Codice Civile art. 1464 - Impossibilità parziale.Impossibilità parziale. [I]. Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile [1258], l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale [1181]. InquadramentoQualora l'impossibilità sopravvenuta non imputabile della prestazione sia solo parziale, non si produce l'effetto risolutivo in via automatica. Piuttosto, in conseguenza della modificazione del fondamento originario dell'attribuzione patrimoniale, la norma riconosce alla controparte una facoltà di scelta: rimanere vincolata al rapporto, esercitando il diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione cui è tenuta, ove ricorra comunque un suo interesse significativo a mantenere in vita il contratto; ovvero recedere dal contratto, quando lo squilibrio sopravvenuto sia tale da escludere la persistenza di un interesse apprezzabile all'adempimento parziale (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 879; Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 648). La norma trova applicazione ai soli contratti a prestazioni corrispettive, in quanto la regola in essa recepita ha fondamento nel carattere di reciproca remunerazione delle prestazioni (Bianca, 1994, 374). Il rimedio in esame, in quanto espressione di un principio con portata generale, può essere applicato anche ai casi di inadempimento parziale imputabile alla controparte (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 35). In senso contrario altro autore osserva che in questa evenienza la riduzione della prestazione sarebbe inutile, essendo sufficiente la tutela risarcitoria riconosciuta dall'art. 1453 (Dalmartello, 135). Anche l'impossibilità sopravvenuta parziale ricorre solo qualora la circostanza sopravvenuta, la quale deve rivestire i caratteri della assolutezza e dell'oggettività, non sia prevedibile al momento della conclusione del contratto (Cass. n. 4016/2004). L'ambito applicativoSi ritiene che nel concetto di impossibilità parziale cui si riferisce la norma rientri anche l'impossibilità di una frazione temporale della prestazione — impossibilità parziale ratione temporis —, fattispecie che si realizza frequentemente nelle prestazioni d'opera e di lavoro subordinato, il cui trattamento deve essere equiparato a quello dell'impossibilità parziale, piuttosto che dell'impossibilità temporanea (Cabella Pisu, in Comm. S.B., 2002, 152). L'impossibilità parziale non determina in alcun caso l'estinzione dell'obbligazione e non produce conseguentemente la risoluzione del contratto, potendo invece il creditore ottenere in via alternativa o la riduzione della prestazione o, recedendo dal contratto, la totale liberazione dalla propria obbligazione (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 647). Il contraente la cui prestazione è divenuta parzialmente impossibile non ha invece alcun potere d'iniziativa, rimanendo obbligato, nei limiti in cui la prestazione è ancora possibile, ad effettuare l'adempimento parziale (Dalmartello, 130). La previsione è derogabile, sicché le parti nell'esercizio della loro autonomia possono distribuire i rischi dell'impossibilità in modo del tutto diverso (Sacco, in Tr. Vas., 1975, 978). L'impossibilità parziale non ricorre solo con riferimento all'aspetto materiale della prestazione, bensì anche come riduzione del suo valore economico-giuridico (Trib. Lucera 9 gennaio 1980). Inoltre l'impossibilità parziale non si applica solo ai contratti aventi ad oggetto prestazioni di beni materiali, ma anche nel caso di prestazioni consistenti in un facere (Cass. n. 2469/1976). Sicché la norma è stata ritenuta applicabile anche ai rapporti di lavoro subordinato (Cass. n. 12072/2015; Cass. n. 25073/2013; Cass. n. 12315/2010; Cass. n. 3517/1992), salvo che non sia derogata o limitata da previsioni normative specificamente riferite al rapporto di specie (Cass. n. 1861/2010; Cass. n. 5413/2003). Il rimedio è stato ritenuto applicabile anche ai contratti preliminari, con la conseguenza che è consentito al contraente, che ai sensi dell'art. 2932 agisce per ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso, di chiedere al giudice anche la riduzione della propria prestazione, non essendo tale possibilità preclusa dal principio secondo cui la sentenza deve rispecchiare integralmente le previsioni negoziali stabilite dalle parti nel contratto preliminare, dato che questo principio impedisce al giudice di sostituire la propria volontà a quella dei contraenti, ma non di accertare con un'indagine ermeneutica che la modifica delle pattuizioni è stata anche implicitamente prevista dai contraenti in relazione a fatti sopravvenuti, oggettivamente verificabili (Cass. n. 4529/2001; Cass. n. 1782/1993). Anche secondo la S.C. solo la parte creditrice della prestazione divenuta parzialmente impossibile ha il diritto di avvalersi dei rimedi previsti dalla norma (Cass. n. 2274/1997). Si è rilevato altresì che la disposizione non è imperativa, sicché la disciplina in essa prevista può essere derogata dalle parti (Pret. Gallarate 23 agosto 1979). La riduzione della prestazioneLa prima opzione che compete al creditore insoddisfatto consiste nella formulazione della richiesta di riduzione della controprestazione, la quale si riduce nella stessa misura in cui si è ridotta la prestazione attinta dall'impossibilità sopravvenuta (Bianca, 1994, 373; Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 534). Tuttavia se la riduzione della controprestazione non è possibile perché è indivisibile, quest'ultima è dovuta per intero, salvo il diritto a ricevere un conguaglio in denaro (Tamponi, La risoluzione per impossibilità, I contratti in generale, Torino, 1999, 1548). In proposito si afferma che la riduzione della controprestazione è una forma di rettifica che non ha carattere eccezionale in quanto risponde al principio di conservazione del contratto. Ipotesi simile