Codice Civile art. 1340 - Clausole d'uso.

Cesare Trapuzzano

Clausole d'uso.

[I]. Le clausole d'uso s'intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti [1374].

Inquadramento

Le clausole d'uso o usi negoziali o contrattuali sono pratiche generalizzate degli affari. Requisito costitutivo degli usi negoziali è rappresentato dalla loro applicazione costante e generalizzata in un dato luogo e settore d'affari (Bianca, 336). Ai fini della discriminazione dagli usi normativi o consuetudini, che costituicono vere e proprie fonti del diritto, si sostiene che le clausole d'uso consistono in quelle pratiche che non abbiano ancora raggiunto la costante applicazione e la diffusione idonea a trasformarle in norme pienamente distaccate dalla volontà dei singoli contraenti, e non siano idonee a conseguire una tale indipendenza dalla volontà di questi, perché, essendo contrarie a norme dispositive di legge, possono trarre efficacia solo da tale volontà (Osti, 530). La norma in commento specifica che nel contenuto del contratto devono intendersi sottintese anche quelle clausole d'uso che le parti non hanno espressamente incluso, ma che tuttavia sono correnti, ossia abituali in un dato contratto, perché normalmente praticate dalla generalità degli interessati in quel certo settore e dunque preesistenti al contratto (Messineo, 1961, 939). Pertanto le clausole d'uso hanno natura negoziale e non normativa. L'art. 1340 non fa cenno agli usi normativi; ciò anche perché, se avesse fatto ad essi riferimento, si sarebbe creata un'insanabile antinomia tra lo stesso art. 1340, che prevede la derogabilità dell'uso, nella parte in cui attesta che le pratiche d'uso non si intendono inserite nel contratto qualora risulti che le parti non le abbiano volute, e l'art. 1374, che, usando la locuzione “obbliga”, presuppone l'imperatività e, quindi, l'inderogabilità degli usi, evidentemente normativi (Messineo, 1961, 940). Gli usi negoziali si distinguono dagli usi normativi, non già sul piano dei requisiti costitutivi, ossia della struttura, che è la medesima, bensì in relazione all'oggetto, che per gli usi negoziali è costituito dal rapporto contrattuale, e in relazione all'efficacia, che è quella di clausole contrattuali per i primi e di norme per i secondi (Bianca, 339). Le clausole d'uso influiscono sulla formazione del contratto, gli usi normativi intervengono su un contratto già formato, integrandone gli effetti al pari della legge e dell'equità (Santoro Passarelli, 230; Saracini, 254). Altra tesi tende ad esaltare la differenza sotto il profilo dell'ampiezza oggettiva del suo grado di diffusione, atteso che l'uso normativo ha un'applicazione generalizzata mentre l'uso negoziale ha un'applicazione più delimitata, ossia settoriale (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 235; Messineo 1961, 961). In senso contrario altri autori ritengono che anche gli usi negoziali costituirebbero una forma di usi normativi (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 126). L'equiparazione tra uso normativo e uso negoziale deve reputarsi definitivamente superata alla luce della più recente evoluzione giurisprudenziale, che ha evidenziato la carenza negli usi negoziali dell'elemento soggettivo o spirituale dell'opinio iuris ac necessitatis, ossia dell'adesione e condivisione della sua valenza precettiva e cogenza (già Asquini, 25).

Sotto il profilo della distinzione dall'uso normativo la S.C. ha puntualizzato, con riguardo alla pratica dell'anatocismo bancario, ossia della composizione trimestrale degli interessi passivi a scapito del correntista, che la configurabilità di un uso normativo richiede due requisiti, l'uno — di natura oggettiva — consistente nell'uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento (diuturnitas), l'altro — di natura soggettiva o psicologica — consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica (opinio iuris ac necessitatis), di modo che venga a configurarsi una norma — sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai regolamenti — avente i caratteri della generalità e astrattezza; l'esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi, ossia di uso negoziale (Cass. n. 4498/2002; Cass. n. 12507/1999).

Gli usi interpretativi, individuali e normativi

Secondo un filone della dottrina agli usi negoziali possono essere assimilati gli usi interpretativi, regolati dall'art. 1368, facendo essi pur sempre riferimento a ciò che si pratica nel luogo in cui il contratto è concluso, sebbene ai fini dell'esegesi del contratto (Bianca, 337). Ma un diverso orientamento ritiene invece che gli usi negoziali si differenziano sia dagli usi normativi sia dagli usi interpretativi (Oppo, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, 77; Saracini, 246). Gli usi negoziali sono altresì distinti dagli usi individuali o dalle pratiche individuali reiterate dalle parti contraenti, rappresentate dalle prassi che si instaurano nei rapporti tra determinati contraenti; tali prassi potranno essere, se del caso, elementi di interpretazione del contratto, in quanto incidenti sulla valutazione del comportamento complessivo delle parti, ma non di integrazione del contratto medesimo (Sacco, in Tr. Vas., 1975, 796; Bianca, 338). La violazione degli usi negoziali non giustifica il ricorso giudiziale in sede di legittimità mentre tale ricorso è ammesso per la violazione degli usi normativi (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 126).

