Codice Civile art. 2050 - Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.

Francesco Agnino

Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.

[I]. Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati [965 c. nav.], è tenuto al risarcimento [2056 ss.; 678 c.p.], se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno [2054] (1).

(1) V. artt. 15 ss. l. 31 dicembre 1962, n. 1860 e l. 23 aprile 1991, n. 147. V. art. 5 l. 25 gennaio 1983, n. 23.

Inquadramento

Nell'ottica di bilanciare interessi potenzialmente confliggenti, ossia l'interesse dei danneggiati ad ottenere un ristoro e l'interesse alla produzione, l'art. 2050 introduce una fattispecie di responsabilità destinata ad operare esclusivamente a fronte di attività che, in base ad un giudizio ex ante, possano definirsi pericolose. Pacifico è che, ai fini dell'operatività della norma in commento, rientrino nell'alveo delle “attività pericolose” non solo quelle tipizzate dalla legge di pubblica sicurezza (r.d. n. 773/1931) o da altre leggi speciali, ma, in generale, tutte quelle attività che, purché non occasionalmente, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati e, quindi, per la loro spiccata potenzialità offensiva, comportino la rilevante possibilità del verificarsi di un danno.

Natura giuridica

Occorre rilevare che i giudici di legittimità hanno riconosciuto il carattere oggettivo della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose (Cass. n. 8457/2004).

La forma responsabilità di cui all'art. 2050 si è sviluppata in particolar modo nell'ambito dell'attività d'impresa. La maggior parte delle attività imprenditoriali, infatti, comporta rischi che gravano su un numero potenzialmente indeterminato di soggetti. L'alternativa che si prospetta è, pertanto, la seguente: rimuovere i suddetti rischi, impedendo l'esercizio delle attività da cui originano, o consentirne lo svolgimento, prevedendo che i danni eventualmente prodotti vengano sopportati da chi le esercita. La ratio della responsabilità del produttore è riassunta dal brocardo latino cuius commoda eius et incommoda, principio in base al quale chiunque trae un utile da qualcosa (un'attività o un bene) deve rispondere dei danni da ciò causati alla società.

Pertanto, l'alta probabilità di cagionare danni connessa all'attività “pericolosa” giustifica il particolare regime di imputazione della responsabilità previsto dall'art. 2050. La fattispecie normativa, infatti, si discosta dai generali canoni della responsabilità aquiliana e viene considerata “aggravata per colpa presunta” o, in base agli orientamenti attualmente prevalenti, una responsabilità “per colpa lievissima” o “oggettiva”, in ragione della unica (e onerosa) prova liberatoria che l'art. 2050 consente di offrire, consistente nella dimostrazione di avere adottato “tutte le misure idonee a evitare il danno”.

Non è così mancato chi abbia intravisto nell'art. 2050 una norma fondata sulla culpa laevissima (De Cupis, 1971, 79; Branca, 469). Secondo tale impostazione esisterebbe una differenza essenziale tra il criterio di colpevolezza enunciato dall'art. 2043, ed il grado di diligenza richiesto dall'art. 2050. Tale grado di diligenza sarebbe ricavabile dal contenuto della prova liberatoria, giacché il legislatore non avrebbe richiesto al convenuto di dimostrare di aver predisposto cautele atte ad evitare il danno, ma di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo. Si tratterebbe quindi dell'inasprimento del normale obbligo di diligenza. Tutto ciò comporta che l'esercente dovrà rapportarsi non al comportamento di un individuo di normale prudenza, ma a quello di un soggetto spiccatamente meticoloso ed esperto. Una tale impostazione ha ricevuto critiche varie. In contrappunto con le tendenze ora citate si è naturalmente sviluppato il filone di coloro che considerano l'art. 2050 come un'ipotesi netta di responsabilità oggettiva. Tale filone fa perno su due punti essenziali. La condotta dell'esercente l'attività pericolosa costituisce un semplice antecedente dell'evento dannoso, che gli viene ascritto indipendentemente da ogni riguardo per le sue condizioni psico-fisiche, talché l'esercente è chiamato a rispondere del danno ancorché minore o incapace naturale (Franzoni, 1987, 459). Inoltre il contenuto della prova liberatoria esula dalla dimostrazione di una assenza di colpa. L'esercente deve dimostrare l'esistenza di una organizzazione preventiva in cui siano presenti tutti gli accorgimenti tecnici idonei ad evitare il danno (Comporti, 265).

Definizione di attività pericolosa

Per delimitare i confini della applicabilità dell'art. 2050, si devono prendere in considerazione solo quelle di per sé potenzialmente dannose in ragione della pericolosità ad esse connaturata ed insita nel loro esercizio, a prescindere dal fatto dell'uomo.

