile durante il periodo in cui il proprietario debba eseguire delle riparazioni, non perde anche la detenzione dell'immobile stesso sino a quando non sia stata pronunciata la risoluzione del contratto di locazione e può pertanto proporre azione di spoglio contro il proprietario che a lavori eseguiti rifiuti la restituzione dell'immobile (Cass. III, n. 16136/2010).

Sussiste la legittimazione attiva dell'amministratore di condominio — in base ad un'interpretazione estensiva dell'art. 1130, n. 4) — ad esercitare l'azione di reintegrazione nel possesso in relazione ad un'area di proprietà di terzi ma tuttavia destinata, con apposito vincolo urbanistico, ad un diritto di uso comune da parte dei condomini (nella specie, diritto di parcheggio in terreno adiacente a fabbricato condominiale); ciò poiché tale azione si collega al potere dell'amministratore di esercitare gli atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio (Cass. II, n. 16631/2007).

Nello stesso ordine di concetti, si è affermato (Cass. II, n. 6154/2016) che lo spazio sottostante il suolo di un edificio condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, va considerato di proprietà comune, per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117, sicché, ove il singolo condomino proceda, senza il consenso degli altri partecipanti, a scavi in profondità del sottosuolo, così attraendolo nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, si configura uno spoglio denunciabile dall'amministratore con l'azione di reintegrazione.

L'acquirente di bene immobile che, anziché agire in via petitoria a tutela del diritto asseritamente violato, intende avvalersi della tutela possessoria è tenuto, in caso di contestazione da parte del convenuto, a fornire la prova del concreto esercizio del proprio possesso sul bene medesimo, risultando a tale fine inidonea la mera produzione in giudizio del titolo di acquisto, che vale soltanto a rafforzare ad colorandam possessionem la prova stessa (Cass. II, n. 5760/2004).

Il detentore qualificato del bene, o chi detenga la cosa nell'interesse proprio in forza di un titolo contrattuale anche atipico, è legittimato a proporre l'azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore, purché non sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità (Cass. II, n. 10676/2002). 

In senso contrario, sembra porsi una recente pronuncia (Cass. II, n. 9348/2023), ad avviso della quale il detentore non qualificato è legittimato a proporre l'azione di spoglio nei limiti in cui agisca nell'interesse del possessore, il che esclude che la medesima azione possa essere esperita nei confronti di quest'ultimo.

Il conduttore di un immobile che esercita l'azione di spoglio nei confronti del locatore deve provare l'estensione della cosa locata, se oggetto di contestazione, poiché la detenzione qualificata dipende dal rapporto obbligatorio che ne concreta e delimita il fondamento (Cass. II, n. 19144/2015).

La legittimazione attiva all'azione di reintegrazione va riconosciuta al mezzadro, quale detentore qualificato del fondo, nei confronti del proprietario dell'immobile che con la sua chiusura lo abbia privato della possibilità di sfruttarlo (Cass. II, n. 8932/2000).

Il detentore autonomo, che proponga azione di reintegrazione del possesso, deve provare di aver esercitato in nome altrui il potere di fatto sulla cosa, dimostrando l'esistenza del titolo posto a base dell'allegata detenzione, senza che il giudice debba accertare la validità e l'efficacia di siffatto titolo, atteso che in materia possessoria non rileva mai la valutazione degli effetti negoziali di un atto (Cass. II, n. 3627/2014; contra, Cass. II, n. 10816/2000, ad avviso della quale il detentore qualificato o autonomo che proponga azione di spoglio non invoca a suo favore un semplice rapporto di fatto con il bene, bensì un titolo che lo legittima alla detenzione nel proprio interesse, sicché egli debba provare l'esistenza del titolo posto a base dell'allegata detenzione e che il giudice deve verificare la sussistenza, la validità ed efficacia del rapporto dedotto).

Il conduttore che mantenga la disponibilità dell'immobile dopo la cessazione di efficacia del contratto di locazione è legittimato a ricorrere alla tutela possessoria ex art. 1168, comma 2, in quanto detentore qualificato, ancorché inadempiente all'obbligo di restituzione agli effetti dell'art. 1591 (Cass. II, n. 18486/2014).

L'appaltatore, fino alla consegna dell'opera al committente, detiene l'opera stessa nel suo personale interesse, in virtù di un rapporto obbligatorio e deve pertanto considerarsi detentore qualificato; da ciò consegue, da un lato, che, nell'ipotesi in cui l'appaltatore rifiuti la consegna dell'opera al committente, si ha spoglio solo se resti accertata l'assoluta mancanza di contestazione circa l'avvenuta cessazione del rapporto contrattuale, con l'esaurimento delle correlative posizioni soggettive, mentre, in presenza di una controversia relativa alle vicende contrattuali, va escluso il venir meno dello ius detinendi dell'appaltatore; dall'altro che l'appaltatore è legittimato (ex art. 1168, comma 2) all'azione di reintegrazione anche nei confronti del committente (Cass. II, n. 8522/2003; Cass. II, n. 7700/1996).

