Codice Civile art. 2037 - Restituzione di cosa determinata.Restituzione di cosa determinata. [I]. Chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla. [II]. Se la cosa è perita, anche per caso fortuito [1218, 1256 1], chi l'ha ricevuta in mala fede è tenuto a corrisponderne il valore; se la cosa è soltanto deteriorata, colui che l'ha data può chiedere l'equivalente, oppure la restituzione e un'indennità per la diminuzione di valore. [III]. Chi ha ricevuto la cosa in buona fede [1147] non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento [2041]. InquadramentoLa disposizione in esame viene generalmente riferita sia all'ipotesi dell'indebito oggettivo che a quella dell'indebito soggettivo. Il primo comma pone il principio secondo cui l'accipiens deve restituire la cosa indebitamente ricevuta, mentre il secondo ed il terzo comma disciplinano la fattispecie del perimento o deterioramento della cosa indebitamente ricevuta secondo che l'accipiens sia o meno in buona fede. La giurisprudenza ritiene che l'impossibilità di restituzione del bene, che trasforma l'obbligazione restitutoria in obbligazione di versare l'equivalente in denaro, deve essere dedotta e provata da parte dell'accipiens e non del solvens, nemmeno ove esso, prefigurandosi la perdita o distruzione del bene, agisca direttamente per conseguire detto equivalente, salva in tal caso la facoltà del convenuto di opporre la possibilità di effettuare la restituzione stessa con l'offerta di provvedervi (Cass. I, n. 5512/1996). Restituzione di cosa determinata indebitamente ricevutaLa regola generale prevista dal comma 1 dell'art. 2037, conformemente alla natura dell'azione di ripetizione di indebito quale rimedio restitutorio, stabilisce che chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla (Carusi, in Tr. Per. 2004, 213). Ciò comporta che non è ripetibile una prestazione di facere non essendo applicabile la norma in esame, per cui la tutela va ricercata nell'arricchimento senza causa (Cass. lav., n. 9675/1992). Insieme con il bene l'accipiens è tenuto alla restituzione dei frutti e degli interessi secondo quanto previsto dall'ultima parte dell'art. 2033 in dipendenza della sua buona o mala fede. La giurisprudenza applica la norma in esame anche a fattispecie di rapporti post-contrattuali (Cass. II, n. 18185/2014; Cass. III, n. 16757/2014). Anche la dottrina maggioritaria ritiene che le norme sulla restituzione dell'indebito trovino applicazione in riferimento a tutte le azioni di caducazione contrattuale (Albanese, 419; Moscati, 1971, 83). La S.C. ha chiarito che nel caso di vendita se il compratore, lamentando vizi della merce acquistata, la restituisce al venditore e non ne accetta poi la riconsegna — ove sia esclusa la sussistenza di vizi e perciò la risoluzione del contratto — può comunque agire per la ripetizione di indebito in quanto il presupposto della traditio nel ricevimento da parte del venditore di cose ormai di proprietà dell'acquirente, con la conseguenza che sulla parte venditrice, che riceva in restituzione la merce e non si liberi dall'obbligo di consegna mediante il deposito ex art. 1210 o attraverso la procedura di vendita ex art. 1211, grava un obbligo di restituzione grava un obbligo di ripetizione e/o custodia delle cose, ancorché essa si sia adoperata per il ritrasferimento alla parte acquirente e questa l'abbia rifiutato (Cass. II, n. 267/2013). Azione di ripetizione ed azione di rivendicazione In ordine alla distinzione tra azione di ripetizione ex art. 2037 ed azione di rivendicazione ex art. 948 costituisce dato pacifico che, pur tendendo entrambe al medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, la prima costituisce un'azione di natura personale mentre la seconda integra, invece, un'azione di tipo reale. La giurisprudenza ha rimarcato che l'azione personale di restituzione non può surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna venga chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso, infatti, la domanda è da qualificarsi come di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica (Cass. S.U., n. 7503/2014). Sulla scorta di tali principi i giudici di legittimità hanno ritenuto che l'istanza di rilascio del bene proposta dal proprietario, finalizzata a conseguirne la piena disponibilità dopo la cessazione del diritto dell'usufruttuario, deve essere qualificata come azione di rivendica e non come mera azione personale di restituzione (Cass. II, n. 27158/2014). Perimento e deterioramento della cosa ricevutaIl secondo ed il terzo comma dell'art. 2037 disciplinano l'ipotesi in cui la restituzione della cosa non sia più possibile per essere la stessa perita o deteriorata. Il legislatore ha stabilito che se l'accipiens è in mala fede è tenuto a corrispondere al solvens il valore della cosa anche se essa sia perita per caso fortuito. Secondo la dottrina deve all'uopo farsi riferimento al valore che la cosa aveva al momento del pagamento indebito e non a quello che ha al momento della restituzione (Carusi, in Tr. Per. 2004, 198). Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza in una risalente pronuncia (Cass. III, n. 258/1977). Nell'ipotesi di deterioramento, se l'accipiens è in mala fede, il solvens può scegliere tra pagamento dell'equivalente della cosa o la restituzione della stessa unitamente ad un'indennità proporzionata alla diminuzione di valore subita. Invece, se l'accipiens è in buona fede egli non risponde né del perimento né del deterioramento della cosa, pur se dipendente dal fatto proprio, se non nei limiti dell'arricchimento conseguito. La giurisprudenza ha rimarcato che, nell'applicazione dell'art. 2037 comma 2 e 3, va osservato il principio ex art. 1147 comma 2 secondo cui «la buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave», sicché, ove la nullità del negozio, cui si ricollega l'azione di ripetizione, sia addebitabile a colpa grave dell'accipiens opera la disciplina dell'art. 2037, comma 2, e non quella del comma 3 (Cass. II, n. 6918/1982). Poiché la buona fede consiste nella persuasione di agire in conformità alle regole del diritto, nella convinzione della legalità del proprio comportamento, del quale l'agente ignori l'antigiuridicità, essa non è riferibile a chi abbia posto in essere un contratto nullo per frode alla legge con la consapevolezza dell'esistenza dei fatti causativi della nullità, né la malafede dell'accipiens può essere esclusa dalla constatazione della malafede del solvens (Cass. III, n. 5371/1987). BibliografiaAlbanese, Il pagamento dell'indebito, Padova, 2004; Gallo, Ripetizione dell'indebito. L'arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Dig. civ., Torino, 1998; Moscati, voce Indebito (pagamento e ripetizione), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971; Moscati, voce Obbligazioni naturali, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1979; Moscati, Gestione d'affari: pagamento dell'indebito, Bologna, 1981; Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000; Nivarra, Obbligazione naturale, in Dig. civ., Torino, 1995; Perlingieri, Le vicende delle obbligazioni naturali, in Riv. dir. civ., 1969, I, 357; Rescigno, Ripetizione dell'indebito, in Nss. D.I., XV, Torino, 1968. |