Codice Civile art. 1175 - Comportamento secondo correttezza .

Cesare Trapuzzano
aggiornato da Rossella Pezzella

Comportamento secondo correttezza.

[I]. Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza [1183 2, 1206, 1227 2, 1337, 1338, 1358, 1375, 1460 2, 1686 2, 1690 2, 1710 2, 1746, 1759, 1800 2, 1805, 1914, 2106, 2598 n. 3; 88 c.p.c.] (1).

(1) Articolo così modificato dall'art. 32 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 287.

Inquadramento

La norma fa riferimento alla correttezza o alla buona fede oggettiva, concetti tra cui ricorre una sostanziale omogeneità (Bianca, 86). La buona fede in senso oggettivo deve essere intesa come dovere di comportarsi lealmente ed onestamente nella fase genetica ed attuativa del rapporto obbligatorio, diversamente dalla buona fede soggettiva, sintomatica dell'ignoranza di ledere l'altrui diritto. La correttezza, lealtà e buona fede oggettiva individuano delle clausole generali, destinate ad essere definite dal giudice in relazione alle sollecitazioni sociali e alle particolarità dei casi concreti (Rescigno, 178).

Al canone di buona fede oggettiva sono attribuite due funzioni eterogenee (Di Majo, in Comm. S.B., 1988, 304; Rovelli, 424). Secondo una prima impostazione della dottrina, la correttezza costituisce uno strumento di integrazione del contenuto dell'obbligazione e rappresenta una fonte di doveri ulteriori, ossia di obblighi accessori di protezione e sicurezza delle parti che si aggiungono a quelli direttamente previsti da norme specifiche o dal contratto. Sicché si potrebbero esigere dal debitore (ma anche dal creditore) condotte non concernenti strettamente l'esecuzione della prestazione: tali condotte si tradurrebbero nella prescrizione di doveri di cooperazione, avviso, informazione, custodia (Cannata, in Tr. Res., 1999, 46). Per l'effetto, la violazione di tali doveri accessori sarebbe riparabile, indipendentemente dall'inadempimento della prestazione principale.

Secondo altro indirizzo, la correttezza si configurerebbe non già come fonte di doveri integrativi, bensì come criterio di valutazione dei comportamenti delle parti, specie in executivis, in relazione al contenuto del rapporto e alle circostanze del fatto ed in funzione di correzione dello strictum ius, ove questo dovesse produrre risultati ingiusti o comunque inopportuni (Breccia, in Tr. I.Z., 1991, 232; Natoli, in in Tr. C.M., 1974, 37). Ne discende che, attraverso la clausola di buona fede, sarebbe attenuato il rigido giudizio di sussunzione del fatto alla legge. Ma in ogni caso l'inosservanza della buona fede non genererebbe autonoma responsabilità. Altra tesi qualifica piuttosto la correttezza come limite all'esercizio di una pretesa (Bianca, 86), idonea a prevenire o ad evitare un'attuazione abusiva del diritto. Non è escluso che le due funzioni indicate (integrazione e valutazione) possano coesistere.

La buona fede oggettiva si distingue dalla diligenza. Infatti, il dovere di diligenza di cui all'art. 1176 è riferito solo ed esclusivamente al debitore, mentre la correttezza esprime un canone reciproco, che riguarda entrambe le parti del rapporto (Breccia, in Tr. I.Z., 1991, 230, 356; Di Majo, in Comm. S.B., 1991, 295). Ovvero la correttezza avrebbe attinenza con il contenuto del rapporto obbligatorio, contribuendo ad individuare ciò che è dovuto; per converso, la diligenza si riferirebbe all'attività strumentale richiesta ai fini dell'adempimento di ciò che è, appunto, oggetto dell'obbligazione.

L'impiego dei principi di correttezza in funzione valutativa del contegno dei soggetti dell'ordinamento, anche in termini di etica dell'agire, richiama la nozione di abuso del diritto, che si realizza quando, pur rimanendo la condotta esaminata entro i limiti formali (interni) dell'esercizio di facoltà attribuite dalla legge, di fatto determini sul piano sostanziale un vantaggio ultroneo rispetto ai fini che l'esercizio di quelle facoltà mira in astratto e fisiologicamente a raggiungere ovvero un pregiudizio eccessivo nella sfera giuridico-patrimoniale della controparte, in ragione della realizzazione di contegni meramente discriminatori, vessatori o arbitrari. L'abuso può concretarsi anche nell'impiego distorto degli strumenti processuali.