a quella dell'impossibilità parziale è quella del sopravvenuto deterioramento della cosa dovuta. Anche in questo caso il creditore può conservare un apprezzabile interesse all'adempimento, giustificandosi l'applicazione analogica della regola dettata per l'impossibilità parziale (Bianca, 1994, 374). Qualora il creditore accetti la prestazione ridotta, acquista il diritto ad eseguire in misura proporzionalmente ridotta anche la propria controprestazione, senza necessità di ricorrere al giudice, il cui intervento si rende necessario solo se sorge contestazione (Cass. n. 6299/1987). Il recessoIn alternativa la parte creditrice può scegliere di recedere dal contratto, ripristinando così la regola generale dell'art. 1181, che legittima il rifiuto dell'adempimento parziale (Cabella Pisu, cit., 159). Pertanto il creditore insoddisfatto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale, può recedere dal contratto. E ciò finché il contratto non abbia avuto un inizio d'esecuzione. Infatti l'accettazione della prestazione parziale o deteriorata comporta la perdita del diritto potestativo di recesso, ma non del diritto alla riduzione della prestazione corrispettiva (Bianca, 1994, 375). È controverso se detto interesse debba essere valutato secondo criteri oggettivi o soggettivi. In base ad un primo indirizzo la valutazione circa la mancanza di interesse apprezzabile, quale causa giustificativa del diritto al recesso, deve essere compiuta secondo criteri oggettivi, analoghi a quelli che regolano l'importanza dell'inadempimento, ai sensi dell'art. 1455 (Dalmartello, 134). In questa prospettiva l'interesse apprezzabile verrebbe meno quando l'impossibilità parziale o il deterioramento siano incompatibili con la causa concreta del contratto (Bianca, 1994, 375). Altro orientamento sostiene invece che il potere di valutare l'esistenza di questo interesse spetta esclusivamente alla parte, sicché al creditore è riconosciuto il potere di recedere con il solo limite imposto dalla buona fede. Per l'effetto l'atto stragiudiziale di recesso è in sé idoneo a produrre l'effetto voluto (Sacco, in Tr. Vas., 1975, 978). Ulteriore questione controversa riguarda la natura stragiudiziale o giudiziale dell'esercizio del recesso e la conseguente produzione di effetti in ragione del mero esercizio in fatto, purché ne ricorrano i relativi presupposti, ovvero solo all'esito di una pronuncia giudiziale che ne riconosca la legittimità. In base ad una prima opinione il recesso è un rimedio essenzialmente stragiudiziale, che produce effetti in ragione del suo esercizio in fatto (Enrietti, in Comm. D'A. F., 1948, 879). Solo in caso di contestazione spetta al giudice stabilire se l'interesse del creditore all'adempimento parziale sia o meno apprezzabile (Mosco, 436). In ragione di altra opinione l'esercizio del recesso presuppone la proposizione di un'apposita domanda giudiziale e la sentenza che ne segue ha natura costitutiva (Mirabelli, in Comm. Utet,1984, 648). Anche in giurisprudenza vi sono due indirizzi in ordine all'individuazione dell'ampiezza della causa giustificativa del recesso nel caso di impossibilità parziale della prestazione: un primo orientamento sostiene che l'esercizio di tale diritto postula l'esistenza di una giusta causa, con specifico riferimento al rapporto di lavoro (Cass. n. 1591/2004; Cass. n. 6378/2003; Cass. n. 2256/1981); in base ad altra opinione la scelta del recesso è rimessa alla valutazione discrezionale del contraente interessato (Cass. n. 3066/1975; Cass. n. 430/1960). Proprio in tema di contratto di lavoro il recesso è stato giustificato alla stregua della clausola di buona fede contrattuale in ipotesi di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore; infatti il recesso può essere esercitato solo all'esito del controllo sulle possibilità di repechage, istituto che richiede una fungibilità e una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del dipendente, in modo da realizzare un equilibrio tra le esigenze organizzative del datore di lavoro e la salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 6714/2021; Cass. S.U., n. 7755/1998). Gli effetti dell'esercizio del recesso Benché la legge non regoli espressamente gli effetti del recesso, si ritiene che esso produca gli effetti previsti dall'art. 1458. Tale assimilazione sul piano degli effetti è giustificata dai limiti, tra loro omogenei, che in entrambi i casi la legge fissa all'esercizio del relativo diritto, che non può mai assumere un valore assoluto: la risoluzione per inadempimento soggiace al limite di cui all'art. 1455; il recesso per impossibilità sopravvenuta parziale non imputabile presuppone la mancanza di un interesse apprezzabile all'adempimento della prestazione residua (Dalmartello, 130). Sicché lo scioglimento del contratto, conseguente all'esercizio del diritto di recesso, ha efficacia retroattiva (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 648). BibliografiaAuletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942; Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., Milano, 1988; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994; Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, Diritto civile, 1.2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1990; Boselli, voce Eccessiva onerosità, in Nss. D.I., Torino, 1960; Busnelli, voce Clausola risolutiva espressa, in Enc. dir., Milano, 1960; Dalmartello, voce Risoluzione del contratto, in Nss. D.I., Torino, 1969; Grasso, Eccezione di inadempimento e risoluzione del contratto, Napoli, 1973; Mosco, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950; Natoli, voce Diffida ad adempiere, in Enc. dir., Milano, 1964; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1989; Smiroldo, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982; Tartaglia, voce Onerosità eccessiva, in Enc. dir., Milano, 1980. |