In via di principio si osserva, in conformità a una giurisprudenza assolutamente pacifica, che costituiscono attività pericolose ai sensi dell'art. 2050, non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche le diverse attività che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, non solo nel caso di danno che sia conseguenza di un'azione, ma anche nell'ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell'attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza.

In altri termini, agli effetti dell'art. 2050, è da reputarsi «pericolosa» l'attività che venga cosi qualificata dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali (attività pericolosa «tipica»), nonché quella che (attività pericolosa «atipica»), per sua stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comporti la rilevante possibilità di un danno (Cass. n. 22822/2010). 

Dalle attività pericolose devono essere tenute distinte quelle normalmente innocue, che possono diventare pericolose per la condotta di chi la esercita o organizza, o per errori o colpe nell'uso dei mezzi adoperati, e che comportano una (eventuale) responsabilità secondo la regola generale dell'art. 2043 (Cass. n. 7916/2004). In altri termini, nel caso di una condotta pericolosa si tratta di verificare il grado di diligenza o di perizia dell'operatore: diversamente, nel caso di attività pericolosa, dovrà aversi riguardo alla natura della medesima o al grado di efficienza dei mezzi utilizzati (Cass. n. 20357/2005).

La presunzione di responsabilità contemplata dall'art. 2050 c.c. per attività pericolose può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, e cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno: pertanto non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di avere impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate. (Cass. n. 16170/2022, in applicazione del suddetto principio, la S.C., con riguardo all'infortunio occorso al cliente di una vetreria in conseguenza della caduta di una cassa di vetro, ha escluso che la condotta asseritamente posta in essere dalla vittima – consistente nel posizionare, al di sotto della suddetta cassa, alcuni pezzetti di legno per evitarne la caduta – fosse idonea ad assorbire l'eziologia dell'evento, atteso che il danneggiante non aveva fornito la prova di aver adottato tutte le precauzioni necessarie ad evitare il ribaltamento della cassa, segnatamente di averla appoggiata sull'apposito cavalletto di sostegno).

Al riguardo si è rilevato che ai sensi dell'art. 57 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con R.D. 18 giugno 1931 n. 773) e del d.lgs. n. 267 del 2000, art. 54, è necessaria, per l'accensione dei fuochi di artificio, la licenza dell'autorità di pubblica sicurezza, le cui attribuzioni, in campo locale, sono esercitate dal capo dell'ufficio di pubblica sicurezza, o, in mancanza, dal sindaco (art. 1 - comma 4 Testo unico). In tale veste il Sindaco opera - in virtù della funzione esercitata, e diretta al mantenimento dell'ordine pubblico, oltre che alla sicurezza e all'incolumità dei cittadini non quale capo dell'amministrazione comunale, bensì quale ufficiale di governo. Ma tale profilo non esclude l'applicazione della regola generale di salvaguardia dei diritti dei terzi, in base al principio generale del neminem laedere e, ex art. 2050 c.c., a carico della pubblica amministrazione, responsabile del danno, se questo è riferibile, per l'esistenza di un nesso eziologico, a un comportamento antigiuridico della pubblica amministrazione stessa. Tale condotta ricorre nelle ipotesi in cui non siano state osservate ragionevoli cautele per evitare il danno, cautele imposte da prescrizioni normative, oltre che dettate da criteri scientifici e tecnici, ovvero, ancora, suggerite dai comuni canoni di diligenza e di prudenza, in considerazione dell'obiettiva pericolosità insita nell'accensione dei fuochi d'artificio, è innegabile che la scelta dei mezzi e delle modalità devoluta all'attività discrezionale della pubblica amministrazione non è esente dai limiti dettati dagli elementari criteri di diligenza e di prudenza (Cass. n. 12417/2020).

Il nesso di causalità

In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa la presunzione di colpa a carico del danneggiante, posta dall'art. 2050, presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico — la prova del quale incombe al danneggiato — tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso riconducibile in alcun modo (Cass. n. 10383/2002): deve in sostanza esistere una relazione diretta tra danno e rischio specifico dell'attività pericolosa o dei mezzi adoperati (Trib. Perugia 7 giugno 2000), giacché, diversamente, il danno cagionato può essere riconosciuto solo in base al criterio generale dell'art. 2043, sempre ne ricorrano i presupposti di applicazione.

Il nesso di causalità deve essere “adeguato”, ovvero è necessario che tra l'antecedente (esercizio dell'attività pericolosa) e le conseguenze (danno) vi sia un rapporto di sequenza “costante”, secondo un calcolo di regolarità statistica per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente (Cass. n. 20359/2005).