Secondo alcuni arresti della giurisprudenza tra gli usi negoziali rientrano i mezzi di interpretazione del contratto e di integrazione della volontà dei contraenti che il giudice del merito è tenuto ad utilizzare, ai sensi dell'art. 1374, al fine di ricostruire il contenuto obbligatorio del negozio ed i relativi effetti (Cass. n. 2498/1984; Cass. n. 839/1984). In senso contrario altro arresto afferma che l'uso negoziale, e segnatamente la prassi aziendale, non è riconducibile né agli usi normativi né agli usi interpretativi (Cass. n. 7864/1986). Quanto agli usi individuali, anche la S.C. conferma per un verso che gli usi negoziali possono essere interpretativi o integrativi della volontà dei contraenti incompletamente od ambiguamente espressa, in forza di clausole comunemente adottate nella località o nella zona in cui il contratto è concluso, e possono, quindi, essere applicati normalmente ai negozi conclusi da contraenti che appartengano ad una determinata categoria di operatori economici, ove siano implicitamente od esplicitamente richiamati dalle parti; per altro verso che una prassi istituitasi tra le parti in occasione di precedenti contrattazioni non può, quindi, essere identificata né con l'uso negoziale che, pur con le necessarie limitazioni, ha portata generale, né tanto meno con gli usi normativi (Cass. n. 3342/1968; Cass. n. 1533/1964; Cass. n. 1572/1963; Cass. n. 3177/1959). Discusso è se gli usi normativi, vere e proprie fonti sussidiarie del diritto, siano discriminabili dagli usi negoziali anche sotto il profilo del riferimento alle previsioni che li richiamano: mentre un orientamento giurisprudenziale ritiene che gli usi negoziali facciano capo all'art. 1340 e gli usi normativi siano presi in considerazione in ordine all'aspetto dell'integrazione del contratto dall'art. 1374 (Cass. n. 76/1988), altra impostazione sostiene che l'uso negoziale rileva anch'esso sotto il profilo dell'integrazione contrattuale (Cass. n. 86/1986). Non rientra nella nozione di uso negoziale la mera tolleranza esercitata di volta in volta secondo le circostanze, come nel caso in cui una banca abbia talora acconsentito al superamento del limite del fido (Cass. n. 3487/1998).

Le clausole di stile

Clausola di stile è solo quella che si limita a riprodurre una costante prassi stilistica di determinati atti, senza alcun riscontro nella determinazione volitiva delle parti (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 224).

In base alla distinzione operata dalla S.C. clausola di stile è soltanto quella che viene inserita nel documento comprovante la conclusione del contratto, senza che ad essa corrisponda in alcun modo la volontà dei contraenti; clausola d'uso è invece quella che normalmente viene inserita in particolari contratti ed è pienamente produttiva di effetti giuridici, anche se in ordine ad essa non siano intervenute particolari trattative tra le parti, essendo la manifestazione di volontà desumibile dalla sottoscrizione del documento in cui la clausola è inserita (Cass. n. 2705/1975; Cass. n. 2947/1969). Inoltre le clausole di stile sono costituite soltanto da quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelano la funzione di semplice completamento formale, mentre non può considerarsi tale la clausola che abbia un concreto contenuto volitivo ben determinato, riferibile al negozio posto in essere dalle parti (Cass. n. 19876/2011). Conseguentemente, in mancanza di dati assertivi di una pratica stilistica, la mera genericità ed equivocità della terminologia adoperata non è sufficiente a dedurre la natura solo stilistica della relativa clausola, al cui riguardo si pone quindi soltanto un problema ermeneutico (Cass. n. 1832/1980). Pertanto il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica ed indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale, sicché deve interpretarla in relazione al contesto per consentire alla stessa di avere qualche effetto e solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto, ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera dell'effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia qualificandola come di clausola stile (Cass. n. 1950/2009). Ne discende che, sia per il principio di conservazione delle clausole contrattuali, sia perché rispondente all'interesse dell'acquirente di un immobile a non esser limitato nella disponibilità e nel godimento del medesimo, non può ritenersi generica ed indeterminata, e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l'alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, pur se essa è sintetica e onnicomprensiva (Cass. n. 19104/2009; Cass. n. 15380/2000).

