Codice Civile art. 2035 - Prestazione contraria al buon costume.

Caterina Costabile

Prestazione contraria al buon costume.

[I]. Chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato.

Inquadramento

L'art. 2035 prevede che l'esecuzione di una prestazione per uno scopo che risulta offensivo del buon costume anche da parte di colui che la pone in essere impedisce a quest'ultimo di ripetere quanto ha pagato.

Trattasi di un'ulteriore eccezione al principio della ripetibilità dell'indebito.

Il concetto di buon costume non è definito a livello legislativo, si tratta in altre parole di una tipica clausola generale, in virtù della quale il legislatore attribuisce ai giudici la facoltà di farsi direttamente interpreti delle valutazioni correnti nella morale sociale, senza il tramite di un qualche testo normativo.

La disposizione in esame richiede molto chiaramente ai fini dell'irripetibilità che lo scopo immorale sia condiviso da entrambe le parti. Del resto se l'immoralità si riferisce solo al motivo di una parte, l'accordo è perfettamente valido e pertanto produce integralmente i suoi effetti (art. 1345).

La giurisprudenza ritiene che il giudice — chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causamdeve procedere d'ufficio, sulla base delle risultanze acquisite, alla valutazione della contrarietà del negozio al buon costume (Cass. III, n. 5371/1987).

La ratio della previsione normativa

La dottrina si è lungamente interrogata in ordine alla giustificazione razionale della norma in esame.

Secondo l'opinione dominante, il fondamento ultimo della regola risiede nell'esigenza di evitare che persone in qualche modo coinvolte in attività illecite, criminali o immorali possano trarre vantaggio dalla loro condotta illecita o proporre giudizi per ottenere il compenso pattuito per una prestazione contraria ai buoni costumi (Gallo, 11).

La regola di cui all'art. 2035 comporta, dunque, una estensione della regola dell'illiceità (art. 1343) anche sul piano quasi contrattuale, ancorché limitatamente ai soli casi di immoralità. Una tale estensione potrebbe risultare giustificata ogniqualvolta il quasi contratto costituisse un mezzo per aggirare norme imperative (art. 1344).

Il concetto di buon costume

Il concetto di buon costume non è definito a livello legislativo, si tratta in altre parole di una tipica clausola generale, in virtù della quale il legislatore attribuisce ai giudici la facoltà di farsi direttamente interpreti delle valutazioni correnti nella morale sociale, senza il tramite di un qualche testo normativo.

In dottrina si è lungamente dibattuto in ordine al problema di definire il concetto di buon costume (in arg. v. Gallo, ult. cit.).

Secondo una prima e risalente ricostruzione il concetto di buon costume dovrebbe essere chiarito con riferimento alla morale cristiana.

Secondo altri questa impostazione non sarebbe più accettabile, dato che i valori dell'etica cristiana non necessariamente sono condivisi da tutti: si è pertanto proposto di ancorare la valutazione del buon costume ai principi sanciti dalla Carta fondamentale. 

La giurisprudenza intende il concetto in senso lato, identificando la nozione di buon costume non solo con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma anche con quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico (Cass. I, n. 16706/2020).

La S.C. ha, ad esempio, ritenuto che il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro, oltre a violare norme imperative, deve ritenersi negozio contrario al buon costume comunemente accettato, con conseguente diniego di ripetizione delle somme versate ex art. 2035 (Cass. VI, n. 8169/2018).

Limiti all'irripetibilità della prestazione immorale

Un limite all'operatività dell'art. 2035 è dato dalla sua applicabilità soltanto a chi ha eseguito una prestazione contraria al buon costume e, dunque, non anche a chi ha eseguito una prestazione illecita perché contraria a norme imperative o ai principi dell'ordine pubblico (in dottrina Rescigno, 1230).

Per tale motivo la giurisprudenza ha ritenuto la norma non applicabile in caso di contratto stipulato con la p.a. nullo per difetto di forma (Cass. III, n. 8722/1998).

È stato inoltre ritenuta non affetta da nullità per illiceità della causa la donazione indiretta di una quota di immobile acquistata con danaro proveniente dall'attività di meretricio della disponente, dalla quale il beneficiario traeva vantaggio, in quanto la condotta di sfruttamento della prostituzione resta irrilevante rispetto all'atto di liberalità (Cass. II, n. 7480/2013).

Rapporti con l'azione generale di arricchimento

La giurisprudenza ritiene che la disposizione in esame prevalga sull'azione generale di arricchimento.

L'arricchimento ingiustificato, pur essendo lo strumento più idoneo, quando manca qualunque altra azione, per farsi indennizzare il pregiudizio sofferto a causa della nullità di un contratto stipulato «contra legem», non può essere esercitato da chi ha effettuato una prestazione contraria al buon costume (Cass. II, n. 4398/1979).

Bibliografia

Albanese, Il pagamento dell'indebito, Padova, 2004; Gallo, Ripetizione dell'indebito. L'arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Dig. civ., Torino, 1998; Moscati, voce Indebito (pagamento e ripetizione), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971; Moscati, voce Obbligazioni naturali, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1979; Moscati, Gestione d'affari: pagamento dell'indebito, Bologna, 1981; Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000; Nivarra, Obbligazione naturale, in Dig. civ., Torino, 1995; Perlingieri, Le vicende delle obbligazioni naturali, in Riv. dir. civ., 1969, I, 357; Rescigno, Ripetizione dell'indebito, in Nss. D.I., XV, Torino, 1968.

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