Il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore” - deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass. n. 9200/2021; Cass. n. 22819/2010). La giurisprudenza, nel settore del pubblico impiego, della tutela del lavoro subordinato e tributario, ha evidenziato il collegamento tra i criteri generali di correttezza e buona fede e la posizione di interesse legittimo di diritto privato vantata dalla parte che abbia subito gli effetti delle condotte violative di tali criteri, posizione che rientra appieno nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907, sicché la lesione di tale interesse è suscettibile di tutela giurisdizionale, anche in forma risarcitoria, alla condizione che l'interessato alleghi e provi la lesione e il danno patito (Cass. n. 21700/2013).

La nozione di correttezza

Secondo la dottrina, la correttezza o buona fede in senso oggettivo costituisce un metro di comportamento per i soggetti del rapporto nonché un criterio di ponderazione per il giudice, il cui contenuto non è a priori esattamente determinato, ma importa un'opera di concretizzazione valutativa con riferimento agli interessi in gioco e alle caratteristiche del caso specifico. Tale valutazione deve essere compiuta in base ai costumi, al traffico commerciale ed ai valori obiettivi riconosciuti dall'ordinamento in un dato momento storico, fra i quali assumono un significato primario quelli espressi dalla Costituzione. Attraverso la clausola di buona fede può essere più esattamente individuato il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, sia con riguardo agli obblighi principali sia con riferimento agli obblighi collaterali (Cannata, in Tr. Res., 1999, 46), che possono sussistere anche dopo l'esaurimento del rapporto contrattuale.

La correttezza può orientare due canoni di condotta. Il primo rileverebbe essenzialmente nella fase di formazione e interpretazione del rapporto obbligatorio ed imporrebbe la lealtà del comportamento. Il secondo atterrebbe essenzialmente alla fase esecutiva e si tradurrebbe nell'obbligo di salvaguardare l'utilità dell'altra parte nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio per l'autore della condotta (Bianca, 86).

Nondimeno, in relazione alla fase dell'adempimento del rapporto obbligatorio, si è precisato che il rispetto delle regole della correttezza non comporta che il creditore debba agevolare l'esecuzione della prestazione del debitore o comunque renderla meno onerosa di quella pattuita, piuttosto lo obbliga soltanto a non renderla più disagevole o gravosa di quanto secondo buona fede possa attendersi (Cass. n. 2252/2000).

La buona fede come fonte integrativa di obblighi

Le regole di correttezza e buona fede vincolano il comportamento del creditore e del debitore al fine di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi contrapposti delle parti. Tanto comporta che i soggetti dell'obbligazione hanno il dovere di gestire con lealtà la situazione di asservimento determinatasi, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, evitando per un verso di rendere l'adempimento sproporzionatamente oneroso rispetto alla situazione concreta ed astenendosi per altro verso dall'approfittare di circostanze che permetterebbero di sottrarsi ingiustamente all'adempimento, adoperandosi invece perché questo conservi utilità per il creditore (Cannata, in Tr. Res., 1999, 47). Il raggiungimento di tali obiettivi giustifica l'imposizione di doveri collaterali integrativi, che possono essere specificamente contemplati da puntuali norme ovvero tratti dalla clausola di buona fede.

Al fine di conservare l'integrità delle rispettive ragioni, anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercuotendosi negativamente sul risultato finale perseguito nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e buona fede.