Deve inoltre accertarsi che l'antecedente medesimo non sia neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé tale da determinare l'evento: in tal caso, anche nell'ipotesi in cui l'esercente dell'attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito — cioè la eccezionalità e l'oggettiva imprevedibilità — e sia idonea, da sola, a causare l'evento, recide il nesso eziologico tra quest'ultimo e l'attività pericolosa, producendo effetti liberatori (Cass. n. 5254/2006; Cass. n. 20359/2005; App. Bologna 19 giugno 2005).

Il nesso causale può venire a mancare sia per il fatto del terzo, quando la condotta di quest'ultimo sia la causa esclusiva e determinante del danno (Cass. n. 4777/1998), come dello stesso danneggiato, qualora per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento (Cass. n. 8457/2004, ha escluso la sussistenza di un nesso di causalità immediata e diretta tra la circostanza che un palo di alta tensione dell'Enel, pur posto senza la piena osservanza delle norme di sicurezza, e il danno subito da un uomo arrampicatosi su di esso e raggiunto da una scarica elettrica, atteso che il comportamento “sconsiderato e acrobatico” del danneggiato dimostrava che questi, pur di mettere in opera il proprio proposito, avrebbe superato anche eventuali altre cautele predisposte dall'ente; App. Milano, 23 luglio 1999), o emerga che il danneggiato si sia posto in una non corretta relazione con la situazione di pericolo, creando egli stesso le condizioni per non avvedersene o non poterla, in seguito, evitare.

L'effetto liberatorio non si verificherà quando il fatto del terzo o del danneggiato costituisce (solo) elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa della inidoneità delle misure preventive adottate (Cass. n. 17851/2003; Cass. n. 11454/2003). Inoltre, nell'ipotesi in cui sia ignota la causa dell'evento dannoso, la responsabilità va esclusa ove sussista incertezza sul fattore causale e sulla riconducibilità del fatto all'esercente (Cass. n. 19872/2014; Cass. n. 13397/2012; Cass. n. 1032/2002).

Riparto dell'onere della prova

L'onere di allegare e provare gli elementi necessari a consentire il giudizio sulla pericolosità incombe su chi la invoca, non essendo sufficiente indicare il tipo di attività. La prova deve fornirsi secondo una prognosi postuma “ex ante”, ossia sulla base delle circostanze di fatto — conoscibili con la normale diligenza, o, comunque, che dovevano essere note dall'agente in considerazione del tipo di attività esercitata — esistenti al momento dell'evento.

Accertato il nesso causale, e dunque attribuito l'evento dannoso all'esercente dell'attività pericolosa, il quale — come detto — risponde del danno indipendentemente da ogni sua colpa, è pur sempre possibile per quest'ultimo fornire la c.d. prova liberatoria, relativa alle modalità organizzative dell'attività, che devono essere idonee per prevenire l'eventualità di eventi dannosi, ovvero provi di “avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno” (Trib. Gallarate 27 maggio 2005).

Il danneggiante deve fornire una prova non solo “negativa” — non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge, regolamentari o di comune diligenza o prudenza — ma anche “positiva” — aver impiegato ogni cura o misura (ivi compreso il rispetto delle più avanzate tecniche note ed anche solo astrattamente possibili all'epoca: Cass. n. 5484/1998; Trib. Milano 15 giugno 2000) atta ad impedire l'evento dannoso (Cass. n. 11454/2003; Cass. n. 3022/2001).

È poi irrilevante, ai fini dell'esclusione della responsabilità, che il danneggiato non abbia sopperito, con autonome iniziative, alle omissioni imputabili al gestore dell'attività medesima; l'art. 2050 c.c., infatti, non pone obblighi di diligenza a carico dei terzi estranei alla gestione dell'impresa pericolosa, né limita il proprio ambito operativo alle ipotesi in cui la sia occulta, non avvertibile secondo un metro di ordinaria diligenza e quindi tale da tradursi in una insidia nascosta (Cass. n. 2584/1989).

L'attività pericolosa, in altri termini, deve essere svolta nelle condizioni di massima sicurezza, con l'adozione di ogni accorgimento che la tecnica offre (Galgano, 377, a mente del quale se la tecnica ancora non offre, in rapporto alla attività pericolosa esercitata, misure adeguate a prevenire danni a persone o cose, il soggetto intraprende l'attività a proprio rischio, senza possibilità di prova liberatoria), quale ne sia il costo: se, nonostante ciò, l'evento dannoso si è verificato ugualmente, esso apparirà inevitabile, e pertanto non in rapporto causale con essa.