La tutela possessoria dell'appaltatore contro lo spoglio commesso dal committente che sia receduto dal contratto non è configurabile nell'ipotesi di appalto di servizi, in cui l'interesse dell'appaltatore non ha come termine di riferimento una res (restando gli impianti ed il locale occorrenti per la prestazione del servizio nella piena disponibilità del committente), ma solo l'oggetto contrattuale costituito dalle reciproche prestazioni e, quindi, un facere non concretantesi in un'entità reale suscettibile di detenzione qualificata e, come tale, soggetta alla tutela possessoria (Cass. II, n. 5609/2001).

Il chiamato all'eredità subentra al de cuius nel possesso dei beni ereditari senza la necessità di materiale apprensione, come si desume dall'art. 460 che lo abilita, anche prima dell'accettazione, alla proposizione delle azioni possessorie a tutela degli stessi, così come l'erede, exart. 1146, vi succede con effetto dall'apertura della successione; ne consegue che, nell'uno e nell'altro caso, instauratasi una situazione di compossesso sui beni ereditari, qualora uno dei coeredi (o dei chiamati) impedisca agli altri di partecipare al godimento di un cespite, trattenendone le chiavi e rifiutandone la consegna di una copia, tale comportamento — che manifesta una pretesa possessoria esclusiva sul bene — va considerato atto di spoglio sanzionabile con l'azione di reintegrazione (Cass. II, n. 1741/2005).

Legittimazione passiva

Sotto l'aspetto passivo, si è, altresì, ritenuto che, nel giudizio di reintegrazione nel possesso la legittimazione passiva va determinata in relazione al momento della proposizione della domanda e pertanto permane anche se successivamente lo stesso spogliatore non sia più in grado di operare la riduzione in pristino, atteso che la pronuncia sull'illegittimità dello spoglio mantiene la sua utilità quanto meno al fine accessorio e conseguenziale di legittimare il risarcimento dei danni dello spogliato (Cass. II, n. 1251/1983).

La legittimazione passiva di colui che ha effettuato uno spoglio sussiste anche se, prima della proposizione nei suoi confronti della azione di reintegrazione, egli abbia perduto il possesso della cosa in quanto l'esercizio di essa, pur tendendo essenzialmente al recupero dell'oggetto dello spoglio, implica pur sempre una domanda di dichiarazione di illegittimità del comportamento della parte (Cass. II, n. 73/2003).

Nel giudizio di reintegrazione del possesso, è irrilevante ai fini di escludere la legittimazione passiva dell'autore materiale dello spoglio, la circostanza che questi abbia perso la disponibilità del bene per averlo alienato a terzi, perché anche in tale ipotesi la sentenza conserva la sua ragion d'essere, quantomeno allo scopo accessorio e consequenziale di legittimare la richiesta di risarcimento danni; del resto tale convincimento è avvalorato dall'art. 1169 che, prevedendo che la reintegrazione può essere domandata “anche” nei confronti di chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare fatto con la conoscenza dell'avvenuto spoglio, conferma la sussistenza pure in tale ipotesi della legittimazione passiva dell'autore dello spoglio medesimo (Cass. II, n. 7980/2000).

Lo spoglio e la turbativa costituiscono fatti illeciti e determinano la responsabilità individuale dei singoli autori degli stessi; ne segue che nei giudizi possessori e nunciatori, quando il fatto lesivo del possesso sia riferibile a diversi soggetti, l'uno quale esecutore materiale e l'altro quale autore morale (ed è tale anche il soggetto che dell'atto lesivo si giovi, come il proprietario dell'edificio che venga ampliato con pregiudizio dell'altrui possesso), sussiste la legittimazione passiva di entrambi, ma non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario, potendo la pretesa essere coltivata anche nei confronti di uno solo dei responsabili (Cass. II, n. 11916/2000; Cass. II, n. 9297/1993).

 Devono considerarsi autori morali dello spoglio e, quindi, legittimati passivi alla domanda di reintegra unitamente all'autore materiale, il mandante e colui che ex post, pur senza autorizzarlo, abbia utilizzato consapevolmente a proprio vantaggio il risultato dello spoglio, sostituendo il suo possesso a quello dello spogliato (Cass. II, n. 24967/2018).

In tema di azioni a difesa del possesso, chi ha collaborato con l'autore morale dello spoglio è passivamente legittimato all'azione di reintegrazione solo se ha stabilito con la cosa un rapporto materiale che ne comporti il potere di disposizione, in difetto del quale egli non avrebbe nulla da restituire (Cass. II, n. 8811/2015).

Nel caso in cui il possesso sia passato dall'autore dello spoglio ad un avente causa nel corso del giudizio di reintegrazione, l'avente causa è legittimato passivo all'esecuzione forzata della sentenza pronunciata in detto giudizio, in quanto la sentenza è efficace nei suoi confronti a norma del comma 4 dell'art. 111 c.p.c. ed egli è il soggetto che può realizzare spontaneamente o, in difetto, subire l'attività oggetto dell'esecuzione, cioè, a seconda del caso concreto, la riconsegna del bene o l'esecuzione del comportamento necessario a che il possesso sia ripristinato, consista esso nel non frapporre ostacoli al suo esercizio o nel realizzare le opere a ciò necessarie (Cass. II, n. 11583/2005).