L'efficacia degli usi negoziali

Gli usi negoziali vincolano le parti non solo quando esse ne ignorino l'esistenza, ma anche nel caso di deroga a norme dispositive di legge (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 223; Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 127; Asquini, 28). Pertanto le clausole d'uso si inseriscono nel contratto in modo automatico, indipendentemente tanto dalla manifestazione di una volontà tacita quanto dalla conoscenza o meno che i contraenti ne abbiano (Bianca, 339). Per converso, attesa la loro natura sussidiaria, agli usi normativi è precluso di prevalere su norme di legge, benché non cogenti (Bianca, 336; Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 127). Gli usi contrattuali non possono invece derogare ad espresse clausole difformi. Il loro inserimento può essere escluso dall'inequivoca manifestazione di una volontà contraria, concorde delle parti, sia pure tacitamente espressa; nondimeno tale volontà, se manifestata da una sola delle parti, non può avere alcun effetto qualora sia intervenuta successivamente alla conclusione del contratto (Osti, 529; Asquini, 450). Il carattere negoziale delle clausole d'uso implica la loro inoperatività con riguardo alle determinazioni per le quali è richiesta una forma particolare (Bianca, 340). L'interpretazione delle clausole d'uso, attesa la loro natura negoziale, può avvenire alla stregua dei criteri generali di interpretazione del contratto (Bianca, 340). Le stesse circostanze che determinano la formazione dell'uso negoziale sono idonee a determinarne la cessazione. Infatti la ripetizione dell'inosservanza dell'uso, intesa come generale e costante abbandono della pratica, eventualmente seguita dal formarsi di un nuovo uso, importa il venir meno dell'uso medesimo per desuetudine (Pavone La Rosa, Consuetudini — usi normativi e negoziali —, in Enc. dir., Milano 1961, 528).

L'integrazione del contratto in base agli usi negoziali postula che detti usi vertano su un aspetto del rapporto non regolato dalla volontà delle parti ovvero regolato in modo lacunoso od ambiguo (Cass. n. 5135/2007; Cass. 4093/1977). Le clausole d'uso obbligano le parti anche se da esse ignorate, a meno che non risulti che le stesse abbiano espressamente inteso escluderle (Cass. n. 436/1986). Le norme e gli usi uniformi della camera di commercio internazionale hanno esclusivamente natura giuridica di usi negoziali, ossia di clausole d'uso integrative della volontà dei contraenti; ne consegue che la loro interpretazione, effettuata dal giudice di merito con motivazione adeguata e non illogica, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 21833/2009; Cass. n. 1842/1996). Sono suscettibili di essere considerate dovute alla stregua di usi negoziali le prestazioni del datore di lavoro, per lo più emolumenti, ancorché originariamente corrisposte con carattere di spontanea liberalità, che abbiano acquisito il carattere dell'elemento integrativo del corrispettivo in virtù di una reiterazione costante ed uniforme, tenendo conto del comportamento dei contraenti (Cass. n. 6963/2009; Cass. n. 19123/2003; Cass. n. 2549/1990). L'onere della prova degli usi di fatto o contrattuali è a carico della parte che li allega (Cass. n. 5321/1987). All'esito qualora la ricorrenza dell'uso negoziale venga provata mediante l'esibizione della raccolta ufficiale della camera di commercio, il giudice del merito non può ritenere operante un uso di contenuto diverso, in base alla generica notorietà del medesimo occorrendo a tal fine, una dimostrazione concreta e rigorosa, idonea a contrastare l'efficacia probatoria di detta raccolta (Cass. n. 4093/1977; Cass. n. 2962/1968; Cass. n. 422/1949).

L'uso aziendale

L'uso aziendale o prassi aziendale è, secondo l'opinione prevalente, una specie di uso contrattuale che opera in ambito aziendale, il quale per esplicare efficacia non deve necessariamente interessare la generalità delle aziende del settore, ma è sufficiente che si affermi in una sola azienda (Carresi, 225). In senso contrario si ritiene che si tratti di usi normativi (Mengoni, In tema di usi aziendali, in Mass. Giur. lav. 1978, 471).

La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi), integra di per sé gli estremi dell'uso aziendale, il quale, in ragione della sua appartenenza al novero delle fonti sociali — tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda — agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che, ove la modifica  in melius del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell'uso aziendale, ad essa non si applica né l'art. 1340 — che postula la volontà tacita delle parti di inserire l'uso o di escluderlo — né in generale la disciplina civilistica sui contratti — con esclusione quindi di un'indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati — né comunque l'art. 2077, comma 2, con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica in peius del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 31204/2021;Cass. n. 8342/2010; Cass. n. 17481/2009; Cass. S.U., n. 26107/2007; contra Cass. n. 10783/2000).

Bibliografia

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