In sintonia con questa ricostruzione, una parte della giurisprudenza ritiene che dalla clausola di buona fede discendano obblighi accessori o collaterali ulteriori cui sono tenute le parti, la cui violazione determina il sorgere di una responsabilità risarcitoria a carico della parte che non vi abbia fatto fronte. Ne consegue che la buona fede si sostanzierebbe in un generale obbligo di solidarietà, derivante soprattutto dall'art. 2 Cost., che imporrebbe a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. Così, in tema di pubblico impiego privatizzato, si è ritenuto che gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali hanno natura di determinazioni negoziali, a cui devono applicarsi i criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., con l'effetto che in capo al dipendente è configurabile una posizione soggettiva di interesse legittimo di diritto privato, che rientra nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907 e sussiste anche rispetto agli atti preliminari al conferimento dell'incarico. Tale posizione è suscettibile di tutela giurisdizionale, anche in forma risarcitoria, a condizione che l'interessato ne alleghi e provi la lesione, nonché il danno subito, senza che la pretesa risarcitoria possa fondarsi sulla lesione del diritto al conferimento dell'incarico, che non sussiste prima della stipula del contratto con la P.A. (Cass. n. 7495/2015). Nello stesso senso, altro arresto in materia di contratto di assicurazione ha rilevato che l'assicuratore, come il proprio intermediario o promotore, ha il dovere primario, sulla scorta della clausola di correttezza, di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, oltre quello di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze, integrando la violazione di tali doveri una condotta negligente ex art. 1176, comma 2. In applicazione di tale principio, si è affermato che l'impresa assicuratrice — in relazione ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario — ha l'obbligo di informare il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti possano essere inferiori al capitale dal medesimo versato, benché la circolare Isvap, disciplinante ratione temporis la materia, nulla preveda al riguardo (Cass. n. 8412/2015). Ancora, la banca mutuante che segnali al gestore dell'archivio dei debitori insolventi (crif) il nominativo del mutuatario, il cui inadempimento all'obbligo di restituzione della somma mutuata si riveli essere conseguenza di un disguido ad esso non imputabile, integra la violazione del fondamentale dovere di solidarietà, in forza del quale ciascun contraente è tenuto a non pregiudicare ingiustificatamente le ragioni dell'altro (Cass. n. 9385/2018). Di recente, la S.C. ha affermato che il lavoratore è tenuto all'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c. (Cass. n. 35066/2023).

E così rientra tra i doveri del notaio anche l'obbligo di consiglio o dissuasione, la cui omissione è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte (Cass. n. 7185/2022).

La buona fede come criterio di valutazione o limite dei comportamenti

La buona fede, è altresì criterio oggettivo di valutazione di comportamenti, secondo un denominatore comune di lealtà e probità (Nicolò, 559). Il campo più vasto in cui opera la normativa sulla correttezza, in base a questa lettura, inerisce ai comportamenti esecutivi. E ciò perché in executivis la buona fede costituisce un parametro per governare le forme di discrezionalità che naturalmente si presentano in fase attuativa. Sicché, avendo la correttezza la mera funzione di temperare il rigido e astratto giudizio di conformità della condotta realizzata al parametro normativo, la valutazione negativa non può comunque giustificare una responsabilità ulteriore o sostitutiva rispetto a quella che consegue all'inadempimento della prestazione primaria. I principi di correttezza e buona fede non creerebbero pertanto obbligazioni autonome ma rileverebbero soltanto come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi oppure per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti (Romano, 680).

Aderendo a questo orientamento, si è osservato, che le clausole generali di correttezza e buona fede non introducono nei rapporti giuridici diritti e obblighi diversi da quelli legislativamente o contrattualmente previsti ma sono destinate ad operare all'interno dei rapporti medesimi, in funzione integrativa di altre fonti; esse pertanto rilevano soltanto come modalità di comportamento delle parti, al fine della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritto o di obbligo e, in quanto attengono alle modalità comportamentali ed esecutive del contratto, così come stipulato dalle parti, si pongono nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente assunta o legislativamente imposta, così concorrendo alla relativa conformazione in senso (eventualmente) ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente e consentendo al giudice di verificarne la coerenza con i valori espressi dal rapporto, garantendo in tal modo l'apertura del sistema giuridico a un rapporto dialettico costante con il contesto socio-economico e culturale di riferimento (Cass. n. 6763/2002).