L'amministratore di un condominio che compia un atto di impossessamento violento o clandestino in base ad autorizzazione o delibera assembleare, deve considerarsi autore materiale dello spoglio, mentre autore morale dello stesso deve essere considerata la collettività condominiale rappresentata dall'assemblea, per cui l'azione di reintegrazione può essere proposta sia contro il condominio, sia contro l'amministratore, quale autore materiale dello spoglio (Cass. II, n. 7621/2002).

Comunque, in tema di condominio, così come va riconosciuta la legittimazione attiva dell'amministratore - in base ad un'interpretazione estensiva dell'art. 1130, n. 4) - ad esercitare l'azione di reintegrazione nel possesso, allo stesso modo deve riconoscersi la sua legittimazione passiva, qualora un'azione relativa alle parti comuni venga svolta nei confronti del condominio e si tratti di compiere atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio (Cass. II, n. 25782/2020).

Ipotesi di litisconsorzio necessario

Per completezza sul versante processuale, si è statuito (Cass. S.U., n. 1238/2015) che, in tema di tutela possessoria, qualora la reintegrazione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un'opera in proprietà o possesso di più persone, il comproprietario o compossessore non autore dello spoglio è litisconsorte necessario non solo quando egli, nella disponibilità materiale o solo in iure del bene su cui debba incidere l'attività ripristinatoria, abbia manifestato adesione alla condotta già tenuta dall'autore dello spoglio o abbia rifiutato di adoperarsi per l'eliminazione degli effetti dell'illecito, o, al contrario, abbia dichiarato la disponibilità all'attività di ripristino, ma anche nell'ipotesi in cui colui che agisca a tutela del suo possesso ignori la situazione di compossesso o di comproprietà, perché in tutte queste fattispecie anche il compossessore o comproprietario non autore della condotta di spoglio è destinatario del provvedimento di tutela ripristinatoria.

Inoltre, lo spoglio e la turbativa, costituendo fatti illeciti, determinano la responsabilità individuale dei singoli autori secondo il principio di solidarietà di cui all'art. 2055, sicché, nel giudizio possessorio non ricorre tendenzialmente l'esigenza del litisconsorzio necessario, che ha la funzione di assicurare la partecipazione al processo di tutti i titolari degli interessi in contrasto; tuttavia, il litisconsorzio necessario tra gli anzidetti soggetti si impone qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso comportino la necessità del ripristino dello stato dei luoghi mediante la demolizione di un'opera di proprietà o nel possesso di più persone; in tale ipotesi, infatti, la sentenza resa nei confronti di alcuno e non anche degli altri comproprietari o compossessori dell'opera sarebbe inutiliter data, giacché la demolizione della cosa pregiudizievole incide sulla sua stessa esistenza e necessariamente quindi sulla proprietà o sul possesso di tutti coloro che sono partecipi di tali signorie di fatto o di diritto sul bene, atteso che non è configurabile una demolizione limitatamente alla quota indivisa del comproprietario o del compossessore convenuto in giudizio (Cass. II, n. 3933/2010; Cass. II, 22833/2005).

Nel giudizio di reintegra nel possesso, non ricorre in linea di principio un'ipotesi di litisconsorzio necessario, neppure nel caso in cui più soggetti siano autori dello spoglio, ben potendo l'azione essere intentata nei confronti di uno soltanto di essi, se egli sia in grado di provvedere alla reintegra; tuttavia, allorché, per l'attuazione della tutela richiesta, sia necessaria la rimozione dello stato di fatto mediante l'abbattimento di un'opera in proprietà o in possesso di più persone, esse devono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari, in quanto la sentenza resa nei confronti di alcuno e non anche degli altri comproprietari o compossessori dell'opera sarebbe inutiliter data, per il fatto che la demolizione della cosa pregiudizievole incide sulla sua stessa esistenza e, di conseguenza, sulla proprietà o sul possesso di tutti coloro che sono partecipi di tali signorie di fatto o di diritto sul bene, non essendo, invero, configurabile una demolizione limitatamente alla quota indivisa del comproprietario o compossessore convenuto in giudizio (Cass. II, n. 921/2010; Cass. II, n. 15384/2000).

In tema di azioni possessorie e nunciatorie, qualora il ripristino della situazione anteriore allo spoglio o alla turbativa debba avvenire con la demolizione di un'opera appartenente a più proprietari sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti non soltanto degli autori dello spoglio o della turbativa ma anche dei comproprietari che per effetto dell'abbattimento del bene subirebbero gli effetti della condanna (Cass. II, n. 7412/2003; Cass. II, n. 4137/1983; Cass. II, n. 4382/1982).

Bibliografia

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