In tal senso, l'organizzatore di un'attività sportiva che abbia caratteristiche intrinseche di pericolosità o che presenti passaggi di particolare difficoltà, nei quali il rischio di procurarsi danni alla persona per i partecipanti sia più elevato della media, deve, nell'ambito della diligenza richiesta per l'esecuzione della propria obbligazione contrattuale, illustrare la difficoltà dell'attività o del relativo passaggio e predisporre cautele adeguate affinché gli stessi, se affrontati, possano essere svolti da tutti i partecipanti in condizioni di sicurezza (Cass. n. 26860/2023, nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in relazione ad una manifestazione di autovetture "fuoristrada", ricondotta nell'ambito dell'attività pericolosa, aveva escluso che le mere informazioni fornite ai partecipanti, non accompagnate da alcuna verifica, da parte degli organizzatori, della idoneità dei veicoli e delle capacità di guida dei partecipanti, potesse integrare gli estremi della prova liberatoria).

 Qualora un correntista, vittima di una frode telematica, disconosca un'operazione di bonifico effettuata sul proprio conto corrente incombe sulla banca l'onere di provare non solo di avere adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio, ma anche la riconducibilità dell'operazione al cliente (Cass. n. 9158/2018).

Attività di polizia e pericolosità

La presunzione di responsabilità ex art. 2050, (Cass. n. 11725/2005; Cass. n. 5080/2006; Cass. n. 15733/2011) si correla, essenzialmente, alla peculiarità intrinseca della natura dell'attività o alla caratteristica dei mezzi adoperati, tali da presentare connotati tipici di pericolosità eccedenti il livello del normale rischio connesso all'ordinario esercizio dell'attività medesima (Cass. n. 1393/1984), da rilevarsi in base a dati statistici, ad elementi tecnici ed alla comune esperienza (Cass. n. 10551/2002).

L'indagine sulla pericolosità dell'attività ex art. 2050 ha di mira, pertanto, il contenuto intrinseco della stessa e a prescindere dal fatto che sia svolta senza fine di lucro o per fini filantropici (Cass. n. 12900/2012).

I principi innanzi rammentati sono divenuti patrimonio comune nell'applicazione della norma di cui all'art. 2050, anche rispetto alla pubblica amministrazione, nel senso che la giurisprudenza di legittimità, a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha inteso superare quell'indirizzo ermeneutico che predicava un limite generalizzato all'operatività della predetta disposizione nei confronti della P.A. quale che sia il settore in cui essa operi e quali che siano le finalità di rilevanza pubblicistica, dirette o mediate, che essa persegua (Cass. n. 1393/1984).

Si è, quindi, escluso che potessero fungere da elementi selettivi, idonei a circoscrivere la più ampia portata applicativa della disposizione di cui all'art. 2050, la qualità del soggetto agente e lo scopo speculativo dell'attività essendo la norma ancorata al dato oggettivo della «attività» e ricollegandosi la ratio dell'inversione dell'onere probatorio al concetto di rischio (prevedibile) d'impresa, ravvisabile in ogni campo di attività economica organizzata, nonché la presunzione di legittimità dell'atto amministrativo ed i limiti del sindacato del giudice ordinario sull'attività discrezionale della P.A. (essendo la norma legata ad una condotta ed a scelte tecniche, piuttosto che discrezionali).

L'applicabilità dell'anzidetta disposizione alla P.A. è stata, invece, sempre esclusa in relazione alle attività che, come quella di polizia o quelle militari, siano svolte per soddisfare imprescindibili esigenze della collettività, nelle quali si identificano le sue stesse finalità istituzionali (per le attività di polizia: Cass. n. 2549/2006; per le attività militari: Cass. n. 2575/1964, Cass. n. 3/1964).

Quanto alle ragioni che giustificano, nelle ipotesi anzidette, un tale esonero dall'applicazione dell'art. 2050, le stesse sono state ravvisate, in sostanziale continuità con l'orientamento precedente (e risalente nel tempo), nell'assenza di un fine utilitario proprio dell'amministrazione e non potendo il Giudice sindacare l'idoneità e sufficienza delle misure e dei mezzi da essa posti in essere nell'organizzazione dei suoi servizi (Cass. n. 25479/2006).

In particolare, relativamente alla attività della tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica si deve evidenziare che si tratta di quell'attività che già il r.d. n. 773/1931 indicava come indirizzata al mantenimento dell'ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà«, nonché alla cura dell'osservanza delle leggi e dei regolamenti» ed al soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni.

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