In questa prospettiva nel contratto di agenzia l'attribuzione al preponente del potere di modificare talune clausole, e in particolare quella relativa al portafoglio clienti, può trovare giustificazione nell'esigenza di meglio adeguare il rapporto agli interessi delle parti, così come essi sono mutati durante il decorso del tempo, ma, affinché non venga meno la forza vincolante del contratto nei confronti di una delle parti contraenti, è necessario che tale potere abbia dei limiti e in ogni caso sia esercitato dal titolare con l'osservanza dei principi di correttezza e buona fede. Pertanto, è stata configurata la violazione dei principi di correttezza e buona fede a fronte di una riduzione del portafoglio clienti nella misura dell'88%, tale da implicare la possibilità di ammettere un sostanziale recesso immediato ad opera del preponente (Cass. n. 13580/2015).

Ed ancora, in tema di pubblico impiego privatizzato, si è ritenuto che la violazione dei principi di correttezza e buona fede si configura solo nell'ipotesi in cui siano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti correlati, sicché le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell'art. 1173, la loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o fatto idoneo a produrli in conformità dell'ordinamento giuridico (Cass. n. 4239/2015).

In specie, la valutazione delle condotte delle parti sotto il profilo della buona fede si manifesta, sub specie di attenzione esigibile nel rendere informazioni chiare, precise ed esaustive, in particolari settori dell'ordinamento, in relazione alla rilevanza del bene giuridico inciso ovvero alla necessità di disporre di peculiari cognizioni tecniche: si intendono evocare gli obblighi informativi gravanti sul medico, committente, mediatore, datore di lavoro, assicuratore, banca. Ad esempio, in forza della clausola di buona fede, si è ritenuto che, in tema di trattamento sanitario volontario, il medico debba fornire dettagliate informazioni circa i benefici, le modalità di intervento, l'eventuale possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie e, infine, i rischi prevedibili in sede post-operatoria (Cass. n. 23328/2019; Cass. n. 9705/1997).

L'abuso del diritto

La clausola di buona fede oggettiva opera altresì come punto di riferimento per sanzionare i contegni abusivi, discriminatori, vessatori o arbitrari realizzati dalle parti, sia in ambito sostanziale sia in ambito processuale (Rescigno, 179). In particolare, la figura dell'abuso del diritto è stata enucleata sotto il profilo della violazione del parametro di correttezza, che fungerebbe da limite-controllo dei comportamenti delle parti ovvero da elemento di raffronto determinante per la qualificazione in termini di inesigibilità della prestazione. L'integrazione di simili contegni consentirebbe a posteriori di avvalersi di specifici rimedi di natura inibitoria o risarcitoria, anche speciale, come accade per la condanna a titolo di responsabilità processuale aggravata, ovvero incidenti sulla procedibilità della domanda giudiziale.

S econdo la giurisprudenza, l'abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si realizza quando nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Elementi sintomatici ne sono pertanto: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte (Cass. n. 26541/2021; Cass. n. 15885/2018). 

In adesione al ruolo della buona fede quale strumento di emersione delle condotte abusive, si è sostenuto in materia lavoristica, che, sebbene dalle clausole generali di correttezza e buona fede non possa derivare per il datore di lavoro l'obbligo, non previsto dalla legge o da altra fonte, di giustificare e motivare il concreto esercizio dello ius variandi, nondimeno, se tale esercizio dà luogo a una discriminazione o a una vessazione o comunque ad un arbitrio nei confronti del lavoratore, egli è tenuto a risarcire i danni che ne derivano. Ciò accade quando al lavoratore, pur nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso (Cass. n. 17624/2014).

Facendo applicazione del principio anzidetto, si è affermato, nel caso di recesso della banca dal contratto di conto corrente bancario, che il fideiussore resta tenuto al soddisfacimento del debito quale esistente alla data dello scioglimento del rapporto e in tale misura cristallizzato, dovendo ad esso essere raffrontato il limite di massimale della garanzia; tuttavia, gli interessi moratori maturati dopo quel momento a causa del mancato tempestivo adempimento imputabile (anche) allo stesso fideiussore restano, comunque, a suo carico oltre il limite del massimale della fideiussione, in applicazione della regola generale della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 per i fatti a lui riferibili, nonché dei principi di divieto dell'abuso del diritto e della correttezza nei rapporti interprivati (Cass. n. 12263/2015).

La violazione della clausola di correttezza può manifestarsi anche sotto forma di abuso degli strumenti processuali, con particolare riferimento al frazionamento del credito, all'attivazione di plurimi procedimenti esecutivi senza una sostanziale utilità, all'esperimento di azioni palesemente pretestuose, alla resistenza in giudizio meramente dilatoria.

Pertanto, è contrario al principio di correttezza e buona fede, e si risolve in un abuso del processo, il frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito complessivamente portato da separate fatture, qualora tale credito derivi non già da molteplici rapporti obbligatori sussistenti tra le parti, bensì da un unico contratto (Cass. n. 19898/2018;Cass. n. 4702/2015; Cass. n. 28286/2011, in Foro it. 2012, I, 2813, con nota di Graziosi; Cass. n. 15476/2008; Cass. n. 23726/2007, in Foro it. 2008, I, 1514, con note di Palmieri e Pardolesi).

Per converso, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie siano anche in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondate sullo stesso fatto costitutivo le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (Cass. n. 6591/2019; Cass. n. 20714/2018; Cass. n. 17893/2018; Cass. S.U., n. 4090/2017, in Giur. it. 2017, 5, 1089).

Così, in materia di espropriazione forzata, la necessità di coordinare il principio della cumulabilità dei mezzi di esecuzione con il divieto di abuso degli strumenti processuali — ricavabile dalla previsione dell'art. 111, comma 1, Cost., nonché dall'operatività degli obblighi di correttezza e buona fede anche nell'eventuale fase patologica di una relazione contrattuale — comporta che l'emissione di un'ordinanza di assegnazione, sebbene di regola non precluda la possibilità di ottenerne altre in relazione allo stesso titolo e fino alla soddisfazione effettiva del credito, renda illegittima la scelta del creditore di intraprendere una nuova esecuzione, allorché egli sia stato integralmente soddisfatto in forza di detto provvedimento, né deduca la mancata ottemperanza all'ordine di assegnazione da parte del suo destinatario (Cass. n. 7078/2015). Nella stessa prospettiva, si è affermato che integra abuso degli strumenti processuali la condotta del creditore esecutante che, dopo l'intimazione al debitore esecutato, con un primo atto di precetto, del pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure, intimi, con successivo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre le spese e le competenze relative a tale secondo atto di precetto (Cass. n. 33443/2022).

Non incorre, invece, nell'abuso del diritto il creditore fondiario che non cooperi con il terzo acquirente del bene ipotecato per il frazionamento o la riduzione dell'iscrizione gravante sullo stesso, essendo il terzo estraneo al rapporto debitorio e disponendo di peculiari strumenti per la liberazione del bene (quali quelli disciplinati dagli artt. 2858 c.c., e 2889 c.c. e 792 c.p.c.) (Cass. n. 36204/2022).

Sempre in applicazione del medesimo principio si è evidenziato nell'assicurazione della responsabilità civile che il diritto dell'assicurato alla rifusione, da parte dell'assicuratore, delle spese sostenute per resistere all'azione promossa dal terzo danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, va escluso, in ossequio ai doveri di correttezza e buona fede, quando l'assicurato abbia scelto di difendersi senza avere interesse a resistere alla avversa domanda o senza poter ricavare utilità dalla costituzione in giudizio (Cass. n. 5479/2015).

In tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la S.C. ha affermato che costituisce abuso del processo domandare in separati giudizi il risarcimento delle varie voci di danno causate dal medesimo fatto illecito (Cass. n. 8217/2024).

Bibliografia

Bianca, Diritto civile, IV, L'obbligazione, Milano 1997; Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. civ., 1988; Di Majo, Le modalità delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1986; Di Majo, L'adempimento dell'obbligazione, Bologna 1993; Giorgianni, voce Obbligazione (diritto privato), in Nss. D.I., Torino, 1965; Nicolò, voce Adempimento (diritto civile), in Enc. dir., Milano, 1958; Rescigno, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., Milano 1979; Rodotà, voce Diligenza (diritto civile), in Enc. dir., Milano, 1964; Romano, voce Buona fede (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1959; Rovelli, voce Correttezza, in Dig. civ., 1989; Schlesinger, Il pagamento al terzo, Milano, 1961.

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